L’industria dei cavi sottomarini e gli interessi strategici del Paese

Intervento introduttivo del presidente Adolfo Urso al seminario  della Fondazione Astrid su “Industria dei cavi sottomarini: tendenze di mercato e geopolitica”

 

Colgo in apertura l’occasione per ringraziare Astrid e Franco Bassanini per la possibilità di continuare ad imparare in seminari come questo odierno, perché credo fortemente sia fondamentale per me, ed in generale per la classe dirigente di questo Paese, non smettere mai di apprendere su temi strategici e prioritari di cui è necessario avere approfondita conoscenza se si vuole agire, in tempi rapidi, in un mondo in cui assistiamo a continue accelerazioni nello sviluppo dei principali settori economici e tecnologici. Quindi, cercherò in particolare di ascoltare i vari interventi, che saranno molto utili, così come sono stati già molto utili incontri passati che ho avuto con alcuni di voi per continuare ad apprendere su questa materia.

Si tratta di questioni fondamentali nell’ambito del ruolo di Presidente che svolgo presso il “Comitato Parlamentare per la Sicurezza della Repubblica” (Copasir), soprattutto per allargare anche la prospettiva con cui in quella sede affrontiamo le tematiche della sicurezza nazionale. Il Copasir, infatti, non si occupa soltanto di intelligence, come accadeva in passato, e la stessa denominazione “Comitato Parlamentare per la Sicurezza della Repubblica” indica l’ampio perimetro della politica della sicurezza nazionale nei suoi vari aspetti, anche quelli riguardanti l’industria e la tecnologia del Paese.

Nell’ambito del mio lavoro di parlamentare, tra l’altro, ho presentato in Parlamento una mozione che riguarda proprio la politica italiana sui cavi sottomarini. Una mozione

parlamentare che non è stata né esaminata né discussa dal Parlamento, presentata oltre un anno fa, e che affrontava i temi complessi di cui discutiamo oggi.

È di assoluta importanza sottolineare che noi abbiamo un’industria ed una tecnologia da tutelare e da rafforzare nel campo dei cavi sottomarini. Non siamo infatti secondi a nessuna altra realtà internazionale, e possiamo svolgere un ruolo importante e significativo sotto i diversi aspetti che riguardano, ad esempio, le tendenze di mercato.

Ritengo su questo punto molto significativo il documento che avete presentato, in particolare per come riassume le modalità con cui si è sviluppato il mercato dei cavi sottomarini, come ha avuto un’accelerazione e quali sono i soggetti privati e pubblici, imprese e Stati, che intervengono e che comportano quindi considerazioni di natura geopolitica.

Per quanto riguarda il Copasir, la parte geopolitica di maggiore interesse è ovviamente la parte della sicurezza, tenendo però ben presente che le ricadute nel sistema industriale sono altrettanto significative: se infatti l’Italia perde eccessivo terreno nel campo della tecnologia e dello sviluppo industriale, utilizzare tecnologie altrui ci renderebbe sempre più dipendenti ed – in alcuni casi – soggetti a rischi che riguardano la nostra sicurezza nazionale. Questo vale nel settore di cui stiamo discutendo oggi, come sul terreno più ampio della transizione digitale e della transizione ecologica.

Se, lungo il percorso di queste due transizioni, l’Italia diventa Paese meramente utilizzatore di tecnologia altrui, aumenta in maniera esponenziale la dipendenza da altri paesi, con le conseguenze che tutti conosciamo. In particolare, si tratta della sicurezza nazionale, la quale ruota intorno all’informazione e ai dati che passano attraverso i cavi sottomarini, come è evidenziato sempre nella nota che avete condiviso in preparazione del seminario, ma anche della capacità di sviluppo dell’industria e dell’economia e quindi del lavoro italiano.

Il rischio che davvero corriamo, in riferimento anche all’attuazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), e di tutto quello che ne deve conseguire in termini di investimenti, è che l’industria ed i prodotti italiani – alla fine – non siano protagonisti

nei settori tecnologici di punta, non siano quindi attori protagonisti delle due transizioni – digitale ed ecologica – verso un’era moderna, verso un nuovo modello di sviluppo.

Parlando più specificatamente dei cavi sottomarini, è importante l’esempio degli hub del gas. L’Italia, infatti, è un hub europeo di gas coi suoi gasdotti, e questo è un elemento di forza del sistema, poiché ad esempio alla luce dei recenti rincari dei prezzi, consente all’Italia di essere abbastanza garantita, se non altro sotto l’aspetto dell’approvvigionamento. Non ovviamente dal lato dei prezzi, poiché su questo aspetto incidono altri fattori legati al settore energetico. L’Italia può però diventare un hub importante anche per quanto riguarda il sistema dei cavi sottomarini e dei cavi terrestri.

In una interrogazione che presentai in Parlamento, prima di divenire Vice Presidente e poi Presidente del Copasir, posi la questione della necessità di una strategia italiana in materia di industria dei cavi, contemplando l’utilizzo dello strumento del golden power nel caso dell’azienda Interoute, una multinazionale europea che possedeva il più esteso backbone in fibra ottica presente sul continente europeo, frutto del lavoro delle imprese italiane, che avrebbe potuto essere recuperato al sistema Italia se il governo avesse attuato la stessa strategia che aveva attuato in passato. Lo strumento della golden power sarebbe infatti determinante per recuperare a sistema anche un’importante dorsale di telecomunicazione, di trasmissione di informazione europea.

Reputo pertanto che manchi all’Italia un “progetto Paese”, in cui lo Stato sappia difendere i propri interessi in settori strategici, in particolare in quelli innovativi dal punto di vista tecnologico. Recentemente, il Presidente del Consiglio Mario Draghi ha affermato, molto correttamente, che lo Stato, nella frontiera tecnologica, deve essere presente. Le sue parole erano riferite alla frontiera tecnologica del digitale, nel campo della green economy e del settore energetico.

Nei settori di frontiera tecnologica, lo Stato deve svolgere un ruolo attivo, come viene svolto ad esempio dalla Repubblica Popolare Cinese o dagli Stati Uniti, secondo un modello di “capitalismo di Stato”. Un esempio è come gli Stati Uniti si stanno muovendo nel settore dello spazio, tema a cui ci stiamo interessando molto anche noi.

Sarebbe pertanto utile che il nostro Paese si dotasse finalmente di una strategia anche nella politica riguardante i cavi sottomarini. Una strategia necessaria perché, come è stato giustamente sottolineato nella nota introduttiva al seminario, ben il 99% delle informazioni e dei dati globali passano attraverso questa infrastruttura. Peraltro, diventa ancor più fondamentale svolgere un ruolo importante in questo settore, in un momento storico in cui connettere le varie aree geografiche è fattore determinante per il modello economico dominante.

In questo contesto, ci auguriamo inoltre che la strategia di cui si deve dotare l’Italia – ma anche l’Europa – consenta al Mediterraneo di svolgere un ruolo importante nel connettere l’area atlantica con l’area del Pacifico, il continente americano e quello europeo e, queste due ultime aree, con le zone in forte sviluppo dell’Africa e dell’Asia.

Il Mediterraneo rappresenta infatti il centro strategico che può connettere tutte queste realtà, uno snodo fondamentale che sarebbe auspicabile, tramite ad esempio gli hub di Palermo o Genova e non solo di Marsiglia, potesse svolgere un ruolo da protagonista nell’ambito dello scambio e della trasmissione di dati e informazioni a livello globale.

La competizione è molto forte anche sulla scelta delle aree dove i cavi sottomarini si ricollegano a quelli terrestri; per questo è importante avere una posizione dell’Italia decisa e in grado di favorire i propri hub e quindi di creare una dorsale italiana strategica a livello internazionale. È necessario quindi porre grande attenzione che le nuove infrastrutture di cavi sottomarini che stanno nascendo e nasceranno nel Mediterraneo non “saltino” i nostri hub, in favore di hub tedeschi (Francoforte) o francesi (Marsiglia), favorendo quindi le economie e gli interessi di altri paesi a discapito dei nostri.

In conclusione, l’Italia deve recuperare al più presto il terreno perso in questo settore strategico anche a causa, e lo dico senza intenti polemici, di alcune privatizzazioni di grandi imprese nazionali che hanno di fatto impedito all’Italia di avere un ruolo importante nella costruzione delle infrastrutture dei cavi sottomarini. Motivo per cui, ad esempio, per altre grandi imprese italiane come Enel ed Eni, fu scelto un modello

diverso, che ha oggettivamente funzionato, in cui il ruolo del pubblico rimaneva centrale. Per altre aziende, come ad esempio Telecom Italia, purtroppo furono fatte scelte diverse: meno di tre decenni fa Telecom Italia era una delle più grandi aziende di telecomunicazione globali ed oggi abbiamo quel che il mercato ci ha riservato.

Si tratta purtroppo di errori del passato che hanno conseguenze importanti sul presente. Nell’ambito del settore di cui discutiamo oggi, quello dell’informazione e dei dati, della loro trasmissione, circa trent’anni fa furono fatte scelte sbagliate, non considerandolo strategico al pari di quello dell’energia, del gas o del petrolio. Non si è avuta la capacità di comprendere che invece si trattava di settori probabilmente ancor più strategici di quelli citati, che – se affrontati con politiche economiche e industriali adeguate – oggi non ci avrebbero posto nella condizione di dover gestire e superare le enormi difficoltà con cui invece dobbiamo confrontarci.

È importante però recuperare il tempo perso e rimediare agli errori fatti in passato, poiché è ancora possibile ritagliarsi un ruolo importante a livello internazionale, applicando un’unica logica in quello che è lo sviluppo del sistema digitale in questo Paese. Lo Stato può avere una sua strategia che può poi declinarsi di volta in volta secondo strumenti diversi: ad esempio, tramite la golden power per difendere i propri interessi nazionali, o tramite la Cassa Depositi e Prestiti, per intervenire in maniera attiva in alcuni settori strategici, o infine attraverso la politica regolamentare.

