Sicurezza e Mediterraneo, una questione cruciale

Le conclusioni del Forum di Roma

L’intensa due giorni di lavori (Roma, 11- 13 ottobre) con la partecipazione di autorevoli studiosi e parlamentari d’oltre oceano, europei , medio-orientali e africani ha fornito ulteriore conferma della proficua collaborazione in atto ormai da quasi due anni tra la nostra Fondazione, l’“International Repubblican Institute “( prestigiosa “think -tank“ statunitense vicina ma non organica al Partito Repubblicano) e il Comitato Atlantico italiano.

Si è trattato infatti del sesto Forum congiuntamente organizzato dalle tre fondazioni a poco più di un anno dal primo, su Europa e relazioni transatlantiche dopo la pandemia e il ritiro americano dall’Afghanistan, svoltosi lo scorso anno in non casuale coincidenza col ventesimo anniversario dell’11 settembre. L’evento, iniziato con una sessione aperta al pubblico nella mattinata del 12 ottobre per poi proseguire a porte chiuse, ha preso avvio con interventi del responsabile del Dipartimento per le Relazioni Transatlantiche dell’IRI, Ian Surotchak giunto espressamente da Washington, dell’Incaricato d’affari americano presso il polo onusiano romano Rodney M. Hunter e del Presidente della nostra Fondazione,  Adolfo Urso.

Al centro delle discussioni le ricadute sull’area EMEA (Europa, Mediterraneo e Africa) dell’aggressione russa all’Ucraina analizzate nelle loro diverse dimensioni: da quella della sicurezza alimentare, a quella energetica, fino a quella migratoria. Il tutto nel segno di una ribadita comune fedeltà ai valori dell’atlantismo che ha costituito il filo conduttore di tutti i Forum sinora realizzati in partenariato dai tre organismi.

Il forte apprezzamento americano per la salda e inequivoca collocazione di Farefuturo è stato manifestato a chiare lettere dal direttore Surotchak nel suo saluto a nome dei vertici dell’IRI.

Il senatore Urso si è soffermato su tre aspetti qualificanti: 1) la sfida lanciata alle nostre democrazie nei più diversi scacchieri dalle potenze autocratiche, come la Repubblica Popolare cinese e la Russia di Putin; 2) la necessità di una risposta ferma e congiunta da parte dell’Occidente, in uno spirito di forte solidarietà e coordinamento euro-atlantico; 3) il rilievo crescente che la regione mediterranea, così come quella centro/nord africana, sta rivestendo ( e appare destinata ancora a lungo a rivestire) in tale confronto di civiltà e per il controllo delle fonti energetiche e delle materie prime, a cominciare dalle terre rare cruciali per la competitività dei nostri sistemi industriali.

Urso ha sottolineato anche come il ricatto energetico e quello alimentare esercitato dalla Russia ai danni dell’Occidente (e dell’Europa e Africa in particolare) non rappresentino che altrettanti tasselli della guerra ibrida portata avanti nei nostri confronti da Mosca ( e Pechino) anche attraverso articolate campagne di disinformazione, sia in Europa sia nel continente africano; campagne alle quali è doveroso rispondere avvalendosi di ogni appropriato strumento, anche sul terreno della contro-narrativa.

Dobbiamo pertanto investire, ha proseguito il Presidente Urso, sia in Africa sia nella sponda sud del Mediterraneo in uno spirito di “autentico partenariato” con i paesi dell’area anche sul fondamentale versante della sicurezza alimentare. Se investiremo in questo senso, ha proseguito, sconfiggeremo anche l’altra minaccia: quella delle migrazioni incontrollate. Migrazioni, ha rilevato, che creano un serio problema anche nei paesi africani, che perdono così le loro intelligenze migliori. Per tale motivo è indispensabile, ha voluto sottolineare, sviluppare d’ora in poi una “grande politica Italiana, europea e occidentale nel Mediterraneo allargato e nel continente africano”. Perché quella parte del mondo potrà raggiungere un vero benessere, fondamentale anche ai fini del contrasto al terrorismo di matrice islamista, solo in stretto raccordo con l’Occidente ciò di cui anche da parte americana, ha concluso, si è sempre più consapevoli.

Spunti di interesse sono emersi anche dalle successive sessioni a porte chiuse. Con riferimento ad esempio, nel caso della sicurezza alimentare, alla necessità per l’Occidente di adottare ai fini dell’assistenza ai paesi più fragili del continente africano un approccio multisettoriale. Essendo chiaro che la sicurezza alimentare, l’accesso a condizioni sostenibili alle fonti di energia, la salute e la governance sono dimensioni strettamente interconnesse, cosicché quando anche solo una delle stesse viene a essere fragilizzata ne derivano onde di shock su tutte le altre.

In sostanza, e per concludere, il Forum ha offerto eloquente riprova del ruolo di primo piano che la nostra Fondazione si è ritagliata, per molti versi un “unicum”, nel corso dei due ultimi anni, in Italia e non solo: quale prioritario punto di riferimento per tutti gli ambienti e organismi che abbiano a cuore, da un lato, le sorti dell’ Occidente nel confronto con gli stati autocratici; e, dall’altro , la volontà di fornire risposte concrete e credibili alle criticità che in tante aree del mondo portano acqua al mulino dell’estremismo e dell’instabilità.

*Gabriele Checchia, responsabile per le Relazioni internazionali della Fondazione Farefuturo

PROGRAMMA

The new frontline. Disegnare il futuro.

Art. La Verità

Art. La Stampa

Art. Graziosi

Come l’Europa può affrontare la disinformazione

La prosecuzione delle ostilità in Ucraina da parte della Russia è destinata ad esporre per lungo tempo l’Unione Europea all’incessante attività di disinformazione di Mosca. Questo genere di minacce asimmetriche sono anche le uniche praticabili, insieme agli attacchi hacker, da un paese prostrato dalla guerra ed economicamente allo stremo. Oltre a richiedere risorse inferiori rispetto ad altre attività destabilizzanti infatti, sfruttano una profonda conoscena della materia che risale ai tempi dell’Unione Sovietica e che è stata sapientemente adattata dalle agenzie russe per operare nelle piattaforme digitali.

La cifra per comprendere lo sforzo messo in atto da Mosca e il suo impatto sui paesi occidentali, è rappresentata dal rapporto costi-benefici estremamente favorevole, basato sull’uso massiccio dei grandi social network. In assenza di disposizioni specifiche per la disinformazione, il rischio è che i processi di autoregolazione si concentrino solo sul temi affini al mare magnum del politicamente corretto. Di conseguenza, una minaccia asimmetrica come quella russa verrebbe ignorata o peggio inquadrata sotto categorie diverse, lasciando gli utenti finali in balia di contenuti fuorvianti e ingannevoli.

Acconsentire a soluzioni alternative, che permettono alla disinformazione di russa di circolare in libertà, arrivando ad inquinare il nostro universo informativo, è una pura follia. Altrettanto ipocrita è invece fare affidamento sulla sola consapevolezza degli utenti, notoriamente assente, nella distinzione delle notizie false.

Il dibattito non ruota infatti sulla correttezza o meno della dottrina del “free speech”, rapportata al pluralismo delle idee tipico di una società complessa come quella contemporanea. Nel caso Russo siamo di fronte ad uno sforzo massiccio e deliberato, che accompagna quello bellico e mira a destabilizzare l’opinione pubblica occidentale, minando la fiducia nelle istituzioni democratiche, a vantaggio di una guerra di aggressione perpetratata ai danni dell’Ucraina.

Questo genere di attività spiccatamente asimmetriche non consentono una risposta adeguata da parte dei paesi interessati. La Russia infatti ha accentuato negli ultimi anni la sua postura autoritaria, esercitando un controllo diretto sull’intera sfera mediatica a cui è dedicato un intero apparato repressivo. Al contrario Mosca ha potuto usare piattaforme digitali sviluppate negli Stati Uniti per diffondere nella più totale impunità i propri contenuti, che è chiaro vadano oltre la semplice propaganda politica altrimenti permesssa.

Durante la pandemia è stata alimentata in modo surretizio e ingannevole la sfiducia di vaste fasce della popolazione verso i vaccini per il Covid19, sostenendo sia l’efficacia superiore di preparati come Sputnik, che la pericolosità degli stessi farmaci. In alcuni paesi come Bulgaria e Romania, nei quali le istituzioni faticano a riscuotere consenso, l’inquinamento mediatico è stato tale che milioni di cittadini sono stati portati a non vaccinarsi, con conseguenze sul piano sanitario catastrofiche. Se siamo dinanzi ad un nuovo paradosso della tolleranza, il concetto può essere sintetizzato così: la difesa della libertà di espressione e di opinione alla base delle democrazie occidentali, rischia di porsi come una paradossale debolezza nell’era delle piattaforme digitali.

Oggi i tradizionali pilastri su cui si reggono le nostre istituzioni, sono minacciati sia da un uso a dir poco disinvolto di tecnologie concepite in paesi autoritari, come la Cina, che dalla massiccia diffusione di fake news, destinate a condizionare i processi democratici e le stesse forze politiche. Ancor di più quelle che incautamente stringono rapporti con alleati purtroppo solo “apparenti”.

Non siamo però privi di difese: lo strumento di cui l’Unione Europea si è dotata per regolare le piattaforme come Facebook e Twitter, il Digital Services Act (DSA), è stato concepito prima dell’aggressione all’Ucraina. Il testo finale, non ancora pubblicato, è frutto di un paziente lavoro di mediazione e non deve soprendere dunque il carattere compromissorio. Le soluzioni a cui perviene tuttavia, sono in grado fin da subito di affrontare la minaccia dell’infodemia, imponendo precisi obblighi di condotta alle piattaforme digitali: in primis queste saranno tenute ad essere più trasparenti nei processi interni, con precise responsabilità nelle modalità di rimozione dei contenuti illeciti, compresa dunque la filiera della disinformazione. Gli obblighi rimarranno comunque di natura preventiva o volontaria e sono privi della “specialità” richiesta da una situazione di crisi come quella in Ucraina, ma vanno nella giusta direzione e non è escluso che la Commissione Europea riesca ad ottenere nuovi poteri.

