PER UNO STATUTO DEI LAVORATORI

Negli ultimi trent’anni i legislatori italiani hanno proceduto a molte riforme che hanno fortemente mutato il mercato del lavoro, privilegiando i contratti a termine rispetto a quello storico, ovvero quello a tempo indeterminato.  Le riforme  che si sono succedute dagli Anni Novanta in poi non hanno risolto il problema atavico e fondamentale: la disoccupazione giovanile.

I dati Istat hanno certificato l’aumento della disoccupazione giovanile e giovani  neet, ovvero quelli che non cercano lavoro e non studiano (problema, inoltre,  molto serio la dispersione scolastica).

L’ultima riforma organica del mercato del lavoro, il Jobs Act (in più punti incostituzionali come dimostrano le sentenze della Corte Costituzionale) non ha risolto il problema della disoccupazione giovanile e della precarietà nel mondo del lavoro. Poi è arrivato il reddito di cittadinanza, forma diffusa di assistenzialismo, che – come promesso dal governo Meloni – va superato con interventi che consentano ai molti occupabili di (re)inserirsi nel mondo del lavoro e sentirsi parte attiva della comunità nazionale.

Occorre un cambio di passo e riforme incisive che permettano una rivoluzione profonda nel rapporto mercato del lavoro- persone-imprese.

Quali misure per il lavoro?

1 Semplificare tutta la disciplina giuridica sui contratti e sul diritto del lavoro, oggi sono circa 350 i contratti di lavoro a tre forme contrattuali che si aggiungono al contratto a tempo indeterminato;

2 Riforma profonda del fisco sul lavoro rendendo più semplice la normativa fiscale per l’occupazione con sgravi fiscali permanenti per le imprese;

3 Rendere il contratto a tempo indeterminato in prospettiva l’unica forma contrattuale conveniente per le imprese;

4 Abbassamento delle tasse sul lavoro cominciando dall’imposta IRAP per poi affrontare quello sul cuneo fiscale con un taglio imponente e strutturale;

5 È suggestione non realizzabile, ma sarebbe esseniale accorpare per un periodo limitato di tempo il Ministero del Lavoro con quello dell’Istruzione in un nuovo ministero dell’Educazione, Università e Ricerca e del Lavoro;

6 Redazione di un nuovo codice del lavoro che raggruppi tutta la normativa esistente nello Statuto dei lavori, nel quale impresa e lavoratori possano interfacciarsi conoscendo i diritti e i doveri a loro rivolti;

7 Inserire nella Costituzione un principio che renda più difficile modificare le legislazioni sul lavoro che devono essere certe per gli operatori nel settore.

Questi punti potrebbero aiutare il mondo del lavoro: il primo nodo da sciogliere in questo settore è che nella società della competenza lavoro e istruzione vanno di pari passo e senza un sistema educativo improntato al lavoro noi non risolveremmo il problema della disoccupazione nel nostro Paese.

 

*Umberto Amato, dottore in Giurisprudenza

LA VERA AUTONOMIA È NELLA REPUBBLICA

Questo saggio di Felice Giuffrè,  è stato pubblicato nel Rapporto Nazionale “Italia 20.20” della Fondazione Farefuturo

La legge regionale costituisce espressione fondamentale dell’autonomia regionale e, dunque, della democrazia territoriale. La massima espressione della capacità delle comunità regionali di definire propri indirizzi politici in un rapporto di concorrenza e integrazione con l’indirizzo politico nazionale. Un modello dialettico tra concorrenza e integrazione che rimanda direttamente ai principi fondamentali della Carta costituzionale del 1948, dove, con l’art. 5 Cost., si afferma che «La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali». Il disegno è completato dall’art. 114 Cost., modificato dalla l. cost. n. 3 del 2001, dove la Repubblica non coincide più interamente e solo con lo Stato (a sua volta ripartito in regioni, province e comuni, come nell’originario testo costituzionale), per identificarsi con una «istituzione complessa», che deve racchiudere, nel segno di valori unificanti, comuni, province, regioni, Città metropolitane e Stato; vale a dire, tutte le articolazioni territoriali della comunità politicamente organizzata.

Il riferimento alla Repubblica come Istituzione delle istituzioni (per usare il lessico di Santi Romano, ancora attualissimo) consente di ricostruire la trama delle istanze autonomistiche, che si affacciarono già prima dell’unità d’Italia e anche nel dibattito post-unitario, con le posizioni espresse da Farini e da Minghetti nel 1860, ma che furono presto messe da parte in favore di un modello centralista, capace di meglio rassicurare dinanzi ai timori sulla tenuta dell’unità del neonato Regno d’Italia. Nell’esperienza repubblicana l’assetto regionalista è stato lo strumento prescelto per costruire un ordinamento che partisse dall’individuo e dalle sue comunità originarie per risalire sino allo Stato. Una formula adeguata, oggi come ieri, ma a patto di riconoscere – come faceva già Luigi Sturzo nella prima metà del secolo scorso – che le regioni possono essere considerate elementi cardine di un assetto pluralista e partecipativo solo se si rifiuta qualsiasi cedimento rispetto al valore fondante del principio di unità e indivisibilità dell’ordinamento politico. Le regioni italiane (o, almeno, la maggior parte di esse) hanno, certo, una precisa identità geografica, storica, culturale e socio-economica, ma – utilizzando ancora le parole del sacerdote e politico siciliano – sono «una realtà esistente e vivente nella unità nazionale e nella compagine statale».

