Le nuove rotte sono sul Pacifico

Questa pandemia sta portando e ha portato con sé innumerevoli cambiamenti all’interno del contesto mondiale. Oltre ad aver stravolto radicalmente rapporti sociali e lavorativi, ha fatto venir meno un dogma: l’Occidente come centro del mondo. Un mondo, appunto, che ruotasse intorno all’Europa, ai suoi retaggi, alle sue tradizioni e molto spesso intorno anche ai suoi capricci.

Questa pandemia ha acceso riflettori su aree geografiche ben lontane da questo Occidente. Questa luce, sta illuminando aree rimaste prive di attenzione, isolate da molto tempo.

Tutto ciò sta facendo intravedere scenari geopolitici ben differenti rispetto a quelli solitamente visibili.

L’attenzione si sta spostando inevitabilmente sull’area Indo-pacifica ed in particolare modo sull’Oceano Pacifico. Ne è testimone il Quadrilateral Securityy Dialogue, in breve Quad, che dimostra come quattro paesi, Giappone, Australia, India e Stati Uniti, stiano collaborando per opporsi con decisione ai tentacoli della Belt and Road initiative dell’Impero Celeste.

Gli equilibri si stanno spostando e mutando, diversamente dalla prima guerra fredda, con estrema velocità.

Ne è esempio, il pubblico sberleffo che il Presidente indiano, Narendra Modi, manifestò alla Cina, dopo che bloccò con l’esercito la costruzione di infrastrutture promosse dai cinesi in Bhutan. Il tutto si risolse in modo pacifico, ma la contrapposizione non finì li. Sulle coste del Mar d’Arabia, infatti, si presentò Shizo Abe, presidente giapponese, con il quale Modi stipulò un accordo sugli Shinkansen, i treni ad alta velocità, l’agreement oltre ad essere un progetto ferroviario era un chiaro manifesto attraverso il quale la seconda e la terza potenza economica asiatica cercano un legame sempre più stretto, per contenere l’avanzata della prima e programmi – “imperialisti” agli occhi di Tokyo e Nuova Delhi – come la Nuova Via della Seta, promossa dalla Cina.

Tale intesa si sarebbe tradotta successivamente nel Quad. Nel quale entrarono, in un secondo momento, anche Usa e Australia. Quest’ultimo si staglia fortemente contro l’ultimo accordo internazionale promosso dalla Cina, al quale l’india si è prontamente sfilata all’ultimo.

Tale accordo, il RCEP, Regional Comprehensive Economic Partnership, è l’accordo commerciale più grande della storia, contando oltre un terzo della PIL mondiale e ben quindici stati (Cina, Indonesia, Cambogia, Brunei, Laos, Malesia, Myanmar, Filippine, Singapore, Sud Corea, Tailandia, Vietnam, Giappone, Australia e Nuova Zelanda.

Entrambi gli accordi dimostrano come l’attenzione della geopolitica internazionale si stia spostando in questa area strategica e direttrice commerciale fondamentale. E anche se Wang Yi, ministro degli esteri cinese, definì il Quad “schiuma di mare”, Tokyo ha incrementato la politica di aiuti allo sviluppo, oltre 15,5 miliardi di dollari nel 2019, e ancora, Abe si è fatto garante di promuovere la Transpacific Partnership (TPP), accordo commerciale con 11 paesi del bacino del Pacifico. Ribadendo come il Quad sia ‘’il diamante della sicurezza democratica in Asia” e dimostrando la vocazione imperiale concorrenziale a quella della Cina.

Ciò denota come gli Stati Uniti rafforzeranno l’alleanza con l’India e ancor di più con il Giappone. Dando così, una priorità all’Asia, abbassando il valore strategico dell’Unione Europea.

Alla luce di ciò merita riflettere sul ruolo geopolitico e strategico europeo; se effettivamente questo spostamento dell’asse commerciale e strategico si concretizzasse all’interno del Quad, che destino attenderà l’Europa?

L’Europa sarà pronta a rispondere in modo compatto a questo cambiamento e a dimostrare all’America che solo un’intesa euroamericana ha la forza di bilanciare il potere cinese?

Solo un’Europa unità potrà veramente contare qualcosa nel prossimo futuro, ahimè attualmente questo sembra solamente un sogno o quanto meno un’idea ancora, purtroppo, molto lontana.

Ma se l’Europa non vuole essere schiacciata dai due iceberg che si stanno stagliando sull’orizzonte europeo, sarà bene che si sbrighi a cambiare rotta, sempre che non voglia far la fine del Comandante Edward John Smith.

*Riccardo Maria Vitali Casanuova, collaboratore Charta minuta

ITALIANITÀ NEL MONDO, FORZA PROFONDA

Questo saggio di Giulio Terzi di Sant’Agata, ambasciatore, già ministro degli Esteri, è stato pubblicato nel Rapporto Nazionale “Italia 20.20” della Fondazione Farefuturo

 

I contenuti identitari

Un forte elemento identitario della società italiana è il principio di solidarietà e di partecipazione, intrinsecamente legato al valore della vita umana e della dignità della persona. È rimasto saldo nelle generazioni che hanno vissuto la tragedia della Seconda guerra mondiale. Neppure le dittature nazista e comunista sono riuscite a cancellare i valori di questa identità: nei territori controllati dalle nostre forze armate persino la «soluzione finale» voluta da Hitler è stata in ogni modo ostacolata, anche sacrificando la vita, da migliaia di militari, diplomatici, funzionari, religiosi e comuni cittadini italiani. Tutto questo non è avvenuto per un caso della storia. Per quasi tre secoli il nostro pensiero politico e giuridico ha sviluppato quel senso di libertà laico e illuminista che, in simbiosi con la tradizione giudaicocristiana, ha ispirato le rivoluzioni democratiche di fine Settecento, e ha fatto progredire lo Stato di Diritto sino alla sua odierna concezione nel diritto internazionale, dai Trattati Europei ai numerosi accordi regionali e globali.