Anche l’approccio scelto dal Regno Unito nella lotta alla disinformazione è degno di nota. Originariamente infatti Londra prevedeva che un’autorità dedicata fosse dotata di poteri sufficienti per esercitare vere e proprie ingerenze nella gestione delle piattaforme, sindacando direttamente le scelte di rimozione dei contenuti illeciti. Questa decisione, duramente osteggiata per i rischi che avrebbe comportato alla libertà di espressione, è stata abbandonata e il nuovo Online safety Bill si concentrerà, non tanto sui processi interni dei social network, ma sul potenziale danno che può provocare ciascun contenuto, indipendentemente dalla sua illiceità. Ciò si traduce in un’analisi individuale e meticolosa delle attività degli utenti, che richiderà ingenti risorse economiche per assicurare un controllo effettivo sulla disinformazione, i cui confini sono labili e difficili da distinguere con l’uso dei soli algoritmi.

Altro capitolo degno di nota è quello dell’editoria e della televisione, che diffondono anch’esse un notevole flusso di disinformazione. In questo caso però è l’Italia a fare eccezione: siamo l’unico tra gli Stati fondatori dell’Unione in cui è concepibile ospitare, nelle reti più importanti e in prima serata, opinionisti direttamente legati agli apparati di sicurezza russi, se non addirittura lo stesso Ministro degli Esteri senza contraddittorio.  L’anomalia italiana apre interrogativi inquietanti perché va oltre il mezzo punto di share conteso per la raccolta pubblicitaria dai conduttori. Individuati come anello debole dell’Europa, da diversi mesi siamo avvolti da un cordone infodemico in nome di una mai chiarita affinità con Mosca, che mette nel mirino il sostegno all’Ucraina del Governo e che dovrebbe propiziare un allontanamento dalle posizioni occidentali. Questa ambiguità di fondo è ormai assimilata anche dal pubblico, che non si sorprende neppure dei bizzarri piani di pace presentati con istinto velleitario da leader che sostengono la maggioranza.

Il doppio livello in cui opera la disinformazione Russa, sia nella società che ai vertici della politica, è un indice di grande debolezza, che si riscontra solo nei paesi in via di sviluppo con istituzioni facilmente condizionabili. Non basta dunque regolare le piattaforme o le modalità di selezione degli ospiti televisivi, se è la stessa politica a veicolare con irresponsabilità messaggi fuorvianti.

Oggi più che mai centrosinistra e centrodestra devono avviare un percorso di rinnovamento delle rispettive classi dirigenti, che elimini gli spazi di ambiguità esistenti con la Russia. Il voto del 2023 sarà uno spartiacque della futura collocazione dell’Italia in Europa e il contesto internazionale non permette indecisioni o tentennamenti. Solo chi respingerà con risolutezza le interferenze di Mosca potrà pensare di far parte a pieno titolo dell’area di governo e guidare il Paese in una nuova fase per l’Occidene, dove non troverà spazio la doppiezza figlia di una “dottrina del ricatto” a cui abbiamo tristemente scelto di sottostare in passato.

*Giovanni Maria Chessa, Comitato scientifico Farefuturo

Mercato del lavoro tra sovranismo e fluidità

La spinta pro Ucraina sembra – forse già definitivamente – avere messo in crisi quella “guerra delle parole” per cui i concetti di Nazione, di sovranismo, di identità e di interesse nazionale erano il “male”, mentre tutto ciò che era globale, indistinto, unisex, transgender, senza differenza di età e di Stato era “il bene”. La crisi in atto dimostra che sovranismo significa difesa dell’Ucraina, come stato indipendente, per quanto “orbitante”, e che la globalizzazione come agente di pacificazione attraverso il profitto dei mercati sta fallendo.

Il mercato del lavoro sembra essere il figlio minore di questo assetto, essendo per sua natura sempre più fluido e per sua gestione sempre più vetusto, a cominciare dall’Italia (tranne alcune eccezioni regionali come il Veneto e la Lombardia), tanto che sembra legittimo chiedersi se esista un mercato del lavoro da gestire o se esso segua flussi e dinamiche spontanee.

Alla fluidità del mondo corrisponde la fluidità del lavoro. Il lavoro non identifica più. Il falegname, il ciabattino, il fruttivendolo, il panettiere, l’edicolante, il barista, il rappresentante…durante gli anni della piena occupazione di fine ‘900 valevano più del tuo nome e cognome, quello eri! Uscivi da scuola con un lavoro e con quel lavoro ci andavi in pensione. Quel lavoro era il sostegno della tua vita e ti identificava: eri quello che facevi. Nella fluidità del mondo non è più così. Non conta quello che sei, ma quello che fai. Il lavoratore, il disoccupato è quello sa fare (e deve rendersene conto per meglio competere). E’ più cose assieme e nello stesso tempo, siano essere referenziate, derivate dal lavoro sommerso o da semplici interessi e passioni.

Sono le competenze e non il profilo professionale che fanno il lavoratore. E’ un processo di destrutturazione del soggetto in tante cose, tante quante sono le sue competenze formali (titoli), non formali (esperienze) ed informali (interessi) che sa mettere in pratica.

Il lavoratore non può più (e non deve) passare per la cruna dell’ago con la sua identità, ma si deve frammentare nelle cose che sa fare, per poi ricomporsi nella dimensione che fa più “matching” con ciò che è richiesto dalle aziende. Il quid non è più chi sei. Ma cosa sai fare.

I servizi pubblici hanno pertanto una sfida in più, quella di intercettare la fluidità del mondo e la frammentazione dei profili professionali, in un modo mutato, tanto che i sistemi gestionali non possono di certo più, anche solo per un aspetto terminologico, incrociare domanda ed offerta di lavoro sul “battilamiere”, sull’ “ammondatore di pesce”, sullo “stampatore alla rotativa” e non farlo invece sull’ “esperto della reti on line”, “l’esperto di e-commerce”, il “free lance”, “l’operatore del delivery”, “l’europrogettista”, il “social media manager”. Inoltre la sfida è trovare uno standard terminologico di qualificazione almeno europeo, se non mondiale, per valutare titoli di studio, formazione, esperienze di lavoro, emersione di nuove lingue regionali…

Il mercato del lavoro deve mettere al centro le competenze del lavoratore nel corso della sua vita che a loro volta mutano nello spazio e nel tempo. C’è da chiedersi se lo stesso CV, per quanto europass, sia ancora uno strumento valido, dal momento che esso risponde più al “chi sei” che al “cosa sai”. Profili social, video curriculum potrebbero essere più adatti, comprendendo soft skills altrimenti impercettibili, oltre che dimostrando la messa in pratica con una presentazione video in inglese o alla guida di un muletto.

Tutta questa spinta in avanti, modernista, va poi bilanciata per non perdere chi potrebbe restare indietro da un punto di vista del gap tecnologico, linguistico, di genere, di età, di livello di studio, di disabilità.

La fluidità del mondo incontra la fluidità del mercato del lavoro non nel loro smanioso progredire per regredire, ma per evolversi in chiave neo conservatrice e pertanto reale, con senso di responsabilità per la gente che ci sta’ dentro. La sfida è quella delle competenze che con la loro leggerezza entrano meglio dalla finestre del treno in corsa, piuttosto che aspettando il lavoro in una remota stazione di periferia con un treno in ritardo.

La crisi russo/ucraina dimostra inoltre non solo la necessità di ritarare il mondo sulle persone, sulle competenze, ma fa emergere quello che del resto era già noto: la sfida delle competenze ci deve essere anche nel contesto di un Mediterraneo di cui l’Italia si è dimenticata, lasciandolo agli appetiti della Russia e della Cina. L’economia del mare: la pesca, la nautica, il turismo nautico, la logistica, la tutela ambientale e quindi le ZES (Zone economiche speciali), le ZEE (Zone economiche speciali) come luogo dell’interesse nazionale, come meta, tra le altre, del nuovo mercato del lavoro.

Il Sovranismo inclusivo e la fluidità estensiva del mercato del lavoro possono coesistere e rafforzarsi reciprocamente.

*Nicola Boscolo Pecchie, esperto mercato del lavoro

Lockdown, la falsa efficienza dell’autoritarismo Cinese

Il recente focolaio che ha coinvolto l’area urbana di Shangai in Cina, dovuto al diffondersi della nuova variante omicron 2 del coronavirus, ha riacceso ancora una volta i riflettori sulle modalità scelte da Pechino per contrastare la pandemia.

Le tradizionali misure di contenimento basate sul trittico: lockdown, test e tracciamento vengono impiegate in modo ortodosso dalle autorità cinesi e sin dalla loro prima applicazione a Wuhan si confermano come l’unico meccanismo di contrasto alle infezioni ritenuto in concreto praticabile. La strategia “Covid zero”, la cui efficacia con le varianti meno contagiose era fuori discussione, ha iniziato a mostrare delle criticità evidenti al crescere dell’indice di trasmissibilità del virus. Le conseguenze sul piano economico inoltre, hanno interessato sul piano geografico tutto il mondo con le frequenti interruzioni della supply chain, soprattutto per il blocco delle città portuali, più colpite dai focolai rispetto all’entroterra. È la Cina tuttavia a pagare da un punto di vista economico il prezzo più alto per una strategia che in occidente appare fuori discussione. Se l’ultimo trimestre del 2021 ha visto un rallentamento della crescita di Pechino, pari solo al 4%, è nel 2022 che Xi Jinping rischia di mancare gli obiettivi di crescita prefissati, che diversi analisti stimano inferiori al 5% su base annua complici anche la crisi energetica e il calo degli investimenti esteri innescato dalla recente stretta autoritaria figlia della “Teoria del benessere comune”.

L’iniziale inasprimento delle misure restrittive deciso sin dagli esordi della pandemia nel gennaio di due anni fa, aveva trovato in Europa e negli Stati Uniti uno stuolo di sostenitori, pronti a sottolineare l’apparente efficienza del governo cinese nel contrasto al Covid. Misure draconiane imposte sfruttando un’indole altrettanto decantata della popolazione ad obbedire alle Autorità. Per tutto il 2020 e buona parte dell’anno successivo non sono mancati nemmeno coloro che ne chiedevano l’adozione speculare in Occidente per bloccare sul nascere i focolai più insidiosi, soprattutto nelle grandi conurbazioni che si confermano il serbatoio perfetto per i contagi.