Lo Stato regionale può consentire l’apporto partecipativo delle comunità territoriali alla determinazione degli indirizzi della Nazione e, al contempo, il rafforzamento della tradizionale separazione verticale dei poteri con una divisione anche orizzontale. Il regionalismo, tuttavia, muove da un presupposto teorico fondamentale che appare irrinunciabile, ovverosia dal carattere ontologicamente limitato dell’autonomia. Così, non vi è autentica autonomia senza il riconoscimento dei limiti dell’ordinamento territoriale autonomo rispetto ad altra istituzione riconosciuta come sovrana. È questo il senso profondo della dialettica unità-autonomia nell’art. 5 Cost. ed è questa la ragione per cui la storia della legge regionale nel nostro ordinamento può essere letta come storia dei suoi limiti. I limiti, in definitiva, ci dicono quanta autonomia politica l’ordinamento costituzionale ritiene compatibile con l’istituzione politica sovrana o, se si vuole, con il principio dell’unità e dell’indivisibilità. Ebbene, già nel quadro dell’originario regionalismo, nel vigore del vecchio titolo V, la valenza fondamentale dell’interesse nazionale ha condotto ad un modello di integrazione tra legge statale e leggi regionali, in cui le seconde si trovavano incastonate in un più ampio ordinamento a geometria variabile. Ciò vuol dire che l’esatta portata degli ambiti di competenza regionale veniva determinata dall’azione di istanze costituzionali superiori (di interesse nazionale, appunto), capaci di fondare l’espansione o la contrazione della competenza normativa di Stato e regioni.

La legge regionale, almeno per le regioni ordinarie, era limitata sul piano «materiale» dall’elenco dell’art. 117 Cost. ed era, inoltre, limitata dai principi fondamentali, che, in ciascuna materia, erano espressamente fissati dalla legislazione statale o, comunque, da questa ricavabili. Vi erano, inoltre, una serie di ulteriori limiti che rappresentavano altrettante declinazioni di interesse nazionale o, comunque, di istanze ricollegabili al principio unitario enunciato dall’art. 5 Cost. (principi generali dell’ordinamento; diritto privato; diritto penale; obblighi internazionali e vincoli europei; principi delle leggi di grande riforma economico-sociale; limite territoriale; materie statali «trasversali»; potestà statale di indirizzo e coordinamento; poteri sostitutivi). Come strumento di chiusura del sistema (sebbene, mai utilizzato) era prevista, infine, la potestà del Parlamento di annullare, su ricorso del Governo, le leggi regionali per violazione dell’interesse nazionale (originaria formula dell’art. 127 Cost.). Potere che valeva a garantire la prevalenza dell’indirizzo politico nazionale su quelli, eventualmente incompatibili, delle regioni.

Come è noto, con la legge costituzionale n. 3 del 2001 – per un disegno che mirava a contenere le istanze autonomistiche dell’allora Lega Nord – fu modificato il Titolo V, alterando un assetto che aveva trovato una lenta razionalizzazione anche attraverso la legislazione statale attuativa e la giurisprudenza costituzionale. È stata, quindi, prevista l’enumerazione tassativa delle competenze legislative statali (art. 117, II comma, Cost.) e delle materie di potestà concorrente Stato-regioni (art. 117, III comma, Cost.); mentre, con una certa dose di ingenuità (o, forse, di malizia illusionista) tutte le materie residue sono state assegnate alla competenza della legge regionale (art. 117, IV comma, Cost.).

