Questo saggio di Felice Giuffrè, è stato pubblicato nel Rapporto Nazionale “Italia 20.20” della Fondazione Farefuturo
La legge regionale costituisce espressione fondamentale dell’autonomia regionale e, dunque, della democrazia territoriale. La massima espressione della capacità delle comunità regionali di definire propri indirizzi politici in un rapporto di concorrenza e integrazione con l’indirizzo politico nazionale. Un modello dialettico tra concorrenza e integrazione che rimanda direttamente ai principi fondamentali della Carta costituzionale del 1948, dove, con l’art. 5 Cost., si afferma che «La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali». Il disegno è completato dall’art. 114 Cost., modificato dalla l. cost. n. 3 del 2001, dove la Repubblica non coincide più interamente e solo con lo Stato (a sua volta ripartito in regioni, province e comuni, come nell’originario testo costituzionale), per identificarsi con una «istituzione complessa», che deve racchiudere, nel segno di valori unificanti, comuni, province, regioni, Città metropolitane e Stato; vale a dire, tutte le articolazioni territoriali della comunità politicamente organizzata.
Il riferimento alla Repubblica come Istituzione delle istituzioni (per usare il lessico di Santi Romano, ancora attualissimo) consente di ricostruire la trama delle istanze autonomistiche, che si affacciarono già prima dell’unità d’Italia e anche nel dibattito post-unitario, con le posizioni espresse da Farini e da Minghetti nel 1860, ma che furono presto messe da parte in favore di un modello centralista, capace di meglio rassicurare dinanzi ai timori sulla tenuta dell’unità del neonato Regno d’Italia. Nell’esperienza repubblicana l’assetto regionalista è stato lo strumento prescelto per costruire un ordinamento che partisse dall’individuo e dalle sue comunità originarie per risalire sino allo Stato. Una formula adeguata, oggi come ieri, ma a patto di riconoscere – come faceva già Luigi Sturzo nella prima metà del secolo scorso – che le regioni possono essere considerate elementi cardine di un assetto pluralista e partecipativo solo se si rifiuta qualsiasi cedimento rispetto al valore fondante del principio di unità e indivisibilità dell’ordinamento politico. Le regioni italiane (o, almeno, la maggior parte di esse) hanno, certo, una precisa identità geografica, storica, culturale e socio-economica, ma – utilizzando ancora le parole del sacerdote e politico siciliano – sono «una realtà esistente e vivente nella unità nazionale e nella compagine statale».
Lo Stato regionale può consentire l’apporto partecipativo delle comunità territoriali alla determinazione degli indirizzi della Nazione e, al contempo, il rafforzamento della tradizionale separazione verticale dei poteri con una divisione anche orizzontale. Il regionalismo, tuttavia, muove da un presupposto teorico fondamentale che appare irrinunciabile, ovverosia dal carattere ontologicamente limitato dell’autonomia. Così, non vi è autentica autonomia senza il riconoscimento dei limiti dell’ordinamento territoriale autonomo rispetto ad altra istituzione riconosciuta come sovrana. È questo il senso profondo della dialettica unità-autonomia nell’art. 5 Cost. ed è questa la ragione per cui la storia della legge regionale nel nostro ordinamento può essere letta come storia dei suoi limiti. I limiti, in definitiva, ci dicono quanta autonomia politica l’ordinamento costituzionale ritiene compatibile con l’istituzione politica sovrana o, se si vuole, con il principio dell’unità e dell’indivisibilità. Ebbene, già nel quadro dell’originario regionalismo, nel vigore del vecchio titolo V, la valenza fondamentale dell’interesse nazionale ha condotto ad un modello di integrazione tra legge statale e leggi regionali, in cui le seconde si trovavano incastonate in un più ampio ordinamento a geometria variabile. Ciò vuol dire che l’esatta portata degli ambiti di competenza regionale veniva determinata dall’azione di istanze costituzionali superiori (di interesse nazionale, appunto), capaci di fondare l’espansione o la contrazione della competenza normativa di Stato e regioni.
