PRIMA LA NAZIONE. CONTRO L’UNIVERSALISMO GIURIDICO

Questo saggio di Agostino Carrino, è stato pubblicato sul Rapporto Italia 2020 della Fondazione Farefuturo

 

Vorrei cominciare con una premessa: il principio dell’interesse nazionale non è un’ideologia. Esso segnala piuttosto una prassi politica, un modo oggettivo di intendere e fare la politica, la cui scomparsa negli ultimi decenni è alle origini di gravi criticità, a partire dalle crescenti e sempre più insopportabili diseguaglianze sociali, causa anche del cosiddetto «populismo». La prassi dell’interesse nazionale deve significare innanzitutto cura e attenzione per le fasce deboli (nella globalizzazione sempre più ampie e sempre più deboli) della società: la nazione è lo shibbòleth che individua tra le varie possibilità una classe politica e un programma che vogliono garantire un minimo di giustizia sociale per coloro che fanno parte di una nazione (concetto storico) di contro ai «diritti» astratti dei singoli individui generici, diritti che nella loro fase retorica contribuiscono, più che a tutelare i singoli, a sfasciare le comunità, a sfarinare il sentimento di reciproco riconoscimento, a dissolvere il senso del dovere e dell’obbligo. L’idea dell’interesse nazionale è anche il contraltare della presunta «universalità» dei diritti, che si impongono incuranti delle specificità culturali e storiche delle singole nazioni.

La cura dell’interesse nazionale presuppone quindi, non a caso, una visione classica della politica, che ricomprende in primis la politica estera di una nazione. Detto questo, che tipo di organizzazione statuale potrebbe preconizzare una politica fondata sull’interesse nazionale (nel senso sopra precisato)? Parto dalla centralità della decisione e dall’urgenza della concreta capacità di decisione. È oramai almeno un quarto di secolo che l’Italia si avvita e marcisce nella crescente difficoltà di decidere, dove per decisione non intendo certo i recenti «decreti» del Presidente del Consiglio dei ministri relativi anche a libertà fondamentali dei cittadini, la cui legittimità costituzionale è più che dubbia, ma una capacità decisoria organica e legittima sui tempi lunghi e sulla base di princìpi-guida. Non voglio dire che un governo democratico debba fare a meno del compromesso, che resta un carattere distintivo delle moderne democrazie cosiddette costituzionali; ogni sistema politico deve fondarsi però sia sul compromesso sia sulla decisione. Persino un teorico della democrazia liberale come Hans Kelsen ha voluto distinguere nella forma democratico-parlamentare di governo i momenti propriamente «democratici» e quelli «autocratici» (e viceversa anche nelle autocrazie i momenti democratici). Una democrazia sana e funzionante intesa come governo politico ha bisogno di entrambe le fasi. Che la volontà, ma anche la possibilità stessa di decidere siano oggi carenti è evidente. All’imperativo etico di responsabilità della decisione si preferisce l’ipocrisia del rinvio: esemplare l’ennesimo spostamento relativo alle «clausole di salvaguardia», sulle quali un governo degno di questo nome, a mio avviso, avrebbe scelto di aumentare l’iva sui prodotti, distinguendo però tra chi acquista una Maserati per fare colpo sull’amante e chi un litro di latte per il proprio figlio; o anche, più recentemente, le problematiche connesse con i decreti sull’epidemia virale, la quale avrebbe richiesto una più chiara e rapida decisionalità sulle questioni fondamentali relative sia al contrasto alla diffusione del virus sia alla tutela dell’economia.