A monte di tutto ciò, è però decisivo che lo Stato si doti di una strategia ben precisa ed organica, in grado di fare dell’Italia una piattaforma digitale e di connettività tra contenimenti nel Mediterraneo e in Europa. Per questo, è necessario che anche le aziende svolgano un ruolo attivo e centrale nel settore dei cavi sottomarini, ragionando e operando in una logica di sistema. Soltanto ragionando in questi termini, si può giungere ad accordi internazionali che tutelino gli interessi italiani ed europei. Il nostro Paese, ovviamente, non può aderire direttamente a consorzi internazionali, né è dotato di imprese in grado di fare da sole quello che sono in grado di fare le grandi Big Tech americane o cinesi, ma può mettere in campo una strategia di sistema Italia, in cui le

nostre imprese sono incentivate ad aderire a consorzi di imprese internazionali, delineando un piano nazionale che renda la nostra penisola una piattaforma strategica, interconnessa con cavi sottomarini al resto d’Europa e, attraverso l’Europa, all’Atlantico, interconnessa nel Mediterraneo con i paesi africani. In particolare, l’Italia deve mirare a rappresentare un hub centrale tra i paesi della sponda sud del Mediterraneo, che dovranno interconnettersi con la piattaforma europea, e quei paesi che vorranno connettersi con i paesi asiatici, dove nei prossimi anni, è prevista la maggiore produzione di informazione.

Non dobbiamo inoltre dimenticare che l’Europa resta il continente che produce la maggior quantità di dati ed informazioni, e di conseguenza non dobbiamo dimenticare quanto sia importante preservare questi dati e queste informazioni. Questi elementi, infatti, oggi rappresentano il campo da gioco dove si svolge la partita della geopolitica, ed è estremamente importante per l’Italia svolgere un ruolo centrale. Dotarsi di una gestione strategica dei dati oggi consente, da una parte, di garantirsi maggiore sicurezza nazionale, e, dall’altra parte, di sviluppare i settori dell’industria, della ricerca della tecnologia, incentivando e attraendo investimenti internazionali.

Credo quindi che il seminario che Astrid ha organizzato oggi sia molto importante anche per lanciare un messaggio alle istituzioni, che devono rendersi conto della grande velocità con cui certe dinamiche si stanno sviluppando, anche a seguito della recente pandemia e del lockdown a cui siamo stati costretti. Abbiamo infatti scoperto tutti quanto sia importante il lavoro a distanza, e quanto sia importante la rete Internet. L’uso della rete ha raggiunto livelli incredibili, rendendoci consapevoli sia degli aspetti positivi, sia di quelli negativi in termini di sicurezza e vulnerabilità (ad esempio in ambito sanitario).

Ci rendiamo quindi conto, e mi rivolgo in particolare all’amico Bassanini, quanto sia importante creare una rete in Italia che giunga all’ultimo miglio nel più breve tempo possibile. Se non abbiamo una rete italiana di banda ultra larga, se non abbiamo un Cloud nazionale della pubblica amministrazione che preservi i nostri dati, se non

abbiamo investimenti significativi, una connessione di cavi marittimi e cavi terrestri per farci diventare piattaforma digitale europea nel Mediterraneo e quindi nel mondo, anche le risorse, il PNRR, subiranno una dispersione e andranno a beneficio di altri, non certamente a noi.

*Adolfo Urso, presidente Fondazione Farefuturo

 

Una risposta comune dell’Occidente alla crisi ucraina

In una fase della vita internazionale complessa, in rapida evoluzione  e per più di un motivo inquietante ( basti pensare, sul versante dell’Indo-Pacifico ,alle perduranti minacce della Repubblica Popolare cinese all’indirizzo della democrazia taiwanese) , le tensioni in atto tra Kiev e i suoi partner occidentali, da un lato, e Mosca dall’altro –  con correlati  movimenti / ammassamenti di truppe ai confini – non possono che accrescere il livello delle nostre preoccupazioni.

Anche perché tali tensioni  si collocano  sullo sfondo di un rapporto tra gli Stati Uniti e il Cremlino che resta difficile e improntato a diffidenza reciproca, per una pluralità di motivi. Motivi che vanno, per non citarne che alcuni :  dalla persistenza , in seno alla dirigenza e a larghi settori della popolazione russa, di quel “complesso dell’accerchiamento” che da secoli accompagna e condiziona le scelte di Mosca in politica estera – e che è per certi versi l’equivalente di quel che è per la Turchia Repubblicana, altro orgoglioso e sospettoso ex- impero…- il “complesso di Sèvres” –  alle inconciliabili tesi  , di  Mosca e di Washington,  circa l’esistenza di un “impegno”  americano a non procedere ad allargamenti della NATO verso est ( impegno che il Cremlino asserisce essere stato preso ai più alti livelli all’inizio degli anni ’90 del secolo scorso: ciò che Washington nega) ;   alle confliggenti posizioni delle due Capitali in relazioni a crisi regionali di peso come quella siriana e quella libica nonché con riferimento, ad esempio, alla delicata questione del “nucleare iraniano”; alla perdurante aspettativa di Putin di vedere nuovamente riconosciuto al suo Paese, da parte   americana  , quello “status” di potenza globale a suo tempo negatogli, con formulazione oggettivamente poco felice..( “la Russia è una potenza regionale”)  , dall’allora Presidente Obama; alle accuse di molti Paesi occidentali al Cremlino, USA in primis,   di interferenze anche per via cibernetica nelle  proprie consultazioni  elettorali e nei processi democratici interni.

Di tale perdurante e  acceso confronto ad ampio spettro le rinnovate tensioni in atto  tra Washington e Mosca relativamente alla “questione ucraina” con richieste incrociate di “garanzie” – per il Cremlino essenziale quella che l’Ucraina mai sarà ammessa a far parte  della NATO, per la Casa Bianca quella che la Federazione Russa in nessuna circostanza  violerà  i confini e la sovranità di quel Paese – rappresentano per così dire il punto di fissazione e, al tempo stesso, un potenziale moltiplicatore , ove la via diplomatica  non riesca in tempi stretti a imporsi come strada maestra e senza subordinate… per uscire dalla crisi.

Sotto tale profilo il colloquio di martedi scorso di ben due ore , seppur in tele-conferenza, tra il Presidente Biden e il suo omologo russo non può che essere registrato positivamente, al di là del suo esito non risolutivo ( ma nessuno pensava lo sarebbe stato). Nel merito, si apprende dal comunicato finale diffuso dalla Casa Bianca, Biden ha tenuto a esprimere “ le profonde preoccupazioni degli Stati Uniti e degli alleati europei per l’escalation delle forze armate che stanno circondando l’Ucraina”.

Ha aggiunto, con un passaggio improntato a condivisibile  fermezza che “ deve essere chiaro gli Stati Uniti e gli alleati europei risponderanno con forti sanzioni e altre misure nel caso  di una ulteriore escalation militare ”. Egli ha poi  voluto   ribadire, come era lecito attendersi e in linea con la posizione degli alleati europei a cominciare dal nostro Paese, il sostegno degli Stati Uniti alla sovranità e all’integrità territoriale dell’Ucraina   ( sostegno – merita ricordare a fronte delle attuali forti pressioni/intimidazioni di Mosca nei confronti di Kiev – che la stessa Federazione Russa non aveva   mancato di assicurare nel dicembre 1994 attraverso la sottoscrizione –   insieme con Stati e Uniti e Regno Unito seguiti poi da Cina e Francia – del cosiddetto “Memorandum di Budapest”   ) .

Accordo con il quale le potenze in parola – in cambio dell’accettazione da parte di Kiev dello smantellamento dell’enorme scorta di armi nucleari che aveva ereditato a seguito della dissoluzione  dell’URSS  e della sua adesione al Trattato di non-proliferazione –  si impegnavano, all’ articolo 1, a “ rispettare  l’indipendenza , la sicurezza e l’integrità territoriale dell’Ucraina entro i suoi attuali confini” ( impegno che da parte ucraina si era ovviamente tenuto  a ricordare a Mosca , pur se purtroppo senza esito, già nel 2014: all’epoca cioè della annessione russa della Crimea..).

La Casa Bianca  ha tenuto tuttavia significativamente a precisare , all’indomani della videoconferenza , che tra le opzioni di sostegno all’Ucraina oggetto di esame non rientra quella militare,  e che l’articolo 5 del Trattato istitutivo dell’Alleanza – la reciproca difesa tra alleati nel caso di un attacco di una Parte terza a uno di essi –  “ non si può applicare all’Ucraina che membro della NATO non è ”.

Osservo per inciso che il Presidente americano – ciò che non è dato secondario- ha peraltro tenuto ieri a rassicurare personalmente l’omologo ucraino Zelensky quanto al fatto che, si legge nel relativo comunicato della Casa Bianca, “ il sostegno statunitense alla sovranità e all’integrità territoriale dell’Ucraina non conoscerà cedimenti “, rinnovando però in pari tempo la sua aspettativa di una soluzione diplomatica “ anche attraverso un rilancio delle trattative tra Kiev e Mosca , attualmente in stallo”.

Tornando al suo colloquio di martedi scorso con Putin  Biden ha poi voluto sottolineare   di essere stato molto chiaro con quest’ultimo, “che ha ricevuto il messaggio”, circa il  fatto che gli Stati Uniti adotterebbero “sanzioni mai viste” nel caso di un’invasione da parte di Mosca dell’Ucraina. Tra queste, secondo indiscrezioni che circolano a Washington riprese da autorevoli organi di stampa, figurerebbe anche l’ulteriore sospensione della realizzazione del gasdotto Nord Stream 2 : prospettiva di rinnovata  messa in “stand-by” del progetto ( progetto  al quale il nuovo Ministro degli Esteri tedesco, la verde Annalena Baerbock , è peraltro da sempre contraria) che avrebbe già ricevuto il tacito avallo del nuovo Esecutivo a Berlino.

Si tratterebbe in sostanza  di scelta che potrebbe essere utilizzata come sanzione, in caso di ingresso di forze russe in Ucraina;  in modo , si osserva, da togliere a Mosca  l’arma del ricatto del gas nei confronti dell’Unione Europea.

Da parte sua, Putin ha ribadito – nel corso della sua conversazione da remoto con Biden – la richiesta all’Ucraina di una piena messa in atto delle intese firmate a Minsk nel 2015 sotto l’egida di Parigi, Berlino e Mosca : a cominciare dalla concessione della prevista “autonomia regionale” alle regioni a maggioranza russofona facendone una precondizione per il ritiro delle forze filo-russe dal Donbass.  E’ richiesta cui, come noto, le componenti nazionaliste ucraine continuano ad opporsi impedendo l’adozione in Parlamento di  misure nel senso indicato nonostante le aperture  suo tempo manifestate dal Presidente Zelensky. Putin ha inoltre, a quanto è dato sapere, rinnovato a Biden  la richiesta di un “ impegno formale” da parte americana  che l’Alleanza Atlantica, dopo l’ingresso nel 2004 delle Repubbliche Baltiche, non si estenderà  ad altre Repubbliche ex-sovietiche a cominciare da Ucraina e Georgia. Domanda per evidenti motivi – anche di natura giuridica, non prevedendo il Trattato di Washinton o altri strumenti internazionali in vigore l’avallo di stati terzi a scelte “sovrane” dell’Alleanza- difficilmente ricevibile. Né – a essere onesti e al di là delle ricorrenti recriminazioni di Mosca –  paiono  al momento sussistere le premesse per raggiungere, sul tema dell’ adesione di Kiev alla NATO, la richiesta  unanimità in seno a un Consiglio Atlantico composto ormai da ben 30 Paesi membri con sensibilità e priorità geo-politiche non  necessariamente convergenti.  Anche perché , merita ricordare, a oggi non esiste alcun invito formale ad Ucraina ( e Georgia), da parte  degli stati membri, ad aderire alla NATO.