È proprio la tradizione giuridica a costituire per gli italiani un forte elemento identitario. Vi è, certo, il paradosso della disaffezione popolare per la politica e per le sue istituzioni. Ma il nostro Paese è tra i primissimi in Occidente ad aver influito e ad influire, da Cesare Beccaria e Gaetano Filangieri sino a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, sulla diffusione dei principi dello Stato di Diritto pur trovandosi oggi in posizione piuttosto arretrata nella lotta alla corruzione, nella libertà di informazione, per quanto riguarda la giustizia, e il sistema carcerario. È dimostrato in ogni caso come l’elemento identitario profondo e forte riguardi l’insieme della nostra cultura, il suo contributo valoriale al progresso umano, e il senso di un «comune destino» che lega gli italiani sparsi nel mondo alla terra di origine.

Un’identità, quindi, essenzialmente culturale; recepita e al tempo stesso alimentata da un’«altra Italia» fatta da quasi sessanta milioni di individui di cittadinanza o di discendenza italiana. L’attrazione che loro hanno verso il paese di origine e la sua cultura è così forte che gli ultimi censimenti negli Stati Uniti – dove il numero stimato dei nostri connazionali corrisponde quasi alla metà di tutti gli italiani all’estero – rilevano significativi aumenti tra i cittadini americani che dichiarano una loro origine italiana nonostante l’immigrazione dall’Italia sia ferma da quarant’anni. Purtroppo l’attenzione che dedichiamo a questa «italianità», così importante per far «capire l’Italia» anche 51 nei momenti più difficili, è assai modesta, anche quando si sprecano assicurazioni e promesse retoriche. Riconoscere un preciso interesse nazionale in tale direzione presuppone un netto cambiamento di rotta.

 

Un decennio perso?

Il richiamo dell’«italianità» appare ancor più necessario ove si consideri che nel decennio appena concluso la «performance» del nostro Paese rispetto ad altri – a noi paragonabili per popolazione, dimensione economica, proiezione regionale e globale, sviluppo sociale e istruzione – viene giudicata debole da molti punti di vista. In politica è stato un susseguirsi poco concludente di esperimenti che hanno accresciuto la sensazione di instabilità e di transizione permanente, governativa e istituzionale. La crescita economica e dell’occupazione è rimasta una chimera. Contraddittorie e carenti sono parse le misure fiscali, di sostegno allo sviluppo e all’innovazione.

In politica estera si deve ammettere come siano stati anni più di declino che non di rilancio del ruolo complessivo dell’Italia in Europa, nel Mediterraneo, e sul piano globale. Hanno indubbiamente pesato fattori poco prevedibili e lontani dalla capacità di controllo per un singolo, per quanto influente, paese europeo. Lo è stato il disimpegno americano da spazi geopolitici di nostro diretto interesse; così come l’emergere di due «potenze revisioniste» dell’attuale ordine mondiale, o di ciò che ne resta. Pur essendo molto diverse per dimensione economica – il Pil russo equivale a un ottavo circa di quello cinese, e ai tre quarti di quello italiano – Cina e Russia sono infatti mosse da una comune propensione all’utilizzo della forza nell’accaparrarsi risorse naturali, nell’ampliare la loro influenza politica e presenza militare, nella politica del fatto compiuto.

Cina e Russia si preoccupano sempre meno di dover risolvere – come prevedono trattati e statuti che hanno ratificato – ogni eventuale controversia attraverso i numerosi strumenti giurisdizionali e pattizi offerti dal Diritto internazionale. Da parte italiana, numerose incertezze, rinunce, ambiguità nei riferimenti fondamentali della nostra politica estera e di sicurezza, europea, atlantica e mediterranea hanno tuttavia contribuito, e non poco, a ridimensionare il ruolo dell’Italia sulla scena globale. Se pertanto si è chiuso un decennio che sarebbe arduo valutare come positivo per il ruolo internazionale del Paese, ancor meno accettabile è la scarsità di risultati conseguiti nell’affermazione dell’interesse nazionale e della sovranità dell’Italia.

 

Non un decennio perso per la «diplomazia della cultura»

Vi è tuttavia un ambito che si è rivelato sorprendentemente vitale anche negli ultimi dieci anni, persino più di 52 quanto non lo sia stato in precedenza. Una dimensione cresciuta con dinamiche essenzialmente proprie, per lo più estranee all’impiego di risorse pubbliche, a strategie di Governo, o a visioni sostenute nei palazzi del potere. Si tratta della «Diplomazia della Cultura»: terreno privilegiato di interazione tra le «società civili», tra grandi e meno grandi protagonisti del sapere, della comunicazione e della conoscenza a livello globale. Ed è proprio in tale dimensione che si sta affermando con maggior chiarezza un ruolo di primo piano dell’Italia sostenuto dai valori identitari e culturali di «italianità» propri alle nostre comunità all’estero.

Vi sono principalmente tre motivi che rafforzano questa tendenza: 1. In primo luogo, si rileva da tempo una motivazione crescente delle nostre comunità all’estero – per effetto soprattutto della accelerata globalizzazione del sapere sostenuta dalle nuove tecnologie – a «promuovere l’Italia» nella sua riconosciuta «unicità» di patrimoni culturali e di bellezza che colma oltre due millenni di una storia al centro dell’Europa e del Mediterraneo. 2. Inoltre, tale elemento motivazionale appare concentrarsi tra i giovani; siano essi di seconda, terza o altra fascia generazionale della nostra emigrazione; così come tra quanti sono partiti per l’estero in numero crescente negli ultimi dieci-quindici anni.