Al contempo, dal nuovo titolo V è scomparso ogni esplicito riferimento all’interesse nazionale e si afferma una presunta pari dignità tra leggi statali e regionali, sottoponendole ai medesimi limiti della Costituzione, degli obblighi internazionali e vincoli europei (art. 117, I comma, Cost.). Il carattere illusorio dei principi della riforma approvata nel 2001 dalla maggioranza del centro-sinistra si è presto manifestato con un’esplosione del contenzioso costituzionale, che ha condotto ad un ulteriore sforzo della giurisprudenza per ricondurre il nuovo regionalismo al quadro delle istanze unitarie su cui si regge ogni ordinamento sovrano, sebbene territorialmente articolato. Si è, dunque, presto compreso che la scomparsa dell’interesse nazionale dal Testo costituzionale è stata soltanto una «morte apparente», perché il principio di unità della Repubblica determina inevitabilmente la trasfigurazione di competenze, istituti e procedure costituzionali in vista della garanzia del medesimo. In particolare, la potestà esclusiva statale comprende materie c.d. «trasversali», che esprimono livelli di interesse o finalità da perseguire in modo unitario dall’ordinamento (tutela dell’ambiente, livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, principio di concorrenza, etc.). In molte materie statali, peraltro, si esprimono direttamente profili di quell’interesse nazionale che si assumeva scomparso (difesa, sicurezza, moneta, equilibri di bilancio, etc.).

Non solo. Il principio di sussidiarietà (art. 118 Cost.) si manifesta soprattutto nella sua dinamica ascendente (a favore della concentrazione delle competenze e delle funzioni), piuttosto che in quella discendente (come strumento di dislocazione di compiti in capo agli enti più vicini ai cittadini). Per di più, dopo la sentenza n. 303/2003, è stata considerata pienamente legittima l’assunzione statale in sussidiarietà anche delle competenze legislative e non soltanto delle funzioni amministrative che appaiono meritevoli di essere esercitate al livello più alto dell’ordinamento. Da ultimo – soprattutto in seguito alla crisi finanziaria dello Stato e all’assunzioni di stringenti vincoli economici nei confronti di istituzioni sovranazionali – l’esigenza di assicurare gli equilibri di bilancio (art. 81 Cost.) attribuisce ulteriore forza espansiva ad altri limiti, rafforzandone la capacità di penetrazione e condizionamento nei confronti della potestà legislativa regionale (Corte cost. n. 168/2018).

Nel quadro appena delineato emerge un duplice rischio, giuridico-istituzionale e politico, che occorre disinnescare con opportune riforme costituzionali. Il rischio, del resto, si è purtroppo già improvvisamente  e drammaticamente concretizzato con l’esplosione dell’emergenza epidemiologica determinata dal Covid-19. Infatti, tra le molteplici e pesantissime conseguenze della pandemia esplosa lo scorso inverno (sanitarie, economiche, sociali, relazionali, etc.) vi è stata anche il cortocircuito nelle relazioni istituzionali tra Stato, regioni e minori enti territoriali. Se, infatti, i rapporti tra i differenti livelli di governo della Repubblica sono andati avanti, sebbene in modo claudicante, in condizioni di normalità; le eccezionali condizioni dell’emergenza hanno svelato tutta l’inadeguatezza della riforma costituzionale del titolo V, approvata dalla maggioranza di centro-sinistra nel 2001. Sul piano giuridico-istituzionale è, allora, urgentissimo un intervento di razionalizzazione dei rapporti tra Stato e regioni, frettolosamente alterati con la richiamata riforma «neoregionalista» e faticosamente ricomposti con l’attività continua della Corte costituzionale in sede di definizione del robusto contenzioso sul riparto delle competenze.

Al riguardo, è opportuno – senza ipocrisie o false illusioni autonomistiche – riportare espressamente alla competenza statale ambiti materiali che non possono che essere tali. Emblematica, al riguardo, è la materia «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia», oggi, secondo l’art. 117, III co., di competenza concorrente. Ma non ci si può nemmeno esimere da una seria riflessione in ordine alla competenza in materia di sanità ovvero, ancora, sui meccanismi di gestione di funzioni e competenze, normalmente attribuite alle regioni, nei casi di grandi emergenze di rilievo nazionale. Infine, nell’attuale contesto economico e geopolitico, sarebbe opportuna una ulteriore riflessione in ordine all’opportunità della citata previsione dell’art. 117, I comma, Cost., che, prevedendo espressamente come limite alla legislazione statale e regionale «gli obblighi internazionali e vincoli europei», rende gli stessi indiretto parametro di legittimità costituzionale degli atti normativi di Stato e regioni.

Nell’ambito di una complessiva rivisitazione dei rapporti tra Stato e autonomie, è importante rafforzare le sedi che valgono a garantire la leale collaborazione tra i diversi livelli di governo (sistema delle «conferenze» e, magari, raccordi parlamentari) e, dunque, una visione integrata degli interessi locali e degli interessi unitari, anche a prescindere dalla formale attribuzione delle competenze e in vista del complessivo interesse della Repubblica. Sul piano politico, d’altra parte, la razionalizzazione delle competenze, per andare oltre le illusioni del nuovo Titolo V, contribuirebbe a scongiurare i rischi per il sentimento unitario, che, in certe aree del Paese, potrebbero essere alimentati da un eccessivo carico di aspettative sul modello regionale. Un carico eccessivo, difficilmente compatibile con l’interesse nazionale, che recentemente ha trovato momenti di emersione nel dibattito sul regionalismo differenziato, confusamente innescato dalle richiese di maggiore autonomia di Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna, ai sensi dell’art. 116, III comma, Cost. Quale norma di chiusura del sistema occorre, infine, disciplinare a livello costituzionale lo stato di emergenza, come avviene nella maggior parte delle costituzioni.