E tutto questo senza contare le stringenti condizioni poste, per l’ingresso di nuovi membri, dall’articolo 10 dello stesso  Trattato istitutivo ( Trattato di Washington dell’aprile 1949). A cominciare da quella secondo la  quale lo Stato invitato ad aderire deve essere in grado di “ promuovere i principi alla base del Trattato di Washington “ nonché – condizione  che mi sembra ancor più rilevante, e di difficile realizzazione, nel caso di specie – di “contribuire alla sicurezza dell’area  nord-atlantica”.

Come sopra accennato di tali fattori di complessità ( per non parlare di vera e propria criticità) la dirigenza russa non può non essere consapevole. Mi sento pertanto di concordare con quanti sostengono che l’insistenza di Mosca sui suoi timori di una prossima adesione all’Alleanza Atlantica di Ucraina ( e Georgia) possa essere  in realtà l’espressione, più che di una reale e a mio avviso infondata inquietudine , di una volontà del Cremlino di avvalersi di ogni carta possibile – anche di quelle oggettivamente meno spendibili ….- per rafforzare la propria mano negli  attuali e futuri negoziati a  tutto campo con Washington.

In tale ottica negoziale e di messa in guardia degli Stati Uniti credo vada letto anche il gioco al rialzo di Putin che  , il giorno successivo alla video-conferenza con  l’omologo americano , si è così espresso, dopo aver definito “provocatoria” l’accusa che il suo paese voglia attaccare la vicina Repubblica ucraina : ”….sarebbe criminale stare a osservare passivamente gli sviluppi di una possibile adesione dell’Ucraina alla NATO”. Aggiungendo che entro pochi giorni da parte russa sarebbero stati inviati a Washington “ i dettagli di quello che Mosca chiede” a titolo di garanzia. Allo stesso spirito  di tattica negoziale c’è da augurarsi ( ma è ,appunto, solo un auspicio..) rispondano le gravi affermazioni, di ieri, del vice-Ministro degli Esteri russo Rybakov spintosi a definire le tensioni che si registrano al confine orientale dell’Ucraina , delle quali sarebbe a suo avviso esclusivamente responsabile l’Occidente e la dirigenza di Kiev, “una minaccia all’ordine mondiale, paragonabile a quelle dei momenti più gravi della guerra fredda”.

Altrettanto preoccupanti le parole di Putin sempre ieri – due giorni dopo dunque la sua videoconferenza con Biden che si poteva sperare avrebbe  favorito  quanto meno  un  abbassamento dei toni –  secondo le quali “la situazione del conflitto nel Donbass è molto simile a un genocidio” ; cosi come inquietante suona la pressoché contestuale affermazione del Capo di Stato Maggiore russo secondo cui “ la situazione si sta aggravando e qualsiasi tentativo di Kiev di risolvere la crisi del Donbass con l’uso della forza sarà stroncato”.  Il percorso per un effettivo e durevole riavvicinamento tra Washington e Mosca sul tema Ucraina e per il superamento delle attuali tensioni resta, dunque, decisamente in salita né il colloquio da remoto  tra i due Capi di Stato ( con l’indiretto riconoscimento alla Russia, ciò che Putin notoriamente auspicava, di un ruolo di potenza globale ) appare aver davvero contribuito  almeno per ora – ma i fatti diranno- a raffreddare la crisi.   Anche se da parte americana- si apprende da autorevoli fonti interne all’Amministrazione riprese oggi tra gli altri dal “Guardian” – si intende proseguire nei contatti con la controparte russa per cercare insieme una via di uscita.

Non a caso – a conferma della serietà e delicatezza della questione ( e , penso, anche per non ripetere il grave errore e danno d’immagine rappresentato dal caotico ritiro statunitense dall’Afghanistan senza alcun previo coordinamento con gli alleati europei) – Biden ha tenuto  , subito dopo la conclusione della sua videoconferenza con Putin, a intrattenersi telefonicamente con i “leader” dei principali Paesi alleati europei, tra i quali il Presidente Draghi ( nel cosiddetto “formato    Quint ”: Francia Regno Unito, Germania, Italia più Stati Uniti) e altri contatti nello stesso formato sono previsti per i prossimi giorni .  Per informarli personalmente  dell’esito della sua discussione con Putin e consultarsi su come ulteriormente procedere, a pochi giorni dal Consiglio Affari Esteri UE del 13 dicembre e dal Consiglio Europeo  di tre giorni dopo : appuntamenti nel corso dei quali il tema Ucraina e quello di  eventuali nuove sanzioni nei confronti di Mosca occuperanno  certamente spazio importante.

Su tale sfondo, di per sé quanto mai  delicato, la dura reazione di Mosca ( e Pechino) alla tenuta  del       “  vertice  delle democrazie” convocato da Biden  al momento in corso in modalità virtuale  e che si chiuderà oggi – con Russia e Cina tra i Paesi non invitati – introduce  un ulteriore fattore di tensione . Tensione anticipata e alimentata , nei giorni scorsi, anche  dall’ articolo a firma congiunta degli Ambasciatori a Washington di Russia  e Cina nel quale si accusano gli Stati Uniti di “ dividere il mondo in buoni e cattivi, sulla base di loro criteri”.

Altro appuntamento diplomatico importante , di qui alla prossima settimana, è il confronto anche sul tema Ucraina e dei rapporti con Mosca che il Segretario di Stato Biden –  affiancato dall’influente  Sottosegretario Victoria Nuland – avrà a Liverpool con i suoi omologhi del G7 da oggi  a domenica.        Sarà  a mio avviso anche un  modo per cominciare a dare attuazione da parte americana – sul piano della necessaria previa concertazione con i principali alleati e partner occidentali –   all’appello lanciato da Biden a Putin  al termine della  video-conferenza di due giorni orsono : “ torniamo alla diplomazia e facciamo lavorare i nostri consiglieri”. Appello che, a voler essere ottimisti, lascia in qualche misura la porta aperta alla speranza  di una soluzione per via negoziale pur a fronte di ostacoli  che restano, senza dubbio, assai difficili da superare….

E  proprio per questo motivo la coesione dell’Occidente – in particolare    nel quadro  atlantico ed europeo : i due pilastri della nostra politica estera –  mi sembra più che mai indispensabile, rifuggendo dalla tentazione di fughe in avanti nei rapporti con Mosca  ( magari per il perseguimento di benefici   di breve periodo ad esempio sul terreno economico o energetico )  che qualche Capitale europea  ancora forse coltiva.

Da convinto “atlantista” – consapevole però al tempo stesso del peso geo-politico e della  capacità di condizionamento della Federazione Russa, ancor oggi ineludibile potenza euro-asiatica,  sulla scena internazionale e regionale – sono però in pari tempo dell’avviso  che il convincimento dei Paesi della “vecchia Europa” ( dalla Francia, alla Germania all’Italia)  in merito alla necessità continuare ad adoperarsi per mantenere aperto un qualche  canale di interlocuzione  con Mosca resti, in via di principio, corretto. A condizione  , naturalmente, che i comportamenti russi – con riferimento, ad esempio,  alla vicenda ucraina o a interferenze nei processi elettorali e nel gioco democratico di  paesi terzi – non rendano  tale strada  impraticabile. E i segnali che giungono in queste ore da Mosca , con le pesanti minacce alla sicurezza e integrità territoriale di uno stato sovrano come l’Ucraina , non inducono  all’ottimismo.

E’ dialogo , quello che ho sopra evocato, che andrà condotto con fermezza – in stretto coordinamento con i nostri alleati d’oltre- oceano ( Canada e Stati Uniti) –  e con un chiaro disegno politico di lungo periodo: avendo a mente tra l’altro la necessità di fare il possibile per evitare che il riavvicinamento in corso tra Mosca e Pechino si trasformi in un asse durevole e strutturato – seppur dettato, almeno per la parte russa, da motivi tattici – che si risolverebbe in una perdita secca per l’Occidente nel suo complesso. E per le democrazie nostre alleate anche di area asiatica .

L’importante è in sostanza, a mio avviso, definire un obiettivo per il raggiungimento del quale può  rivelarsi necessario  proseguire un dialogo con la Federazione Russa sui vari teatri di crisi: dal Mediterraneo allargato al futuro dell’Afghanistan e dell’Asia Centrale alla crisi libica a  quella siriana.

Per tornare all’obiettivo di fondo cui ho sopra accennato penso, ad esempio,  al traguardo di rilievo mondiale del raggiungimento della “stabilità strategica”, al rinnovo in tale prospettiva del Trattato START sulla riduzione degli armamenti nucleari strategici ( venuto a scadenza lo scorso febbraio)  e, infine,  al contributo che il Cremlino potrebbe offrire alla realizzazione del condivisibile auspicio statunitense, e della NATO, che il cosiddetto “NEW START” possa coinvolgere anche la Repubblica Popolare cinese :  da tempo impegnata, come noto,  in un impressionante e inquietante  potenziamento del proprio arsenale convenzionale e nucleare .

E’  linea del resto, quella del dialogo  con Mosca in presenza delle appropriate condizioni ,  che il nostro Paese – naturalmente all’interno della  inequivoca scelta atlantica ed europea da noi effettuata da decenni e opportunamente ribadita più di recente,  e con forza, dal Presidente Draghi – da sempre caldeggia al pari di Francia e Germania. Approccio che dovremo continuare a perseguire –  sempre che , ripeto, le iniziative di Mosca sul terreno non la rendano impraticabile – attraverso  una interlocuzione costante col nostro imprescindibile alleato statunitense. Interlocuzione che dovrà  essere  in grado però , più di quanto  non sia sinora avvenuto, di far valere anche il nostro “interesse nazionale” non necessariamente convergente con quello di Parigi e Berlino: due capitali tradizionalmente assai attente a calcolare i ritorni politici ed economico/commerciali di ogni loro azione di politica estera, anche  sul terreno dei contatti col nostro principale alleato .