La legge regionale, almeno per le regioni ordinarie, era limitata sul piano «materiale» dall’elenco dell’art. 117 Cost. ed era, inoltre, limitata dai principi fondamentali, che, in ciascuna materia, erano espressamente fissati dalla legislazione statale o, comunque, da questa ricavabili. Vi erano, inoltre, una serie di ulteriori limiti che rappresentavano altrettante declinazioni di interesse nazionale o, comunque, di istanze ricollegabili al principio unitario enunciato dall’art. 5 Cost. (principi generali dell’ordinamento; diritto privato; diritto penale; obblighi internazionali e vincoli europei; principi delle leggi di grande riforma economico-sociale; limite territoriale; materie statali «trasversali»; potestà statale di indirizzo e coordinamento; poteri sostitutivi). Come strumento di chiusura del sistema (sebbene, mai utilizzato) era prevista, infine, la potestà del Parlamento di annullare, su ricorso del Governo, le leggi regionali per violazione dell’interesse nazionale (originaria formula dell’art. 127 Cost.). Potere che valeva a garantire la prevalenza dell’indirizzo politico nazionale su quelli, eventualmente incompatibili, delle regioni.
Come è noto, con la legge costituzionale n. 3 del 2001 – per un disegno che mirava a contenere le istanze autonomistiche dell’allora Lega Nord – fu modificato il Titolo V, alterando un assetto che aveva trovato una lenta razionalizzazione anche attraverso la legislazione statale attuativa e la giurisprudenza costituzionale. È stata, quindi, prevista l’enumerazione tassativa delle competenze legislative statali (art. 117, II comma, Cost.) e delle materie di potestà concorrente Stato-regioni (art. 117, III comma, Cost.); mentre, con una certa dose di ingenuità (o, forse, di malizia illusionista) tutte le materie residue sono state assegnate alla competenza della legge regionale (art. 117, IV comma, Cost.).
Al contempo, dal nuovo titolo V è scomparso ogni esplicito riferimento all’interesse nazionale e si afferma una presunta pari dignità tra leggi statali e regionali, sottoponendole ai medesimi limiti della Costituzione, degli obblighi internazionali e vincoli europei (art. 117, I comma, Cost.). Il carattere illusorio dei principi della riforma approvata nel 2001 dalla maggioranza del centro-sinistra si è presto manifestato con un’esplosione del contenzioso costituzionale, che ha condotto ad un ulteriore sforzo della giurisprudenza per ricondurre il nuovo regionalismo al quadro delle istanze unitarie su cui si regge ogni ordinamento sovrano, sebbene territorialmente articolato. Si è, dunque, presto compreso che la scomparsa dell’interesse nazionale dal Testo costituzionale è stata soltanto una «morte apparente», perché il principio di unità della Repubblica determina inevitabilmente la trasfigurazione di competenze, istituti e procedure costituzionali in vista della garanzia del medesimo. In particolare, la potestà esclusiva statale comprende materie c.d. «trasversali», che esprimono livelli di interesse o finalità da perseguire in modo unitario dall’ordinamento (tutela dell’ambiente, livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, principio di concorrenza, etc.). In molte materie statali, peraltro, si esprimono direttamente profili di quell’interesse nazionale che si assumeva scomparso (difesa, sicurezza, moneta, equilibri di bilancio, etc.).
Non solo. Il principio di sussidiarietà (art. 118 Cost.) si manifesta soprattutto nella sua dinamica ascendente (a favore della concentrazione delle competenze e delle funzioni), piuttosto che in quella discendente (come strumento di dislocazione di compiti in capo agli enti più vicini ai cittadini). Per di più, dopo la sentenza n. 303/2003, è stata considerata pienamente legittima l’assunzione statale in sussidiarietà anche delle competenze legislative e non soltanto delle funzioni amministrative che appaiono meritevoli di essere esercitate al livello più alto dell’ordinamento. Da ultimo – soprattutto in seguito alla crisi finanziaria dello Stato e all’assunzioni di stringenti vincoli economici nei confronti di istituzioni sovranazionali – l’esigenza di assicurare gli equilibri di bilancio (art. 81 Cost.) attribuisce ulteriore forza espansiva ad altri limiti, rafforzandone la capacità di penetrazione e condizionamento nei confronti della potestà legislativa regionale (Corte cost. n. 168/2018).