Una chiara attribuzione delle competenze emergenziali, l’espressa disciplina degli strumenti normativi da utilizzare per fronteggiare l’emergenza, un ben definito quadro di limiti e procedure dello stato d’eccezione appaiono ormai indispensabili, non solo per una efficace capacità di gestione delle situazioni emergenziali, ma anche per un ordinato svolgimento dei rapporti centro – periferia anche nel caso di grandi emergenza nazionali. Anche su questo piano è, dunque, necessario rimettere le idee a posto, ricordando che la vera tutela dell’autonomia non può non comprendere, anche e innanzi tutto, la piena garanzia degli interessi unitari della Repubblica.

*Felice Giuffrè, professore ordinario di Istituzioni di Diritto pubblico Università di Catania

sovranismo

Questo saggio di Giulio Tremonti, economista,  è stato pubblicato nel Rapporto Nazionale “Italia 20.20” della Fondazione Farefuturo

L’idea moderna della sovranità deriva dall’idea romantica di patria, questa un’idea sviluppata al principio dell’800 per reazione alle inebrianti novità portate in Europa dalle armate di Napoleone che – vettori della «Rivoluzione» – irradiavano un effetto a sua volta rivoluzionario: «il popolo è ebbro. Non ascoltano leggi, necessità e giudici; i costumi, sono sommersi da un frastuono astruso, ogni giorno è una festa sfrenata, una festa per tutte le feste, e i giorni consacrati all’umile culto divino si sono ridotti a uno solo» (così Hölderlin, Emp. I, vv.188-96). E questo è stato a lungo, fino a che, al principio del ‘900, l’idea della sovranità è degenerata in ideologie nuove, ma terrificanti e mortifere. E comunque quella della sovranità è un’idea che pare infine destinata a svanire, al principio di questo secolo, con la globalizzazione. Questa una rivoluzione di tipo nuovo, ma ancora come allora causa di un clima di festa. Una festa che è durata più o meno per venti anni, quanti sono gli anni che vanno dalla caduta del «Muro di Berlino» (1989), fino alla stipula del «Trattato WTO» (1994), per arrivare all’esplosione della crisi globale (2008). Anni in cui pareva che la sovranità svanisse, come nell’utopia di Tommaso Moro («De optimo rei publicae statu, deque nova insula Utopia», 1516).

Non per caso «utopia» è parola che letteralmente significa assenza di luogo e perciò assenza della base necessaria per l’esercizio della sovranità. In effetti è con la crisi che la storia – la storia che avrebbe dovuto finire – è tornata, accompagnata dalla geografia e con il carico degli interessi arretrati. Ed è proprio con la storia che è tornata la figura politica della sovranità. In Italia questa è tornata facendo emergere problemi provenienti tanto da un passato piuttosto remoto, quanto da un passato più prossimo. Il 7 febbraio 1992, sul volo di stato che li riporta da Maastricht a Roma, Guido Carli e Giulio Andreotti (e quanto segue è stato verificato parlando con entrambi) commentano: «al vincolo atlantico abbiamo aggiunto un vincolo ben più stretto: il vincolo europeo» (Guido Carli); «a Roma ancora non sanno quello che abbiamo fatto» (Giulio Andreotti).

Il 17 febbraio 1992, preparata da tempo, ha inizio l’operazione «Mani pulite». Il 2 giugno 1992 il panfilo Britannia attracca al porto di Civitavecchia. A bordo due «grand commis» italiani illustrano ai banchieri stranieri da un lato l’esigenza e le ragioni perché si determini in Italia «un necessario shock politico», dall’altro lato prospettano le enormi chance di profitti da «privatizzazione» che, conseguentemente, saranno loro offerte. Questa una operazione certo elegante, servita in guanti bianchi ed apparecchiando coltelli e forchette, ma in definitiva non molto diversa da quella che in parallelo si veniva sviluppando in Russia a favore degli «oligarchi». Ed in effetti alcuni dei casi di cronaca più recenti – ad esempio il caso dell’Ilva – drammaticamente evidenziano gli effetti di una politica di «privatizzazione» così congegnata, una politica radicale, non limitata agli assets industriali ed alle banche, ma estesa alla ossatura stessa delle nostre infrastrutture strategiche. In ogni caso non è stato solo questo che ha minato la nostra sovranità. Più o meno in parallelo sono state infatti «riformate», e riformata unilateralmente da parte della sinistra, tanto la «vecchia» struttura dello Stato, quanto la Costituzione. Fu lasciata invariata la parte relativa ai diritti, ma fu radicalmente cambiata la parte che si pensava dovesse essere «modernizzata» allineandola all’ideologia del mercato. E tutto questo fu fatto con una azione sviluppata su tre direttrici essenziali: a) dal 1997 al 1999, con le cosiddette «Leggi Bassanini», fu introdotto il «mercato» nello Stato, così da destrutturarlo.