 

Tutti sappiamo quanto in questa vicenda del Covid-19 ordinanze, decreti e via dicendo siano stati confusi e contradditori tra centro e periferie, regioni e comuni, dove è mancata la chiarezza di una filiera di comando, di legittimazione e di responsabilità. Ma dove la politica manca prevale appunto il rinvio, la nondecisione, l’apertura dei cosiddetti «tavoli», la creazione di decine di comitati di esperti veri o presunti, di «task force» raccogliticce; semmai la furbizia del continuare a prendere surrettiziamente a prestito, come nel caso delle clausole di salvaguardia, o la fede nella provvidenza, come all’inizio nel caso dell’epidemia. Ugualmente emblematica, da più punti di vista, la vicenda del «fondo salva stati», dove si è mentito con spudoratezza anche a livelli alti, quando non si è dato prova di incompetenza e di ignoranza delle norme vigenti. Si diffonde l’idea che si possa «decidere» con una chiacchiera telefonica o via social, con totale dispregio del diritto e delle forme giuridiche. Chiedere una centralità della decisione (fondata sull’etica della responsabilità) impone inevitabilmente una seria riflessione sulla auspicabilità di una Nuova Repubblica e quindi di una nuova Costituente in grado di riformare la struttura dello Stato e il suo sistema di governo, di partecipazione e di amministrazione, un progetto per il quale è tanto necessario lottare quanto, purtroppo, illusorio immaginare che si possa realizzare, se non dopo una catastrofe (può esserlo l’epidemia nella quale ci troviamo, che sembra in alcuni casi aver compattato la nazione?). Tuttavia, essendo la politica anche l’arte del possibile, l’etica politica impone di fare delle proposte che possano aiutare a tenere meno oscillante il timone della nave pubblica. E dunque, a princìpi costituzionali vigenti (volendo operare entro la costituzione del 1948), quali proposte di revisione sono ipotizzabili che possano comunque andare verso una nuova repubblica? Indubbiamente, una prima svolta potrebbe certamente essere costituita dalla elezione diretta del Presidente della Repubblica in quanto Capo dello Stato (modificando l’art. 83 cost.). Già attualmente il Capo dello Stato ha poteri tutt’altro che irrilevanti e soprattutto egli rappresenta l’unità della nazione (art. 87 cost.). Operando su questo attributo, eleggere direttamente il Capo dello Stato significherebbe ristabilire un primo contatto –assolutamente necessario – tra il «corpo elettorale» (la nazione in senso giuridico) e un decisore fondamentale, considerando che la crisi della politica è causa/effetto di uno scollamento oramai insopportabile tra la gente e il «palazzo», tra il paese reale e il paese legale. Ho segnalato altrove alcune possibili criticità di questa riforma, che a mio avviso dovrebbe poi portare a due altre riforme connesse: 1) la riforma della Corte costituzionale e dei poteri attribuiti a giudici che decidono in ultima istanza tendenzialmente sempre più non in base a norme giuridiche positive – che dovrebbero mediare la volontà generale della nazione – ma in base a princìpi (anche sovranazionali o «umanitaristi»); 2) la riforma del bicameralismo. Su quest’ultimo punto credo che l’abolizione del Senato quale camera politicamente legislativa sia urgente, non avendo più senso un organo nato in rappresentanza del potere monarchico di contro al (e di freno del) potere rappresentativo della borghesia rivoluzionaria in ascesa. Ugualmente, di converso, una seconda Camera ha senso in rappresentanza di enti statuali, quindi in uno Stato federale come la Germania o gli Stati Uniti, sicché l’alternativa qui è: un’Italia federale (che si giustificherebbe a condizione di intendere il federalismo come unificazione del diverso e non frantumazione dell’uno) o una rappresentanza non politica, territoriale o categoriale, facendo della seconda camera ciò che originariamente – sul precedente del Consiglio dell’Economia della costituzione di Weimar – doveva essere il Cnel (e quindi trasferendo ad essa le sue competenze). Ciò, semmai, riprendendo le proposte già avanzate al tempo della Costituente da Costantino Mortati, che suggeriva una rappresentanza in Parlamento delle Regioni, intese come «centro unitario di interessi organizzati da far valere unitariamente e in modo istituzionale» (AC IV, 2920).