In sostanza, quello che auspico è un’ Italia membro convinto dell’Alleanza atlantica – e fedele agli obblighi che ne derivano –  non pregiudizialmente chiusa però all’esigenza per l’Occidente di mantenere aperto per quanto possibile il dialogo con Mosca, nel segno di interessi di portata più generale ( come quelli, per non citarne che alcuni,  del controllo e della riduzione delle armi di distruzione di massa e del contenimento delle ambizioni cinesi su scala mondiale) . La duplice via della deterrenza e del dialogo con Mosca  , ma solo in presenza delle necessarie  condizioni, è del resto quella che la stessa NATO persegue , esplicitamente ribadita, da ultimo, nelle conclusioni del vertice alleato di Bruxelles dello scorso 14 giugno . Un’ invasione russa del territorio ucraino, indipendentemente da come Mosca tentasse poi di  giustificarla, si rivelerebbe evidentemente ostacolo non superabile sulla via della prosecuzione del dialogo ;  e tale da innescare da parte americana  la presa in considerazione di altre opzioni, tra le quali quella di un accresciuto sostegno anche sul versante  delle forniture militari agli alleati più a ridosso del confine russo ( oltre che , va da sé, in termini di invio di ulteriore equipaggiamento difensivo all’Ucraina).

*Gabriele Checchia, responsabile per le Relazioni internazionali della Fondazione Farefuturo

 

È IN GIOCO LA SICUREZZA NAZIONALE

Finalmente l’Europa si è svegliata e si tutela dagli investimenti cinesi e persino la Germania denuncia che la via della Seta è lo strumento del dominio globale di Pechino. Quando lo denunciammo noi, nel meeting internazionale della Fondazione Farefuturo, organizzato alla Camera proprio il giorno dell’arrivo trionfale a Roma del Presidente cinese, gli altri plaudivano agli accordi Italia-Cina sottoscritti dal governo Conte Lega-Cinque Stelle. Ecco il testo dell’intervento che in quella occasione fu svolto da Giulio Terzi di Sant’Agata

 

I) Le indicazioni fornite dalla “Relazione sulla Politica dell’Informazione per la Sicurezza – 2018”

Una seria valutazione della minaccia che grava sulla nostra sovranità nazionale nel caso specifico del processo di avvicinamento della Cina al quale la visita di Stato del Presidente Xi Jinping intende imprimere un decisivo impulso anche attraverso il Memorandum of Understanding e l’adesione italiana alla “Via della Seta”, deve muovere, io credo, da una attenta rilettura della Relazione sulla politica dell’informazione per la sicurezza recentemente resa pubblica dai nostri servizi di intelligence. In particolare, vorrei rilevare come alcune osservazioni alle pagine 61, 62, 63, nonché alcuni riferimenti nel documento allegato, riguardino specificamente la Cina, tracciando un identikit senza nome ma con una chiarissima profilatura complessiva, che fornisce la proporzione esatta del problema che abbiamo dinanzi. Il Rapporto della nostra Intelligence dice quanto segue: – Le iniziative attuate dal Governo nel corso dell’anno, intese ad attrarre in Italia partner economici con una prospettiva di lungo periodo, sono valse a ribadire la valenza strategica, per il Sistema Paese, dell’afflusso di capitali stranieri in grado di concorrere allo sviluppo delle imprese italiane, sia finanziando programmi di ricerca e innovazione volti a mantenere adeguati livelli di competitività, sia favorendo l’accesso a know-how industriale e a nuovi mercati di sbocco. – L’attività intelligence ha risposto all’esigenza di cogliere i rischi legati all’ingresso nel tessuto economico nazionale di soggetti, capitali e prodotti stranieri, quello di “decifrare” eventuali proiezioni estere in contrasto con l’interesse nazionale, perché rispondenti a finalità extraeconomiche o in quanto volte a depredare le imprese-target, specie di tecnologie o marchi.

– L’azione informativa è stata diretta in primo luogo al comparto della difesa e dell’aerospazio, con particolare attenzione alla tutela del know-how e dell’integrità delle filiere.

– Pari attenzione è stata rivolta agli altri settori strategici cui fanno capo le attività di base indispensabili per garantire i servizi vitali e il benessere della collettività: telecomunicazioni e relative reti, terrestri e mobili, anche con l’obiettivo di preservare l’integrità e la sovranità dei dati; trasporti, specie per quel che attiene alle dinamiche proprietarie dei vettori e degli operatori infrastrutturali; energia, con riferimento sia alle implicazioni sul piano industriale delle operazioni di merger and acquisition, sia alla salvaguardia delle infrastrutture.

– Ha incluso nel perimetro di tutela: dalle infrastrutture di immagazzinamento e gestione dati a quelle finanziarie, dall’intelligenza artificiale alla robotica, dai semiconduttori alla sicurezza in rete in analogia con i meccanismi di tutela adottati da alcuni importanti partner occidentali.

– La ricerca informativa si è in particolare appuntata sui soggetti espressione di un controllo pubblico, diretto o indiretto, che per loro stessa natura rappresentano non di rado i vettori per perseguire finalità extraeconomiche. Nella medesima ottica di protezione, si è guardato ad operatori caratterizzati da opacità sia nella governance sia nelle strategie di investimento.

– Quanto alle modalità di azione degli attori ostili o controindicati, il monitoraggio intelligence ha rilevato iniziative tese a esfiltrare tecnologia e know-how (anche attraverso l’acquisizione di singoli rami d’azienda) o a conquistare nicchie di mercato pregiate, facendo emergere, in qualche caso, la tendenza alla strutturazione di manovre complesse finalizzate a guadagnare posizioni di influenza in segmenti del sistema economicofinanziario nazionale, ovvero a conquistare peso monopolistico in specifici settori di attività.

– Evidenze informative hanno fatto stato, poi, dei tentativi di operatori esteri di alterare il quadro competitivo attraverso il sistematico storno di capitale umano ad alta specializzazione in forza a imprese nazionali, la studiata marginalizzazione del management italiano (anche nell’ambito di partnership e joint venture) e il ricorso ad azioni di influenza esercitate attraverso consulenti e manager “fidelizzati”.

– L’attività a protezione del know-how tecnologico e innovativo delle imprese italiane ne ha registrato la persistente esposizione ad iniziative di spionaggio industriale, specie con modalità cyber agevolate dalla digitalizzazione pressoché integrale dei processi produttivi e più pervasive nei confronti delle piccole e medie imprese, come si dirà nell’allegato Documento di Sicurezza Nazionale.

– La filiera marittimo-logistica ed i suoi nodi critici – rappresentati da porti, aree retroportuali e punti intermodali che connettono economie locali e sistemi produttivi – in un’ottica intesa a rilevare vulnerabilità di sicurezza in grado di condizionarne funzionamento e sviluppo.

– Dal monitoraggio delle Tecniche, Tattiche e Procedure (TTP) utilizzate è emerso un accresciuto livello di complessità e sofisticatezza delle azioni, l’uso combinato di strumenti offensivi sviluppati ad hoc con quelli presenti nei sistemi target impiegati in modo ostile, nonché il “riuso” di oggetti malevoli (malware) allo scopo di ricondurne la matrice ad altri attori (cd. operazioni false flag).

– In tale contesto, lo sforzo più significativo posto in essere dal Comparto ha riguardato il contrasto di campagne di spionaggio digitale, gran parte delle quali verosimilmente riconducibili a gruppi ostili strutturati, contigui ad apparati governativi o che da questi ultimi hanno ricevuto linee di indirizzo strategico e supporto finanziario.

– Quanto alle finalità perseguite, gli attacchi hanno mirato, da un lato, a sottrarre informazioni relative ai principali dossier di sicurezza internazionale, e, dall’altro, a danneggiare i sistemi informatici di operatori, anche nazionali, attivi nello Oil&Gas, nonché quelli di esponenti del mondo accademico italiano, nell’ambito di una campagna globale mirante a profilare settori d’eccellenza di università e centri di ricerca.

– Sul fronte delle infrastrutture di attacco, i gruppi responsabili di azioni di cyber-espionage hanno proseguito nell’impiego di servizi IT commerciali (domini web, servizi di hosting, etc.), forniti da provider localizzati in diverse regioni geografiche, anche per rendere difficoltoso il processo di individuazione. Qui, l’attaccante ha colpito le infrastrutture tecnologiche degli obiettivi finali tramite la violazione preventiva di quelle dei fornitori, abusando sovente anche delle relazioni di fiducia connesse al rapporto contrattuale.

II) Le indicazioni contenute nel Rapporto IISS- Merics

La Dr.ssa Helena Legarda ha approfondito come nella sua ricerca di diventare una “superpotenza nella scienza e nella tecnologia” e nell’obiettivo di acquisire la capacità militare dominante, la Cina abbia intrapreso da tempo, e ulteriormente accelerato negli ultimi anni, un percorso per conseguire una completa integrazione civile-militare, e sviluppare tecnologie a doppio impiego “Dual – use”. Per l’Europa, l’incentivo ad essere competitiva e a tenere il passo con i rapidissimi progressi tecnologici della Cina, risiede nella capacità di proteggere i propri settori innovativi. Si tratta di esigenze imperative che riguardano allo stesso tempo l’ambito militare, commerciale ed economico.