Oggi, dopo aver testimoniato la straordinaria efficacia dei vaccini ad mRNA, frutto di una indiscussa superiorità tecnologica nel settore farmaceutico e biomedicale, la pandemia appare sotto controllo sul piano sanitario ed economico. Inoltre l’arrivo in quantità sempre più consistenti dei farmaci antivirali e degli anticorpi monoclonali di nuova generazione, anch’essi sviluppati tra Stati Uniti ed Europa, consentono di programmare concretamente un ritorno alla normalità, che culminerà con l’abbattimento della mortalità da Covid19 a valori simili all’influenza (0,1%).

La Cina sembra non possa contare su nessuna delle armi disponibili nell’arsenale occidentale. I vaccini a virus attenuato prodotti da Pechino con la tecnologia “tradizionale”, non solo risultavano di gran lunga meno efficaci contro il ceppo originario, ma già con la variante delta offrivano una protezione inferiore a quella di Pfizer e Moderna contro la malattia grave e il ricovero. Il divario si è ulteriormente ampliato con omicron, contro la quale ci sono dubbi che persino la terza dose dei vaccini cinesi possa riportare la protezione a livello comparabili a quelli occidentali. Non è un caso che Pechino abbia avviato da tempo la sperimentazione di vaccini a mRNA sviluppati in casa, pur non disponendo degli impianti e del know-how della nostra industria farmaceutica. Non è un caso infatti che per la produzione su larga scala delle dosi necessarie siano stati sondati stabilimenti in Europa e Asia a cui la Cina dovrà rivolgersi per disporre, con un ritardo di due anni, di un farmaco comparabile ai prodotti di Pfizer e Moderna.

Anche sul fronte degli antivirali Pechino si trova a dipendere completamente dalle forniture occidentali, a cui si aggiungono ostacoli regolatori, che hanno ostacolato l’approvazione del paxlovid, giunta condizionata e solo a febbraio e di approvvigionamento. Questi ultimi sono destinati a diventare insormontabili qualora la Cina pensasse di usare i nuovi farmaci come leva per mitigare il decorso clinico e temperare il confinamento. L’arco temporale richiesto per soddisfare tutti gli ordini sarebbe senz’altro superiore ad un anno ed è difficile pensare che senza una produzione in loco, le importazioni possano soddisfare le richieste anche nell’ipotesi assai remota in cui fossero concessi alla Cina canali preferenziali per le forniture. A differenza dei vaccini, l’industria farmaceutica di Pechino non ha ancora sviluppato alternative credibili e di efficacia sovrapponibile a quelle di Pfizer e Merck e non sembra che questo accadrà nel breve e medio periodo.

Tuttavia è la fragilità intrinseca del sistema sanitario cinese a costituire il fattore rende i lockdown l’unica soluzione praticabile per contrastare la circolazione del virus. In un recente studio del Journal of critical care medicine i letti di terapia intensiva disponibili in Cina risultavano essere 3,6 ogni mille abitanti, un decimo di quelli Americani che hanno superato ormai i 30 e meno della metà di quelli di Singapore (11,4) e Hong Kong (7,1). Se il problema riguardasse le sole strutture sanitarie si potrebbe porre rimedio costruendo nuovi ospedali sul modello di Wuhan nel 2020, purtroppo però il deficit peggiore di Pechino riguarda il personale, assolutamente insufficiente per contenere un focolaio di medie dimensioni in una grande città. Il sistema sanitario è ormai da anni alle prese con il sovrappopolamento e con una popolazione di età avanzata a cui diventa difficile assicurare cure con uno standard occidentale in tempi ordinari, impossibile durante una pandemia. Le scene caotiche del gennaio 2020, con i medici e gli infermieri inviati in massa nell’Hubei dalle altre province per lo screening di tutta la popolazione si sono ripetute questi giorni a Shanghai e la propaganda non ha perso l’occasione di enfatizzare la durissima lotta contro un virus ormai contagioso quanto la varicella. Qualora il contenimento fallisse e le autorità dovessero far fronte ai ricoveri con la creazione di nuovi posti letto, la Cina rischia di assistere inerme a casi come il focolaio di Jilin, dove gli ospedali improvvisati, costruiti come a Wuhan in pochissimi giorni, contavano su appena 5 medici e 20 infermieri ogni 100 pazienti ricoverati in gravi condizioni.

Simili previsioni sono confermate dalla mortalità per Covid che ad Hong Kong si è assestata ben sopra i 25 decessi ogni 100mila abitanti, con numeri che in alcuni giorni hanno superato i 300 morti al giorno. È naturale che le autorità cinesi abbiano valutato con grande attenzione le conseguenze di una diffusione incontrollata del virus come nella ex colonia britannica, sulla carta dotata di strutture sanitarie all’avanguardia e sicuramente più organizzate di quelle della confinante Shenzen o di Shanghai. A novembre il CDC di Pechino aveva stimato in almeno 260 milioni i casi e in 3 milioni i morti di covid, qualora la Cina avesse adottato restrizioni di intensità simile a quella di Regno unito e Stati Uniti. Oggi con Omicron è facile dedurre che il bilancio sarebbe da ritoccare al rialzo, anche in considerazione della bassissima efficacia dei vaccini a tecnologia “tradizionale” che non proteggono dalla malattia grave senza terza dose.

La Cina si trova dunque ad un bivio, la stretta autoritaria e illiberale che ha trovato in occidente le lodi sincere di una nutrita pattuglia di cultori dell’efficienza è ormai inattuabile per contenere omicron. Da metà marzo, più di 70 città che rappresentano il 40% della produzione industriale cinese hanno dovuto implementare misure restrittive per controllare i focolai di Covid, destinati ad essere sempre più aggressivi e diffusi. Se Pechino non dovesse riuscire nella missione di coniugare salute e libertà economica, accettando di convivere con il virus, l’obiettivo di crescita del 5,5% sarà un miraggio almeno per i prossimi due anni. In caso contrario, Xi Jinping dovrà prepararsi ad un numero di morti considerevole, non solo di Covid ma anche di tutte le altre patologie che gli ospedali hanno difficoltà a curare durante le campagne di screening. Il bilanciamento tra stabilità interna e benessere economico sarà ancora una volta la chiave di volta per comprendere il margine di rischio del governo cinese che, in ogni caso, non potrà rinunciare ai prodotti dell’industria farmaceutica americana ed europea per vincere la sfida finale al virus. Toccherà all’occidente decidere se e a quali condizioni fornirli a Pechino.

*Giovanni Maria Chessa, Comitato scientifico Farefuturo

La guerra in Ucraina e la reazione di UE e NATO

Farefuturo, International Republican Institute e Comitato Atlantico Italiano, hanno organizzato un importante convegno il 14 e 15 marzo u.s. su “La crisi ucraina: il ruolo
dell’Alleanza Atlantica e dell’Europa”.Nell’intervenire a nome del Comitato Globale per lo Stato di Diritto – Marco Pannella, ho svolto alcune considerazioni che ho ulteriormente sviluppato in questo breve articolo per Charta Minuta.

L’imminente tragedia che un potere criminale di matrice nazi-comunista ha scatenato sull’Europa, colpendo l’eroica nazione Ucraina, il suo popolo, la sua identità pluralista e democratica, libera e solidale, deve essere riconosciuta, sentita da ogni europeo: non con giravolte facili e assicurazioni stucchevoli, ma deve essere dimostrata – tale consapevolezza – nei fatti, nei comportamenti, nel riconoscimento delle responsabilità. Anche per discutere di ricostruzione della pace e della sicurezza nel Mediterraneo, specialmente nel Mediterraneo Orientale, dobbiamo riconoscere – prima di avanzare proposte o sottoscrivere impegni – le responsabilità che hanno contribuito a scatenare la bestialità sanguinaria dei carnefici, e a impedire alle vittime di proteggersi e di essere protette.

Dobbiamo riconoscere le responsabilità; e queste sono di tutto l’Occidente: per non aver fermato Putin, con la politica di una vera deterrenza militare, economica, di influenza sino dal primo manifestarsi delle sue ossessioni sanguinarie nella Seconda guerra in Cecenia; e di non averlo mai voluto fare in seguito, nelle tappe di un crescendo sistematico da parte della Russia di Putin di “terra bruciata” in Georgia nel 2008, in Siria nel 2013, in Ucraina (Donbass e Crimea) nel 2014, ed ora nella completa distruzione di un immenso paese, ricchissimo di civiltà di umanità e di risorse.

Siamo, noi europei ed americani, responsabili come e forse più che nel ’38 a Monaco – e dico “che a Monaco” perché ora incombe persino la minaccia di un Olocausto nucleare che Putin brandisce – di una radicata propensione all’”appeasement” a tutti i costi, motivato dagli affari,dalla convenienza, dalla corruzione o semplicemente dalla colpevole ignoranza su quanto avvenuto sugli ultimi vent’anni tra Nato, UE, Russia e Cina.

Ma non basta certo nascondersi dietro a un gesto facile di generico senso di autocommiserazione tipica dell’”intellettualismo” anti-Atlantico purtroppo diffuso in Occidente, per non aver fatto capire come non sia assolutamente vero e si debba cessare di insistere che tutti i mali del mondo, le rivoluzioni totalitarie, gli spaventosi conflitti degli
ultimi due Secoli sono monopolio esclusivo delle Democrazie liberali dell’Occidente, ma piuttosto il netto contrario.

Discutere di pace e stabilità nel Mediterraneo significa ragionare su strategie politiche, economiche e militari, per ottenere equilibri durevoli ricostruendo capacità di una deterrenza credibile dell’Occidente – nel rispetto di norme e principi condivisi – nei confronti della Russia e della Cina, e di altre potenze regionali che sono peraltro sostenute da una visione fondamentalista e messianica nel loro ruolo, come l’Iran.
Occorre liberarsi da pregiudizi, basarsi sulla conoscenza di dati e di uomini, in modo da individuare e condividere i sacrifici da fare e le opportunità per far valere i nostri interessi nazionali. La catastrofe umanitaria, e persino identitaria – e quindi una strategia di genocidio – che il nazi-comunismo di cui è intrisa l’esperienza umana, professionale e ideologica di Putin ha imposto all’Ucraina, esige anzitutto di riconoscere che il prioritario interesse nazionale dell’Italia è di garantire la libertà e la sicurezza in Europa, nella Comunità Atlantica, nell’Indo-Pacifico. A tal fine l’obiettivo politico da perseguire riguarda l’impegno che va oltre la stessa deterrenza militare e si deve trasformare in “deterrenza politica”: attraverso il più fermo contrasto e la coesa risposta all’immenso apparato di disinformazione, di censura esportata, di pesantissima influenza che Putin ha infiltrato ovunque in Occidente, e che continua a infiltrare per incrinare la nostra volontà di risposta. Si tratta di far reagire non pochi settori dell’opinione pubblica, dell’informazione e della politica, che la Russia ha da molto tempo “coltivato” per trovare alleati all’interno delle società liberali. E lo ha fatto per
proseguire impunemente e continuare a trovare risorse – essendo la Russia un gigante militare ma un nano economico sulla soglia del fallimento – per raggiungere i suoi obiettivi criminali,e ora persino genocidari di eliminazione del popolo e dell’identità ucraina.

