Il 15 ottobre scade il meccanismo semplificato dell’utilizzo del lavoro agile ed il governo punta a semplificare parte dei lavoratori da remoto.
Fino al 2019 l’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano contava 570 mila lavoratori agili. Quest’anno a causa dell’emergenza sanitaria lo smart working ha interessato potenzialmente tra i 6 e gli 8 milioni di lavoratori. Al termine del regime semplificato si stima che potrebbero rimanere in modalità agile 4/5 milioni di lavoratori che magari alterneranno 2/3 giorni in presenza ed i restanti in remoto. Tra le ipotesi del governo c’è quello di fissare a livello di contratto nazionale delle quote percentuali di ricorso allo smart working in linea con quanto fatto, con apposite direttive, dal ministro della P.A., indicando come obiettivo di avere quest’anno il 50% del personale coinvolto nel lavoro. Sono cosi gettate le basi per una significativa diffusione del lavora flessibile nel nostro Paese, in linea con quanto espresso dal Parlamento europeo nella risoluzione del 13 settembre del 2016.
Riferimenti normativi
La proposta di legge contenente «Norme finalizzate alla promozione di forme flessibili e semplificate di telelavoro» venne depositata nel gennaio 2014. A distanza di tre anni, il lavoro agile è diventato legge all’interno del Decreto sul lavoro autonomo. La Legge 81/2017 definisce lo smart working come una «modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa».
Lo smart working è uno strumento che, se utilizzato propriamente, diventa leva per innovare i processi organizzativi aziendali (sia nei contesti privati sia pubblici) e le relazioni tra i soggetti coinvolti.). L’innovazione passa anche da un nuovo modo di utilizzare gli spazi aziendali, in termini di una possibile ottimizzazione che garantisca però l’adeguatezza rispetto alla tipologia di lavoro richiesta, e alla tecnologia che dovrà essere idonea a sostenere attività svolte a distanza.
L’accordo ex lege 81/2017 con il quale il lavoratore passa alla “modalità smart” deve essere stipulato per iscritto specificando i tempi di lavoro e di riposo e il diritto alla disconnessione dalla strumentazione tecnologica lavorativa. Allo smart worker spettano una retribuzione e un trattamento normativo conformi a quanto stabilito dal contratto collettivo; restano applicabili eventuali incentivi fiscali e contributivi in relazione agli incrementi di produttività ed efficienza del lavoro subordinato. Al fine di garantire il diritto del lavoratore alla tutela contro infortuni e malattie professionali, il datore di lavoro è responsabile della sicurezza (Circolare inail n. 48/2017) e del buon funzionamento degli strumenti tecnologici assegnati al lavoratore per lo svolgimento dell’attività lavorativa.
Conciliazione tempi di vita e di lavoro.
Gli strumenti di conciliazione vita-lavoro, e in particolare il sostegno alla famiglia e lo sviluppo delle attività di cura, rientrano tra le aree di welfare storicamente deboli. Il tema della conciliazione va inserito in un contesto più ampio se vogliamo coglierne il reale obiettivo: il benessere delle persone e un riequilibrio tra le posizioni, che traduce in sostanza il senso del mainstreaming. Quando si parla di conciliazione spesso nascono in riferimento alle donne. Si tratta di una distorsione e su questo argomento siamo molto indietro rispetto ad altri paesi perché a monte c’è poco sviluppo delle attività di cura professionali e poco sostegno alle politiche familiari. Oltretutto la conciliazione è contro l’ethos dominante maschile, secondo cui la vita è una cosa e il lavoro è un’altra. Le politiche vanno viste nel contesto specifico e i vari interventi vanno fatti in sequenza. C’è bisogno di un microclima favorevole che alcune aziende stanno già creando. Si tratta di grandi aziende, prevalentemente del Nord, perché nelle aree del Mezzogiorno il capitale sociale è debole, e ciò si riflette anche nell’ambito delle politiche life balance. La conciliazione non favorisce di per sé l’allargamento dell’occupazione femminile quanto piuttosto è di supporto alle donne che sono già occupate e le aiuta ad avere una migliore qualità di vita. Nella contrattazione collettiva aziendale c’è qualche indicazione che si concentra sugli strumenti di supporto alla maternità, unitamente alla formazione, all’ambiente di lavoro, etc. L’intervento pubblico sostiene con incentivi la contrattazione collettiva aziendale, sulle materie del welfare tra cui la conciliazione. Non va dimenticato che le iniziative di conciliazione non costano e quindi hanno meno bisogno di essere sostenute con incentivi dedicati come invece avviene con altre misure di welfare. Il problema riguarda i costi dal punto di vista organizzativo perché per fare bene la conciliazione è necessario che anche l’organizzazione del lavoro si adatti. In tal senso, più che esenzioni fiscali si potrebbe immaginare qualche altro tipo di premialità per stimolare questi comportamenti virtuosi da parte delle aziende. Esistono esempi in tema di responsabilità sociale di impresa aperti ad investimenti su politiche di tipo reputazionale. In alcuni paesi essere “campioni di pratiche di conciliazione” è utile per la reputazione aziendale e può servire ad aumentare il livello delle vendite nei confronti dei consumatori sensibili al tema. È il caso, ad esempio, delle aziende green oriented, che sfruttano il rilievo reputazionale anche per accrescere il loro mercato di riferimento.