 

III)      “Belt and Road Initiative” (BRI) e “Via della Seta

I risultati conseguiti dal Presidente Xi Jinping sul piano interno nel consolidare il sistema di potere guidato dal Partito Comunista Cinese. Un potere sempre più accentrato nella figura di un Presidente ormai svincolato da termini di mandato e, apparentemente, da qualsiasi apprezzabile forma di opposizione interna.  La trasformazione “neo imperiale” della potenza cinese avvenuta in questo decennio muta radicalmente i presupposti sui quali si erano basate le politiche Americane ed Europee dall’inizio della particolarmente sensibili nell’affermare lo Stato di Diritto e i principi della democrazia liberale nel mondo – come scritto nei Trattati europei – ripetere come verità rivelata che BRI e Via della Seta costituiscono “il Piano Marshall” di questo primo secolo del millennio, riprendendo pedissequamente gli argomenti e la propaganda di Pechino. Ciò dovrebbe preoccupare quanti dovrebbero essere sensibili alla contrapposizione valoriale, in termini di libertà e di dignità della persona, tra l’impostazione sostenuta alla fine del secondo conflitto mondiale, dal Segretario di Stato Marshall, e il “pensiero unico” affermato da Xi Jinping e dalla sua classe dirigente. Questa tendenza non è purtroppo nuova nel mondo politico e imprenditoriale italiano. C’è troppo spesso l’ansia di dimostrare di “essere i primi” nel cogliere facili opportunità in mercati estremamente complessi, e in Paesi dove regole del mercato, rispetto degli investitori stranieri, parità di trattamento e reciprocità passano sempre dopo, molto dopo, le priorità di un interesse nazionale interpretato in chiave marcatamente ideologica, nazionalista e persino “militarista”. Non dovrebbe l’Italia, con la necessità assolutamente vitale di tutelare il “Made in Italy” nelle imprese strategiche oltre che nei beni di consumo e nei servizi, dimostrarsi ben più sensibile al proprio interesse nazionale e alla esigenza di una oggettiva valutazione della “questione Cinese”? Si tratta di una narrativa sulla quale influiscono enormi interessi economici, pubblici e privati, di sicurezza, di influenza, di visione geopolitica, di tutela delle libertà, di privacy e sicurezza nella “rete”, di attaccamento a valori fondamentali – Stato di Diritto, libertà politiche e diritti umani – che ogni Europeo dovrebbe sentirsi ad ogni costo impegnato ad affermare. Ciò dovrebbe in particolare valere ai “tavoli” delle trattative multilaterali dove Governi e Istituzioni Europee decidono regole, comportamenti e composizioni di interessi nazionali su questioni di vitale importanza per i loro popoli. Molti commentatori occidentali hanno rilevato la notevole opacità, probabilmente voluta, della strategia di Pechino. Se “road” sembra riferirsi essenzialmente a vie d’acqua, e “cintura” a infrastrutture tra Cina e Europa che colleghino ferrovie, strade, telecomunicazioni – importantissima nel progetto cinese la dimensione Cyber – sono certamente molti i Paesi e Governi asiatici, mediorientali e africani, e non pochi i politici e gli imprenditori europei, ansiosi di accogliere finanziamenti cinesi “senza condizioni”: negoziati con Presidenza Clinton. Lo sviluppo prodigioso dell’economia cinese, i successi registrati – sia pure con le carte spesso truccate della sottrazione illegale dei dati ad aziende e ricercatori occidentali – in campo scientifico e tecnologico (intelligenza artificiale, quantum computing, spazio e armi di ultimissima generazione) è stata indotta e sostenuta da una globalizzazione con vantaggi pesantemente unidirezionali per la Cina.  Ciononostante sembra prevalere nel dibattito che si sta sviluppando nel nostro Paese sui grandi temi della BRI, della Via della Seta e in generale sul rapporto tra Europa e Cina una tendenza all’accoglienza entusiastica e incondizionata alle tesi di Pechino che magnificano i grandi vantaggi dei finanziamenti cinesi, la visione di una globalizzazione guidata Pechino, e persino la “superiorità” del modello sociale, politico e dell’ideologia cinese rispetto allo Stato di Diritto occidentale. Abbiamo persino ascoltato in alcuni dibattiti dello scorso agosto personalità politiche di grande esperienza di Governo e nelle Istituzioni Europee, che dovrebbero quindi essere metodi e interlocutori spesso assai disinvolti sotto il profilo della lotta alla corruzione, delle garanzie di sicurezza sociale e dei diritti dei lavoratori. Le considerazioni di natura economica, pur problematiche sotto diversi profili, assumono colori ancor più inquietanti ove si consideri invece che il disegno di Pechino fa parte di un progetto geopolitico per il “nuovo ordine mondiale” nel quale la Cina intenda assumere il ruolo di Superpotenza dominante. Un progetto che viene da lontano. Ma che assume ora una sua marcata assertività in dichiarazioni, documenti, iniziative diplomatiche e militari, oltre che commerciali e finanziarie, della Cina di Xi Jinping. Questa ultima ipotesi diventa ancor più realistica a causa dell’opacità del gigantesco impegno finanziario ostentato da Pechino in una quantità di occasioni. Qual é il “blueprint” della BRI e della Via della Seta, ci si chiede in Occidente e in molti Paesi interessati dell’Asia, dell’Africa e de Medio Oriente? Quali sono i motivi dei continui ampliamenti che Pechino propone ai suoi orizzonti, dall’iniziale contesto Eurasiatico e Africano (“Vie della Seta” terrestri e marittime) a quelli della “Via della Seta nel Pacifico”, della “Via della Seta sul ghiaccio” nell’Artico, e ora della “Via della Seta digitale” attraverso lo spazio cyber?   Le preoccupazioni aumentano quando si constata che la BRI si lega a un ormai definito “culto della personalità” di Xi. La stampa cinese ha ribattezzato l’iniziativa “cammino di Xi Jinping”. Si sollecitano apprezzamenti dei Governi stranieri, così da farli rimbalzare nella martellante propaganda interna. Un’analisi delle strategie e intenzioni di Pechino deve anzitutto riguardare i rapporti con i Paesi vicini. Gran parte dell’Asia deve ora riconoscere che il gigante cinese non può essere visto soltanto come un partner commerciale. Con la ricchezza e il successo si è diffusa la capacità di attrazione del modello cinese. Ciononostante sono numerose le riserve e non di rado le nette opposizioni a seguire i “desiderata” di Pechino: perfino da parte di Paesi  come Myanmar, considerati per decenni sottomessi politicamente e economicamente alla Cina. I valori aggregati di cui si continua a parlare per BRI e “Vie della Seta” sono certo imponenti ma non ancora tali da comportare un “dominio finanziario globale”.  Le preoccupazioni più immediate riguardano i condizionamenti che il Governo e gli enti statali cinesi sono perfettamente in grado di esercitare in Europa, e in Italia in particolare, ogni volta che Pechino intenda acquisire aziende di valore strategico per i nostri Paesi e per il “Made in Italy”: sempre a condizioni estremamente svantaggiose per il “sistema Italia”, sia sotto il profilo economico, sia per quanto riguarda la tutela dei dati informatici, la protezione delle tecnologie, e l’assenza di qualsiasi condizione di reciprocità. Se il quadro descrive quanto avvenuto nell’ultimo decennio in Occidente, senza che le più importanti economie del mondo si ponessero seriamente l’obiettivo di instaurare con Pechino regole del gioco eque, rispettose della legalità e degli accordi sottoscritti, se interessi pubblici e privati legati a convenienze del giorno per giorno hanno fatto sì che si sia lasciata a Pechino la mano completamente libera nello sfruttare i “mercati aperti” che lobbies e gruppi di potere in America e in Europa mettevano ben volentieri a loro disposizione, ben possiamo immaginare quanto sia avvenuto, stia avvenendo e ancora avverrà nelle economie più deboli del pianeta, governate in molti casi da autocrati o presidenti a vita, sorretti da ristrettissime “elites” locali, operanti di fatto al di fuori di qualsiasi controllo popolare, di trasparente informazione, e di legalità sanzionata. Nei mesi scorsi un think tank particolarmente autorevole nelle questioni dello Sviluppo Sostenibile – il “Centre for Global Development”- ha pubblicato una ricerca su otto paesi che sono ad alto rischio di “collasso finanziario” a causa dell’indebitamento contratto da quei Governi nella “Belt and Road Initiative” (BRI). Si tratta di Laos, Kyrgyzstan, Maldive, Montenegro, Gibuti, Tajikistan, Mongolia, Pakistan. In meno di due anni, la percentuale debito/ PIL è passata per effetto dei progetti cinesi BRI, rispettivamente (a cominciare dal Laos) da circa 50% al 70%; dal 23% al 74%; dal 39% al 75%; dal 10% al 42%; dall’80% al 95%; dal 55% all’80%; dal 40% al 58%; dal 12% al 48%. In Montenegro l’autostrada finanziata da Pechino configura il solito “patto leonino”, dato che l’ammontare del debito corrisponde a un quarto dell’intero PIL del paese; la ferrovia in Laos, alla metà del PIL annuo. Si è stimato che nel solo quadriennio 2000-2014 il Governo Cinese abbia finanziato progetti pari a 354 Mld $, tre quarti dei quali a tassi di mercato. Non solo Trump ha definito “predatorie” tali iniziative, ma la stessa Christine Lagarde – Direttore esecutivo del FMI- ha sottolineato la loro problematicità, auspicando che “la BRI viaggi esclusivamente dove è realmente necessario”. L’UE sta insistendo con Pechino affinché al centro della BRI e delle Vie della Seta siano poste regole precise su trasparenza, standard nel mercato del lavoro, sostenibilità del debito, appalti, ambiente. Nei primi mesi del 2018 tutti gli Ambasciatori UE a Pechino, eccettuato l’ungherese, hanno firmato un rapporto per Bruxelles nel quale hanno definito la BRI una sfida alle regole del libero mercato e una manna per i sussidi statali. Per parte sua Atene, che ha ceduto alla compagnia COSCO nel 2016 il porto del Pireo per 312 Mil $, ha bloccato l’UE nel prendere posizione sulla militarizzazione cinese degli isolotti nelle zone del Pacifico reclamate anche da Filippine, Vietnam, e oggetto della controversia con gli USA e tutti gli altri Stati della regione. L’UE ha appena lanciato un’iniziativa per l’esame degli investimenti cinesi. è atteso un Rapporto con precisa valutazione del rischio e dei diversi elementi da considerare per gli investimenti esteri in Europa, in particolare dalla Cina.

Giulio Terzi di Sant’Agata, ambasciatore, già Ministro degli Affari Esteri, al meeting “Il dragone in Europa. Opportunità e rischi per l’Italia” Roma, 20 marzo 2019

Le nuove rotte sono sul Pacifico

Questa pandemia sta portando e ha portato con sé innumerevoli cambiamenti all’interno del contesto mondiale. Oltre ad aver stravolto radicalmente rapporti sociali e lavorativi, ha fatto venir meno un dogma: l’Occidente come centro del mondo. Un mondo, appunto, che ruotasse intorno all’Europa, ai suoi retaggi, alle sue tradizioni e molto spesso intorno anche ai suoi capricci.

Questa pandemia ha acceso riflettori su aree geografiche ben lontane da questo Occidente. Questa luce, sta illuminando aree rimaste prive di attenzione, isolate da molto tempo.

Tutto ciò sta facendo intravedere scenari geopolitici ben differenti rispetto a quelli solitamente visibili.

L’attenzione si sta spostando inevitabilmente sull’area Indo-pacifica ed in particolare modo sull’Oceano Pacifico. Ne è testimone il Quadrilateral Securityy Dialogue, in breve Quad, che dimostra come quattro paesi, Giappone, Australia, India e Stati Uniti, stiano collaborando per opporsi con decisione ai tentacoli della Belt and Road initiative dell’Impero Celeste.