Nel 2013 l’attuale Capo di Stato Maggiore della Federazione Russa, lanciava la cosiddetta “dottrina Gerasimov” che sosteneva la priorità da riservare ai conflitti con l’Occidente ancor più che allo strumento militare, alla disinformazione, alla propaganda, alla infiltrazione degli strati influenti delle società liberali, per destabilizzarle dall’interno e poterle quindi agevolmente sottomettere. L’anno dopo, nel 2014, la disinformazione di Mosca in Occidentee in Ucraina, su Crimea e Donbass è stata centrale nell’offensiva russa che ha portato all’annessione della prima e a un conflitto con almeno diecimila vittime e già durato otto anni
in Donbass. Non ci vorrebbe certo altro per dimostrare che il primo strumento di difesa di cui disponiamo deve essere inflessibile e dura denuncia di tutti coloro che Putin l’hanno da sempre sostenuto e di quanti ora sostengono di fatto, esplicitamente o implicitamente, il “Patto d’Acciaio del XXI Secolo” tra Mosca e Pechino. La denuncia non può ignorare tutti quelli che avendo giustificato e propagandato velenosamente le sue buone ragioni di Putin persino dopo che i 180.000 militari russi erano già al confine ucraino per invadere il Paese, appaiono disposti, o interessati, a continuare a farlo, continuando ad applicare la “dottrina Gerasimov” per minare
le società liberali dall’interno. Persone, enti di ricerca, media, ambienti di “intellettuali” che magari ora restano zitti o fingono di essersi improvvisamente svegliati dinanzi al genocidio ucraino, ma che sono sempre pronti e disponibili – come numerosi tedeschi nella Germania Orientale che collaboravano con la Stasi – a ridare fiato ai loro megafoni appena i primi segni di stanchezza o di insofferenza verso il perdurare del conflitto, dovesse acuirsi in seno alla Nato e all’UE.

A tale mondo appartengono purtroppo enti di ricerca che, come durante la Guerra Fredda sceglievano il campo sovietico sotto la bandiera del “pacifismo” e del “neutralismo”, hanno continuato a tirare la volata alla propaganda del Cremlino quando già da almeno quattro mesi era dimostrato un gigantesco schieramento di forze russe sui confini ucraini. E’ il caso emerso, ad esempio, con la pubblicazione il 27 gennaio scorso su Charta Minuta dell’appello indirizzato ai Presidenti delle Istituzioni europee, dal think tank francese Geopragma con le tesi ben note della propaganda di Putin, circa le condizioni di una “pacificazione duratura”
nei rapporti tra USA, Nato e Russia. In particolare, si insisteva per il pieno riconoscimento del referendum in Crimea (anche se condannato dall’Onu) e quindi della appartenenza della Crimea allo Stato russo; il “reciproco abbandono di tutte le sanzioni politiche ed economiche” – incluse quelle per l’illegale annessione russa della Crimea, e per il conflitto in Donbass alimentato da Mosca – spingendosi a commentare, come tipico della propaganda russa “L’Occidente si riduce agli Stati Uniti, a un’Europa mentalmente e strategicamente vassalla, a una visione del mondo che da più di 30 anni stenta a metabolizzare le fine della Guerra Fredda”. Come ha scritto il 12 marzo scorso Atlantico ha sottolineato come il pensiero «…“meglio russi che morti” sia il succo del discorso di gran parte dei commentatori in queste settimane
di guerra Ucraina. Man mano che la guerra si prolunga, l’appello per la resa incondizionata degli ucraini si fa più forte e sentito, condito con discorsi terroristici su possibili escalation e guerre nucleari. Per alcuni il problema di questo conflitto è solo uno e si chiama: Zelensky, il Presidente ucraino il cui Paese è stato aggredito. La sua colpa? Resistere ai russi. Più resiste, dicono costoro, più sarà il responsabile delle vittime militari e civili del conflitto. Un pacifismo peloso, mascherato da umanitarismo, ma con la stessa logica dei Borg, razza aliena inventata dagli sceneggiatori di Star Trek: “Assimilatevi, la resistenza è inutile”. Questo pacifismo lo avevamo già visto in azione durante la Guerra Fredda, quando la sinistra di piazza e di opposizione chiedeva il disarmo unilaterale della Nato. Se i sovietici avessero invaso la Germania Ovest, avremmo dovuto accoglierli con i sorrisi e i fiori, se avessimo invece opposto resistenza sovietici avrebbe potuto innervosirsi. E sai, se una potenza nucleare si innervosisce…. La logica è esattamente la stessa: se i russi invadono l’Ucraina, i difensori devono accoglierli con tutti gli onori e guai agli europei se provano a protestare. La Nato non sta intervenendo, l’UE è neutrale, ci limitiamo a mandare armi leggere ed anche la fornitura di vecchi caccia sovietici dalla Polonia viene negata. Al massimo la risposta consiste in sanzioni economiche e una protesta politica all’Onu. Ma per alcuni commentatori, questa reazione pressoché nulla è già da considerarsi un atto di belligeranza. A loro avviso,
dovremmo solo voltarci dall’altra parte. E sorridere. Perché se non sorridiamo, i russi si innervosiscono.

E sai, se i russi si innervosiscono… hai capito, no?”…»

L’aggressione criminale della Russia a un grande popolo libero, che aveva riacquistato la libertà, nel cuore dell’Europa, è un drammatico spartiacque, come era stata la fine della Seconda Guerra Mondiale e la calata della “cortina di ferro”. Ora la cortina non è solo tra libertà e oppressione: è anche tra Diritto, legalità, rispetto dei Diritti umani e Stato di Diritto da un lato; e aggressione, genocidario uso della forza, radicalizzazione ideologica e disprezzo per ogni Trattato o Accordo sottoscritto.

Con l’Ucraina è calata una “cortina di aggressione”, contro l’Europa, nel Mediterraneo in Medio Oriente, sino all’Asia e al Pacifico. La Russia di Putin ne è la protagonista da
quattordici anni. La Cina di Xi Jinping, sua alleata, da dieci anni. Ma ora l’Occidente c’è; è coeso; sta rispondendo. La coesione e risposta devono rafforzarsi.
Spetta a noi. Nato, UE, Indo-Pacifico, Mediterraneo sono le aree geopolitiche dove l’Occidente e i paesi like mindend devono rafforzare la loro strategia, difendere puntualmente i loro interessi nazionali e collettivi, e soprattutto – rendere inoppugnabilmente credibile, e temibile la loro deterrenza: per capacità di “resilience” e di “risposta” economica, tecnologica, militare. In una parola deve accrescersi e mantenersi a livelli sempre più elevati la deterrenza complessiva dei loro sistemi nazionali e delle loro organizzazioni e Alleanze. Per l’Italia, questo significa alimentare la piena consapevolezza dell’opinione pubblica interna e della classe politica, su provenienza, natura, intensità della minaccia: dalla Russia, dalla Cina, e dai loro alleati altrettanto messianici e fondamentalisti come l’Iran.
Il Mediterraneo è il playfield fondamentale per la sicurezza italiana e un playfield essenziale per quella Atlantica. La deterrenza nel Mediterraneo ha acquisito un valore esponenzialmente accresciuto dopo la tragedia Ucraina: la Russia a Tartus e le sue altre basi in Siria; la Cina da Gibuti al Pireo, a Trieste; la Turchia e la Russia in Libia sino al Sahel; l’Alleanza di Russia e Cina con l’Iran anti-israeliano e antisemita; la Turchia a Cipro, in fase di nuova aggressione. Sono tutti termini scomponibili e ricomponibili in pericolose equazioni. Sovrasta su tutto la distruzione del popolo, dello Stato, della identità ucraina da parte di un Presidente criminale, Putin. Sovrastano le minacce sulla nostra sicurezza che sono poste dalle Vie della Seta: veri cavalli di Troia acclamati in Italia perfino da ex Presidenti del Consiglio e Ministri di Governo; ed ora diventate vere e proprie autostrade per il dominio strategico da parte dell’Asse neo-imperialista tra Cina e Russia.

Non vi è infatti una sola “Via della Seta”, terrestre, marittima, scientifica, tecnologica e Cyber che non rappresenti nella sua reale declinazione una “Via della Sottomissione” per i Paesi o i mari da essa attraversati.

Il “Patto di Acciaio del XXI Secolo” tra Putin e Xi, santificato il 4 febbraio scorso, sugella la minaccia militare, oltre che di influenza politica ed economica, delle già osannate “Vie della Seta” che il Governo italiano dell’epoca ha, per primo in Europa, sottoscritto entusiasticamente in occasione della visita di Stato di Xi Jinping a Roma.

*Giulio Terzi di Sant’Agata, ambasciatore,  presidente Global Committee for the Rule of Law-Marco Pannella presidente Global Committee for the Rule of Law-Marco Pannella

 

L’autonomia strategica europea riparte dai semiconduttori

Nel mondo globalizzato ed interconnesso, della transizione digitale ed ecologica, i semiconduttori rappresentano la spina dorsale del nuovo paradigma produttivo: dall’automotive ai dispositivi informatici come smartphone e computer, alle console dei videogiochi, i semiconduttori sono ormai una tecnologia critica, e garantirne l’approvvigionamento è un tema di interesse nazionale per tutte le principali economie sviluppate.