Sono stati e continuano a essere sempre più numerosi i nostri giovani e giovanissimi impegnati a formare nei nuovi Paesi di residenza centri di studio, associazioni, reti di scienziati, di studiosi e professionisti, a lanciare con partner in Italia collaborazioni nella ricerca, nei servizi e nell’industria dei settori tradizionali del «Made in Italy» e dei comparti più innovativi, nelle attività di cooperazione allo sviluppo, maturando positive esperienze imprenditoriali e di lavoro tra le realtà nelle quali vivono e operano all’estero e il paese di origine. 3. In terzo luogo, come recentemente ha scritto da Ernesto Galli della Loggia sul «Corriere della Sera», «l’Italia da sola ha una stazza troppo leggera per ambire a un ruolo significativo: anche solo per difendere i propri interessi. Ha bisogno di un partner forte, quanto più possibile forte. Ora, non potendo questo partner essere l’Unione Europea (…) la scelta si restringe di fatto agli Stati Uniti. (…) oggi nel teatro geografico che più ci interessa la posizione degli Stati Uniti appare oscillante tra tentazioni di disimpegno e affondi improvvisi.

Sta di fatto però che nella politica americana alcuni punti fermi sono comunque ravvisabili: contrasto con l’espansionismo russo; un consolidato buon rapporto con il fronte islamico tradizionalista e anti-iraniano; una permanente intesa di fondo con Israele. (…) l’accredito di cui l’Italia gode nel mondo arabo, la sua posizione geografica di assoluto valore strategico unitamente al suo forte legame con la Santa Sede e da ultimo la sua 53 qualità di terzo Paese dell’Unione Europea e quindi potenziale importante sponda con Bruxelles utili per consentire di stringere un rapporto significativo con gli Stati Uniti più forte e concertato di quello attuale». Nel rapporto privilegiato tra Italia e Stati Uniti conta, e può ancor di più influire in futuro, la realtà italiana negli Stati Uniti purché Roma esprima consapevolezza di un interesse nazionale imperniato sull’italianità nel mondo e sulle opportunità offerte dalla grande comunità italiana negli Usa.

 

… e per il soft power

Se ricerca e sviluppo in Italia soffrono di un’endemica carenza di risorse, per disfunzioni amministrative o fondi decrescenti, decine di migliaia di nostri studiosi nelle più prestigiose università sono una forza insostituibile per collaborazioni e partenariati in campi di ricerca avanzata dai quali spesso possono operare in stretto rapporto con nostre aziende, enti e istituzioni.

Tutto questo è anche il soft power del nostro Paese, ed è un fondamentale interesse nazionale sostenerlo nel modo più convinto. Il principale studioso del soft power, Joseph Nye, ne ha definito i contenuti sottolineando come si tratti di strategie utilizzate da un Paese e da una società civile per diventare attraenti nel mondo anziché utilizzare la coercizione, gli interessi nazionali possono essere sostenuti attraverso un mix di cultura, valori, iniziative di politica estera con le quali persuadere gli altri ad agire in modo compatibile con gli interessi nazionali affermati da chi ricorre al soft power. In questa linea è stato autorevolmente affermato che la democrazia liberale è il sistema di governo certamente più idoneo ad agire attraverso soft power. Riesce necessariamente più difficile farlo a un sistema autocratico o dittatoriale.

E in effetti, mentre il presidente cinese Xi Jinping aveva affermato che i «valori sottostanti alla Via della Seta e alla Belt and Road Initiative hanno un richiamo più forte che in passato», le iniziative infrastrutturali e culturali promosse da Pechino stanno avendo crescenti difficoltà nell’ammorbidire la dura immagine internazionale della Cina. Autorevoli analisti, come sottolinea «Portland Report 2019» sul soft power, giudicano la Via della Seta e la Belt and Road Initiative un danno per la reputazione internazionale della Cina. Non è un caso che nel raffronto analitico tra le diverse componenti del soft power in Cina e in Italia, il nostro Paese appaia negli ultimi tre anni in netta crescita mentre la Cina registra una considerevole flessione

*Giulio Terzi di Sant’Agata, ambasciatore, già Ministro degli Affari Esteri

La sfida della sicurezza e della geopolitica

I) Le indicazione fornite dalla “Relazione sulla Politica dell’Informazione per la Sicurezza – 2018”

Una seria valutazione della minaccia che grava sulla nostra sovranità nazionale nel caso specifico del processo di avvicinamento della Cina al quale la visita di Stato del Presidente Xijinping intende imprimere un decisivo impulso anche attraverso del Memorandum of Understanting e l’adesione italiana alla “Via della Seta, deve muovere, io credo, da una attenta rilettura della Relazione sulla politica dell’informazione per la sicurezza recentemente resa pubblica dai nostri servizi di intelligence.

In particolare, vorrei rilevare come alcune osservazioni alle pagine 61, 62, 63, nonché alcuni riferimenti nel documento allegato, riguardino specificamente la Cina, tracciando un identik senza nome ma con una chiarissima profilatura complessiva, che fornisce la proporzione esatta del problema che abbiamo dinanzi.

 

Il Rapporto della nostra Intelligence dice quanto segue:

– Le iniziative attuate dal Governo nel corso dell’anno, intese ad attrarre in Italia partner economici con una prospettiva di lungo periodo, sono valse a ribadire la valenza strategica, per il Sistema Paese, dell’afflusso di capitali stranieri in grado di concorrere allo sviluppo delle imprese italiane, sia finanziando programmi di ricerca e innovazione volti a mantenere adeguati livelli di competitività, sia favorendo l’accesso a know-how industriale e a nuovi mercati di sbocco.

