I referendum alla prova della democrazia

Come è noto la Corte Costituzionale si è finalmente espressa riguardo alle recenti proposte referendarie e ha deciso, nel senso di rendere ammissibili 5 degli 8 quesiti proposti dai diversi comitati, escludendo omicidio del consenziente, stupefacenti e responsabilità civile dei magistrati.

Giova notare che, a dispetto delle nubi che si addensavano sull’istituto del referendum ormai da anni alle prese con i limiti del quorum, la diversa natura dei quesiti e le varie sensibilità politiche rappresentate dai diversi comitati sono senz’altro il sintomo di una notevole spinta partecipativa, forse ignorata se non disattesa.

Un fiume carsico che, pur non raccogliendo la trasversalità delle battaglie dei promotori rimasti su posizioni antitetiche, è riuscito ad intercettare le aspirazioni democratiche di una parte di opinione pubblica sostanzialmente esclusa dalle dinamiche politiche tradizionali. È facile immaginare il dibattito alimentato da temi etici come nel caso dell’eutanasia, di politica criminale quanto alla legalizzazione del consumo delle droghe leggere e il più generale tema della giustizia, ormai divenuto ciclico.

Le aspirazioni dei promotori tuttavia sono rimaste in larga parte frustrate dalla dichiarazione di inammissibilità, che ha colpito i quesiti di più grande impatto nei confronti dell’opinione pubblica e una riforma dell’ordinamento giudiziario, destinata all’approvazione nei prossimi mesi, potrebbe presto rendere superflua perfino la convocazione dello stesso referendum.

Sino a che punto si può parlare di un disallineamento tra lo scrutinio della Consulta e le legittime istanze partecipative dei cittadini ?

Sicuramente da simili dinamiche non può chiamarsi fuori neanche quell’ala del Parlamento, tradizionale sostenitrice del referendum, che invoca la “fiducia” sulla proposta di riforma della giustizia licenziata dal Consiglio dei Ministri. Così su un tema cruciale per le istituzioni democratiche, dopo aver congelato il dibattito nelle urne, verrebbe inevitabilmente sacrificato anche quello parlamentare. Facile intuire le conseguenze che ingenererebbe sull’astensione un’ulteriore delegittimazione delle Camere, unita all’impossibilità conclamata per i cittadini di esercitare il proprio diritto di voto.

Pensare ad uno scenario diametralmente opposto, con l’accoglimento di tutti i quesiti, sarebbe stato nondimeno complicato dinanzi a problemi insormontabili di ammissibilità di quelli “etici”. È verosimile che in quel caso l’affluenza prevista avrebbe potuto superare il quorum, trainata dall’emotività che temi come il suicidio assistito e il consumo di sostanze stupefacenti innescano in larghe fasce della popolazione, oggi solita a disertare le urne.

In un simile quadro, la natura abrogativa del referendum non avrebbe lasciato i tradizionali spazi di manovra, intervenendo radicalmente anche nel caso della separazione delle carriere e della responsabilità civile dei magistrati: un effetto domino che avrebbe pregiudicato quindi eventuali azioni “riformatrici” che altre forze politiche potrebbero ora proporre nella aule parlamentari.

D’altro canto la mossa della Corte ha stroncato ogni ipotesi al riguardo: sia il quesito sul suicidio assistito che sugli stupefacenti non si sono nemmeno avvicinati al risultato prefissato, ed è facile capire come la Consulta abbia potuto giustamente dichiararli inammissibili: una norma incriminatrice troppo astratta da abrogare, come l’omicidio del consenziente, sarebbe andata ben oltre il concetto di eutanasia, nei confronti del quale rimane una sostanziale apertura di credito della Corte. Il rischio sarebbe stata un accoglimento quasi indiscriminato del suicidio assistito, non potendo l’abrogazione di una norma come quella in esame plasmare a discrezione del comitato promotore una disposizione del Codice Penale con tutt’altro significato, che richiederebbe un esame parlamentare ben più maturo e corposo. Quanto alle sostanze stupefacenti il problema insiste su gravi lacune giuridiche nella formulazione del quesito, imprecisioni ripetute che hanno, secondo i giudici, condizionato irrimediabilmente l’aspetto sostanziale, non potendo la Corte riformulare o peggio correggerne il contenuto letterale.

A conti fatti è evidente che la bocciatura avrà pesanti conseguenze sull’affluenza alle urne, i tre quesiti più rappresentativi e in grado di catalizzare l’attenzione dell’opinione pubblica, sono stati messi da parte restringendo notevolmente l’ambito di interesse, ora monotematico pur in assenza del tema più importante per la giustizia. La riqualificazione del quesito sulla responsabilità civile dei magistrati come additivo e non abrogativo, come noto, ha permesso di dichiararlo inammissibile dando adito a dubbi e polemiche. Giova ricordare che dopo la triste vicenda di Enzo Tortora, fu proprio su questo terreno che si giocò il primo grande strappo tra politica e magistratura, dopo gli anni di reciproca convivenza sotto il segno delle leggi speciali degli anni di piombo.

La decisione della Corte, sia essa interpretabile come politica o giuridica, è riuscita a fare breccia nei due schieramenti dei comitati promotori, dividendoli più di quanto non lo fossero già. Da un lato, cancellando giustamente i quesiti su omicidio del consenziente e stupefacenti, ha stroncato sul nascere ogni possibile obiezione del centrodestra sul mancato accoglimento di quello sulla giustizia, dall’altro il mondo laico, che con le sue divisioni non è più attento come in passato alle battaglie garantiste dei Radicali, ne esce sconfitto quasi totalmente, non avendo portato a casa neanche uno dei due quesiti proposti. Fa eccezione tuttavia quella parte del centrosinistra meno attenta a questioni valoriali, che può ora esultare per lo “scampato pericolo” dell’abrogazione delle norme sulla responsabilità civile indiretta e spingere con decisione per neutralizzare i quesiti rimanenti, usando la riforma Cartabia come grimaldello.

Un’operazione molto politica e forse poco democratica, che contribuirà alla delegittimazione dell’istituto referendario e alimenterà il senso di impotenza dei cittadini, riversando sul Ministro della Giustizia le tensioni di una rischiosa accelerazione che si palesa come una corsa contro il tempo, in un crescendo di scontri interni alla maggioranza di Governo.

 

*Giovanni Maria Chessa, comitato scientifico Fondazione Farefuturo