La recente crisi delle materie prime ha dato luogo al cosiddetto chip crunch, che ha portato poi alla recente saturazione del mercato dei semiconduttori con evidenti ripercussioni sui mercati globali: nella vita quotidiana l’enorme difficoltà nell’acquistare una PlayStation 5 è la cartina al tornasole dell’intensità di questo fenomeno.

La crisi pandemica ha fermato i mercati globali, portando alla chiusura degli stabilimenti produttivi di microchip, in uno scenario dove lockdown e misure pandemiche hanno comportato ad una improvvisa domanda di dispositivi elettronici per via del boom dello smart working, il tutto nel mezzo di una guerra commerciale tra blocco cinese e blocco statunitense, che ha portato inevitabili tensioni ripercossesi proprio nei mercati e sugli utenti finali.

Si parla di crisi di saturazione, con picchi improvvisi di domanda a cui l’offerta non riesce a fare fronte nel breve periodo, portando a veri e propri colli di bottiglia che paralizzano, o comunque mettono in seria difficoltà, numerosi comparti. Basti pensare in questo caso a come nello scenario di riduzione della produzione di semiconduttori, accompagnata da una crescita nella domanda di dispositivi elettronici, sia esplosa, in un secondo momento, la domanda di automobili di ultima generazione, fortemente basate su sistemi di comunicazione elettronica, anche per via delle misure di rilancio economico disposte dai governi nazionali di tutto il mondo.

La crisi delle catene di fornitura dei semiconduttori trova origine già nel 2018 con le crescenti tensioni tra gli Stati Uniti e la Cina, anche a seguito dell’enorme concentrazione di terre rare e materiali essenziali per la produzione dei microchip proprio in capo alla Repubblica Popolare cinese ed in generale in Asia: i principali produttori di microchip sono infatti la cinese SMIC (Semiconductor Manufacturing International Corporation), la taiwanese TSMC (Taiwan Semiconductor Manufacturing Co) e la sudcoreana Samsung.

Solo Intel negli Stati Uniti è riuscita ad affermarsi come importante realtà del settore, in particolar modo per la progettazione e fabbricazione dei chip, ma nulla a che vedere rispetto alle controparti asiatiche e soprattutto Taiwan, da cui proviene il 50% dei microchip mondiali e oltre il 90% dei semiconduttori più sviluppati ed avanzati: l’Europa, in questa partita, non è pervenuta.

Lo sviluppo dell’IPCEI sui semiconduttori ha anticipato l’European Chips Act (ECA) come primo grande intervento di natura strategica per lo sviluppo di un’industria e di un settore dei semiconduttori di livello europeo.

Gli IPCEI sono i cosiddetti “Importanti Progetti di Comune Interesse Europeo”, progetti di investimento che permettono la partecipazione di consorzi composti da varie aziende di settore con più Paesi membri, che permettono in via del tutto straordinaria l’erogazione di aiuti di Stato con enormi deroghe rispetto alle disposizioni attuative dell’articolo 107 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea.

Sul solco di questa iniziativa si pone l’European Chips Act, con l’intenzione di ripristinare la sovranità tecnologica europea, portare la produzione europea di semiconduttori dal 9% al 20% entro il 2030 con l’intento di mobilitare oltre 40 miliardi di euro (tramite il cd. Chips Fund), quasi quanto i 52 miliardi stanziati dagli USA di Biden per il Chips for America Act: nel dettaglio si tratta di 15 miliardi di euro di investimenti pubblici e privati aggiuntivi entro il 2030 rispetto ai 30 miliardi già stanziati nel quadro di Next Generation EU, HorizonEU e dai bilanci nazionali.

Il settore dei semiconduttori è sia ad alta intensità di conoscenza che di capitale, ed in quest’ottica le rigide regolamentazioni ai sussidi nel mercato interno sono uno dei principali fattori di arresto per lo sviluppo di un’industria dei chip europea.

Su questa falsariga l’ECA mostra i muscoli, lanciando un piano di investimento basato su partenariato pubblico-privato a valere su risorse comunitarie fino al 2027 (ultimo anno relativo alla programmazione del bilancio UE 2021-2027): la manovra muscolare dell’Unione consiste proprio nell’intento di non limitarsi a emanare documenti programmatici e strategie politiche di ampio respiro, ma un vero e proprio pacchetto normativo con tutte le carte in regola per istituire il programma di incentivi economici più ambizioso mai emanato dalla Commissione europea (dopo la Politica Agricola Comune, chiaramente).

I punti toccati dall’ECA sono molteplici: R&D, produzione, sostenibilità, catene di fornitura e gestione delle crisi. L’ambizione UE si intravede non tanto nel voler sviluppare un’industria europea dei semiconduttori, intersecata con lo sviluppo di IA e supercomputer, ma nello strumento normativo che permetterebbe alla Commissione di chiedere, in situazioni emergenziali, ai produttori di semiconduttori UE di concentrare la propria produzione su prodotti ad alto tasso di criticità.

L’ECA è indubbiamente una delle politiche industriali europee più ambiziose, ma è anche vero che la Commissione europea sinora non è mai stata in grado di disporre di una vera e propria politica industriale, vivendo un confronto costante tra la visione del mondo di Parigi e quella di Berlino, col risultato che sinora le politiche interventiste di stampo UE non sono mai state in grado di portare agli stessi risultati a cui abbiamo assistito in Cina o negli Stati Uniti: già nel 2013 la Commissione propose una strategia di investimento nei semiconduttori con l’idea di mobilitare 100 miliardi di euro di investimenti privati, misura che poi ha faticato a tradursi in risultati concreti.

Il recente successo dell’IPCEI sullo sviluppo di un’industria europea sulle batterie e l’indirizzo del Commissario al mercato interno Thierry Breton, francese non solo nella nazionalità, ma anche nella politique, stanno tuttavia lasciando intendere che un cambio di passo è possibile.

All’interno di questa intersezione dal lato della policy ci sono anche altre criticità tra cui l’assenza di grandi stabilimenti industriali di produzione di semiconduttori in Europa, ipotesi che le grandi aziende asiatiche non stanno al momento esplorando, nonché la difficoltà dal lato europeo di coordinare gli sforzi di spesa e di coordinamento politico, dovuto anche alla peculiare struttura dell’Unione: dal lato del budget i 40-45 miliardi previsti per il 2030 sono il frutto dell’unione di programmi di spesa pre-esistenti a budget nazionali ed a ulteriori stanziamenti ad hoc, allorché la Corea del Sud ha mobilitato oltre 400 miliardi di dollari fino al 2030, con Cina e Stati Uniti in grado di stanziare ex novo rispettivamente 150 e 52 miliardi di dollari.

A fronte di uno scenario del tutto inesplorato e pieno di incertezze, emergono tuttavia numerose opportunità, soprattutto per un Paese come l’Italia che è passato dal non toccare palla ad essere un attore determinante per la partita dei microchip, nonostante i due player principali restino Germania e, con molto distacco, Francia.

C’è poi il tema sulla capacità effettiva di approvvigionamento dei materiali necessari per la produzione dei semiconduttori: l’estrazione di terre rare (o rare earth elements, REE) richiede l’utilizzo di pratiche e materiali particolarmente dannosi per l’ambiente e, sebbene siano materiali non rari di per sé, è complesso riuscire a trovare luoghi di estrazione con una concentrazione di REE tale da rendere l’attività estrattiva sostenibile: su questo sarà inevitabile affrontare il tema della possibile estrazione di terre rare da giacimenti italiani ed europei in chiave di diversificazione delle fonti di approvvigionamento rispetto al monopolio cinese.

Se da un lato infatti la capacità di investimento della Germania nell’IPCEI sui semiconduttori (anche per via dei diversi valori di finanza pubblica) sovrasta di gran lunga le possibilità di Francia e Italia, il forte attivismo mostrato dal Governo nello stimolare una partnership tra Berlino, Parigi e Roma da un lato e con le grandi colossi esteri (la americana Intel prima tra tutti) dall’altro, lasciano ben sperare in un cambio di passo.

Per produrre microchip occorrono enormi quantità di acqua e ampi spazi per costruire gli impianti di lavorazione e su questo la geografia può rendere attrattiva ed appetibile per i grandi gruppi esteri l’ipotesi di sbarcare in Europa ed in Italia.

Sul lato interno, invece un ruolo chiave potrà essere ricoperto dalla STMicroelectronics, colosso italo-francese dei semiconduttori che sta effettuando importanti investimenti proprio in Italia, per una fabbrica di chip in silicio in Sicilia, e che può trovare spazio nel nuovo perimetro disegnato da Bruxelles. Proprio STM è protagonista, lato italiano, di buona parte dei progetti inquadrati nell’IPCEI sui semiconduttori, e può, anche grazie al PNRR trovare una dimensione europea riportando la penisola al cuore dell’interesse strategico del continente.

*Alessandro Guidi Batori, analista di politiche pubbliche

Geopolitica, Farefuturo e Republican Institute: il perchè di una scelta

Si terrà il prossimo 10 settembre,  nella Sala Capitolare del Senato, il seminario su  temi geo-politici di attualità promosso da Farefuturo in partenariato con l’” International Republican Institute “ ( Fondazione statunitense impegnata per la promozione della democrazia e  dei valori di libertà, nata nel 1983  sulla scia del discorso l’anno prima del Presidente Reagan a Westminster e presieduta dal 1983  al 2018 dal Senatore McCain) e con il Comitato Atlantico Italiano .  Il filo conduttore delle discussioni è ben sintetizzato nel titolo stesso della imminente giornata di lavori : “ L’ Europa e la relazione transatlantica dopo l’Afghanistan. Che cosa è cambiato e cosa no” . Venti anni dopo l’11  settembre

Si tratterà per la nostra Fondazione di un momento di incontro  per molti versi innovativo dettato in primo luogo  dalla volontà di contribuire – anche attraverso iniziative specifiche  – alla riflessione in atto  in ambito occidentale, e per ciò stesso nel nostro Paese,  sulle dinamiche che  caratterizzano l’attuale complessa fase della vita internazionale nonché  alla individuazione  di possibili vie di uscita, nei tempi che si riveleranno necessari, ad almeno talune delle crisi in atto.

L’evento di natura formativa – uno dei principali tra quelli portati avanti in Europa dall’”International Republican Institute- IRI”- è parte di un più ampio programma avviato da tempo dal prestigioso Istituto statunitense a beneficio di giovani parlamentari provenienti da una pluralità di Paesi europei appartenenti ai gruppi popolari, conservatori e liberali , che ricoprono per la prima volta incarichi a livello nazionale e sono destinati, secondo le valutazioni dell’IRI, a futuri ruoli apicali.

