Il quadro complessivo in cui il rapporto proposto da “Farefuturo” affonda le sue puntuali analisi, da diverse posizioni e con vari e significativi approcci, poggia su un ampio e consolidato tappeto storico e scientifico che la letteratura prevalente, in Europa come in Italia, ha a lungo dissimulato e continua a farlo fino a mistificarne i contenuti e le conseguenze. Parto da questa amara considerazione per evidenziare come il senso del mio intervento è, essenzialmente, quello di sottolineare la valenza del filone di studi in cui questo rapporto si innesta. Accanto a una presa d’atto della diffusione crescente dell’Islam in Europa e della sua deriva radicalista, che si àncora fortemente a ragioni di carattere storico, demografico e finanche statistico, esiste l’evidente considerazione che, invece, lo stesso fenomeno è totalmente sottovalutato in maniera scientifica, in quanto funzionale a più grandi e devastanti obiettivi.
Quando ad un popolo, ad una identità culturale si toglie la propria identità religiosa, esso diventa permeabile a tutto, manipolabile in ogni modo fino a perdere i suoi fondamenti storici e sociali. E’quanto, evidentemente, sta già accadendo per il Cristianesimo in Europa e marcatamente per alcune nazioni, tra cui, certamente, l’Italia. La dimensione del fenomeno che il rapporto disegna ha ben precisi connotati, individuati e codificati ancor prima che la tragedia dell’11 settembre rendesse eclatante lo scontro di civiltà in atto. Sono elementi che descrivono una profonda e continua islamizzazione dell’Europa come conseguenza di una massiccia immigrazione da Paesi in cui l’Islam è molto più di una religione, è un sistema di governo e il Corano è legge. È lo scenario preconizzato, e sempre archiviato quasi come fosse mero esercizio statistico, in cui prende vita quella entità geopolitica definita “Eurabia”, oggi diventata realtà e che attende di compiere l’ultimo passo per completarsi. È ciò che Giulio Meotti, giornalista de “Il Foglio” e autore di un rapporto sulla egemonia sociale del mondo musulmano in Francia, descrive con la felice definizione di “rimpiazzo”, la “grande sostituzione” (G. Meotti: “La fine dell’Europa. Nuove moschee e chiese abbandonate”, ed. Cantagalli, 2016). Che nulla altro è se non la inevitabile prevalenza del sistema di valori musulmani, islamisti che in pochi decenni andrà a sostituirsi alla scolorita identità che l’Europa va smarrendo.
Le ragioni di questa tendenza sono ben spiegate nel rapporto di “Farefuturo”, ben codificate e analizzate, ragioni di cui la quotidianità ci costringe a prendere atto tramite la cruda realtà della cronaca. L’aspetto demografico, innanzitutto, che evidenzia il tasso di natalità più elevato degli immigrati islamici rispetto agli europei e la loro età media nettamente più giovane. Aspetti, questi, che sono direttamente connessi alla massiccia e incontrollata immigrazione verso l’Europa. L’Italia, poi, è già da entrata nel processo di crossing-over, quello per cui il numero delle persone oltre i sessant’anni di età supera il numero di coloro che ne hanno meno di venti. Quindi una penetrazione economica dei petroldollari in Europa che non risparmia quasi nessun settore, dal lusso allo sport, ai grandi complessi alberghieri. Ancora, il proliferare di moschee e centri di culto, spesso difficili da controllare, a cui si affiancano le ragioni di un multiculturalismo sbandierato ed esibito dai salotti di certa “intellighenzia” nostrana e che finiscono per smantellare interi pezzi di un sistema di cultura e tradizioni, dalla scomparsa di crocefissi e presepi nelle scuole, all’annacquamento di ogni riferimento alla religione cristiana. Immigrazione, fertilità, conversione, penetrazione economica: sono queste le armi di diffusione del radicalismo islamico in Europa.