– L’attività intelligence ha risposto all’esigenza di cogliere, i rischi legati all’ingresso nel tessuto economico nazionale di soggetti, capitali e prodotti stranieri , quello di “decifrare” eventuali proiezioni estere in contrasto con l’interesse nazionale, perché rispondenti a finalità extraeconomiche o in quanto volte a depredare le imprese-target, specie di tecnologie o marchi.

– L’azione informativa è stata diretta in primo luogo al comparto della difesa e dell’aerospazio, con particolare attenzione alla tutela del knowhow e dell’integrità delle filiere.

– Pari attenzione è stata rivolta agli altri settori strategici cui fanno capo le attività di base indispensabili per garantire i servizi vitali e il benessere della collettività: telecomunicazioni e relative reti, terrestri e mobili, anche con l’obiettivo di preservare l’integrità e la sovranità dei dati; trasporti, specie per quel che attiene alle dinamiche proprietarie dei vettori e degli operatori infrastrutturali; energia, con riferimento sia alle implicazioni sul piano industriale delle operazioni di merger and acquisition, sia alla salvaguardia delle infrastrutture.

– Ha incluso nel perimetro di tutela: dalle infrastrutture di immagazzinamento e gestione dati a quelle finanziarie, dall’intelligenza artificiale alla robotica, dai semiconduttori alla sicurezza in rete.

In analogia con i meccanismi di tutela adottati da alcuni importanti partner occidentali.

– La ricerca informativa si è in particolare appuntata sui soggetti espressione di un controllo pubblico, diretto o indiretto, che per loro stessa natura rappresentano non di rado i vettori per perseguire finalità extra- economiche. Nella medesima ottica di protezione, si è guardato ad operatori caratterizzati da opacità sia nella governance sia nelle strategie di investimento.

– Quanto alle modalità di azione degli attori ostili o controindicati, il monitoraggio intelligence ha rilevato iniziative tese a esfiltrare tecnologia e know-how (anche attraverso l’acquisizione di singoli rami d’azienda) o a conquistare nicchie di mercato pregiate, facendo emergere, in qualche caso, la tendenza
alla strutturazione di
manovre complesse finalizzate a guadagnerebbe posizioni di influenza
in segmenti del sistema economico-finanziario nazionale, ovvero a conquistare peso
monopolistico in specifici settori di attività.

– Evidenze informative hanno fatto stato, poi, dei tentativi di operatori esteri di alterare il quadro competitivo attraverso il sistematico storno di capitale umano ad alta specializzazione in forza a imprese nazionali, la studiata marginalizzazione del management italiano (anche nell’ambito di partnership e joint venture) e il ricorso ad azioni di influenza esercitate attraverso consulenti e manager “fidelizzati”.

– L’attività a protezione del know-how tecnologico e innovativo delle imprese italiane ne ha registrato la persistente esposizione ad iniziative di spionaggio industriale, specie con modalità cyber agevolate dalla digitalizzazione pressoché integrale dei processi produttivi e più pervasive nei confronti delle piccole e medie imprese, come si dirà nell’allegato Documento di Sicurezza Nazionale.

– La filiera marittimo-logistica ed i suoi nodi critici – rappresentati da porti, aree retro-portuali e punti intermodali che connettono economie locali e sistemi produttivi – in un’ottica intesa a rilevare vulnerabilità di sicurezza in grado di condizionarne funzionamento e sviluppo.

– Dal monitoraggio delle Tecniche, Tattiche e Procedure (TTP) utilizzate è emerso un accresciuto livello di complessità e sofisticatezza delle azioni, l’uso combinato di strumenti offensivi sviluppati ad hoc con quelli presenti nei sistemi target impiegati in modo ostile, nonché il “riuso” di oggetti malevoli (malware) allo scopo di ricondurne la matrice ad altri attori (cd. operazioni false flag).

– In tale contesto, lo sforzo più significativo posto in essere dal Comparto ha riguardato il contrasto di campagne di spionaggio digitale, gran parte delle quali verosimilmente riconducibili a gruppi
ostili strutturati, contigui ad apparati governativi o che da questi
ultimi hanno ricevuto
linee di indirizzo strategico e supporto finanziario.

– Quanto alle finalità perseguite, gli attacchi hanno mirato, da un lato, a sottrarre informazioni relative ai principali dossier di sicurezza internazionale, e, dall’altro, a danneggiare i sistemi informatici di operatori, anche nazionali, attivi nello Oil&Gas, nonché quelli di esponenti del mondo accademico italiano, nell’ambito di una campagna globale mirante a profilare settori d’eccellenza di università e centri di ricerca.

– Sul fronte delle infrastrutture di attacco, i gruppi responsabili di azioni di cyber-espionage hanno proseguito nell’impiego di servizi IT commerciali (domini web, servizi di hosting, etc.), forniti da provider localizzati in diverse regioni geografiche, anche per rendere difficoltoso il processo di individuazione. Qui, l’attaccante ha colpito le infrastrutture tecnologiche degli obiettivi finali tramite la violazione preventiva di quelle dei fornitori, abusando sovente anche delle relazioni di fiducia connesse al rapporto contrattuale.

 

II) Le indicazioni contenute nel Rapporto IISS- Merics.

La Dr.ssa Helena Legarda ha approfondito come nella sua ricerca di diventare una “superpotenza nella scienza e nella tecnologia” e nell’obiettivo di acquisire la capacità miliare dominante, la Cina abbia intrapreso da tempo, e ulteriormente accelerato negli ultimi anni, un percorso per conseguire una completa integrazione civile-militare, e sviluppare tecnologie a doppio impiego “Dual – use”. Per l’Europa, l’incentivo ad essere competitiva e a tenere il passo con i rapidissimi progressi tecnologici della Cina, risiede nella capacità di proteggere  i propri settori innovativi. Si tratta di esigenze imperative che riguardano allo stesso tempo l’ambito militare, commerciale ed economico.