Gli equilibri si stanno spostando e mutando, diversamente dalla prima guerra fredda, con estrema velocità.

Ne è esempio, il pubblico sberleffo che il Presidente indiano, Narendra Modi, manifestò alla Cina, dopo che bloccò con l’esercito la costruzione di infrastrutture promosse dai cinesi in Bhutan. Il tutto si risolse in modo pacifico, ma la contrapposizione non finì li. Sulle coste del Mar d’Arabia, infatti, si presentò Shizo Abe, presidente giapponese, con il quale Modi stipulò un accordo sugli Shinkansen, i treni ad alta velocità, l’agreement oltre ad essere un progetto ferroviario era un chiaro manifesto attraverso il quale la seconda e la terza potenza economica asiatica cercano un legame sempre più stretto, per contenere l’avanzata della prima e programmi – “imperialisti” agli occhi di Tokyo e Nuova Delhi – come la Nuova Via della Seta, promossa dalla Cina.

Tale intesa si sarebbe tradotta successivamente nel Quad. Nel quale entrarono, in un secondo momento, anche Usa e Australia. Quest’ultimo si staglia fortemente contro l’ultimo accordo internazionale promosso dalla Cina, al quale l’india si è prontamente sfilata all’ultimo.

Tale accordo, il RCEP, Regional Comprehensive Economic Partnership, è l’accordo commerciale più grande della storia, contando oltre un terzo della PIL mondiale e ben quindici stati (Cina, Indonesia, Cambogia, Brunei, Laos, Malesia, Myanmar, Filippine, Singapore, Sud Corea, Tailandia, Vietnam, Giappone, Australia e Nuova Zelanda.

Entrambi gli accordi dimostrano come l’attenzione della geopolitica internazionale si stia spostando in questa area strategica e direttrice commerciale fondamentale. E anche se Wang Yi, ministro degli esteri cinese, definì il Quad “schiuma di mare”, Tokyo ha incrementato la politica di aiuti allo sviluppo, oltre 15,5 miliardi di dollari nel 2019, e ancora, Abe si è fatto garante di promuovere la Transpacific Partnership (TPP), accordo commerciale con 11 paesi del bacino del Pacifico. Ribadendo come il Quad sia ‘’il diamante della sicurezza democratica in Asia” e dimostrando la vocazione imperiale concorrenziale a quella della Cina.

Ciò denota come gli Stati Uniti rafforzeranno l’alleanza con l’India e ancor di più con il Giappone. Dando così, una priorità all’Asia, abbassando il valore strategico dell’Unione Europea.

Alla luce di ciò merita riflettere sul ruolo geopolitico e strategico europeo; se effettivamente questo spostamento dell’asse commerciale e strategico si concretizzasse all’interno del Quad, che destino attenderà l’Europa?

L’Europa sarà pronta a rispondere in modo compatto a questo cambiamento e a dimostrare all’America che solo un’intesa euroamericana ha la forza di bilanciare il potere cinese?

Solo un’Europa unità potrà veramente contare qualcosa nel prossimo futuro, ahimè attualmente questo sembra solamente un sogno o quanto meno un’idea ancora, purtroppo, molto lontana.

Ma se l’Europa non vuole essere schiacciata dai due iceberg che si stanno stagliando sull’orizzonte europeo, sarà bene che si sbrighi a cambiare rotta, sempre che non voglia far la fine del Comandante Edward John Smith.

*Riccardo Maria Vitali Casanuova, collaboratore Charta minuta

L’INTERESSE PER IL MARE, COME INTERESSE NAZIONALE

Come indicato da più parti, le possibilità di ripresa dell’economia italiana, dopo la forte recessione causata dalla pandemia, poggiano largamente sulle esportazioni. Una sempre migliore integrazione dell’Italia nel commercio mondiale, dal quale dipende il futuro della nostra economia, dovrà costituire una priorità per i futuri governi italiani. Pertanto, dovranno essere intraprese tutte quelle azioni necessarie per favorire la libera circolazione delle merci, rilanciando il multilateralismo ed il ruolo del Wto e favorendo l’azione europea nella sottoscrizione di nuovi accordi commerciali. Un commercio mondiale caratterizzato da una minore rischiosità e da un sistema di regole internazionali condiviso, costituirebbe per le imprese italiane uno scenario ideale per intercettare la domanda potenziale di «Made in Italy» proveniente da tutte le aree del nostro pianeta.

Per la sua posizione geografica e per il ruolo internazionale che riveste, l’Italia non può circoscrivere la propria area d’interesse al “giardino di casa”, ponendo un confine limitato tra Gorizia ed il Mediterraneo centrale oltre il quale non sarebbe conveniente spingersi. Era così che si pensava negli anni ’60 e ’70 in piena guerra fredda, ragionando, quindi, in un’ottica di “compartimenti stagni” e con aree d’interesse ben delineate.  Oggi la fluidità degli scenari internazionali e la competizione sempre più accesa impongono a Roma di gettare uno sguardo nuovo anche ai mari lontani come l’Oceano Indiano.

Oltre l’80% del traffico mercantile mondiale passa per mare ed il 75% attraversa gli stretti ed i canali internazionali; il mare è dunque una via di comunicazione privilegiata ma anche causa e luogo di conflitti. Basti pensare all’instabilità politica della gran parte delle nazioni che sono attraversate dai canali o che controllano gli stretti. Ben 7 dei 9 accessi più importanti alle rotte commerciali mondiali si trovano nell’Oceano Indiano e sono rispettivamente il Canale di Suez, lo Stretto di Hormuz, lo Stretto di Bab el Mandeb, il Capo di Buona Speranza, lo Stretto di Malacca, lo Stretto della Sonda e lo Stretto di Lombok.  Per Roma Suez, Bab el Mandeb, Hormuz ed il Capo di Buona Speranza sono di vitale importanza ed è fondamentale garantirne la libertà di navigazione con una presenza costante che sia essa militare o politico-diplomatica. La sicurezza di queste rotte è la principale garanzia per l’Italia di restare un hub strategico del commercio internazionale, di più è una carta fondamentale nelle mani della diplomazia economica italiana per far valere il suo punto di vista in molti tavoli importanti.

Dunque, nell’ottica di  stabilire la nostra necessità strategica e quali siano le linee di forza della presenza italiana nel mondo -per poi adeguare i mezzi a questa necessità strategica- vorrei evidenziare come l’interesse per il mare e l’interesse nazionale coincidano e vorrei porre l’attenzione anzitutto su due necessità strategiche fondamentali:

  1.  Il ruolo della Marina e il presidio delle Sea Lines of Communication (SLOC)

Viviamo una fase storica di forte accentuazione della dimensione strategica del mare. Attori globali come Stati Uniti, Cina e Russia, e attori regionali come i paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo, l’Iran, l’Egitto, la Turchia sono oggi impegnati in una corsa per acquisire il controllo delle Sea Lines of Communication (SLOC), indispensabile per la proiezione delle forze militari e degli interessi economici, nonchè per la deterrenza nei confronti di fenomeni di instabilità, quali pirateria, traffici illeciti, movimenti jihadisti e terrorismo in generale. Credo che l’Italia debba farsi portavoce a livello europeo e internazionale della creazione di una governance del mare e promuovere una regia istituzionale italiana ed europea per gli affari marittimi.  Infatti, analizzando gli scenari militari marittimi nel Mediterraneo e nell’area del Golfo Persico, così come nel Pacifico, stiamo assistendo a un diffuso rafforzamento dello strumento nautico e ad importanti investimenti nell’industria navale e subacquea della difesa. Ecco allora il ruolo centrale della Marina Militare che per essere all’altezza delle sfide che abbiamo di fronte non può prescindere da alcune premesse che riguardano il suo funzionamento e il numero del personale specializzato.

  1. Lo sviluppo di una coscienza mediterranea, come sfida per il sistema educativo italiano

Nelle scuole e nelle Università italiane c’è un’evidente assenza nella programmazione didattica in riferimento al mare. Né i manuali scolastici, né i corsi universitari dedicano sufficiente attenzione a quell’incredibile deposito, di produttività e occasioni che è il Mare Nostrum. È ormai necessario innescare un processo formativo che generi consapevolezza delle opportunità legate al mare non solo in chiave turistica. Trasmettere una pedagogia del mare è un sentiero impervio, ma che va assolutamente perseguito. Significa coinvolgere scuole, università, mass media ed enti di ricerca, convogliare interessi e sussidi verso un unico obiettivo: veicolare la conoscenza della tradizione marittima italiana per educare a cogliere le opportunità di uno sviluppo economico e culturale. S’impone come interesse nazionale la riscoperta e lo sviluppo nei cittadini italiani di una coscienza mediterranea e del ruolo del nostro Paese come frontiera fra i tre continenti: Asia, Africa, Europa.  Il Mediterraneo, infatti, non è soltanto il Mare Nostrum dei Romani, è soprattutto la porta del mondo per l’Europa, perché regola gran parte dei suoi rapporti con l’Africa e con l’Asia. Senza il Mediterraneo non ci sarebbe l’Europa. Senza il Mediterraneo l’Europa sarebbe solo una penisola dell’Asia.In conclusione, a mio parere il ruolo che l’Italia deve cercare di ricoprire per difendere il proprio interesse nazionale è quello di rafforzare la propria presenza nella geopolitica europea e internazionale attingendo alla propria esperienza storica mediterranea, non per vivere di rendita, ma per costruire e promuovere un’Europa a dimensione mediterranea. L’Italia deve dare la massima priorità a questa visione euro-mediterranea condivisa.  Per tradizione e cultura abbiamo tutte le carte in regola.

*Giovanni Luchetti, strategic communication manager, Forbes Italia

 

 

Commercio libero ma anche equo

Si dibatte dei recenti dazi USA contro la Cina sulle merci sottocosto, mentre la UE è al lavoro per finalizzare gli ennesimi accordi di libero scambio con Messico, Cile e Mercosur, verso il quale si elimineranno dazi e quote sul 90% dei commerci. Un certo buonismo tende a demonizzare i primi e santificare i secondi, sebbene la storia recente dia adito a ben altro punto di vista.

L’economia contemporanea si basa su imprese multinazionali che operano in assenza di limiti alla circolazione di merci e capitali, al fine di spostare la produzione nei paesi a bassi salari e gli utili imponibili in paesi a bassa fiscalità, generando extra profitti altrimenti non realizzabili.

Oggi il capitale è libero di muoversi in cerca delle condizioni migliori, mentre il lavoro deve adattarsi alle sue condizioni. Ma non è sempre stato così.