V’è tuttavia una terza possibilità: partendo proprio dalla crisi della politica, si potrebbe immaginare una seconda camera anch’essa politica, ma senza la funzione di fiducia al governo e con una rappresentanza proporzionale. Una prima camera, dunque, eletta con sistema maggioritario a collegio uninominale e con ulteriore premio di maggioranza per la lista che conquista la maggioranza relativa (al fine di garantire la governabilità e ricostituire il nesso elettore/eletto garantendo la minoranza parlamentare), una seconda camera che non dia la fiducia, ma possa fare proposte legislative in materia economica e istituzionale, sulla base di una discussione ed eletta con metodo proporzionale in modo da garantire e suscitare il confronto delle idee). Come che sia, il principio dell’interesse nazionale, da far valere non solo, come prima della riforma del 2001, rispetto all’attività delle Regioni, ma soprattutto per quanto concerne il ruolo dell’Italia nell’Unione europea (in quella esistente e in una riformata) è un principio dirimente per un’Italia che voglia, in politica interna e in politica estera, tornare ad essere un soggetto rispettato e protagonista. Da questo punto di vista la crisi causata dall’epidemia ha rivelato in tutta la sua gravità lo stato pre-agonico dell’Unione europea, del tutto priva di una linea unitaria in quanto unione e soggetta invece a spinte centrifughe, con la paradossale presenza al proprio interno, per esempio, di Stati (Olanda, Lussemburgo, Irlanda) che sono dei veri e propri paradisi fiscali che a causa del profit shifting fanno perdere all’erario italiano ogni anno quasi sette miliardi di euro, che pure gli spetterebbero. Rivendicare l’interesse nazionale, date queste premesse, non è solo una rivendicazione «particolaristica», ma deve anche significare, a ben vedere, ristabilire un rapporto di equità tra gli Stati che compongono l’Unione europea, nella prospettiva della fondazione di una nuova Europa.

II. Premesso, dunque, che il principio dell’interesse nazionale è elemento costitutivo non di una «ideologia» (che qualcuno definirebbe semmai «sovranista»), ma carattere distintivo di un modo ontologico di pensare e fare la politica, a partire da quella estera, c’è un ambito cui non si pensa con immediatezza, apparendo tema diverso e finanche, semmai, per specialisti: intendo il problema del potere giudiziario e delle «reti giudiziarie», cioè del fatto e della pratica, sempre più radicati, di costruire connessioni tra le corti giudiziarie – ordinarie, supreme e costituzionali – al fine di scambiarsi idee e opinioni, ma anche, di fatto, nella convinzione che possa esistere un «diritto globale» che si ponga al di sopra degli Stati nazionali e alle cui decisioni la politica interna dovrebbe prima o poi adeguarsi e sottomettersi. Evidente, questa tendenza, nella Relazione per il 2020 dell’attuale Presidente della Corte costituzionale, Marta Cartabia. Si tratta di un fenomeno che tutti i giuristi conoscono in particolare per quanto riguarda il diritto di famiglia, ma che si estende sempre più non solo per l’affermarsi di organismi sovranazionali (per esempio l’Unione Europea), ma anche per il moltiplicarsi di «dichiarazioni» e «carte» relative ai diritti dell’uomo (o, meglio, di status: di colore, donna, «migrante», apolide, «diverso», e via aumentando). Qui si afferma in particolare una metodologia sia di indagine sia di redazione che parte pregiudizialmente dall’idea di uomo (si può ancora dire?) e non di cittadino, sicché le conseguenze portano ad un primato del concetto astratto di uomo rispetto alla sua concreta manifestazione quale ente di cultura in determinate, specifiche realtà storicamente e territorialmente determinate. L’ideologia globalista impone che i giudici guardino sempre più non al diritto positivo vigente nel loro paese, ma al diritto quale viene costruito, prodotto, creato dalle corti. Una sentenza della Corte costituzionale tedesca può essere punto di riferimento per una sentenza del Conseil constitutionnel francese, così come la Corte costituzionale del Sud Africa (in questo caso la facoltà è costituzionalmente prevista dall’ordinamento sudafricano) deve adeguarsi ai princìpi «progressivi» posti da corti straniere.