È così che nelle funzioni pubbliche è iniziata la corsa verso il diritto privato, verso l’esternalizzazione, verso la societarizzazione; b) con il cosiddetto «Titolo V» la vecchia struttura dello Stato centrale, considerata troppo rigida, fu disarticolata, introducendovi in contemporanea, tanto il decentramento, quanto il federalismo. Non l’uno in alternativa all’altro, o viceversa, ma – caso unico nel mondo occidentale – tutti e due insieme! c) nella vecchia Costituzione del 1948 erano certo previste limitazioni alla sovranità nazionale, ma queste erano previste solo come eccezioni e comunque «a condizione di parità con gli altri Stati». Nel 2001, fu invece, sempre con il «Titolo V», introdotto l’opposto principio della sistematica e permanente sottomissione della Repubblica italiana ai «vincoli derivanti dall’ordinamento europeo». È così che l’Italia, unico Stato in Europa, ha cominciato ad avere non una, ma due costituzioni: una costituzione interna e una costituzione per così dire esterna. Non solo: con il Governo Monti, replica di un passato che si pensava trascorso per sempre, è nuovamente venuta la «chiamata dello straniero». Con la lettera Banca d’Italia-BCE del 5 agosto 2011, e non altrimenti giustificato, ha infatti preso avvio quello che fu subito e molto autorevolmente definito come «un dolce colpo di Stato» (Habermas). Dolce, perché oggi i golpe non si fanno più nei palazzi, con le pistole, o nelle piazze, con i carri armati, come era ai tempi di Curzio Malaparte («Tecnica di un colpo di Stato», 1931), si fanno piuttosto nelle sale cambi, con il crepitare degli spread. Tra l’altro, da allora, la sottomissione dell’Italia si perpetua per effetto delle 122 cosidette «clausole di salvaguardia» introdotte pour cause già dal Governo Monti. Trattando di sovranità va comunque considerato un fenomeno più generale. Un fenomeno che è stato e che è ancora oggi tipico della globalizzazione, e che permane anche dopo la sua crisi: il travaso di quote crescenti di potere dal campo della politica al campo prima dell’economia e poi della finanza. E così con la sistematica vittoria di Creso (questo il simbolo della ricchezza) sull’imperatore (questo il simbolo del potere politico).

Un travaso che, nella nuova geopolitica del mondo, ha generato e genera una drammatica confusione tra ciò che è pace e ciò che è guerra. Oggi, infatti, per come è fatto il mondo, ed esclusa qualche eccezione periferica, la guerra non è più sviluppata in termini di conquista dell’altrui territorio (come è stato per millenni, dai tempi di Tucidide fino al «Lebensraum»), ma piuttosto è sviluppata nella forma della conquista dell’altrui mercato. E dunque una guerra fatta sul mercato e con il mercato. Come oggi tende a fare la Cina verso il resto del mondo. Su tutto questo sia oggi consentito il rinvio a due saggi, un tempo considerati scandalosi: Tremonti, La guerra «civile», Mulino, 1996; Jean-Tremonti, Guerre stellari, Franco Angeli, 2000. In ogni caso, non tutto è perduto. I popoli ci sono ancora, e sanno che il mercato non è tutto e non contiene tutto e comunque non contiene le cose più importanti della vita. Ed in specie i popoli sanno che la parola patria comunque deriva dalla parola pater, la terra dove riposano le ossa dei padri. Piuttosto è che devono ancora emergere o comunque devono affermarsi élites capaci di intendere lo spirito del tempo presente.

* Giulio Tremonti, già Ministro dell’Economia e delle Finanze

La moderna idea di sovranità

Il contributo di Giulio Tremonti pubblicato nel Rapporto sull’Interesse nazionale “Italia 2020”

L’idea moderna della sovranità deriva dall’idea romantica di patria, questa un’idea sviluppata al principio dell’800 per reazione alle inebrianti novità portate in Europa dalle armate di Napoleone che – vettori della «Rivoluzione» – irradiavano un effetto a sua volta rivoluzionario: «il popolo è ebbro. Non ascoltano leggi, necessità e giudici; i costumi, sono sommersi da un frastuono astruso, ogni giorno è una festa sfrenata, una festa per tutte le feste, e i giorni consacrati all’umile culto divino si sono ridotti a uno solo» (così Hölderlin, Emp. I, vv.188-96).