 

II) “Belt and Road Initiative” (BRI) e “Via della Seta.

I risultati conseguiti dal Presidente Xi Jinping sul piano interno nel consolidare il sistema di potere guidato dal Partito Comunista Cinese. Un potere sempre più accentrato nella figura di un Presidente ormai svincolato da termini di mandato e, apparentemente, da qualsiasi apprezzabile forma di opposizione interna.

La trasformazione “neo imperiale” della potenza cinese avvenuta in questo decennio muta radicalmente i presupposti sui quali si erano basate le politiche Americane e Europee dall’inizio della Presidenza Clinton. Lo sviluppo prodigioso dell’economia cinese, i successi registrati – sia pure con le carte spesso truccate della sottrazione illegale dei dati a aziende e ricercatori occidentali- in campo scientifico e tecnologico (intelligenza artificiale, quantum computing, spazio e armi di ultimissima generazione) è stata indotta e sostenuta da una globalizzazione con vantaggi pesantemente uni direzionali per la Cina.

Ciononostante sembra prevalere nel dibattito che si sta sviluppando nel nostro Paese sui grandi temi della BRI, della Via della Seta e in generale sul rapporto tra Europa e Cina una tendenza all’accoglienza entusiastica e incondizionata alle tesi di Pechino che magnificano i grandi vantaggi dei finanziamenti cinesi, la visione di una globalizzazione guidata Pechino, e persino la “superiorità” del modello sociale, politico e dell’ideologia cinese rispetto allo Stato di Diritto occidentale. Abbiamo persino ascoltato in alcuni dibattiti dello scorso agosto personalità politiche di grande esperienza di Governo e nelle Istituzioni Europee, che dovrebbero quindi essere particolarmente sensibili nell’affermare lo Stato di Diritto e i principi della democrazia liberale nel mondo – come scritto nei Trattati europei – ripetere come verità rivelata che BRI e Via della Seta costituiscono “il Piano Marshall” di questo primo secolo del millennio, riprendendo pedissequamente gli argomenti e la propaganda di Pechino.

Ciò dovrebbe preoccupare quanti dovrebbero essere sensibili alla contrapposizione valoriale, in termini di libertà e di dignità della persona, tra l’impostazione sostenuta alla fine del secondo conflitto mondiale, dal Segretario di Stato Marshall, e il “pensiero unico” affermato da Xi Jinping e dalla sua classe dirigente.

Questa tendenza non è purtroppo nuova nel mondo politico e imprenditoriale italiano. C’è troppo spesso l’ansia di dimostrare di “essere i primi” nel cogliere facili opportunità in mercati estremamente complessi, e in paesi dove regole del mercato, rispetto degli investitori stranieri, parità di trattamento e reciprocità passano sempre dopo, molto dopo, le priorità di un interesse nazionale interpretato in chiave marcatamente ideologica, nazionalista e persino “militarista”.

Non dovrebbe l’Italia, con la necessità assolutamente vitale di tutelare il “Made in Italy” nelle imprese strategiche oltre che nei beni di consumo e nei servizi, dimostrarsi ben più sensibile al proprio interesse nazionale e alla esigenza di una oggettiva valutazione della “questione Cinese”? Si tratta di una narrativa sulla quale influiscono enormi interessi economici, pubblici e privati, di sicurezza, di influenza , di visione geopolitica, di tutela delle libertà , di privacy e sicurezza nella “rete”, di attaccamento a valori fondamentali – Stato di Diritto,  libertà politiche e diritti umani – che ogni Europeo dovrebbe sentirsi ad ogni costo impegnato a affermare.  Ciò dovrebbe in particolare valere ai “tavoli” delle trattative multilaterali dove Governi e Istituzioni Europee decidono, regole, comportamenti e composizioni di interessi nazionali su questioni di vitale importanza per i loro popoli.

Molti commentatori occidentali hanno rilevato la notevole opacità, probabilmente voluta, della strategia di Pechino. Se “road” sembra riferirsi essenzialmente a vie d’acqua, e “cintura” a infrastrutture tra Cina e Europa che colleghino  ferrovie, strade, telecomunicazioni – importantissima nel progetto cinese la dimensione Cyber –  sono certamente molti i paesi e Governi asiatici, mediorientali e africani, e non pochi i politici e gli imprenditori europei, ansiosi di accogliere finanziamenti cinesi “senza condizioni”: negoziati con metodi e interlocutori spesso assai disinvolti sotto il profilo della lotta alla corruzione, delle garanzie di sicurezza sociale e dei diritti dei lavoratori. Le considerazioni di natura economica, pur problematiche sotto diversi profili, assumono colori ancor più inquietanti ove si consideri invece che il disegno di Pechino fa parte di un progetto geopolitico per il “nuovo ordine mondiale” nel quale la Cina intenda assumere il ruolo di Superpotenza dominante. Un progetto che viene da lontano. Ma che assume ora una sua marcata assertività in dichiarazioni, documenti, iniziative diplomatiche e militari, oltre che commerciali e finanziarie, della Cina di Xi Jinping.

Questa ultima ipotesi diventa ancor più realistica a causa dell’opacità del gigantesco impegno finanziario ostentato da Pechino in una quantità di occasioni. Qual é il “blueprint” della BRI e della Via della Seta, ci si chiede in Occidente e in molti paesi interessati dell’Asia, dell’Africa e de Medio-Oriente? Quali sono i motivi dei continui ampliamenti che Pechino propone ai suoi orizzonti, dall’iniziale contesto Eurasiatico e Africano (“Vie della Seta” terrestri e marittime) a quelli della “Via della Seta nel Pacifico”, ” della ” Via della Seta sul ghiaccio” nell’Artico, e ora della “Via della Seta digitale” attraverso lo spazio cyber?