In altri termini, l’ideologia globalista, quello che ho definito «giusumanismo», ovvero un’ideologia giuridica che colloca i diritti non solo al di sopra della politica, ma del diritto in quanto ordinamento positivo, costruisce un complesso di «princìpi» che si vogliono giuridicamente vincolanti. I princìpi, che giuristi come Zagrebelsky, Modugno e altri ritengono – sulla scorta delle teorie del filosofo del diritto americano Ronald Dworkin – essere superiori alle regole, cioè alle norme positive dell’ordinamento quale prodotto sia della storia sia della volontà politica, producono un insieme giuridico fondato sulle decisioni giudiziarie che si pone quale diritto immediatamente valido, fondato sulla morale, un diritto moralizzato, quindi superiore al diritto posto da un legislatore statale (donde la critica alla «statualità» e alla sovranità). Il «dialogo tra giudici» non è dunque solo un omologo «specializzato» dell’Unione Interparlamentare (anche questa ha tra i suoi campi di studio i «diritti umani»), ma qualcosa di più, perché si fonda nient’affatto su una determinata competenza tecnica, bensì su una specifica ideologia politica, rappresentata dal primato del diritto (e specificamente dei «diritti umani») sulla politica. Mi si consenta di citare un autore che ha scritto con competenza sui rischi della «giuristocrazia», non solo a livello domestico ma anche internazionale, R. Hirschl: «L’espansione della provincia delle corti nel determinare risultati politici a spese dei politici, dei funzionari pubblici e/o della popolazione si è allargata non solo più che mai prima d’ora a livello planetario; questa provincia si è anche espansa fino a diventare un fenomeno plurale, dalle molte facce, che si estende ben al di là del concetto ora usuale della politica fatta dai giudici tramite la giurisprudenza dei diritti costituzionali e il disegno dei confini legislativi da parte dei giudici. La giudizializzazione della politica include ora il trasferimento all’ingrosso alle corti di alcune delle controversie politiche più pertinenti e conflittuali che una società politica democratica può contemplare. Quello che è stato genericamente definito «attivismo giudiziario» si è evoluto al di là delle convenzioni esistenti che si trovano nella dottrina costituzionale normativa. Un nuovo ordine politico – la giuristocrazia – si è rapidamente imposto nel mondo» (Towards Juristocracy , 2004, p. 222).

L’ampliarsi del «dialogo tra giudici» a livello internazionale deve dunque allarmare la politica tanto quanto l’attivismo giudiziario a livello domestico. Non si tratta di entrare nel merito delle opinioni, che possono nel concreto essere buone o cattive, ma nelle conseguenze di una metodologia che indebolisce sempre più la politica e la sua autonomia riducendo a niente il principio dell’interesse nazionale. Il problema del ruolo dei giudici è stato posto male a partire da Tangentopoli, perché si è confusa una tendenza propria dello Stato costituzionale di diritto (ma ora, appunto, «post-costituzionale») con un fenomeno contingente determinato da volontà, interessi e maneggi particolari; la questione è radicale e chi oggi voglia non solo rimettere al centro il tema dell’interesse nazionale e della sua difesa deve porsi, insieme con la questione della forma di governo (presidenzialismo, cancellierato o altro), anche il problema del rapporto tra politica e giustizia, questione antica che oggi ha acquistato un rilievo e un’importanza centrali. Non è un caso che l’Unione europea si è costruita, prima di diventare terreno di pascolo di comitati e burocrazie anonime, proprio grazie alla Corte di giustizia, che di fatto ha «costituzionalizzato» un processo che avrebbe dovuto essere prima politicizzato (con una sovranità europea e non con la mera devoluzione delle sovranità nazionali a fantomatiche entità finalizzate poi alla costituzione di un «ordine mondiale») che «giuridificato». Che si tratti della Corte del Lussemburgo o della Corte tedesca di Karlsruhe a questo punto la differenza è irrilevante: c’è sempre un giudice da qualche parte che pretende di essere il depositario non più solo della «giustizia», ma proprio della sovranità politica. Si tratta dunque di porre con serietà e competenza il problema dei limiti della giustizia costituzionale, che significa poi, alla fine, ridare senso e dignità al diritto e ai suoi operatori in quanto tecnici e conoscitori del diritto positivo e non di vaghe e pallide idealità senza storia e senza terra. Ridare senso al diritto significa per me anche ridare dignità alla politica, intesa come governo della polis e quindi della nazione, non mera amministrazione al servizio di entità anonime cosiddette «sovranazionali». Finisco perciò citando un noto esperto proprio della giustizia costituzionale, L. Favoreau (Gouvernement des juges et démocratie, 2001, p. 213): «Ciò conferma che il vero problema del governo dei giudici non si pone a livello nazionale, ma a livello europeo. Dal momento che i giudici europei controlleranno le decisioni delle corti costituzionali nazionali, senza che sia possibile smentirle. Per me, il vero governo dei giudici comincia quando è impossibile smentire la decisione del giudice, quando il potere costituente non può “riprendere la parola”».