E questo è stato a lungo, fino a che, al principio del ‘900, l’idea della sovranità è degenerata in ideologie nuove, ma terrificanti e mortifere. E comunque quella della sovranità è un’idea che pare infine destinata a svanire, al principio di questo secolo, con la globalizzazione. Questa una rivoluzione di tipo nuovo, ma ancora come allora causa di un clima di festa. Una festa che è durata più o meno per venti anni, quanti sono gli anni che vanno dalla caduta del «Muro di Berlino» (1989), fino alla stipula del «Trattato WTO» (1994), per arrivare all’esplosione della crisi globale (2008). Anni in cui pareva che la sovranità svanisse, come nell’utopia di Tommaso Moro («De optimo rei publicae statu, deque nova insula Utopia», 1516).

Non per caso «utopia» è parola che letteralmente significa assenza di luogo e perciò assenza della base necessaria per l’esercizio della sovranità. In effetti è con la crisi che la storia – la storia che avrebbe dovuto finire – è tornata, accompagnata dalla geografia e con il carico degli interessi arretrati. Ed è proprio con la storia che è tornata la figura politica della sovranità. In Italia questa è tornata facendo emergere problemi provenienti tanto da un passato piuttosto remoto, quanto da un passato più prossimo. Il 7 febbraio 1992, sul volo di stato che li riporta da Maastricht a Roma, Guido Carli e Giulio Andreotti (e quanto segue è stato verificato parlando con entrambi) commentano: «al vincolo atlantico abbiamo aggiunto un vincolo ben più stretto: il vincolo europeo» (Guido Carli); «a Roma ancora non sanno quello che abbiamo fatto» (Giulio Andreotti). Il 17 febbraio 1992, preparata da tempo, ha inizio l’operazione «Mani pulite». Il 2 giugno 1992 il panfilo Britannia attracca al porto di Civitavecchia. A bordo due «grand commis» italiani illustrano ai banchieri stranieri da un lato l’esigenza e le ragioni perché si determini in Italia «un necessario shock politico», dall’altro lato prospettano le enormi chance di profitti da «privatizzazione» che, conseguentemente, 121 saranno loro offerte.

Questa una operazione certo elegante, servita in guanti bianchi ed apparecchiando coltelli e forchette, ma in definitiva non molto diversa da quella che in parallelo si veniva sviluppando in Russia a favore degli «oligarchi». Ed in effetti alcuni dei casi di cronaca più recenti – ad esempio il caso dell’Ilva – drammaticamente evidenziano gli effetti di una politica di «privatizzazione» così congegnata, una politica radicale, non limitata agli assets industriali ed alle banche, ma estesa alla ossatura stessa delle nostre infrastrutture strategiche. In ogni caso non è stato solo questo che ha minato la nostra sovranità. Più o meno in parallelo sono state infatti «riformate», e riformata unilateralmente da parte della sinistra, tanto la «vecchia» struttura dello Stato, quanto la Costituzione. Fu lasciata invariata la parte relativa ai diritti, ma fu radicalmente cambiata la parte che si pensava dovesse essere «modernizzata» allineandola all’ideologia del mercato. E tutto questo fu fatto con una azione sviluppata su tre direttrici essenziali: a) dal 1997 al 1999, con le cosiddette «Leggi Bassanini», fu introdotto il «mercato» nello Stato, così da destrutturarlo. È così che nelle funzioni pubbliche è iniziata la corsa verso il diritto privato, verso l’esternalizzazione, verso la societarizzazione; b) con il cosiddetto «Titolo V» la vecchia struttura dello Stato centrale, considerata troppo rigida, fu disarticolata, introducendovi in contemporanea, tanto il decentramento, quanto il federalismo.

Non l’uno in alternativa all’altro, o viceversa, ma – caso unico nel mondo occidentale – tutti e due insieme! c) nella vecchia Costituzione del 1948 erano certo previste limitazioni alla sovranità nazionale, ma queste erano previste solo come eccezioni e comunque «a condizione di parità con gli altri Stati». Nel 2001, fu invece, sempre con il «Titolo V», introdotto l’opposto principio della sistematica e permanente sottomissione della Repubblica italiana ai «vincoli derivanti dall’ordinamento europeo». È così che l’Italia, unico Stato in Europa, ha cominciato ad avere non una, ma due costituzioni: una costituzione interna e una costituzione per così dire esterna. Non solo: con il Governo Monti, replica di un passato che si pensava trascorso per sempre, è nuovamente venuta la «chiamata dello straniero». Con la lettera Banca d’Italia-BCE del 5 agosto 2011, e non altrimenti giustificato, ha infatti preso avvio quello che fu subito e molto autorevolmente definito come «un dolce colpo di Stato» (Habermas). Dolce, perché oggi i golpe non si fanno più nei palazzi, con le pistole, o nelle piazze, con i carri armati, come era ai tempi di Curzio Malaparte («Tecnica di un colpo di Stato», 1931), si fanno piuttosto nelle sale cambi, con il crepitare degli spread. Tra l’altro, da allora, la sottomissione dell’Italia si perpetua per effetto delle 122 cosidette «clausole di salvaguardia» introdotte pour cause già dal Governo Monti. Trattando di sovranità va comunque considerato un fenomeno più generale. Un fenomeno che è stato e che è ancora oggi tipico della globalizzazione, e che permane anche dopo la sua crisi: il travaso di quote crescenti di potere dal campo della politica al campo prima dell’economia e poi della finanza. E così con la sistematica vittoria di Creso (questo il simbolo della ricchezza) sull’imperatore (questo il simbolo del potere politico). Un travaso che, nella nuova geopolitica del mondo, ha generato e genera una drammatica confusione tra ciò che è pace e ciò che è guerra.