La contrattazione territoriale è lo strumento principe per diffondere la conciliazione e la diffusione di iniziative virtuose anche perché rappresenta l’unico modo di raggiungimento delle PMI su questi temi. Anche se non fanno dumping contrattuale non hanno comunque lo stimolo a partecipare alle attività di contrattazione. Le parti datoriali non hanno mai favorito la contrattazione territoriale che si è diffusa solo in qualche settore e questo potrebbe essere il compito di alcune associazioni imprenditoriali illuminate che in questo modo avrebbero l’opportunità di dare il loro contributo sul territorio. I contratti collettivi nazionali di lavoro sono uno strumento indispensabile e hanno una ampia copertura. Un contratto collettivo nazionale di lavoro che vincoli tutti, soprattutto i datori di lavoro più piccoli potrebbe stimolare una diffusione reale anche degli strumenti di conciliazione. Proprio in questo momento storico si potrebbe attingere ad una risorsa come quella del welfare e della conciliazione, visto che gli aumenti salariali nei contratti collettivi saranno di poca entità.
Nelle aree del Sud è più debole il tessuto economico, le aziende sono più piccole e lo stesso capitale sociale è scarso, quindi si rischia una divaricazione su tutti gli indicatori economici e del benessere. Dai dati dello Svimez emerge come questi indicatori (longevità, tasso di istruzione, ambiente, etc.) riflettano questa eterogeneità, e il divario non accenna a diminuire negli anni. Questa debolezza economica e sociale influisce anche su quelle aziende che finora erano riuscite a resistere e che in questo momento vengono colpite duramente. È un problema di carattere nazionale, e non serve intervenire solo su un punto specifico perché l’intervento va fatto a monte, a partire dalle cause che hanno portato al divario storico fra Nord e Sud.
Un ruolo centrale spetta agli enti locali perché, come strutture amministrative, sono più vicine ai bisogni dei cittadini e delle famiglie e possono aiutare a connettere il welfare aziendale a quello territoriale. Gli impatti maggiori di questo ruolo si avrebbero nel miglioramento dell’occupazione, sia nell’ambito dei lavori di cura, sia con gli investimenti, in cui gli enti locali hanno mostrato di agire meglio rispetto allo Stato. Nel Sud una delle leve è questa: la qualità degli investimenti e delle amministrazioni. Un ruolo importante hanno anche le associazioni dei datori di lavoro e quelle del Terzo settore, che contano molto nelle attività di cura.
L’attuale emergenza Coronavirus potrebbe incidere sulla trasposizione della direttiva 2019/1158/UE sul worklife balance. C’è stato uno tsunami, non solo nella salute, ma anche nelle relazioni e nel lavoro. Certamente cambiare i tempi di vita e anche i luoghi di lavoro modifica molte cose tra cui gli orari e il modo di valutare il lavoro. Con la sospensione dei servizi scolastici i benefici dello smart working, in questa fase, hanno aiutato più gli uomini che le donne, sui quali non sono ricaduti in via immediata i compiti di cura familiari. Questo vuol dire che lo smart working, se usato bene nell’organizzare anche i rapporti in azienda, può essere uno strumento che facilita una maggiore autonomia delle persone un miglior uso del tempo e che quindi può essere utile sia per gli uomini sia per le donne. La direttiva dell’UE n. 2019/1158 ha dato una spinta in tema di conciliazione ed è uno dei casi in cui la regola europea non si limita a individuare una soglia comune a tutti i paesi membri, ma va oltre tale minimo comune denominatore, seguendo il modello dei paesi del Nord, che hanno normative più evolute. Se lo si organizza bene questo strumento può favorire anche l’applicazione della direttiva e valorizzare in particolare la possibilità di liberare del tempo per le persone che lavorano, in particolare per le donne.