Le preoccupazioni aumentano quando si constata che la BRI si lega a un ormai definito “culto della personalità” di Xi. La stampa cinese ha ribattezzato l’iniziativa “cammino di Xi Jinping”. Si sollecitano apprezzamenti dei Governi stranieri, così da farli rimbalzare nella martellante propaganda interna.

Un’analisi delle strategie e intenzioni di Pechino deve anzitutto riguardare i rapporti con i Paesi vicini. Gran parte dell’Asia deve ora riconoscere che il gigante cinese non può essere visto soltanto come un partner commerciale. Con la ricchezza e il successo si è diffusa la capacità di attrazione del modello cinese. Ciononostante sono numerose le riserve e non di rado le nette opposizioni a seguire i “desiderata” di Pechino: perfino da parte di Paesi come Myanmar, considerati per decenni sottomessi politicamente e economicamente alla Cina.

I valori aggregati di cui si continua a parlare per BRI e “Vie della Seta” sono certo imponenti ma non ancora tali da comportare un “dominio finanziario globale”. Le preoccupazioni più immediate riguardano i condizionamenti che il Governo e gli enti statali cinesi sono perfettamente in grado di esercitare in Europa, e in Italia in particolare, ogni volta che Pechino intenda acquisire aziende di valore strategico per i nostri Paesi e per il “Made in Italy”: sempre a condizioni estremamente svantaggiose per il “sistema Italia”, sia sotto il profilo economico, sia per quanto riguarda la tutela dei dati informatici, la protezione delle tecnologie, e l’assenza di qualsiasi condizione di reciprocità.

Se il quadro descrive quanto avvenuto nell’ultimo decennio in Occidente , senza che le più importanti economie del mondo si ponessero seriamente l’obiettivo di instaurare con Pechino regole del gioco eque, rispettose della legalità e degli accordi sottoscritti, se interessi pubblici e privati legati a convenienze del giorno per giorno hanno fatto sì che si sia lasciata a Pechino la mano completamente libera nello sfruttare i “mercati aperti” che lobbies e gruppi di potere in America e in Europa mettevano ben volentieri a loro disposizione, ben possiamo immaginare quanto sia avvenuto, stia avvenendo e ancora avverrà nelle economie più deboli del pianeta, governate in molti casi da autocrati o presidenti a vita, sorretti da ristrettissime “elites” locali, operanti di fatto al di fuori di qualsiasi controllo popolare, di trasparente informazione, e di legalità sanzionata.

Nei mesi scorsi un think tank particolarmente autorevole nelle questioni dello Sviluppo Sostenibile – il “Centre for Global Development”-  ha pubblicato una ricerca su otto paesi che sono ad alto rischio di “collasso finanziario” a causa dell’indebitamento contratto da quei Governi nella “Belt and Road Initiative” (BRI). Si tratta di Laos, Kyrgyzstan, Maldive, Montenegro, Gibuti, Tajikistan, Mongolia Pakistan. In meno di due anni, la percentuale debito/PIL è passata per effetto dei progetti cinesi BRI, rispettivamente (a cominciare dal Laos) da circa 50% al 70%; dal 23% al 74%; dal 39% al 75%; dal 10% al 42%; dall’80% al 95%; dal 55% all’80%; dal 40% al 58%; dal 12% al 48%.

In Montenegro l’autostrada finanziata da Pechino configura il solito “patto leonino”, dato che l’ammontare del debito corrisponde a un quarto dell’intero PIL del paese; la ferrovia in Laos, alla metà del PIL annuo. Si è stimato che nel solo quadriennio 2000-2014 il Governo Cinese abbia finanziato progetti pari a 354 Mld $, tre quarti dei quali a tassi di mercato. Non solo Trump ha definito “predatorie” tali iniziative, ma la stessa Christine Lagarde – Direttore esecutivo del FMI- ha sottolineato la loro problematicità, auspicando che “la BRI viaggi esclusivamente dove è realmente necessario”.

L’UE sta insistendo con Pechino affinché al centro della BRI e delle Vie della Seta siano poste regole precise su trasparenza, standard nel mercato del lavoro, sostenibilità del debito, appalti, ambiente. Nei primi mesi del 2018 tutti gli Ambasciatori UE a Pechino, eccettuato l’ungherese, hanno firmato un rapporto per Bruxelles nel quale hanno definito la BRI una sfida alle regole del libero mercato e una manna per i sussidi statali. Per parte sua Atene, che ha ceduto alla compagnia COSCO nel 2016 il porto del Pireo per 312 Mil $, ha bloccato l’UE nel prendere posizione sulla militarizzazione cinese degli isolotti nelle zone del Pacifico reclamate anche da Filippine, Vietnam, e oggetto della controversia con gli Usa e tutti gli altri Stati della regione. L’UE ha appena lanciato un’iniziativa  per l’esame degli investimenti cinesi E’ atteso un Rapporto con precisa valutazione del rischio e dei diversi elementi da considerare per gli investimenti esteri in Europa, in particolare dalla Cina.

*Giulio Terzi di Sant’Agata, ambasciatore, già ministro degli esteri

Pubblichiamo stralci della sua relazione che sarà presentata al meeting della Fondazione Farefuturo

Il dominio della tecnologia dual use cinese

Nel dicembre 2018 l’International Institute for Strategic Studies (IISS) ha pubblicato un fondamentale Rapporto sulla strategia del Presidente cinese Xi Jinping per dominare l’avanzamento tecnologico europeo nell’ampio settore del “dual use”, in campo civile e militare‎. Proponiamo di seguito alcuni estratti del Rapporto curato da Meia Nouwens e Helena Legarda intitolato: “Dominio emergente della tecnologia: il significato della ricerca cinese nelle tecnologie avanzate a duplice uso per il futuro dell’economia europea e l’innovazione della difesa”.