Oggi, infatti, per come è fatto il mondo, ed esclusa qualche eccezione periferica, la guerra non è più sviluppata in termini di conquista dell’altrui territorio (come è stato per millenni, dai tempi di Tucidide fino al «Lebensraum»), ma piuttosto è sviluppata nella forma della conquista dell’altrui mercato. E dunque una guerra fatta sul mercato e con il mercato. Come oggi tende a fare la Cina verso il resto del mondo. Su tutto questo sia oggi consentito il rinvio a due saggi, un tempo considerati scandalosi: Tremonti, La guerra «civile», Mulino, 1996; Jean-Tremonti, Guerre stellari, Franco Angeli, 2000. In ogni caso, non tutto è perduto. I popoli ci sono ancora, e sanno che il mercato non è tutto e non contiene tutto e comunque non contiene le cose più importanti della vita. Ed in specie i popoli sanno che la parola patria comunque deriva dalla parola pater, la terra dove riposano le ossa dei padri. Piuttosto è che devono ancora emergere o comunque devono affermarsi élites capaci di intendere lo spirito del tempo presente.

 

*Giulio Tremonti, già Ministro dell’Economia e delle Finanze

Auguri Costituzione? Sì, ma basta con la "sacralità". E’ un labirinto…

Settant’anni fa veniva promulgata la Costituzione della Repubblica Italiana. Anziché perderci in banali celebrazioni, vogliamo proporvi uno spunto di riflessione più approfondita, attraverso un estratto del libro “Costituzione, Stato e crisi” di Federico Cartelli (disponibile in formato ebook e cartaceo a questo indirizzo). Questo testo – in alcuni passaggi volutamente provocatorio – pone sotto processo uno dei miti della nostra società: proprio quella Costituzione «nata dalla Resistenza» che, benché sia stata concepita ormai molti decenni fa ed entro un contesto culturale dominato da ideologie illiberali, continua ad apparire, agli occhi di molti, qualcosa di sacro e intoccabile.
——
Fin dal principio, la Costituzione appare innovativa, attenta alle dinamiche sociali, infarcita di parole rassicuranti e buoni propositi. In realtà, essa è fragile e utopistica proprio perché annacquata in un indigeribile brodo hegeliano che la rende lontanissima dalle altre esperienze costituzionali del continente. Più che una legge fondamentale, è una lunghissima prova tecnica di pace sociale; ma la volontà di dirimere i latenti conflitti interni del dopoguerra si smarrisce in una vaghezza d’intenti che appare ancor più anacronistica e inefficace dinanzi al mondo moderno. Per citare una fortunata e nota espressione d’Arturo Carlo Jemolo, «questa verbosità della Costituzione [e] questo frequente ricorso a formule vaghe non sono una semplice offesa al buongusto, ma riverberano su tutta la Carta costituzionale una nota d’indeterminatezza, di pressappochismo, che certo non le giova». Quali che fossero le buone intenzioni dei Costituenti, il compromesso tra l’area marxista e quella democristiana ha prodotto un testo a metà fra propaganda comunista ed enunciazione evangelica, anni luce lontano da quello spagnolo, francese, tedesco, nemmeno paragonabile a quello americano o a quello non scritto consuetudinario inglese. Se la Costituzione francese nasce da una rivoluzione, così come quella americana da una guerra d’indipendenza che partorisce la prima grande democrazia, quella italiana emerge dalle macerie di un Paese fragile, traumatizzato dalla fine drammatica della guerra, e ne riflette incertezze e debolezze.
Alle elezioni del 1946 per l’Assemblea Costituente, i tre partiti più votati sono la Democrazia Cristiana, che ottiene 207 seggi; il Partito Socialista Italiano d’Unità Proletaria, con 115 seggi; e il Partito Comunista Italiano, con 104 seggi. Il Partito Liberale Italiano si presenta alleato col Partito Democratico del Lavoro – formazione, di fatto, socialdemocratica – nella coalizione denominata Unione Democratica Nazionale, che conta complessivamente 41 seggi. In proporzione alle forze rappresentate nell’Assemblea e ai rispettivi seggi, i 556 eletti nominano la «Commissione dei 75», incaricata di redigere la Costituzione e divisa in tre sottocommissioni: diritti e doveri dei cittadini, organizzazione costituzionale dello Stato, rapporti economici e sociali. Nella Commissione si riflettono i rapporti di forza emersi nell’Assemblea: la DC è il partito più rappresentato, con 26 componenti, mentre 28 si rifanno all’ideologia socialcomunista (sommando tutte le varie forze che si richiamano alla sinistra). I liberali sono destinati alla marginalità – anche se sarà proprio un loro esponente, Enrico De Nicola, a esser eletto Capo provvisorio dello Stato dall’Assemblea Costituente. Si tratta, tuttavia, di un’elezione di compromesso tra i due schieramenti maggiori, che individuano in De Nicola il nome comune per superare lo stallo della contrapposizione tra le candidature di Benedetto Croce ed Emanuele Orlando.