Esso  vuole pertanto  rappresentare al tempo stesso, da un lato,  un omaggio  di Farefuturo e delle Fondazioni Comitati/ “partner” nel progetto, al ruolo primario dei Parlamenti nella messa a fuoco ed elaborazione delle grandi scelte di politica estera; dall’altro,  un segnale di interesse e apprezzamento nei confronti delle potenzialità di cui sono portatrici, nei più diversi Paesi d’Europa, le giovani leve della politica con particolare riguardo a quelle che si riconoscono  nei valori del popolarismo, conservatorismo e liberalismo europeo.

Il programma –  articolato in una fase iniziale e conclusiva aperta alla stampa e in due sessioni “a porte chiuse”- consentirà ai partecipanti  di confrontarsi con i relatori su tematiche di particolare attualità : dalle relazioni Europa- USA- Cina nella fase post-Afghanistan e post-pandemia alla situazione e prospettive nell’Europa meridionale . A cominciare dal per noi cruciale scacchiere mediterraneo alla luce, tra l’altro, dei recenti drammatici sviluppi  in Afghanistan. Si tratterà, in altre parole, di una riflessione ad ampio raggio sui nuovi assetti internazionali , il futuro dell’Alleanza Atlantica e il ruolo dell’Unione Europea e dell’Italia nelle aree di prioritario interesse nazionale.

I lavori saranno aperti dal Sen. Adolfo Urso, presidente di Farefuturo, e dal “Senior Director for Transatlantic Relations” dell’IRI, Jan Surotchak. Seguirà, sempre nella parte aperta al pubblico, l’intervento del Ministro della Difesa, On. Lorenzo Guerini. Nelle sessioni di lavoro sono previste relazioni di figure di spicco: Guido Crosetto, presidente AIAD, l’On. Carlo Fidanza , presidente della delegazione italiana FdI- ECR, il Generale Carlo Jean , presidente del Centro Studi di geopolitica economica , Fabrizio Luciolli , presidente del Comitato Atlantico italiano, il Sen. Lucio Malan, presidente dell’ Associazione parlamentare di amicizia Italia- Israele , il prof. Andrea Margelletti , presidente del CeSI, il prof. Carlo Pelanda , politologo ed esperto di studi strategici. Le conclusioni sono previste alle 16 con l’intervento del Sen. Urso.

Non è certo questa la sede per elaborare sui singoli punti che saranno oggetto del seminario. Mi sembra però doveroso rilevare come esso si collochi in una fase caratterizzata sul piano internazionale da eventi e dinamiche che , se non comprese e correttamente gestite, peseranno a lungo e in maniera non positiva sui destini dell’Occidente: dalle conseguenze di breve e medio periodo del ritiro delle forze statunitensi e NATO dal teatro afghano all’impatto che il ritorno al potere dei talebani potrà esercitare  sugli equilibri regionali con potenze emergenti o già come tali riconosciute  ( Cina, Pakistan , India, Turchia, Iran per non citarne che alcune…) che  stanno muovendosi per ulteriormente allargare i propri spazi di manovra,  all’accelerazione che sta conoscendo sul versante europeo la riflessione sulla “autonomia strategica “ – anche alla luce delle recenti impegnative dichiarazioni  in materia dell’Alto Rappresentante e vice- Presidente della Commissione Europea Josep Borrell – e sul futuro delle relazioni transatlantiche, alle modalità più efficaci per assicurare la migliore interazione possibile tra un’eventuale futura difesa europea e quella già assicurata dal quadro “atlantico”  all’impatto ,infine, che la tragedia in atto in Afghanistan produrrà , e sta già producendo, sul volume e natura dei flussi migratori verso l’Europa a cominciare da quella meridionale di nostro più diretto interesse.

In questo  esercizio di riflessione /anticipazione Farefuturo intende svolgere – nel caso specifico di concerto con due istituti  particolarmente qualificati sui temi in parola e in uno spirito di dialogo aperto e costante  coi nostri fondamentali alleati d’oltre-oceano: Canada e Stati Uniti  – un ruolo di primo piano pro-attivo,  e altre iniziative di analoga natura sono allo studio per i mesi a venire.

Ruolo proattivo  e all’altezza delle sfide cui l’Italia  – Paese fondatore dell’Unione Europea e rispettato membro dell’Alleanza Atlantica- e il continente europeo nell’accezione più ampia del termine ( comprensivo dunque sia del Regno Unito che  dei nostri partner di area mediterranea e balcanica) si trovano confrontati.

Tutto questo, mi sia consentito aggiungere, nella consapevolezza  delle responsabilità aggiuntive che derivano al nostro Paese dall’ esercitare attualmente la presidenza di un fòro , quale il G20, le cui potenzialità anche sul terreno del contributo all’avvio a soluzione delle grandi crisi internazionali ( e lo ha ben compreso il Presidente Draghi ) restano ancora in larga misura inesplorate e da  valorizzare .

Si tratterà certo, né potrebbe essere diversamente , di un apporto squisitamente intellettuale  che non potrà , per evidenti motivi, affrontare che alcuni dei temi sopra evocati . Ma la platea dei partecipanti ( giovani parlamentari , come sopra anticipato, dei più diversi Paesi  europei, molti dei quali di area centro-orientale e balcanica) è tale da legittimare la speranza che gli spunti di riflessione che dall’incontro del 10 settembre scaturiranno, qualunque essi siano,  possano trovare ascolto e suscitare interesse anche oltre i nostri confini e in ambienti altamente  qualificati .

Ma il seminario del 10 settembre rivestirà, per la nostra Fondazione , anche una forte valenza simbolica: quella cioè di una ribadita vicinanza alle Istituzioni e al popolo americano nel segno di condivisi valori . Ne sarà testimonianza la deposizione, il giorno prima, di una corona all’altare della Patria da parte del Presidente Urso ,affiancato dai citati rappresentanti dell’IRI e del Comitato Atlantico,   in memoria delle vittime dell’”11 settembre” e dei militari e civili  caduti in Afghanistan nell’adempimento del loro dovere al servizio delle missioni USA e NATO in quel Paese.

I partecipanti al seminario saranno quindi ricevuti nei suoi uffici al Senato, sempre il 9 settembre, dalla Presidente Casellati nel quadro di una visita di cortesia istituzionale.

 

* Gabriele Checchia, responsabile per le relazioni internazionali di Farefuturo

 

 

 

 

 

Reagan e il “Nuovo Mao”: libertà e comunismo a confronto

L’anno 2018, un anno di vigilia di quell’annus horribilis 2019 nel  quale la catastrofe della pandemia prima negata e poi censurata dalla Cina  Comunista ha devastato le economie e a salute globale, in quel 2018 il  trionfo del nuovo Mao veniva acclamato  quasi universalmente. Come era d’altra parte avvenuto nei media Americani ed europei di molti paesi nella Seconda metà degli anni Trenta per Adolf Hitler.

Nel 2018, la Rivista “Forbes”, nella annuale classifica dei 75 uomini più potenti del mondo, lo collocava al primo posto, davanti a Putin e a  Trump.

Il Corriere della Sera lo dichiarava, con decisione apparentemente unanime del suo comitato di Redazione, come uomo dell’anno, suscitando  una reazione indignata di numerosi firmatari della lettera al Direttore  Fontana che peraltro ribadiva la correttezza di tale decisione, ignaro di  quello che già accadeva in Xinjiang e in Tibet, nel Mar della Cina  Meridionale, e che si preannunciava a Hong Kong, nello stretto di Taiwan,  in Birmania e nelle operazioni di colonizzazione tentacolare, finanziaria,  economica e logistica, delle “Vie della Seta”.

Un lume di saggezza sembrava invece già nel marzo 2018, provenire dall’Economist che scriveva: “La Cina è passata dall’autocrazia alla dittatura”.

Questo è avvenuto quando Xi Jinping, l’uomo più potente del mondo, ha fatto sapere che avrebbe cambiato la costituzione della Cina così da poter governare a vita. Dopo Mao nessun leader cinese ha mai avuto così tanto potere.

Dopo il collasso dell’URSS, l’Occidente ha accolto il nuovo grande continente comunista nel suo ordine globale. I leader occidentali credevano che inserire la Cina in istituzioni quali il WTO avrebbe mantenuto le sue grandi potenzialità all’interno di un sistema di regole costruito dopo la Seconda Guerra Mondiale. Speravano che l’integrazione economica avrebbe incoraggiato la Cina a evolvere verso l’economia di mercato e, il suo popolo avrebbe ottenuto maggiori libertà democratiche e diritti.

Per diversi decenni, sembrava che questo potesse accadere.

La Cina è diventata più ricca. Sotto la guida di Hu Jintao la scommessa dell’Occidente sembrava ripagata. E quando Xi Jinping prese il potere cinque anni fa si credeva ancora che la Cina si sarebbe mossa verso lo Stato di Diritto e l’adozione di una Costituzione che vi si ispirasse. Oggi questa illusione è scomparsa. Xi Jinping ha indirizzato la politica e l’economia verso un crescente autoritarismo, controllo e repressione delle libertà individualiIl Presidente ha usato il suo potere per riaffermare il dominio del partito comunista. Ha annientato i rivali. Ha creato nuove Forze Armate e riportato l’intero sistema di sicurezza, intelligence e Difesa sotto il suo diretto controllo.

La nuova leadership si è mostrata durissima nel reprimere ogni forma di dissidenza, creando una sorveglianza di Stato. La Legge sulla Sicurezza Nazionale ha fatto strage a Hong Kong di qualsiasi libertà che Pechino si  era impegnata a rispettare con l’Accordo Sino-Britannico ratificato anche  dalle Nazioni Unite.

Pechino pretende di applicare la Legge sulla Sicurezza Nazionale ovunque nel mondo, nei confronti di cittadini cinesi che non dimostrino “amore” per il Partito Comunista Cinese, e minaccia chiunque altro manifesti sostegno alla causa della Democrazia e della Libertà in Cina.

