Le recenti dichiarazioni di Giancarlo Giorgetti sulla possibile ascesa Quirinalizia di Mario Draghi, pongono il sistema istituzionale italiano nuovamente di fronte ad interrogativi irrisolti che, ciclicamente, si ripropongono mescolandosi con l’attualità contingente. L’eventualità che il Presidente del Consiglio continui ad esercitare de facto le sue prerogative dal Colle, impersonificando il ruolo di Capo dello Stato ma modificandone così profondamente la concezione e le stesse prerogative, è la spia evidente dello sbando e dell’incertezza esiziale che ha avvolto la politica Italiana. Non una mancanza di decisionismo, bensì una diretta conseguenza del depauperamento della classe dirigente, ormai incapace di rinnovarsi e costretta a preconizzare scenari incerti da cui far dipendere principalmente la propria sopravvivenza. In questo perverso meccanismo di autoconservazione, è stato più volte sottolineato come la figura di Draghi si ponga da garante degli equilibri politici e dell’azione di governo, che è libero di proiettare in una dimensione internazionale, ottenendo in cambio rassicurazioni su materie economiche e un rinnovato prestigio personale.
Grazie alla sua indiscussa autorevolezza, per la prima volta nella storia delle istituzioni repubblicane il Presidente del Consiglio lascia che siano i partiti a restringere il campo da gioco, concentrando le poche energie intellettuali su terreni di scontro meramente ideologici, facilmente spendibili agli occhi di un elettorato stanco e disaffezionato alla politica, in un contesto che ha perso i suoi originari connotati emergenziali propri della pandemia, ma che sembra vivere soltanto della propria inerzia. È anche vero tuttavia, che un simile meccanismo di “volontaria” subordinazione, da un lato accentua ancora di più la deresponsabilizzazione dei partiti, alla quale nessuno vuole o può porre rimedio e dall’altro rende più evidenti le lacerazioni interne agli schieramenti più che mai traballanti, che rischiano di non sopravvivere alla stagione di cambiamenti alle porte. L’agenda Draghi capovolge i tradizionali scenari tripolari o bipolari, in cui i leader politici erano abituati a misurarsi con una certa sicurezza e individua nell’adesione al programma di governo il metro di valutazione di divisioni e alleanze. I partiti così estraniati dalla complessità in cui verrebbero altrimenti immersi, sarebbero ben disposti a rinunciare ad una fetta della propria autonomia decisionale, sulla cui lungimiranza si potrebbe comunque dubitare, venendo così trasformati da azionisti di governo in una sorta di azionisti di risparmio della politica. Svuotati dall’interno e vittime inconsapevoli delle proprie manchevolezze, raccoglierebbero senza fatica il dividendo in termini di consenso, che la partecipazione all’esecutivo o all’opposizione garantirebbe in modo automatico, dando solamente l’illusione di poter incidere nelle scelte più importanti, sulle quali l’influenza del Capo del Governo sarebbe pressoché totale.
Se questo scenario trova una parte dell’emiciclo favorevole, con il sostegno più volte manifestato alla prosecuzione dell’esecutivo, nella speranza di una riedizione dell’attuale schema per i prossimi anni, c’è tuttavia una compagine eterogenea che, per ragioni tutt’altro che irrilevanti, prova a far collimare la figura di Mario Draghi con le scadenze imposte dal calendario istituzionale. La più importante, quella dell’elezione del Presidente della Repubblica, consegna all’incertezza del momento le giravolte improvvisate dei segretari di partito, finendo con rievocare la paradossale situazione del febbraio 2021, quando una classe dirigente allo stremo ha invocato e ottenuto per sua stessa inadeguatezza la presenza a capo del Governo di una figura che fosse allo stesso tempo propulsiva, se non persino sostitutiva, e di garanzia del sistema. Si può certamente dubitare della compatibilità del Colle con le caratteristiche che in questi mesi ha assunto la nostra forma di governo, che troverebbe nel Quirinale il luogo più opportuno per la sua riproposizione. E’ opportuno domandarsi sino a che punto una simile interpretazione materiale della Costituzione possa porsi in modo antitetico con la legittimità stessa della Carta fondamentale, e le intenzioni di chi contribuì a redigerla ? In altre parole, quali sono i confini istituzionali che l’attuale ordinamento conferisce alla figura del Capo dello Stato e quanto possono essere snaturati da chi la impersonifica come in questo caso ? L’ampiezza con cui alcuni inquilini del Quirinale hanno interpretato il loro ruolo, non ci pone al riparo da questi interrogativi.
Una via Italiana al Semi-Presidenzialismo, a lungo accarezzata con tentativi fallimentari di vaste riforme costituzionali, potrebbe realizzarsi in via informale, “de facto” e andrebbe sicuramente contro la concezione schiva e morigerata che un’altra parte dell’emiciclo attribuirebbe volentieri ad un Presidente notaio, vocato unicamente a prendere atto delle decisioni che attendono la sua ratifica. Una figura che mal si concilia con l’estremo senso di inadeguatezza che trasmette buona parte della classe dirigente e che andrebbe sicuramente a cozzare con le priorità di un’incisiva azione di Governo, che per loro stessa natura devono rifuggire le pulsioni elettorali infantili a cui siamo purtroppo abituati. Con Mario Draghi al Quirinale cambierebbe radialmente la sostanza, e il decisionismo dei precedenti inquilini del Colle non sarebbe certo paragonabile agli attuali equilibri che vedono nella trasversalità e nella condivisione l’elemento di esistenza della nuova svolta Semi-Presidenziale, rispetto ai tradizionali scontri istituzionali con il Capo dello Stato propri del bipolarismo all’Italiana. Tenendo fuori dalla contesa il tema del vincolo esterno, che pure inevitabilmente si appalesa, appare chiaro che il bivio di Febbraio nasconde più di quelle semplici insidie del Vietnam parlamentare destinate a dissolversi con l’ultimo scrutinio. Se ogni elezione del Capo dello Stato è stata definita a suo modo “fondamentale” e destinata a lasciare il segno negli anni successivi, oggi non è errato portare all’eccesso questo concetto. La lunghezza del mandato poi, che molti ricorderanno collimare con l’originale settennato Gollista, spalma gli interrogativi su un arco di tempo abbastanza lungo per mandare in crisi i partiti politici, che tradizionalmente consumano le proprie ambizioni nell’orizzonte dell’immediato.
La proposta di Mario Draghi al Colle comunque la si interpreti è l’emblema della consapevolezza raggiunta da una parte della classe dirigente sui propri limiti intrinsechi, una presa d’atto che con qualche eccezione individua nel campione “esterno” la soluzione ai problemi del paese. Un’ammissione di fallimento della propria missione, a coronamento di un trentennio di vuoto istituzionale culminato con ben tre governi tecnici, triste unicum nel panorama internazionale, che può però a suo modo porsi come impulso di rinnovamento. Un cambiamento che avverrà solo se i protagonisti della scena dismetteranno i panni del canovaccio, per rientrare nei binari che la qualità della rappresentanza di un grande paese come l’Italia rivendica a gran voce, sia per la maggioranza che per l’opposizione, oggi più di prima.
*Giovanni Maria Chessa, Comitato scientifico Farefuturo