In entrambi i settori civile e militare, l’innovazione tecnologica è diventata un importante obiettivo politico per i governi delle economie più avanzate. Il ruolo e la portata della tecnologia moderna continuano ad espandersi.

Nello sforzo di diventare una “superpotenza scientifica e tecnologica” globale e di costruire un esercito forte che possa combattere e vincere guerre, la Cina ha intrapreso un processo importante per realizzare l’integrazione civile-militare (CMI) e sviluppare tecnologie avanzate a duplice uso. Utilizzando vari metodi sia per promuovere l’innovazione indigena che per accedere a tecnologia e know-how stranieri, l’obiettivo della Cina è quello di scavalcare gli Stati Uniti e l’Europa e ottenere il dominio in queste tecnologie, che avranno importanti implicazioni civili e militari in futuro. L’UE non ha strategie forti e coordinate per promuovere lo sviluppo delle tecnologie indigene a duplice uso o per proteggere l’innovazione dell’Europa.

Come risultato di questo regime di precarietà, la Cina sta raggiungendo o superando capacità europee per quanto riguarda la maggior parte di queste tecnologie attraverso un quadro normativo “intero di governo” e investimenti finanziari, nonché accedendo all’innovazione e alla tecnologia europee attraverso una varietà di strumenti. Per l’Europa, l’incentivo a tenere il passo con i progressi della Cina in queste tecnologie e a proteggere la propria innovazione in questo campo è un imperativo militare, ma anche commerciale ed economico. In un momento in cui la Cina sta aumentando il proprio impegno nel processo di sviluppo di tecnologie avanzate a duplice uso, è giunto il momento che l’Europa pensi in modo strategico e si attivi per sfruttare i propri vantaggi competitivi.

Entro il 2020, il numero di dispositivi Internet of Things (IoT) potrebbe raggiungere i 24 miliardi e un valore stimato di 6 miliardi di dollari in soluzioni IoT tra cui sviluppo di applicazioni, hardware del dispositivo, integrazione del sistema, memorizzazione dei dati, sicurezza e connettività. Il mercato globale della robotica e dei sistemi che utilizzano Artificial Intelligence (AI) dovrebbe raggiungere i 153 miliardi di dollari entro il 2020. L’ammontare dei finanziamenti di capitali a rischio destinati alla robotica nel 2015 ammontava a 587 milioni di dollari, il doppio dell’importo investito nel 2011.

La tendenza a focalizzare le politiche per trarre vantaggio da queste tecnologie e guidarle nel loro sviluppo è evidente nell’Unione europea, così come in Cina sotto la guida del presidente Xi Jinping. Nel tentativo di guidare il paese verso l’obiettivo del 2049 per diventare uno Stato socialista moderno e prospero, oltre a costruire un esercito globale di alto livello in grado di combattere e vincere guerre, Xi ha sposato una duplice strategia per la modernizzazione militare: rendere le grandi imprese statali di difesa (SOE) più efficienti, globalmente competitive e innovative, rivolgendosi sempre più anche ai settori civile e commerciale per una potenziale ispirazione e innovazione. In particolare, la Cina sta investendo massicciamente nella ricerca e nell’integrazione di tecnologie emergenti a duplice uso, nella speranza che possano aiutare l’Esercito Popolare di Liberazione ad andare oltre le capacità militari convenzionali e raggiungere il predominio su tutti i fronti. Tecnologie come l’intelligenza artificiale, l’infrastruttura informatica, i software e l’automazione sono principalmente civili nella loro applicazione, ma la loro rilevanza per la difesa e il modo in cui le guerre future saranno combattute è chiaramente in crescita.

Anche l’Unione europea ha un interesse in questi settori, oltre a incentivi economici e strategici per stare al passo con i tempi. Secondo uno studio effettuato da McKinsey, la metà delle attività attualmente svolte dai lavoratori in Europa potrebbe essere automatizzata nel prossimo futuro. Per Francia, Germania, Italia, Spagna e Regno Unito, lo studio ha stimato che circa 1,9 trilioni di dollari USA in salari e 62 milioni di lavoratori sono associati ad attività tecnicamente automatiche. Si prevede che la quota della popolazione in età lavorativa nell’UE diminuisca fino al 2050 e che entro il 2080 il 29,1% della popolazione dell’UE-28 avrà almeno 65 anni. Si prevede che il rapporto età-dipendenza aumenti dal 53,9% all’80% della popolazione dell’UE-28 tra il 2017 e il 2080. A breve, ci sarà una maggiore domanda di risorse e servizi, ma una minore disponibilità di persone nel mondo del lavoro, creando così un imperativo per maggiori investimenti europei nella tecnologia dell’automazione, che sarà vitale per la forza lavoro futura e per mantenere il margine industriale e dell’innovazione dell’UE.

Benché paesi come la Cina, la Corea del Sud e gli Stati Uniti siano particolarmente attivi nella ricerca delle applicazioni militari delle tecnologie a duplice uso, non tutte le tecnologie emergenti sono state completamente integrate nelle forze armate e molte sono ancora in fase di sviluppo e test. Questo, tuttavia, non rimuove dal loro potenziale future applicazioni di difesa.