Il governo dei giudici è l’antitesi dell’interesse nazionale quale prassi politica, è la fine della politica o anche, se si vuole, l’inizio di un modo cripto-«elitario» di fare politica: emblematica la mossa recente della Corte costituzionale italiana, la cosiddetta «apertura» della Corte alla società civile, che rischia – se non è una mossa intenzionale – di fare del giudice costituzionale il legislatore «sacralizzato» del mondo post-moderno, non più il custode, ma il padrone della costituzione.

Agostino Carrino, professore ordinario di Diritto pubblico Università Federico II, Napoli

RECOVERY AND RESILIENCE FUND

I tempi per il Resilience & Recovery Fund (RRF) sembrano allungarsi a ragione delle differenze politiche con Polonia ed Ungheria. È quindi appropriato non correre, ma attrezzarsi o con agenzia ad hoc (come suggerito da Giorgio La Malfa e, con diversità di accenti, da Alberto Quadrio Curzio) oppure (come nella recente proposta della Assonime, e nel paper di Marco Buti e Marcello Messori) oppure ponendo via Venti Settembre al centro dell’operazione, sotto il profilo tecnico.

L’idea delineate al vertice di maggioranza del 28 novembre di creare nella Presidenza del Consiglio una task force con sei manager e circa trecento addetti solleva serie perplessità. Qualsiasi specialista d’amministrazione nutrirebbe seri dubbi sulla capacità di selezionare, sei manager e trecento esperti, amalgamarli, dare loro orgoglio e sentimento di équipe – tutte caratteristiche per potere ben lavorare insieme. Per non parlare della logistica: trovare locali, attrezzature, e via discorrendo. E soprattutto della messa in atto di processi lavorativi, analitici e decisionali, Come evitare, infine, frizioni con le amministrazioni dello Stato (alcune con un forte spirito di corpo) che si sentirebbero inevitabilmente spodestate, e con le Regioni, per le materie loro affidate? I tentativi di creare strutture parallele finiscono sempre male. Inoltre, solleva seri dubbi sotto il profilo costituzionale – il Presidenze del Consiglio, e quindi i suoi uffici- hanno solo compiti coordinamento ai sensi dell’art.95 della Costituzione.

Inoltre, Palazzo Chigi (metaforicamente perché l’organico è ormai sparso in decine di edifici romani) è già affollato e sotto stress per avere avocato a sé numerosi compiti operativi, non di coordinamento. Oltre a quelli più noti – come i servizi segreti (di solito affidati al Ministro dell’Interno od ad un Sottosegretario ad hoc) -, vale la pena citare la struttura di missione Investitalia per le infrastrutture, quella per l’analisi dell’impatto della regolazione ed un Gabinetto su cui grava anche la nomina dei commissari per le opere pubbliche e per la sanità.

