Come l’Europa può affrontare la disinformazione

La prosecuzione delle ostilità in Ucraina da parte della Russia è destinata ad esporre per lungo tempo l’Unione Europea all’incessante attività di disinformazione di Mosca. Questo genere di minacce asimmetriche sono anche le uniche praticabili, insieme agli attacchi hacker, da un paese prostrato dalla guerra ed economicamente allo stremo. Oltre a richiedere risorse inferiori rispetto ad altre attività destabilizzanti infatti, sfruttano una profonda conoscena della materia che risale ai tempi dell’Unione Sovietica e che è stata sapientemente adattata dalle agenzie russe per operare nelle piattaforme digitali.

La cifra per comprendere lo sforzo messo in atto da Mosca e il suo impatto sui paesi occidentali, è rappresentata dal rapporto costi-benefici estremamente favorevole, basato sull’uso massiccio dei grandi social network. In assenza di disposizioni specifiche per la disinformazione, il rischio è che i processi di autoregolazione si concentrino solo sul temi affini al mare magnum del politicamente corretto. Di conseguenza, una minaccia asimmetrica come quella russa verrebbe ignorata o peggio inquadrata sotto categorie diverse, lasciando gli utenti finali in balia di contenuti fuorvianti e ingannevoli.

Acconsentire a soluzioni alternative, che permettono alla disinformazione di russa di circolare in libertà, arrivando ad inquinare il nostro universo informativo, è una pura follia. Altrettanto ipocrita è invece fare affidamento sulla sola consapevolezza degli utenti, notoriamente assente, nella distinzione delle notizie false.

Il dibattito non ruota infatti sulla correttezza o meno della dottrina del “free speech”, rapportata al pluralismo delle idee tipico di una società complessa come quella contemporanea. Nel caso Russo siamo di fronte ad uno sforzo massiccio e deliberato, che accompagna quello bellico e mira a destabilizzare l’opinione pubblica occidentale, minando la fiducia nelle istituzioni democratiche, a vantaggio di una guerra di aggressione perpetratata ai danni dell’Ucraina.

Questo genere di attività spiccatamente asimmetriche non consentono una risposta adeguata da parte dei paesi interessati. La Russia infatti ha accentuato negli ultimi anni la sua postura autoritaria, esercitando un controllo diretto sull’intera sfera mediatica a cui è dedicato un intero apparato repressivo. Al contrario Mosca ha potuto usare piattaforme digitali sviluppate negli Stati Uniti per diffondere nella più totale impunità i propri contenuti, che è chiaro vadano oltre la semplice propaganda politica altrimenti permesssa.

Durante la pandemia è stata alimentata in modo surretizio e ingannevole la sfiducia di vaste fasce della popolazione verso i vaccini per il Covid19, sostenendo sia l’efficacia superiore di preparati come Sputnik, che la pericolosità degli stessi farmaci. In alcuni paesi come Bulgaria e Romania, nei quali le istituzioni faticano a riscuotere consenso, l’inquinamento mediatico è stato tale che milioni di cittadini sono stati portati a non vaccinarsi, con conseguenze sul piano sanitario catastrofiche. Se siamo dinanzi ad un nuovo paradosso della tolleranza, il concetto può essere sintetizzato così: la difesa della libertà di espressione e di opinione alla base delle democrazie occidentali, rischia di porsi come una paradossale debolezza nell’era delle piattaforme digitali.

Oggi i tradizionali pilastri su cui si reggono le nostre istituzioni, sono minacciati sia da un uso a dir poco disinvolto di tecnologie concepite in paesi autoritari, come la Cina, che dalla massiccia diffusione di fake news, destinate a condizionare i processi democratici e le stesse forze politiche. Ancor di più quelle che incautamente stringono rapporti con alleati purtroppo solo “apparenti”.

Non siamo però privi di difese: lo strumento di cui l’Unione Europea si è dotata per regolare le piattaforme come Facebook e Twitter, il Digital Services Act (DSA), è stato concepito prima dell’aggressione all’Ucraina. Il testo finale, non ancora pubblicato, è frutto di un paziente lavoro di mediazione e non deve soprendere dunque il carattere compromissorio. Le soluzioni a cui perviene tuttavia, sono in grado fin da subito di affrontare la minaccia dell’infodemia, imponendo precisi obblighi di condotta alle piattaforme digitali: in primis queste saranno tenute ad essere più trasparenti nei processi interni, con precise responsabilità nelle modalità di rimozione dei contenuti illeciti, compresa dunque la filiera della disinformazione. Gli obblighi rimarranno comunque di natura preventiva o volontaria e sono privi della “specialità” richiesta da una situazione di crisi come quella in Ucraina, ma vanno nella giusta direzione e non è escluso che la Commissione Europea riesca ad ottenere nuovi poteri.