La Cina è diventata un nemico dichiarato della democrazia liberale.  Nell’autunno 2018 il Presidente Xi Jinping ha offerto una sua teorizzazione proponendo che i Paesi partners della Cina comprendano la saggezza cinese e l’approccio cinese alla soluzione dei problemi. Ancor prima, nel 2012, Xi Jinping precisava che la Cina non esporterà il suo modello. Ma da un paio di anni afferma il contrario. L’Occidente e l’America hanno nella Cina – sempre più – non solo un rivale economico, ma anche un antagonista ideologico e strategico.

La scommessa per l’integrazione dei mercati ha avuto successo per Pechino, assai meno per gli altri. La Cina è stata integrata nell’economia globale. È il primo esportatore al mondo, con più del 13% del totale. Ha creato una prosperità straordinaria per sé stessa. Tuttavia, la Cina non ha un’economia di mercato, e ne resta assai distante.

Controlla il commercio come arma del potere statale. Tutte le industrie strategiche dipendono dallo Stato e così – in base alla legge – anche tutte quelle private, e non soltanto quelle ritenute strategiche. Il piano Made in China 2025 punta a creare leader mondiali in dieci industrie, tra le quali l’aviazione, la tecnologia e l’energia, che coprono quasi il 40% del tessuto manifatturiero.

La Cina viola abitualmente il sistema di regole esistente nella società internazionale, ma sembra anche progettare un sistema parallelo “revisionista”, autonomo e alternativo. L’iniziativa Belt and Road, che prometteva di investire $1tn in mercati esteri è uno schema per sviluppare il Nord della Cina e per creare una rete di spionaggio industriale, di collegamenti strettissimi tra imprese ICT e altre a elevata tecnologia: per imporre così una totale capacità di controllo del vertice del PCC in tutto ciò che avviene. Il Governo cinese alimenta analoghi legami con decine di migliaia di ricercatori e studenti all’estero.

Sono ormai migliaia i casi di spionaggio sui quali l’FBI sta indagando, attribuiti a ricercatori cinesi negli Stati Uniti.

La Cina usa il commercio per affrontare i suoi rivali. Cerca di punire le imprese direttamente, come la Mercedes-Benz tedesca, che fu obbligata a chiedere scusa dopo aver citato il Dalai Lama online. Li punisce anche per il comportamento dei loro Governi. Quando le Filippine contestarono la rivendicazione cinese della Scarborough Shoal nel mare cinese del Sud, la Cina subito fermò il commercio di banane, per “problemi di sicurezza sanitaria”.

L’Occidente ha bisogno di ridisegnare i confini della politica verso la Cina. Cina e Occidente devono imparare a vivere con le loro differenze.

Più a lungo l’Occidente sarà accomodante nei confronti degli abusi della Cina, più sarà pericoloso affrontarli in futuro. di fare luce sui collegamenti tra fondazioni indipendenti, e Stato cinese.

Una sintesi delle difficoltà e delle minacce poste dalla Cina di Xi  Jinping veniva tracciata, durante la campagna presidenziale  americana, dal Senatore Elizabeth Warren, che sottolineava in Foreign  Affairs: … in tutto il mondo la democrazia liberale è sotto assedio. I Governi autoritari acquistano potere. I movimenti politici fautori del pluralismo sono sotto scacco. Le disuguaglianze crescono trasformando il Governo del popolo in governo delle élite più ricche. Il fenomeno parte innanzitutto dall’America che è stata, negli ultimi 70 anni, il paladino delle libertà democratiche, dello stato di diritto e della democrazia liberale.

Dall’inizio degli anni 2000, con il consolidarsi della globalizzazione e l’estrema finanziarizzazione dell’economia, Washington ha virato in direzione di politiche che, invece di andare a vantaggio di tutti, sono andate ad esclusivo vantaggio di un ristretto vertice di élite. Il divario fra l’1% dei detentori della ricchezza in ognuno dei Paesi OCSE e il 99% della popolazione è fortemente cresciuto nel corso degli ultimi 20 anni ed ha avuto un ulteriore impressionante accelerazione negli ultimi 10, mentre la crisi finanziaria e la recessione economica facevano perdere milioni di posti di lavoro con una crescita intollerabile di poveri e di emarginati dalla società. E’ questo il particolare brand di capitalismo sul quale sono parse concentrarsi le ultime amministrazioni repubblicane, riducendo le regolamentazioni, abbassando le tasse soprattutto sui ricchi, favorendo le società multinazionali.

L’emergere della Cina come potenza assertiva e neo-imperiale – sottolineava ancora Elizabeth Warren – è avvenuto in un contesto nel quale la superiorità militare degli Stati Uniti è rimasta certamente indiscussa sul piano regionale e globale.

Essa è stata tuttavia erosa dai successi considerevoli di Russia e Cina nell’ammodernamento e potenziamento delle rispettive forze militari e dei formidabili progressi tecnologici di queste due potenze nella “quinta dimensione” della sicurezza: il dominio cyber.

Credo che il Direttore Sangiuliano abbia avuto una grande intuizione nel dedicare i suoi due ultimi importanti lavori a due protagonisti di mondi ideologicamente contrapposti, il mondo della dittatura comunista da un lato, e il mondo della democrazia liberale dall’altro.

Sono entrambe storie di assoluta attualità, perché esprimono ancora oggi come quarant’anni fa una profonda diversità di impostazione sui valori fondamentali della dignità della persona, della libertà individuale e collettiva, della rappresentatività del popolo, del rispetto del pluralismo, dei diritti delle minoranze e delle diversità.

Vi sono alcune singolari coincidenze cronologiche nei due libri che, nel segnare l’iniziare ascesa di Xi Jinping e la fase trionfale della Presidenza Reagan, si presterebbero certamente a un esercizio storico – letterario come quello di Plutarco nelle “Vite Parallele” (Βίοι Παράλληλοι).

Tali coincidenze riguardano gli anni del secondo mandato del  Presidente Reagan, dal vertice di Ginevra con Michail Gorbaciov e al  suo discorso del 12 giugno 1987 a Berlino (“Signor Gorbaciov abbatta questo  muro”), e le vicende che riguardano in quegli stessi anni le ritrovate fortune politiche  del padre di Xi Jinping, Xi Zhongxun e  proprio nel 1987 -quando Reagan provocava una reazione di Gorbachev a Berlino- lo scoppio del caso Hu Yaobang, Segretario del  Partito Cinese al quale Xi Zhongxun era legato quale esponente delle  posizioni più liberali in materia economica e riformiste anche sul piano  politico.

Il confronto viene perfettamente descritto nel libro “Il nuovo Mao” ; un confronto che infiammava la politica cinese degli anni ’80: una contrapposizione, cioè, tra quanto ritenevano che le  riforme economiche dovessero rimanere solo tali, e quanti le vedevano invece come il preludio alla  formazione di un ceto medio e quindi a improcrastinabili riforme politiche.

Hu Yaobang si era spinto ad affermare che il Marxismo non era immune da errori e alcuni aspetti della vita in Occidente erano da apprezzare. Erano gli anni in cui gli studenti scendevano in piazza nelle grandi città per rivendicare quelle riforme. L’epilogo sarà Piazza Tienanmen.

Xi Jinping nell’86 aveva 33 anni ed era saldamente ancorato al sostegno del generale Geng Biao amico da sempre del padre. Con le sue scelte di carriera all’interno del partito e la stretta ortodossia ideologica al marxismo maoista abbracciata da Xi Jinping per quanto riguardava il ruolo assoluto del partito unico nella politica, Xi  Jinping iniziava quel percorso che avrebbe incardinato sempre più la Cina Comunista in una traiettoria nettamente antagonista e nemica della democrazia liberale , costantemente affermata da Ronald Reagan.

*Giulio Terzi di Sant’Agata, ambasciatore, già ministro degli Affari esteri

 

 

Le origini del virus. Censura e autocensura

Su una cosa vi è consenso nella comunità scientifica internazionale: trovare le origini del virus che ha scatenato la più grande pandemia mondiale nella storia dell’umanità è di primordiale importanza. Ciò nonostante per oltre un anno, tra la censura imposta dal regime cinese sulle indagini internazionali e l’autocensura praticata dal mainstream occidentale, la pista sempre più probabile di una fuga accidentale del laboratorio di Wuhan ed eventuali esperimenti ‘gain of function’ che coinvolgono anche scienziati occidentali rimangano ancora un tabù nel dibattito pubblico allargato. Una storia ancora in pieno sviluppo che mai come prima mette in luce le sfide gigantesche nello scontro esistenziale tra democrazie e regimi autoritari.

La Fondazione Farefuturo è da sempre molto attenta a queste tematiche che non riguardano solo gli aspetti geopolitici ma anche e soprattutto valoriali.

Nei giorno della visita del presidente Xi Jinping  a Roma per la firma degli accordi sulla Belt and Road abbiamo realizzato  il meeting Il Dragone in Europa. Opportunità e rischi per l’Italia  proprio per denunciare i rischi di sottomissione dell’Italia a Pechino.  Ma  la Fondazione si è impegnata soprattutto sul fronte dei diritti umani facendo intervenire in due occasioni il leader di Hong Kong Joshua Wong, attivista e fondatore del Partito Demosito in teleconferenza nella Sala Nassirya del Senato. La prima  il 28 novembre 2019 che tanto rumore a suscitato per la reazione inconsueta e inusuale da parte dell’ambasciata cinese, e la seconda volta il 18 novembre 2020 per una lezione  sul valore della libertà tenuta appunto  da Wong al corso di formazione della Fondazione FormarsiNazione dove manifestò tra l’altro il timore i essere a breve arrestato così come di fatto è avvenuto poche ore dopo. Un impegno continuativo che ha prodotto la pubblicazione del Rapporto dal titolo La sfida cinese e la posizione della Repubblica italiana sull’attenzione all’interno dei Paesi democratici verso le iniziative di regimi autoritari volte a minare la stabilità, nonché i principi e i valori costituzionali, delle democrazie liberali e, ora rivolge la sua attenzione sull’origine del Corona virus e sull’uso politico della pandemia.

Al webmeeting di Farefuturo di venerdì 11 giugno  sono intervenuti lo scienziato Mariano Bizzarri, il sociologo Arnaldo Ferrari Nasi e l’ambasciatore Giulio Terzi di Sant’Agata, già ministro degli Esteri, i giornalisti Marco Gaiazzi (Fuori dal Coro) e Enzo Reale (Atlantico Quotidiano), ha coordinato i lavori Laura Harth.