E’ soprattutto una proposta singolare, in quanto tranne la Francia (che ha in pratica dato nuova vita al Commissariato al Piano, le cui strutture erano comunque rimaste intatte in seno al Ministero dell’Economia e delle Finanze)) tutti gli altri Stati affidano l’operatività del Resilience and Recovery Fund ai rispettivi Ministeri dell’Economia e delle Finanze per il lavoro tecnico da condurre in cooperazioni con le altre amministrazioni centrali e regionali, ed al Ministro degli Affari Europei (quasi sempre senza portafoglio) il collegamento con le istituzioni europee. A livello politico interno, esistono comitati interministeriali per gli affari europei ed per la politica economica analoghi ai nostri Ciae e Cipe. In certi casi si dovrà rafforzare l’esistente con l’immissione di qualche esperto specialistico. Sarebbe opportuno, poi, utilizzare questa occasione per rivedere numerosi processi. Il disegno di legge di bilancio all’art.184 comma 14 già prevede un ruolo importante per il Ministero dell’Economia e delle Finanze- Dipartimento della Ragioneria Generale dello Stato; è sufficiente estenderne la portata in analogia con quanto avviene in quasi tutti gli Stati dell’Ue.

Come indicato al termine di questo appunto, ove si volesse adottare l’idea concordata al vertice di maggioranza del 28 novembre, i tempi – come indicato nella nota al temine di questo appunto- non sarebbero compatibili con il programma europeo per il Recovery and Resilience Fund.

A mio avviso, il Ministero dell’Economia e delle Finanza è l’unica struttura della pubblica amministrazione che ha la capability di gestire la valutazione e selezione degli interventi, nonché, in collaborazione con le amministrazioni competenti dello Stato e delle Regioni, monitorare la tempistica della loro attuazione.

Al Ministero dell’Economia e delle Finanze, ai fini della valutazione e selezione degli interventi, si può prevedere un metodo in tre fasi: a) presentazione di un programma di riforme le cui spese vengano valutate con strumenti all’altezza di standard internazionali; b) scrematura dei progetti/singoli componenti di spesa (sia in conto capitale sia di parte corrente) per individuare quelli validi; c) scelta dei progetti/singoli componenti di spesa che ottimizzino gli obiettivi di politica economica. In tal modo, la politica si concentrerebbe sul livello “alto” della definizione degli obiettivi e dei parametri di valutazione e il lavoro di analisi verrebbe effettuato a livello tecnico, evitando un “suk” tra portatori di interessi. Se l’elenco dei progetti/singoli componenti di spesa non piacesse al Comitato interministeriale per gli affari europei, il livello politico dovrebbe modificare gli obiettivi (e parametri) e quello tecnico, utilizzando la strumentazione disponibile, fornirebbe una nuova proposta in linea con i nuovi obiettivi.

La prima fase potrebbe essere realizzata utilizzando Macgem-It, un modello econometrico multisettoriale sviluppato proprio all’interno del ministero dell’Economia e delle Finanze e pubblicato nel marzo 2020. Macgem-It consente di valutare gli effetti di programmi di spesa su variabili-obiettivo come Pil, occupazione, bilancia dei pagamenti e via discorrendo. E inserendo una funzione che specifichi l’importanza relativa che si dà ai vari obiettivi, delineare il mix o il pacchetto di spese che meglio consente di ottimizzare il loro raggiungimento.