La letteratura attuale si concentra in gran parte sul rapporto tra Cina e Stati Uniti, e il dibattito riguarda come i controlli sulle esportazioni e i meccanismi di screening degli investimenti possano proteggere il margine di innovazione interna degli Stati Uniti. Di dibattiti simili si è avuto notizia in Australia, Nuova Zelanda e Regno Unito. Tuttavia, deve ancora nascere un dibattito pubblico serio sul tentativo della Cina di diventare leader innovatore nelle tecnologie emergenti e di influenzare gli interessi dell’Unione Europea e dei suoi Stati membri.

Mentre gli Stati Uniti hanno rafforzato la sorveglianza degli investimenti esteri rafforzando il ruolo del Comitato sugli Investimenti Esteri negli Stati Uniti (CFIUS), l’Unione europea e i suoi Stati membri sono stati lenti nel venire a patti con le strategie cinesi di R&S e non hanno ancora affrontato sistematicamente la questione e le implicazioni per le industrie nell’UE.

Negli ultimi anni, il governo cinese ha compiuto molte riforme industriali e ha elaborato piani ambiziosi affinché la scienza domestica e l’innovazione tecnologica sviluppassero e realizzassero prodotti di alta gamma e tecnologie emergenti. Allo stesso tempo, lo sviluppo delle capacità nazionali di ricerca in Cina è stato utilizzato anche nell’integrazione civile-militare, con l’innovazione commerciale che si riversava nelle applicazioni militari. L’aspetto militare dell’innovazione cinese è importante, in particolare in un momento in cui l’Esercito Popolare di Liberazione sta attraversando una serie di importanti interventi di modernizzazione e riforma nelle sue capacità militari convenzionali. La Cina cerca di sfruttare tecnologie emergenti nuove e innovative per “scavalcare” il suo principale concorrente strategico, gli Stati Uniti.

Il governo cinese ha quindi definito un approccio “interamente governativo” per colmare il divario con l’Occidente in settori quali la robotica, l’intelligenza artificiale, i sistemi senza pilota e completamente automatizzati, il calcolo quantistico, la tecnologia spaziale e le armi ipersoniche.

Grazie a questo approccio all’innovazione della tecnologia a duplice uso da parte del governo cinese, il Paese è attualmente in testa in alcuni settori industriali.

Il programma spaziale cinese è stato fonte di preoccupazione per le comunità di difesa in Occidente, in particolare a causa della natura intrinsecamente duale di molte tecnologie spaziali e della stretta collaborazione tra il l’Esercito Popolare di Liberazione, organizzazioni affiliate e industrie statali che consente alla Cina di sviluppare capacità con usi militari sotto le spoglie di attività nello spazio civile. Il Consiglio di Stato della Cina pubblica periodicamente White Papers in cui si delineano gli obiettivi a medio termine del programma spaziale cinese, ma è la China National Space Administration (CNSA) che produce i regolamenti specifici che la governano. Di conseguenza, ci sono più piani e documenti a livello nazionale che si riferiscono ai vari aspetti del programma spaziale cinese, tra cui il sistema di navigazione Beidou e i satelliti.

La Cina continua a lanciare regolarmente satelliti e veicoli spaziali, che consentono di perfezionare processi e applicazioni che potrebbero essere utilizzati anche contro avversari in caso di conflitto. Un buon esempio è la serie di sateliti Yaogan. Mentre Pechino sostiene che si tratta di satelliti che osservano la Terra solo per scopi civili, i satelliti Yaogan sarebbero satelliti per l’imaging militare di proprietà e gestiti dall’esercito. Il sistema satellitare di navigazione di Beidou, la risposta della Cina al GPS degli Stati Uniti e al sistema europeo Galileo nel 2018, sta rapidamente estendendo la copertura alle rotte della Belt and Road Initiative e mira a coprire l’intero globo entro il 2020. Ciò consentirà a Pechino di sviluppare in tempo reale le capacità di sorveglianza e di allarme dei sistemi globali.

Come affermato dal Presidente Xi Jinping durante la Conferenza su Cybersecurezza e Informatizzazione dell’aprile 2018, la sicurezza informatica è l’area all’interno dell’integrazione civile e militare con il maggior dinamismo e potenziale. Le capacità informatiche sono una priorità per il governo cinese e parte integrante della modernizzazione e dell’informatizzazione militare. La legge sulla sicurezza informatica 2017 è la principale politica che governa il cyberspazio in Cina. Questa legge promuove lo sviluppo di tecnologie indigene e limita le vendite di integrazione cilive e militare straniere, ma impone anche che le società straniere operanti in Cina conservino i dati in Cina e si sottopongano a revisioni governative. La Strategia internazionale di cooperazione nel cyberspazio, pubblicata a marzo 2017, attira l’attenzione sulla natura dualistica delle capacità informatiche, evidenziando l’importante ruolo del PLA nel difendere la sovranità cinese nel cyberspazio e invocando lo sviluppo di una “forza cibernetica” militare. Il cyber è ampiamente discusso nella strategia cinese 2025 della Cina e il 13° piano quinquennale – sia nel piano per la guida allo sviluppo S&T di fusione militare-civile che nel piano speciale per progetti di integrazione civile-militare della scienza e della tecnologia. La materia evidenzia la sicurezza nazionale del cyberspazio come un progetto da completare nel 2030 a beneficio sia dell’economia cinese che dell’esercito.

Dal punto di vista organizzativo, PLASSF è responsabile delle capacità informatiche dell’esercito, mentre l’amministrazione cinese del cyberspazio governa le capacità e gli sviluppi della cyber civiltà cinese. Le unità e le capacità di cyberspionaggio aziendale cinese, tuttavia, sembrano essere state recentemente trasferite dal PLASSF al Ministero della Sicurezza.

*Helena Legarda, ricercatrice, Mercator Institute for China Studies, GB

Pubblichiamo uno stralcio del suo rapporto che sarà presentato al meeting di Farefuturo sulla Cina. (Traduzione Matteo Angioli)