Nel corso del meeting è stato illustrato un sondaggio a cura del sociologo Arnaldo Ferrari Nasi sulla percezione che hanno gli italiani sull’origine del virus e sull’uso politico della pandemia.

L’evento  trasmesso sui canali social della Fondazione: facebook,  Instagram e LinkedIn è visibile anche sul canale Youtube di Farefuturo

PRESERVARE I NOSTRI VALORI DALL’ONDATA GIALLA

Finalmente l’Europa si è svegliata e si tutela dagli investimenti cinesi e persino la Germania denuncia che la via della Seta è lo strumento del dominio globale di Pechino. Quando lo denunciammo noi, nel meeting internazionale della Fondazione Farefuturo, organizzato alla Camera proprio il giorno dell’arrivo trionfale a Roma del Presidente cinese, gli altri plaudivano agli accordi Italia-Cina sottoscritti dal governo Conte Lega-Cinque Stelle. Ecco il testo dell’intervento che in quella occasione fu svolto da Corrado Ocone

 Giambattista Vico ci ha insegnato che “la natura delle cose è nel loro nascimento”, cioè nella loro origine. Molti dei punti problematici evidenziati nelle relazioni precedenti, in merito ai nostri rapporti, economici e non solo, con la Cina, forse potranno ricevere qualche delucidazione ulteriore, rispetto a quanto pure si è detto, risalendo alla loro radice culturale. Per farlo mi servo delle riflessioni, affidate a più libri, da colui che, nel mondo filosofico, è probabilmente il massimo esperto della cultura cinese: François Jullien. Egli nelle sue opere ci ha ricordato come la Cina è la vera realtà esteriore all’Occidente, non potendosi dire altrettanto, ad esempio, né della cultura islamica né di quella indiana. La sua lingua, fra l’altro, non appartiene nemmeno al ceppo indo-europeo, e ciò non è da considerarsi un elemento secondario: i filosofi più degli altri sanno che il linguaggio non è un semplice strumento di comunicazione, ma è il luogo in cui, per così dire, si crea il mondo, in cui si forgiano le strutture mentali con cui noi ci mettiamo in rapporto con la realtà.

Non è un caso, ed è comunque un fatto, che la cultura cinese si sia sviluppata da sempre in modo autonomo, e con successo, e che sia risultata impermeabile all’influenza dell’uomo occidentale quando costui, all’inizio dell’età moderna, ha cominciato ad estendere la sua potenza sulle più sperdute contrade del mondo. Basti considerare il diverso modo in cui hanno reagito i cinesi e gli indigeni americani all’impatto con l’Occidente nel XV e XVI secolo. La Cina non si è cristianizzata. I viaggiatori che andavano in Cina trovavano un “mondo pieno”, mentre in America trovavano un mondo capace di essere svuotato dalla nostra cultura. Mentre noi abbiamo costruito dei miti, come quello del buon selvaggio e altri, che in qualche modo assimilavano gli indigeni americani al nostro essere stati “uomini primitivi”, in Cina tutto questo non è accaduto né poteva accadere essendosi la civiltà cinese sviluppata molti secoli prima della nostra.

La cultura cinese non può essere affrontata nell’ottica dell’esotismo perché essa è “altra” dalla nostra semplicemente perché ha sviluppato degli elementi che sono anche presenti nella nostra tradizione culturale ma che noi in qualche modo avevamo accantonato. I cinesi non hanno sviluppato la logica razionale, o meglio la loro razionalità è diversa dalla nostra: elemento che, andando sul pratico, ci farà capire il loro atteggiamento nei nostri confronti. Noi sin da Platone e Aristotele abbiamo concepito in qualche modo l’idea della razionalità intendendola come ricerca dell’Eidos , l’Idea, e del Logos, il concetto. Questo processo ha avuto un’impennata nel XV e XVI secolo, quando noi, con l’opera di Galileo, Newton e altri, abbiamo cominciato a costruire la nostra cultura attuale fondata sul razionalismo. Da allora ad oggi noi, portando all’estremo questo razionalismo, abbiamo messo in pratica gli strumenti che ci hanno portato a dominare il mondo. I cinesi hanno vissuto il nostro distanziamento nei loro confronti come qualcosa che li ha feriti nel loro più profondo. Fino a quel momento, la Cina non era affatto “inferiore a noi”, anzi in alcuni settori (ad esempio quello della navigazione), ci surclassava.

Quando i primi missionari raggiunsero Shangai, non solo dovettero adattare i loro costumi a quelli indigeni, al contrario di quello che avevano dovuto fare in America, ma trovarono una città per certi aspetti più progredita di molte città occidentali. Ma cerchiamo di capire cosa è da intendersi propriamente per razionalismo, ovvero cosa è il razionalismo moderno. Noi agiamo nella realtà creandoci dei “modelli” e cercando di “applicarli” ad essa. Ovviamente la realtà fa attrito, recalcitra, e non sempre questa “applicazione” è perfetta o conseguenziale, ma comunque noi agiamo in questo modo (è in questo contesto, detto fra parentesi, che nasce il mito dell’individuo, che nella storia cinese non esiste). Quindi noi ragioniamo secondo la logica mezzo-fine: abbiamo un fine, un obiettivo, il telos e cerchiamo di trovare i mezzi migliori, più “economici”, per raggiungerlo. È la logica della “realizzazione” la nostra. Quella cinese, presente fra l’altro in alcuni momenti della storia occidentale, è invece una logica della “propensione”. I cinesi partono dalla situazione e cercano di farla maturare a loro vantaggio, sfruttando in qualche modo le “pendenze” che quella situazione presenta. Noi diamo al termine “opportunismo” una accezione negativa che loro probabilmente non darebbero ad esso affatto. Il saggio o lo stratega militare deve prendere atto della realtà, non “modellarla” secondo i suoi fini: deve assecondare quei processi che permettono poi alla realtà di trasformarsi. Sun Tzu, un grande stratega militare del V secolo a.C. e uno dei padri della cultura cinese, scriveva che “le truppe vittoriose sono quelle che accettano il combattimento solo quando hanno già vinto. Le truppe vinte sono quelle che cercano la vittoria solo nel momento del combattimento” Quindi la cultura cinese impone, da una parte, un grande adattamento alla realtà, ma, dall’altra, una costante attenzione ad individuare i punti dove la realtà può essere piegata o indirizzata a nuovi sviluppi. Quindi il modo di agire dei cinesi, tramandatoci dalla loro cultura, è quello indiretto.

Noi agiamo per cambiare radicalmente le cose, loro vogliono trasformarle attraverso un fare amichevole. La loro logica quindi non è la logica del piano e non è una logica della “precisione”. Il filosofo francese Alexandre Koyré diceva che la modernità ha segnato il passaggio “dal mondo del pressappoco all’universo della precisione” (è il titolo di un suo noto saggio del 1957). Quella dei cinesi resterebbe, in quest’ottica, una logica del “pressappoco”. Spesso i cinesi vengono accusati di non rispettare i contratti. Il fatto è che per loro il contratto non ha la forma rigida che ha per noi: è piuttosto un processo, qualcosa che continuamente si trasforma. I cinesi hanno ovviamente i loro fini, ma essi credono molto nella negoziazione. Quindi, stante questa interpretazione, quello che è successo in questi ultimi decenni esemplificherebbe in qualche modo il loro modo di agire. Entrando nell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO), ad esempio, essi hanno accettato le nostre regole e lo hanno fatto fino a che non ci hanno chiesto di collaborare più attivamente con loro. Nel frattempo, però, i rapporti di forza fra noi e loro erano cambiati. Quelle collaborazioni sono, in qualche modo, perdenti ab origine. Questo elemento culturale va tenuto molto presente perché non credo che il nostro modello di opporci frontalmente ai cinesi possa essere vincente: sostanzialmente è troppo tardi. Però conoscendo ciò che è tramandato nei loro trattati, conoscendo anche l’orgoglio che hanno della loro cultura e della loro civiltà, tutte queste cose avremmo dovute saperle. Anche se hanno vissuto come una ferita da rimarginare la nostra potenza tecnologica, essi non si sono mai sentiti inferiori all’Occidente e né hanno mai cercato di emularlo.

La Cina, quasi senza farsene accorgere, è penetrata nel nostro mondo più di qualsiasi altra civiltà. Ma era da immaginarselo. E infatti da subito grandi pensatori occidentali come Pascal, Montaigne, Montesquieu, avevano messo a tema questa “esteriorità” cinese. Montaigne, ad esempio, scriveva: “… in Cina, Regno del quale il governo e le arti, senza rapporto con le nostre e senza conoscenza di esse, superano in eccellenza i nostri esempi sotto diversi aspetti, e la cui storia insegna quanto il mondo sia più ampio e vario di quello che gli antichi e noi possiamo concepire …”. Ora tutto questo crea dei problemi grossi per la democrazia, per le libertà individuali, perché i cinesi non hanno una idea di individuo come l’abbiamo noi. Anche il loro leader è da considerarsi più che altro un timoniere: uno che aiuta il popolo cinese a fronteggiare le onde, quindi a considerare continuamente la situazione per tenersi in piedi nel modo migliore. Non avendo il concetto di individuo, è evidente che ogni insistenza nostra sulle libertà personali e sui diritti individuali ai cinesi dice poco, perché per loro è la comunità tutta che deve in qualche modo riuscire a raggiungere dei risultati. Poi c’è il problema del cristianesimo e dei rapporti del Vaticano con la Cina. Il Cristianesimo in Cina non ha avuto successo, non ha mai attecchito nella società. Fra l’altro, il cristianesimo di Stato non è il cristianesimo basato sull’autonomia morale dell’uomo che è il nostro. Questo è un fatto fondamentale. Quindi la nostra fondamentale preoccupazione dev’essere: come preservare i nostri valori dall’ondata cinese, la quale è in qualche modo un attacco al liberalismo. Il fatto è che non possiamo contare né in una contrapposizione frontale, essendo nel mondo contemporaneo i nostri legami strettissimi, né in una non frontale, in cui sarebbero senza dubbio vincenti. Un vero dilemma.

 

*Corrado Ocone, filosofo, saggista al meeting Il dragone in Europa. Opportunità e rischi per l’Italia” Roma, 20 marzo 2019