È uno strumento che molti Paesi utilizzano per forgiare la loro politica economica e che in Italia è stato impiegato, in una versione molto semplificata, negli anni Ottanta e, poi, per l’analisi di alcuni grandi investimenti quali la transizione della televisione analogica al digitale terrestre e l’alta velocità tra Lione e Torino, nonché alcuni aspetti della politica tributaria. È entrato in graduale disuso soprattutto perché il suo asse portante – la “matrice di contabilità sociale” (Sam, per gli addetti ai lavori) – non veniva aggiornata dalla fine degli anni Novanta, quando l’Istat ha dato la priorità alle statistiche richieste dall’Ue. Si tenga presente che proprio per il Recovery fund in Francia è stato rimesso in funzione il Commissariato al Piano: è stato nominato un Alto Commissario che riferisce direttamente al Governo e il cui staff utilizzerà strumenti come Mcgem-It (i cui antenati sono comunque francesi, il Tableau économique di Quesnay).

Macgem-It è l’acronimo di “Multisector applied computable general equilibrium model for Italy” (modello multisettoriale computabile di equilibrio generale per l’Italia). È stato realizzato dal Dipartimento del Tesoro in collaborazione con il Dipartimento di economia e diritto dell’Università degli studi di Macerata. È stato ben tarato sulle caratteristiche del sistema economico italiano allo scopo di quantificare l’impatto disaggregato, diretto e indiretto, delle politiche di bilancio e degli scenari di riforma ipotizzati. Una prima versione è stata discussa due anni fa a un seminario tecnico a via XX Settembre, ora è un gradevole fascicoletto (pubblicato lo scorso marzo). È utile sapere che la Commissione europea ha invitato i modellisti italiani a tenere seminari di formazione per i colleghi di altri Stati dell’Ue. E’ quindi rispettato ed apprezzato alla Commissione europea.

La seconda fase è l’individuazione della platea di progetti singolarmente validi. A via Venti Settembre non mancano professionalità. Circa quaranta anni fa si sono fatte le prime esperienze di analisi costi-benefici applicate al Fondo investimenti e occupazione (Fio). Sono poi continuate all’allora Dipartimento per le Politiche di Sviluppo e di Coesione. Infine, una quindicina di anni fa si sono fatte sperimentazioni di valutazione in condizioni di incertezza utilizzando tecniche molto avanzate. Infine, un centinaio di funzionari e dirigenti del dicastero hanno seguiti corsi alla Scuola nazionale d’amministrazione. Le “risorse umane” – per usare il lessico corrente – ci sono, occorre organizzarle bene e fornire loro i parametri di valutazione. Due compiti che spettano al livello politico.

I parametri di valutazione esprimono: a) le preferenze di distribuzione dei costi e dei benefici per fasce di reddito/consumi o su base territoriale o sotto il profilo intergenerazionale; b) il valore sociale da attribuire a obiettivi di politica economica e sociale, quali l’occupazione, la coesione sociale e la sostenibilità ambientale; c) il valore da attribuire a beni e servizi non di mercato o solo parzialmente di mercato (istruzione, ambiente, salute); d) il computo economico di effetti esterni, interdipendenze, costi accantonati, trasferimenti finanziari all’interno della collettività, andamento generale o specifico dei prezzi di beni e servizi; e) il valore economico e sociale di beni e servizi in mercati regolamentati (spesso con tariffe e altre forme di prezzi amministrati).

In materia, la situazione è un po’ confusa e sarebbe necessario mettere rapidamente ordine. Parametri sono stati elaborati negli anni Ottanta del secolo scorso dall’allora Ministero del Bilancio sulla base di una metodologia econometrica aggregata, volta a stimare il rendimento marginale dell’investimento in opere pubbliche. Essi hanno fornito la base di una delibera del Cipe del 1984, emendata, per gli investimenti nel Mezzogiorno, da una direttiva della presidenza del Consiglio del 1986. Tanto la delibera Cipe, quanto la direttiva sono ormai obsolete. Nel 2007, un documento di lavoro dell’Uval (Unità di valutazione allora presso il Ministero dello Sviluppo economico) ha proposto un aggiornamento (peraltro mai ufficializzato), basato sostanzialmente sui lavori della Commissione europea e sulle direttive per le istruttorie di piani e progetti a valere sui fondi strutturali europei. Nel 2012, il Cnel ha presentato un documento di osservazione e proposte, alla luce dell’evoluzione metodologica e dell’esperienza delle principali istituzioni internazionali e dei maggiori Paesi europei, ma soprattutto in linea con obiettivi che danno la priorità alla sostenibilità ambientale e a una migliore distribuzione dei benefici della crescita tra varie categorie. Il documento fu inviato a Governo e Parlamento, ma non è mai stato recepito. In punta di diritto è ancora valida la delibera del Cipe del 1984. Un chiarimento è essenziale. Sarebbe logico e semplice adottare il documento Cnel, aggiornato e ritoccato come si ritiene.