La libera circolazione di merci e capitali si è consolidata negli anni Ottanta, con il verificarsi congiunto di alcuni fattori: (1) la terza rivoluzione industriale dell’informatica, che ha permesso lo scambio di dati tra divisioni aziendali nel “primo” e “secondo” mondo; (2) l’ingresso nel mercato di paesi poveri dell’Asia e dell’ex URSS; (3) precise scelte politiche di eliminazione dei vincoli esistiti in precedenza, che avevano contributo al miracolo economico dell’Occidente. Senza sfruttare nessun cinese.

Tale sistema ha avuto come conseguenza diretta l’allargamento della forbice tra ricchi e poveri: la crescita delle diseguaglianze reddituali ha avuto inizio, dovunque, in contemporanea a questo processo. Cina inclusa. Questo perché la gran parte del “risparmio di costi” sopra esposto non finisce nelle tasche dei lavoratori (con maggiori salari), né nei consumatori (con minori prezzi) ma dell’imprenditoria che organizza la catena di approvvigionamento globale (con maggiori profitti).

È nell’interesse di tutti i Paesi fornirsi aiuto reciproco attraverso un Nuovo Accordo che limiti tali fenomeni e ripristini i presupposti di uno sviluppo equo. Il suo principio fondamentale dovrebbe essere che la libera circolazione di merci e capitali sia ammissibile solo qualora – primo – i Paesi in questione siano omogenei economicamente e – secondo – sussista tra di essi un meccanismo redistributivo come all’interno di uno Stato sovrano.

Centrale in questo senso è la differenza tra concorrenza e iperconcorrenza: la prima, realizzata sui prodotti, promotrice di sviluppo, va favorita; la seconda, realizzata sui fattori produttivi (in primis sul lavoro e sulla superiorità tecnologica), foriera di oligopoli, va evitata.

Una funzione degli Stati moderni è quella di operare da camera di compensazione tra chi vince e chi perde sul mercato, trasferendo ricchezza dai primi ai secondi attraverso lo stato sociale. Invece, il mercato globale della iperconcorrenza ha permesso grandi guadagni per i pochi che vincono ma perdite per tutti gli altri, proprio in assenza di strumenti in grado di assorbire le iniquità del sistema.

Il dogma che ha imperato negli ultimi decenni è stato invece quello della “libera volpe nel libero pollaio”. Un bell’affare per le volpi, assai meno per i polli!

*Stefano Lera, collaboratore Charta minuta

La sfida della sicurezza e della geopolitica

I) Le indicazione fornite dalla “Relazione sulla Politica dell’Informazione per la Sicurezza – 2018”

Una seria valutazione della minaccia che grava sulla nostra sovranità nazionale nel caso specifico del processo di avvicinamento della Cina al quale la visita di Stato del Presidente Xijinping intende imprimere un decisivo impulso anche attraverso del Memorandum of Understanting e l’adesione italiana alla “Via della Seta, deve muovere, io credo, da una attenta rilettura della Relazione sulla politica dell’informazione per la sicurezza recentemente resa pubblica dai nostri servizi di intelligence.

In particolare, vorrei rilevare come alcune osservazioni alle pagine 61, 62, 63, nonché alcuni riferimenti nel documento allegato, riguardino specificamente la Cina, tracciando un identik senza nome ma con una chiarissima profilatura complessiva, che fornisce la proporzione esatta del problema che abbiamo dinanzi.

 

Il Rapporto della nostra Intelligence dice quanto segue:

– Le iniziative attuate dal Governo nel corso dell’anno, intese ad attrarre in Italia partner economici con una prospettiva di lungo periodo, sono valse a ribadire la valenza strategica, per il Sistema Paese, dell’afflusso di capitali stranieri in grado di concorrere allo sviluppo delle imprese italiane, sia finanziando programmi di ricerca e innovazione volti a mantenere adeguati livelli di competitività, sia favorendo l’accesso a know-how industriale e a nuovi mercati di sbocco.

– L’attività intelligence ha risposto all’esigenza di cogliere, i rischi legati all’ingresso nel tessuto economico nazionale di soggetti, capitali e prodotti stranieri , quello di “decifrare” eventuali proiezioni estere in contrasto con l’interesse nazionale, perché rispondenti a finalità extraeconomiche o in quanto volte a depredare le imprese-target, specie di tecnologie o marchi.

– L’azione informativa è stata diretta in primo luogo al comparto della difesa e dell’aerospazio, con particolare attenzione alla tutela del knowhow e dell’integrità delle filiere.

– Pari attenzione è stata rivolta agli altri settori strategici cui fanno capo le attività di base indispensabili per garantire i servizi vitali e il benessere della collettività: telecomunicazioni e relative reti, terrestri e mobili, anche con l’obiettivo di preservare l’integrità e la sovranità dei dati; trasporti, specie per quel che attiene alle dinamiche proprietarie dei vettori e degli operatori infrastrutturali; energia, con riferimento sia alle implicazioni sul piano industriale delle operazioni di merger and acquisition, sia alla salvaguardia delle infrastrutture.

– Ha incluso nel perimetro di tutela: dalle infrastrutture di immagazzinamento e gestione dati a quelle finanziarie, dall’intelligenza artificiale alla robotica, dai semiconduttori alla sicurezza in rete.

In analogia con i meccanismi di tutela adottati da alcuni importanti partner occidentali.

– La ricerca informativa si è in particolare appuntata sui soggetti espressione di un controllo pubblico, diretto o indiretto, che per loro stessa natura rappresentano non di rado i vettori per perseguire finalità extra- economiche. Nella medesima ottica di protezione, si è guardato ad operatori caratterizzati da opacità sia nella governance sia nelle strategie di investimento.

– Quanto alle modalità di azione degli attori ostili o controindicati, il monitoraggio intelligence ha rilevato iniziative tese a esfiltrare tecnologia e know-how (anche attraverso l’acquisizione di singoli rami d’azienda) o a conquistare nicchie di mercato pregiate, facendo emergere, in qualche caso, la tendenza
alla strutturazione di
manovre complesse finalizzate a guadagnerebbe posizioni di influenza
in segmenti del sistema economico-finanziario nazionale, ovvero a conquistare peso
monopolistico in specifici settori di attività.

– Evidenze informative hanno fatto stato, poi, dei tentativi di operatori esteri di alterare il quadro competitivo attraverso il sistematico storno di capitale umano ad alta specializzazione in forza a imprese nazionali, la studiata marginalizzazione del management italiano (anche nell’ambito di partnership e joint venture) e il ricorso ad azioni di influenza esercitate attraverso consulenti e manager “fidelizzati”.

– L’attività a protezione del know-how tecnologico e innovativo delle imprese italiane ne ha registrato la persistente esposizione ad iniziative di spionaggio industriale, specie con modalità cyber agevolate dalla digitalizzazione pressoché integrale dei processi produttivi e più pervasive nei confronti delle piccole e medie imprese, come si dirà nell’allegato Documento di Sicurezza Nazionale.

– La filiera marittimo-logistica ed i suoi nodi critici – rappresentati da porti, aree retro-portuali e punti intermodali che connettono economie locali e sistemi produttivi – in un’ottica intesa a rilevare vulnerabilità di sicurezza in grado di condizionarne funzionamento e sviluppo.

– Dal monitoraggio delle Tecniche, Tattiche e Procedure (TTP) utilizzate è emerso un accresciuto livello di complessità e sofisticatezza delle azioni, l’uso combinato di strumenti offensivi sviluppati ad hoc con quelli presenti nei sistemi target impiegati in modo ostile, nonché il “riuso” di oggetti malevoli (malware) allo scopo di ricondurne la matrice ad altri attori (cd. operazioni false flag).

– In tale contesto, lo sforzo più significativo posto in essere dal Comparto ha riguardato il contrasto di campagne di spionaggio digitale, gran parte delle quali verosimilmente riconducibili a gruppi
ostili strutturati, contigui ad apparati governativi o che da questi
ultimi hanno ricevuto
linee di indirizzo strategico e supporto finanziario.

– Quanto alle finalità perseguite, gli attacchi hanno mirato, da un lato, a sottrarre informazioni relative ai principali dossier di sicurezza internazionale, e, dall’altro, a danneggiare i sistemi informatici di operatori, anche nazionali, attivi nello Oil&Gas, nonché quelli di esponenti del mondo accademico italiano, nell’ambito di una campagna globale mirante a profilare settori d’eccellenza di università e centri di ricerca.

– Sul fronte delle infrastrutture di attacco, i gruppi responsabili di azioni di cyber-espionage hanno proseguito nell’impiego di servizi IT commerciali (domini web, servizi di hosting, etc.), forniti da provider localizzati in diverse regioni geografiche, anche per rendere difficoltoso il processo di individuazione. Qui, l’attaccante ha colpito le infrastrutture tecnologiche degli obiettivi finali tramite la violazione preventiva di quelle dei fornitori, abusando sovente anche delle relazioni di fiducia connesse al rapporto contrattuale.

 

II) Le indicazioni contenute nel Rapporto IISS- Merics.

La Dr.ssa Helena Legarda ha approfondito come nella sua ricerca di diventare una “superpotenza nella scienza e nella tecnologia” e nell’obiettivo di acquisire la capacità miliare dominante, la Cina abbia intrapreso da tempo, e ulteriormente accelerato negli ultimi anni, un percorso per conseguire una completa integrazione civile-militare, e sviluppare tecnologie a doppio impiego “Dual – use”. Per l’Europa, l’incentivo ad essere competitiva e a tenere il passo con i rapidissimi progressi tecnologici della Cina, risiede nella capacità di proteggere  i propri settori innovativi. Si tratta di esigenze imperative che riguardano allo stesso tempo l’ambito militare, commerciale ed economico.

 

II) “Belt and Road Initiative” (BRI) e “Via della Seta.

I risultati conseguiti dal Presidente Xi Jinping sul piano interno nel consolidare il sistema di potere guidato dal Partito Comunista Cinese. Un potere sempre più accentrato nella figura di un Presidente ormai svincolato da termini di mandato e, apparentemente, da qualsiasi apprezzabile forma di opposizione interna.

La trasformazione “neo imperiale” della potenza cinese avvenuta in questo decennio muta radicalmente i presupposti sui quali si erano basate le politiche Americane e Europee dall’inizio della Presidenza Clinton. Lo sviluppo prodigioso dell’economia cinese, i successi registrati – sia pure con le carte spesso truccate della sottrazione illegale dei dati a aziende e ricercatori occidentali- in campo scientifico e tecnologico (intelligenza artificiale, quantum computing, spazio e armi di ultimissima generazione) è stata indotta e sostenuta da una globalizzazione con vantaggi pesantemente uni direzionali per la Cina.