Anche l’approccio scelto dal Regno Unito nella lotta alla disinformazione è degno di nota. Originariamente infatti Londra prevedeva che un’autorità dedicata fosse dotata di poteri sufficienti per esercitare vere e proprie ingerenze nella gestione delle piattaforme, sindacando direttamente le scelte di rimozione dei contenuti illeciti. Questa decisione, duramente osteggiata per i rischi che avrebbe comportato alla libertà di espressione, è stata abbandonata e il nuovo Online safety Bill si concentrerà, non tanto sui processi interni dei social network, ma sul potenziale danno che può provocare ciascun contenuto, indipendentemente dalla sua illiceità. Ciò si traduce in un’analisi individuale e meticolosa delle attività degli utenti, che richiderà ingenti risorse economiche per assicurare un controllo effettivo sulla disinformazione, i cui confini sono labili e difficili da distinguere con l’uso dei soli algoritmi.

Altro capitolo degno di nota è quello dell’editoria e della televisione, che diffondono anch’esse un notevole flusso di disinformazione. In questo caso però è l’Italia a fare eccezione: siamo l’unico tra gli Stati fondatori dell’Unione in cui è concepibile ospitare, nelle reti più importanti e in prima serata, opinionisti direttamente legati agli apparati di sicurezza russi, se non addirittura lo stesso Ministro degli Esteri senza contraddittorio.  L’anomalia italiana apre interrogativi inquietanti perché va oltre il mezzo punto di share conteso per la raccolta pubblicitaria dai conduttori. Individuati come anello debole dell’Europa, da diversi mesi siamo avvolti da un cordone infodemico in nome di una mai chiarita affinità con Mosca, che mette nel mirino il sostegno all’Ucraina del Governo e che dovrebbe propiziare un allontanamento dalle posizioni occidentali. Questa ambiguità di fondo è ormai assimilata anche dal pubblico, che non si sorprende neppure dei bizzarri piani di pace presentati con istinto velleitario da leader che sostengono la maggioranza.

Il doppio livello in cui opera la disinformazione Russa, sia nella società che ai vertici della politica, è un indice di grande debolezza, che si riscontra solo nei paesi in via di sviluppo con istituzioni facilmente condizionabili. Non basta dunque regolare le piattaforme o le modalità di selezione degli ospiti televisivi, se è la stessa politica a veicolare con irresponsabilità messaggi fuorvianti.

Oggi più che mai centrosinistra e centrodestra devono avviare un percorso di rinnovamento delle rispettive classi dirigenti, che elimini gli spazi di ambiguità esistenti con la Russia. Il voto del 2023 sarà uno spartiacque della futura collocazione dell’Italia in Europa e il contesto internazionale non permette indecisioni o tentennamenti. Solo chi respingerà con risolutezza le interferenze di Mosca potrà pensare di far parte a pieno titolo dell’area di governo e guidare il Paese in una nuova fase per l’Occidene, dove non troverà spazio la doppiezza figlia di una “dottrina del ricatto” a cui abbiamo tristemente scelto di sottostare in passato.

*Giovanni Maria Chessa, Comitato scientifico Farefuturo

GEOPOLITICA E COMMERCIO ESTERO

In occasione della presentazione del terzo Rapporto AWOS presentato giovedì 15 ottobre ore 12 presso la Sala Caduti di Nassirya del Senato, pubblichiamo la prefazione del Senatore Adolfo Urso.

Le sanzioni internazionali, le restrizioni commerciali, le guerre doganali sono ormai divenute realtà emergenti nel commercio estero. Tutti i giorni nelle cronache degli affari internazionali si trovano sempre più esempi della loro crescente rilevanza, nel bene e nel male. Su base ormai quotidiana si minacciano sanzioni, si discutono nuovi regimi sanzionatori, si rinnovano quelli in corso, si bloccano conti correnti, si listano persone fisiche, imprese e navi; si impedisce l’export di certe tecnologie o si pongono dazi per motivi politici.

Non con la stessa frequenza con cui sono messe, ma le restrizioni economiche vengono anche tolte o ammorbidite; si delistano entità, si tolgono Paesi dai regimi sanzionatori, si fanno accordi internazionali che pongono le basi per la rimozione delle barriere. Il Sudan è da poco uscito dalle sanzioni internazionali, gli Emirati Arabi Uniti hanno tolto l’embargo ai prodotti israeliani mentre il presidente Trump sta corteggiando il presidente Nord Coreano per giungere ad un accordo che potrebbe sbloccare quello che è il regime sanzionatorio più esteso del mondo.

Non solo gli Usa, ma anche l’Unione Europea hanno ormai identificato le sanzioni, le numerose forme di export control e gli screening degli investimenti in entrata come uno degli strumenti indispensabili nelle relazioni internazionali di un mondo sempre più post-globale. Basta seguire le riunioni del Consiglio degli Affari Esteri dell’Unione Europea che si tengono a Bruxelles per vedere ormai che le sanzioni sono divenute il principale, se non l’unico, strumento di politica estera e di sicurezza dell’UE.