Nel quadro appena delineato emerge un duplice rischio, giuridico-istituzionale e politico, che occorre disinnescare con opportune riforme costituzionali. Il rischio, del resto, si è purtroppo già improvvisamente e drammaticamente concretizzato con l’esplosione dell’emergenza epidemiologica determinata dal Covid-19. Infatti, tra le molteplici e pesantissime conseguenze della pandemia esplosa lo scorso inverno (sanitarie, economiche, sociali, relazionali, etc.) vi è stata anche il cortocircuito nelle relazioni istituzionali tra Stato, regioni e minori enti territoriali. Se, infatti, i rapporti tra i differenti livelli di governo della Repubblica sono andati avanti, sebbene in modo claudicante, in condizioni di normalità; le eccezionali condizioni dell’emergenza hanno svelato tutta l’inadeguatezza della riforma costituzionale del titolo V, approvata dalla maggioranza di centro-sinistra nel 2001. Sul piano giuridico-istituzionale è, allora, urgentissimo un intervento di razionalizzazione dei rapporti tra Stato e regioni, frettolosamente alterati con la richiamata riforma «neoregionalista» e faticosamente ricomposti con l’attività continua della Corte costituzionale in sede di definizione del robusto contenzioso sul riparto delle competenze.
Al riguardo, è opportuno – senza ipocrisie o false illusioni autonomistiche – riportare espressamente alla competenza statale ambiti materiali che non possono che essere tali. Emblematica, al riguardo, è la materia «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia», oggi, secondo l’art. 117, III co., di competenza concorrente. Ma non ci si può nemmeno esimere da una seria riflessione in ordine alla competenza in materia di sanità ovvero, ancora, sui meccanismi di gestione di funzioni e competenze, normalmente attribuite alle regioni, nei casi di grandi emergenze di rilievo nazionale. Infine, nell’attuale contesto economico e geopolitico, sarebbe opportuna una ulteriore riflessione in ordine all’opportunità della citata previsione dell’art. 117, I comma, Cost., che, prevedendo espressamente come limite alla legislazione statale e regionale «gli obblighi internazionali e vincoli europei», rende gli stessi indiretto parametro di legittimità costituzionale degli atti normativi di Stato e regioni.
Nell’ambito di una complessiva rivisitazione dei rapporti tra Stato e autonomie, è importante rafforzare le sedi che valgono a garantire la leale collaborazione tra i diversi livelli di governo (sistema delle «conferenze» e, magari, raccordi parlamentari) e, dunque, una visione integrata degli interessi locali e degli interessi unitari, anche a prescindere dalla formale attribuzione delle competenze e in vista del complessivo interesse della Repubblica. Sul piano politico, d’altra parte, la razionalizzazione delle competenze, per andare oltre le illusioni del nuovo Titolo V, contribuirebbe a scongiurare i rischi per il sentimento unitario, che, in certe aree del Paese, potrebbero essere alimentati da un eccessivo carico di aspettative sul modello regionale. Un carico eccessivo, difficilmente compatibile con l’interesse nazionale, che recentemente ha trovato momenti di emersione nel dibattito sul regionalismo differenziato, confusamente innescato dalle richiese di maggiore autonomia di Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna, ai sensi dell’art. 116, III comma, Cost. Quale norma di chiusura del sistema occorre, infine, disciplinare a livello costituzionale lo stato di emergenza, come avviene nella maggior parte delle costituzioni.
Una chiara attribuzione delle competenze emergenziali, l’espressa disciplina degli strumenti normativi da utilizzare per fronteggiare l’emergenza, un ben definito quadro di limiti e procedure dello stato d’eccezione appaiono ormai indispensabili, non solo per una efficace capacità di gestione delle situazioni emergenziali, ma anche per un ordinato svolgimento dei rapporti centro – periferia anche nel caso di grandi emergenza nazionali. Anche su questo piano è, dunque, necessario rimettere le idee a posto, ricordando che la vera tutela dell’autonomia non può non comprendere, anche e innanzi tutto, la piena garanzia degli interessi unitari della Repubblica.
*Felice Giuffrè, professore ordinario di Istituzioni di Diritto pubblico Università di Catania