Ciononostante sembra prevalere nel dibattito che si sta sviluppando nel nostro Paese sui grandi temi della BRI, della Via della Seta e in generale sul rapporto tra Europa e Cina una tendenza all’accoglienza entusiastica e incondizionata alle tesi di Pechino che magnificano i grandi vantaggi dei finanziamenti cinesi, la visione di una globalizzazione guidata Pechino, e persino la “superiorità” del modello sociale, politico e dell’ideologia cinese rispetto allo Stato di Diritto occidentale. Abbiamo persino ascoltato in alcuni dibattiti dello scorso agosto personalità politiche di grande esperienza di Governo e nelle Istituzioni Europee, che dovrebbero quindi essere particolarmente sensibili nell’affermare lo Stato di Diritto e i principi della democrazia liberale nel mondo – come scritto nei Trattati europei – ripetere come verità rivelata che BRI e Via della Seta costituiscono “il Piano Marshall” di questo primo secolo del millennio, riprendendo pedissequamente gli argomenti e la propaganda di Pechino.

Ciò dovrebbe preoccupare quanti dovrebbero essere sensibili alla contrapposizione valoriale, in termini di libertà e di dignità della persona, tra l’impostazione sostenuta alla fine del secondo conflitto mondiale, dal Segretario di Stato Marshall, e il “pensiero unico” affermato da Xi Jinping e dalla sua classe dirigente.

Questa tendenza non è purtroppo nuova nel mondo politico e imprenditoriale italiano. C’è troppo spesso l’ansia di dimostrare di “essere i primi” nel cogliere facili opportunità in mercati estremamente complessi, e in paesi dove regole del mercato, rispetto degli investitori stranieri, parità di trattamento e reciprocità passano sempre dopo, molto dopo, le priorità di un interesse nazionale interpretato in chiave marcatamente ideologica, nazionalista e persino “militarista”.

Non dovrebbe l’Italia, con la necessità assolutamente vitale di tutelare il “Made in Italy” nelle imprese strategiche oltre che nei beni di consumo e nei servizi, dimostrarsi ben più sensibile al proprio interesse nazionale e alla esigenza di una oggettiva valutazione della “questione Cinese”? Si tratta di una narrativa sulla quale influiscono enormi interessi economici, pubblici e privati, di sicurezza, di influenza , di visione geopolitica, di tutela delle libertà , di privacy e sicurezza nella “rete”, di attaccamento a valori fondamentali – Stato di Diritto,  libertà politiche e diritti umani – che ogni Europeo dovrebbe sentirsi ad ogni costo impegnato a affermare.  Ciò dovrebbe in particolare valere ai “tavoli” delle trattative multilaterali dove Governi e Istituzioni Europee decidono, regole, comportamenti e composizioni di interessi nazionali su questioni di vitale importanza per i loro popoli.

Molti commentatori occidentali hanno rilevato la notevole opacità, probabilmente voluta, della strategia di Pechino. Se “road” sembra riferirsi essenzialmente a vie d’acqua, e “cintura” a infrastrutture tra Cina e Europa che colleghino  ferrovie, strade, telecomunicazioni – importantissima nel progetto cinese la dimensione Cyber –  sono certamente molti i paesi e Governi asiatici, mediorientali e africani, e non pochi i politici e gli imprenditori europei, ansiosi di accogliere finanziamenti cinesi “senza condizioni”: negoziati con metodi e interlocutori spesso assai disinvolti sotto il profilo della lotta alla corruzione, delle garanzie di sicurezza sociale e dei diritti dei lavoratori. Le considerazioni di natura economica, pur problematiche sotto diversi profili, assumono colori ancor più inquietanti ove si consideri invece che il disegno di Pechino fa parte di un progetto geopolitico per il “nuovo ordine mondiale” nel quale la Cina intenda assumere il ruolo di Superpotenza dominante. Un progetto che viene da lontano. Ma che assume ora una sua marcata assertività in dichiarazioni, documenti, iniziative diplomatiche e militari, oltre che commerciali e finanziarie, della Cina di Xi Jinping.

Questa ultima ipotesi diventa ancor più realistica a causa dell’opacità del gigantesco impegno finanziario ostentato da Pechino in una quantità di occasioni. Qual é il “blueprint” della BRI e della Via della Seta, ci si chiede in Occidente e in molti paesi interessati dell’Asia, dell’Africa e de Medio-Oriente? Quali sono i motivi dei continui ampliamenti che Pechino propone ai suoi orizzonti, dall’iniziale contesto Eurasiatico e Africano (“Vie della Seta” terrestri e marittime) a quelli della “Via della Seta nel Pacifico”, ” della ” Via della Seta sul ghiaccio” nell’Artico, e ora della “Via della Seta digitale” attraverso lo spazio cyber?

Le preoccupazioni aumentano quando si constata che la BRI si lega a un ormai definito “culto della personalità” di Xi. La stampa cinese ha ribattezzato l’iniziativa “cammino di Xi Jinping”. Si sollecitano apprezzamenti dei Governi stranieri, così da farli rimbalzare nella martellante propaganda interna.

Un’analisi delle strategie e intenzioni di Pechino deve anzitutto riguardare i rapporti con i Paesi vicini. Gran parte dell’Asia deve ora riconoscere che il gigante cinese non può essere visto soltanto come un partner commerciale. Con la ricchezza e il successo si è diffusa la capacità di attrazione del modello cinese. Ciononostante sono numerose le riserve e non di rado le nette opposizioni a seguire i “desiderata” di Pechino: perfino da parte di Paesi come Myanmar, considerati per decenni sottomessi politicamente e economicamente alla Cina.

I valori aggregati di cui si continua a parlare per BRI e “Vie della Seta” sono certo imponenti ma non ancora tali da comportare un “dominio finanziario globale”. Le preoccupazioni più immediate riguardano i condizionamenti che il Governo e gli enti statali cinesi sono perfettamente in grado di esercitare in Europa, e in Italia in particolare, ogni volta che Pechino intenda acquisire aziende di valore strategico per i nostri Paesi e per il “Made in Italy”: sempre a condizioni estremamente svantaggiose per il “sistema Italia”, sia sotto il profilo economico, sia per quanto riguarda la tutela dei dati informatici, la protezione delle tecnologie, e l’assenza di qualsiasi condizione di reciprocità.

Se il quadro descrive quanto avvenuto nell’ultimo decennio in Occidente , senza che le più importanti economie del mondo si ponessero seriamente l’obiettivo di instaurare con Pechino regole del gioco eque, rispettose della legalità e degli accordi sottoscritti, se interessi pubblici e privati legati a convenienze del giorno per giorno hanno fatto sì che si sia lasciata a Pechino la mano completamente libera nello sfruttare i “mercati aperti” che lobbies e gruppi di potere in America e in Europa mettevano ben volentieri a loro disposizione, ben possiamo immaginare quanto sia avvenuto, stia avvenendo e ancora avverrà nelle economie più deboli del pianeta, governate in molti casi da autocrati o presidenti a vita, sorretti da ristrettissime “elites” locali, operanti di fatto al di fuori di qualsiasi controllo popolare, di trasparente informazione, e di legalità sanzionata.

Nei mesi scorsi un think tank particolarmente autorevole nelle questioni dello Sviluppo Sostenibile – il “Centre for Global Development”-  ha pubblicato una ricerca su otto paesi che sono ad alto rischio di “collasso finanziario” a causa dell’indebitamento contratto da quei Governi nella “Belt and Road Initiative” (BRI). Si tratta di Laos, Kyrgyzstan, Maldive, Montenegro, Gibuti, Tajikistan, Mongolia Pakistan. In meno di due anni, la percentuale debito/PIL è passata per effetto dei progetti cinesi BRI, rispettivamente (a cominciare dal Laos) da circa 50% al 70%; dal 23% al 74%; dal 39% al 75%; dal 10% al 42%; dall’80% al 95%; dal 55% all’80%; dal 40% al 58%; dal 12% al 48%.

In Montenegro l’autostrada finanziata da Pechino configura il solito “patto leonino”, dato che l’ammontare del debito corrisponde a un quarto dell’intero PIL del paese; la ferrovia in Laos, alla metà del PIL annuo. Si è stimato che nel solo quadriennio 2000-2014 il Governo Cinese abbia finanziato progetti pari a 354 Mld $, tre quarti dei quali a tassi di mercato. Non solo Trump ha definito “predatorie” tali iniziative, ma la stessa Christine Lagarde – Direttore esecutivo del FMI- ha sottolineato la loro problematicità, auspicando che “la BRI viaggi esclusivamente dove è realmente necessario”.

L’UE sta insistendo con Pechino affinché al centro della BRI e delle Vie della Seta siano poste regole precise su trasparenza, standard nel mercato del lavoro, sostenibilità del debito, appalti, ambiente. Nei primi mesi del 2018 tutti gli Ambasciatori UE a Pechino, eccettuato l’ungherese, hanno firmato un rapporto per Bruxelles nel quale hanno definito la BRI una sfida alle regole del libero mercato e una manna per i sussidi statali. Per parte sua Atene, che ha ceduto alla compagnia COSCO nel 2016 il porto del Pireo per 312 Mil $, ha bloccato l’UE nel prendere posizione sulla militarizzazione cinese degli isolotti nelle zone del Pacifico reclamate anche da Filippine, Vietnam, e oggetto della controversia con gli Usa e tutti gli altri Stati della regione. L’UE ha appena lanciato un’iniziativa  per l’esame degli investimenti cinesi E’ atteso un Rapporto con precisa valutazione del rischio e dei diversi elementi da considerare per gli investimenti esteri in Europa, in particolare dalla Cina.

*Giulio Terzi di Sant’Agata, ambasciatore, già ministro degli esteri

Pubblichiamo stralci della sua relazione che sarà presentata al meeting della Fondazione Farefuturo

Intervista a Giulio Terzi di Sant’Agata ed Adolfo Urso sui temi del convegno “Il Dragone in Europa: opportunità e rischi per l’Italia”

Intervista a Giulio Terzi di Sant’Agata ed Adolfo Urso sui temi del convegno “Il Dragone in Europa: opportunità e rischi per l’Italia”” realizzata da Massimiliano Coccia con Giulio Maria Terzi di Sant’Agata (ambasciatore, presidente del Comitato Mondiale per lo Stato di Diritto – Marco Pannella), Adolfo Urso (senatore, vice presidente Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, Fratelli d’Italia).