Purtroppo non tutti i regimi sanzionatori e di controllo sono giusti o necessari. Lo è quello che colpisce il regime di Maduro in Venezuela. Altri, come quello verso la Russia, appaiono essere superati e non più in grado di raggiungere gli obiettivi originali. In mezzo a questi due estremi ve ne sono tanti altri. L’Unione Europea ha in vigore ben 37 regimi sanzionatori, grandi e piccoli. Poi vi sono quelli americani che a volte, come nel caso di Cuba ed in quello dell’Iran, possono colpire aziende europee anche extraterritorialmente.

La domanda fondamentale a questo punto diventa: cosa può fare un Paese come l’Italia per far si che l’interesse nazionale non venga danneggiato dai regimi sanzionatori e dalle altre restrizioni, vincoli e controlli agli scambi economici internazionali? Purtroppo i governi italiani non sempre sono riusciti a conciliare l’adesione ai regimi sanzionatori con la tutela degli interessi economici italiani e con la sicurezza economica del nostro Paese. Il risultato è che abbiamo spesso visto danneggiati i nostri esportatori ed abbiamo assistito ad indebolimento del nostro sistema produttivo su mercati internazionali. L’Iran e la Russia sono due casi esemplari, da questo punto di vista. Due mercati chiave per l’internazionalizzazione delle nostre imprese dove l’Italia ha perso quote di mercato proporzionalmente più ampie di quelle perdute da altri Stati europei o altri Paesi concorrenti. Per l’effetto delle sanzioni o l’Europa ha perduto quote di mercato importanti mentre i nostri avversari commerciali finivano per avvantaggiarsi delle limitazioni alle nostre esportazioni. La Cina, ad esempio, ma anche l’India o la Turchia sono Paesi che hanno beneficiato delle sanzioni varate dall’Occidente.

Per l’Italia esiste poi un altro problema da prendere in considerazione, ossia la struttura dell’impresa italiana, per lo più di minore dimensione di quella di altri paesi nostri concorrenti. Ciò comporta inevitabilmente maggiori difficoltà e costi nella gestione del rischio Paese, nel monitorare e nell’adattarsi alle norme sanzionatorie internazionali.

Il mondo delle sanzioni e delle restrizioni al commercio internazionale non rappresenta dunque solo una sfida per il rispetto delle norme internazionali, ma anche per la competitività globale dell’Italia.  I Paesi che sanno produrre sanzioni, sanno negoziare quali sono le merci e le imprese da includere e quelle da lasciare fuori; che sanno ricercare ed ottenere le giuste eccezioni nella costruzione dei regimi sanzionatori, possono ridurre il danno o addirittura sfruttare le restrizioni per aumentare le proprie quote di mercato.

Per fare questo lavoro, per nuotare anche contro la corrente di una crescente pressione sanzionatoria  servono aziende di grandi dimensioni produttive e finanziarie; ma soprattutto serve che lo Stato sia molto vicino alle imprese, soprattutto le medio-piccole, proteggendole dalle distorsioni che l’applicazione indiscriminata dei sistemi restrittivi del commercio estero può produrre.

In molti casi l’Italia appare purtroppo non aver tratto alcun giovamento ma danni economici dai principali regimi sanzionatori cui il nostro Paese ha aderito, spesso senza poter adeguatamente intervenire nei momenti in cui sono preparati e costruiti gli stessi regimi sanzionatori. Anche per questo, sarebbe necessario che l’Italia fosse più assertiva in seno all’Unione Europea in quelle fasi in cui sono costruiti gli impianti delle sanzioni, anche indirizzando l’Unione europea a valutare meglio le conseguenze economiche di una politica delle sanzioni prolungata nel tempo e a realizzare una politica più  stringente nel campo degli  accordi laterali preferenziali con particolare attenzione ai mercati per noi più promettenti. Le sanzioni hanno senso se sono dirette, condivise e applicate da tutti, di breve durata ed effettivamente efficaci. Quando si prolungano nel tempo, senza raggiungere gli obiettivi, diventano controproducenti per chi li applica e anche per le popolazioni che li subiscono.

Se le sanzioni sono un male necessario, dobbiamo però prendere atto che esistono sanzioni accettabili per il sistema produttivo, sanzioni neutre e sanzioni pessime. Ogni Paese fortemente legato al commercio internazionale deve dunque dotarsi di una politica delle sanzioni, che consente di pilotare gli esiti sanzionatori in maniera compatibile o meno sfavorevole possibile agli interessi economici e nazionali. Questa capacità di governo delle sanzioni è oggi divenuta una vera necessità per la sicurezza economica nazionale. Il progetto AWOS – A World of Sanctions e i rapporti annuali su geopolitica e commercio estero che questo think tank realizza rappresentano ormai da molti anni in Italia un importante punto di dibattito per lo studio e l’analisi delle sanzioni e dell’export control.

*Adolfo Urso, vicepresidente Copasir

 

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