Questi rapporti di forza, che vedono una preponderanza netta della cultura cattolica e di quella socialcomunista a scapito di quella liberale, si traducono in una Costituzione sbilanciata verso intenti eccessivamente pedagogici e solidaristici, tra labirinti istituzionali creati ad arte per recondite paure di una rinascita della dittatura e maldestri tentativi di cristallizzare alcune eredità dell’epoca fascista. Così sintetizza Mario Paggi, tra i fondatori dell’allora Partito d’Azione: «[La Costituzione] era un fragile tessuto fatto di non armoniose giustapposizioni cattoliche da un lato e marxiste dall’altro, con qualche malinconico residuo di un liberalismo che ha persino pudore della parola libertà». A questa genesi tormentata si aggiungono le dinamiche politiche che si verificano durante i lavori costituenti tra il blocco democristiano e quello del nascente Fronte Popolare di Togliatti e Nenni. Le elezioni del 1948 potrebbero segnare la vittoria dell’uno o dell’altro schieramento: una circostanza che influenza non poco le trattative per la stesura della Carta, poiché la paura di una vittoria dell’avversario porta a un potere esecutivo fortemente ridimensionato e limitato. Annota Montanelli: «[La Costituzione] venne tenuta a battesimo da due forze politiche, la cattolica e la marxista, che erano state estranee al Risorgimento, quando non ostili, e che erano per tradizione, e per i personali convincimenti d’alcuni loro uomini, scarsamente sensibili ai grandi ideali liberali».
Sono proprio le libertà individuali – così come l’iniziativa e la proprietà privata – a venire colpevolmente relegate dietro le quinte: nei Princìpi fondamentali esse sono subordinate alla loro funzione sociale, svelando così il volto di una Costituzione agli antipodi del liberalismo. L’asservimento dell’individuo allo Stato è chiaro già all’articolo 2: «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale». Risuona l’eco delle Costituzioni dell’Est, e viene inserito un afflato socialista accanto ai diritti inviolabili dell’uomo. Non è dato sapere quali siano questi doveri inderogabili: la sensazione è di leggere il documento programmatico di un partito, una sorta di carta d’intenti, e non la legge fondamentale di una nazione. Ben altra impostazione, ad esempio, si rintraccia all’articolo 1 del Grundgesetz tedesco: «La dignità dell’uomo è intangibile. È dovere d’ogni potere statale rispettarla e proteggerla. Il popolo tedesco riconosce quindi gli inviolabili e inalienabili diritti dell’uomo come fondamento d’ogni comunità umana, della pace e della giustizia nel mondo. I seguenti diritti fondamentali vincolano la legislazione, il potere esecutivo e la giurisdizione come diritto immediatamente valido». Rispetto alla Costituzione italiana, l’impostazione è capovolta: cambia il destinatario dei doveri, il potere statale, fin dalla prima riga subordinato all’individuo, ed è il popolo a riconoscere i diritti dell’uomo, e non la Repubblica o l’entità statale.
Il compito primario di una Costituzione dovrebbe essere di limitare l’invadenza del potere statale e di ridurlo il più possibile, lasciando liberi gli uomini di regolare le proprie attività. Tuttavia, l’influenza della tradizione liberale anglosassone è stata pressoché nulla. Friedrich Hayek, in The Constitution of Liberty, così commenta l’esperienza del costituzionalismo americano: «Per i coloni, la libertà significava che il governo avrebbe dovuto avere solo il potere di fare quello che era esplicitamente richiesto dalla legge, in modo che nessuno potesse detenere un potere arbitrario. […] La Costituzione fu concepita così come una garanzia per il popolo, contro qualsiasi atto arbitrario, sia da parte del legislativo sia da parte dei rami dell’amministrazione pubblica».

*Federico Cartelli, collaboratore Charta minuta