Il terzo stadio è la scelta in funzione degli obiettivi. Si può tornare al nostro amico Macgem-It o applicare una procedura multicriteri. L’aspetto tecnico è semplice, sempre che gli obiettivi politici siano chiari e trasparenti a tutte le dramatis personae italiane e Ue coinvolte in questa operazione.

Nota sulla tempistica

Ho fatto una stima dei tempi per varare la task force. Gli uffici della Presidenza del Consiglio sono già sotto affanno perché mancano circa trecento decreti attuativi (una settantina all’ormai «storico» Decreto Rilancio) per dare corpo alle misure anti- Covid.

Ammesso che tramite un maxiemendamento, la task force venga istituita con la legge di bilancio, la norma richiederebbe almeno una dozzina di decreti attuativi per esplicitare linee di comando, organigramma, direttive per la comunicazione esterna ed interna, i principali processi operativi; perché siano redatti, firmati, vidimati e bollinati (ad esempio dalla Ragioneria Generale dello Stato e dalla Corte dei Conti), andando alla velocità di Speedy Gonzales ci vorranno quattro mesi: si celebrerà la «missione compiuta» il primo Maggio, Festa del Lavoro.

Ma è solo l’inizio. Per la selezione dei manager e degli esperti, si dovrà ricorrere a procedure di evidenza pubblica, per evitare che magistratura contabile e magistratura amministrativa od anche l’Autorità Nazionale Anticorruzione (Ana), invalidino il tutto. Sarebbe, poi, una discriminazione incostituzionale non consentire ai dirigenti ed ai funzionari della pubblica amministrazione di partecipare alla selezione. Per accorciare i tempi si possono prevedere due binari (dopo avere descritto chiaramente ciascun incarico – attività che ha richiesto quattro mesi per la piccola struttura di missione «Investitalia») istituita presso la Presidenza del Consiglio sulla base della legge di bilancio 2019). Un binario per la pubblica amministrazione: un mese per redigere l’«interpello» e pubblicarlo, un mese per ricevere la domande, almeno tre mesi perché le commissioni di valutazione (da nominare) esaminino e la candidature e due mesi per decreti di nomina e relative registrazione. In breve, i primi «incaricati» prenderebbero servizio nel febbraio 2022

Non più rapido il percorso per rivolgersi al mercato privato. Ci vorrebbe una gara per selezionare società di ricerche di manager e di esperti, come venne fatto ai tempi del Governo Letta per le nomine nelle aziende a partecipazione pubblica (per incarichi nei consigli di amministrazione e simili). Allora la gara richiese quattro mesi: ora potrebbero essere portati a tre. Difficile accorciare i tempi del resto della procedura. I prima «incaricati» arriverebbero nel marzo 2022.

*Giuseppe Pennisi, economista

 

Italia terminal europeo della nuova Via della Seta

Mercoledì 26 giugno alle ore 15,30 il presidente della Fondazione Farefuturo Adolfo Urso, interverrà nella sua qualità di vicepresidente del Copasir al meeting  del CNEL  “Italia terminal europeo della nuova Via della Seta” per evidenziarne le conseguenze geopolitiche nella collocazione internazionale dell’Italia e sulla nostra sicurezza e sovranità nazionale.

 

Per info e accrediti: [email protected]