Questo inesorabile processo di sostituzione, alle cui ragioni ho soltanto fatto cenno ma che il rapporto ha il merito di approfondire, mina profondamente le tradizioni civili, culturali, democratiche dell’Europa cristiana, in cui invece secoli di storia, di pensieri profondi e di conquiste civili hanno determinato l’affermazione di un imprescindibile assunto: le nostre tradizioni culturali, permeate di religiosità, sono i capisaldi da cui traggono fondamento le regole, tutte le regole della civile convivenza e degli ordinamenti normativi e costituzionali del “mondo” Europa. Se a questo quadro di riferimento che la nostra storia ci ha consegnato, disegnando un assetto in cui preminente è il rispetto delle libertà civili e la laicità dello Stato (date a Cesare quel che è di Cesare…), si sostituisce un assetto basato invece sul rapporto di subalternità tra fede e Stato, tra religione e politica nelle sue forme più estreme e fanatiche che caratterizzano l’Islam, è facile comprendere che qualcosa di epocale sta avvenendo senza che l’Europa mostri segno alcuno di reazione. Ora, qui non è in discussione la libertà di culto, il piano di carattere religioso che è soltanto un aspetto del fenomeno islamizzazione, ma il complessivo sistema di valori a cui l’Europa parrebbe essere costretta a rinunciare. In tal senso, la mancata separazione tra l’ambito teologico e la dimensione politica è centrale. Questo rapporto simbiotico dell’Islam politico con i suoi fondamenti religiosi determina altri elementi di contrasto di civiltà, come la cieca derivazione di ogni azione sociale dai dettami del Corano, con la necessità di una continua affermazione della superiorità della comunità islamica, fino alla diversa concezione dell’economia, del lavoro, del ruolo della donna e della famiglia.
È quanto di più lontano dal paradigma occidentale, dal valore delle conquiste illuministiche che pure hanno contaminato virtuosamente la “nostra” spiritualità e che sono il frutto virtuoso della storia sociale in cui ci riconosciamo. Del resto, lo sfondo su cui si muovono gli Stati coranici in cui sventola la bandiera dell’Islam è la sistematica violazione dei diritti umani, in una perversa alleanza tra stato e religione che ha penetrato anche le seconde e terze generazioni degli immigrati in Europa fino a renderli indifferenti, e perfino ad essere protagonisti dei più crudeli attacchi terroristici che hanno insanguinato l’Europa negli ultimi quindici anni. Perché tacere, inoltre, su quella che sembra avere tutte le sembianze di una aggressione religiosa, evidenziando che un secolo fa i cristiani formavano il 20% della popolazione del Medio Oriente mentre oggi le continue persecuzioni ai loro danni, sistematiche anche nel continente africano, ne hanno portato la percentuale ad appena il 4%! Sono elementi da tenere nel dovuto conto per analizzare quella che già nel 1990 l’islamologo Bernard Lewis definiva “la terza invasione islamica dell’Europa”, che potrebbe avere maggior successo delle due storicamente precedenti, e che oggi appare realtà concreta anche se ancora contrastabile. Per questo, alla “rabbia e all’orgoglio” dobbiamo affiancare l’analisi e l’azione, partendo da una gestione rigorosa dei fenomeni migratori, senza lasciare spazio alla illegalità e a compromessi al ribasso: l’alibi dell’accoglienza buonista e senza regole non può diventare il suggello ad essere complici di trafficanti di uomini. Quindi politiche incisive di sostegno alla famiglia, concrete e di lunga visione, lontane da formule legate a spot elettoralistici.
L’Europa, invece, tace e sembra fare di tutto per non difendere le proprie radici, le tradizioni, la cultura, la consapevolezza di un’identità maturata in due millenni di progresso civile e culturale, di centralità dell’uomo e delle sue libertà civili racchiuse nello Stato di Diritto. Già tutto questo basterebbe a scuotere la sonnolenta Europa e renderla capace di proporre nuovi assetti di politica estera e di sicurezza, che vedano centrale la difesa della sua, della nostra identità. Servono la forza e il coraggio di consolidare la nostra storia, le radici e le tradizioni culturali e trasmetterle ai nostri figli. Per tornare, allora, all’assunto di partenza, alla qualità e all’importanza di questo rapporto, faccio decisamente ricorso alle parole di Oriana Fallaci: “Vi sono dei momenti, nella vita, in cui tacere diventa una colpa e parlare diventa un obbligo. Un dovere civile, una sfida morale, un imperativo categorico al quale non ci si può sottrarre”. Noi abbiamo deciso di parlare, lo facciamo con questo approfondito studio, lo facciamo ogni giorno con la qualità e la coerenza del nostro impegno.
*Nicola Procaccini, eurodeputato
Contributo al Rapporto sull’Islamizzazione d’Europa