L’inchiesta. L’Onu è prigioniera del suo stesso anacronismo

Volgere, oggi, lo sguardo verso il Palazzo di Vetro di New York rischia di essere oltremodo impietoso. Troppe sono le contraddizioni e gli enigmi irrisolti che avvolgono le Nazioni Unite. La crisi di credibilità e di legittimità dell’ONU, che ha raggiunto il culmine nell’incapacità d’intervenire con successo nelle sanguinose guerre inter-etniche che hanno portato alla dissoluzione della Jugoslavia, si ripercuote negativamente nell’intero sistema delle relazioni diplomatiche. Da un lato persiste, pragmaticamente, la volontà di mantenere una sorta di forum, di consesso mondiale che possa fungere da centro di contatto permanente fra gli attori internazionali. Dall’altro, montano le perplessità – e talvolta lo sconcerto – nel vedere l’ONU e le sue Agenzie Specializzate impaludarsi in una progressiva politicizzazione che ne mina l’imparzialità e ne favorisce l’impopolarità nell’opinione pubblica.

Permane, alla base, una criticità fondamentale: l’ONU, così come concepito nel secondo dopoguerra, non rappresenta l’odierno scenario internazionale. Esso è prigioniera della sua stessa natura di organizzazione intergovernativa che, al di là degli aulici scopi e dei principi elencati pedissequamente negli articoli 1 e 2 dello Statuto, nasceva con l’obiettivo primario di mantenere lo status quo geopolitico risultato dalla Seconda Guerra Mondiale. Questa mission risultava evidente nella ratio che sottintendeva l’organo esecutivo più importante per il funzionamento dell’organizzazione, il Consiglio di Sicurezza, composto dalle 5 nazioni vincitrici della Seconda Guerra Mondiale – Stati Uniti, Russia, Regno Unito, Francia e Cina – dotate del potere di veto e dunque di bloccare qualsiasi decisione sostanziale, e da altri 6 Stati a rotazione. Si pensi che l’unica riforma di rilievo risale al lontano 1963, quando l’aumento da 51 a 117 degli Stati dell’ONU in seguito al processo di decolonizzazione portò da 6 a 10 il numero dei membri non permanenti – eletti dall’Assemblea Generale con mandato biennale – del Consiglio di Sicurezza. Paradossalmente, accanto al Consiglio troviamo un altro organo, l’Assemblea Generale, che al contrario risponde ad un discutibile principio di eguaglianza giuridica: a prescindere dal peso politico, economico o demografico, ogni Stato esprime un solo voto. A rendere ancor più surreale questa architettura istituzionale, è la possibilità da parte dell’Assemblea Generale di eleggere – su proposta del Consiglio di Sicurezza – il Segretario Generale, che di fatto non può imporre alcuna decisione che non sia in grado di superare il veto dei membri permanenti.

Da allora, poco è cambiato all’interno del Palazzo di Vetro e molto, invece, al di fuori. La fine della Guerra Fredda, l’emersione di nuovi attori regionali e internazionali, la globalizzazione e i suoi conflitti, le minacce del terrorismo islamico non hanno trovato nell’ONU la necessaria dinamicità e prontezza operativa. Si è assistito, piuttosto, ad inediti attivismi – con conseguenti imbarazzi – delle Agenzie Specializzate: si pensi alle risoluzioni dell’UNESCO palesemente provocatorie nei confronti di Israele, o alla nomina di un rappresentante dell’Arabia Saudita a capo del Consiglio delle Nazioni Unite per i Diritti Umani. In sostanza, l’immagine contemporanea dell’ONU è quella di una sorta di grande bazar della diplomazia internazionale, dove all’azione si preferiscono imbarazzanti do ut des di poltrone e scambi di pedoni, mentre le mosse più importanti sullo scacchiere geopolitico vengono decise in altri contesti e, spesso, in maniera unilaterale. Vi sono stati, dagli anni Novanta, dei tentativi di portare al centro del dibattito la necessità di riformare la governance delle Nazione Unite. Tre, in particolare, sono i blocchi che si confrontano. Il primo è il cosiddetto G4 che comprende Germania, Giappone, India e Brasile che si supportano nella reciproca ambizione di diventare membri permanenti del Consiglio di Sicurezza. Il secondo, di cui fa parte anche l’Italia, fa capo al gruppo denominato Uniting for Consensus, favorevole all’aumento del numero dei membri a rotazione del Consiglio, ma nettamente contrario alle richieste del G4. Il terzo, infine, è il blocco dei Paesi africani, che chiedono più riconoscimento nel Consiglio di Sicurezza in entrambe le categorie dei membri.

V’è, tuttavia, un problema strutturale e giuridico che pare insormontabile e rende molto difficile una possibile riforma. Gli articoli 108 e 109 dello Statuto dell’ONU, infatti, prevedono che eventuali emendamenti e modifiche allo Statuto siano ratificati da due terzi dei membri delle Nazioni Unite, compresi “tutti i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza”. Ecco, dunque, che la vera domanda da porsi non è “qual è la riforma migliore?” bensì se una riforma sia effettivamente possibile. Forse sarebbe più saggio consegnare questo organismo alla Storia, e attivarsi per creare un’alternativa che non sia prigioniera del suo stesso anacronismo.

*Federico Cartelli, collaboratore Charta minuta