La tragica data dell’11 settembre 2001, con l’attacco terroristico di Al Qaeda agli Stati Uniti, rappresenta un punto di “non ritorno” e stabilisce una linea di demarcazione, nell’immaginario collettivo globale e nella storia mondiale, tra un prima ed un dopo. E’stata una dichiarazione di guerra da parte dei fondamentalisti islamici all’Occidente! Ed il mondo è cambiato. I nostri figli ed intere generazioni sono nativi del “dopo 11 settembre” e, da allora ad oggi – purtroppo – abbiamo assistito ad un innalzamento della minaccia terroristica, ad una sua evoluzione tecnica ed alle molteplici modificazioni dei fenomeni terroristici.
Si è affermato, nel tempo, un nuovo modello terroristico ed il tema resta nevralgico e permane come cruciale e strategico, così come permanente è la minaccia che terroristica, al di là ed oltre la scomparsa della realtà statuale e geografica del sedicente “Stato islamico” di Daesh. Quel frutto del processo di trasformazione, espansione e radicamento del gruppo terroristico dell’Isis (nato come una cellula di al-Qaeda in Iraq nel 2013), che è riuscito – con molti e noti appoggi e finanziamenti stranieri – a conquistare militarmente un’area compresa tra la Siria nord-orientale e l’Iraq occidentale, ad organizzarsi in uno “Stato” con le proprie strutture ed assetti sociali ed a proclamare il Califfato (giugno 2014).
Dopo gli attacchi terroristici del 2004 (Londra), del 2007 (Madrid), del 2011 in Norvegia , ci si avvia verso una tragica escalation di attentati di matrice islamica e, dal fatidico 2014 (nascita di Daesh) al 2019 si sono registrati, attacchi terroristici continui, di intensità diversa (bassa, media, alta e quelli definiti emulativi) e di natura mista (attacchi di singoli attentatori o strutturati), con il picco toccato nel 2016 (l’anno degli attentati, tra gli altri, a Bruxelles, a Nizza, a Berlino , rivendicati dall’Isis e risultati legati a quelli di Parigi del 2015) .
Secondo il Report realizzato dal “National Consortium for the Study of Terrorism and Responses to Terrorism” (START) sulla base dei dati raccolti dal “Global Terrorism Database” (messo a punto dall’Università del Maryland) , gli attentati terroristici del 2016 in tutto il mondo (l’87% ha interessato la regione del MENA, il Sud dell’Asia e l’Africa subsahariana; il 2% l’Europa occidentale) sarebbero stati 13.488 ed avrebbero causato 34.676 vittime di cui più di 11.600 sono ritenuti attentatori; nel 2016 l’Isis si conferma come l’organizzazione terroristica più pericolosa ed attiva, portando a compimento circa 1.400 attacchi che hanno prodotto oltre 11.700 vittime , delle quali circa 4.400 erano attentatori.
E nel 2017 altri attentati terroristici: Istanbul, Londra, San Pietroburgo, Stoccolma, Manchester, e ancora Parigi e ancora Bruxelles , Amburgo, Barcellona e , purtroppo, potremmo continuare perché nonostante la flessione del numero degli attacchi, la media è rimasta alta.
Nel corso di questi anni di sangue gli attacchi condotti in Occidente non sono stati tutti uguali; alcuni sono stati molto sofisticati e condotti da professionisti addestrati, altri da emulatori meno preparati o addirittura improvvisati ma questo non gli ha impedito di portare a compimento i piani terroristici, sottolineando una certa permeabilità dei sistemi di difesa e sicurezza europei. Che si trattasse di “lupi solitari” o di cellule organizzate (che hanno potuto godere del supporto di molti fondamentalisti islamici presenti in Europa) l’offensiva jihadista si è protratta, dimostrando l’inefficacia di alcune strategie ed una debolezza strutturale nelle segnalazioni e nelle misure preventive. Troppi, infatti, i casi rivelati dalla cronaca e dalle indagini successive agli attentati, di sostenitori della Jihad che hanno dissimulato con successo il loro ruolo di fiancheggiatori (o molto di più!), dietro una facciata di integrazione e “mimetizzazione” occidentale; svolgendo per anni una funzione logistica, di propaganda, di finanziamento e di reclutamento utili alla causa. La tecnica della dissimulazione (in arabo taqyyia) è sempre più utilizzata dai soggetti radicalizzati per la loro infiltrazione nel tessuto sociale occidentale.
Tutti attacchi terroristici rivendicati, nella stragrande maggioranza dei casi, nel nome dell’Isis, con una frequenza elevata (e grande impatto mediatico, come voluto alla strategia degli stragisti) ed un evoluzione del fenomeno da cui emerge che si tratta di operazioni studiate e coordinate con “team-raid” tattici , in alcuni casi simultanee, compiute da soggetti radicalizzati e, tendenzialmente, di giovane età e con la cittadinanza europea, da commando suicidi, attentatori disposti al martirio in ossequio estremo alla loro fede islamica radicale.
Il bilancio complessivo degli attentati subiti dall’Europa (“il teatro operativo urbano europeo”) è impressionante, con migliaia di vittime civili colpite tra morti e feriti; sono cifre da guerra! Ma dietro gli aspetti quantitativi delle stragi – e non sono numeri, ma persone! – ci sono le necessarie analisi qualitative delle azioni terroristiche e delle loro rivendicazioni; la strategia dell’Isis e la minaccia jihadista hanno raggiunto il loro obiettivo, quello di rendere l’Occidente e l’Europa un “ campo di battaglia” attuando la tattica del terrore indiscriminato: “(…) frutto di un semplice principio dell’economia: ottimi risultati con un minimo investimento. Il susseguirsi di eventi sanguinosi che ormai da tempo riempiono intere pagine di giornali, nonché i profondi effetti tracciati sulle coscienze dei cittadini europei, lasciano un insegnamento per i giorni a venire: nessuno è al sicuro. La strategia dell’innalzamento del livello di prevenzione poteva forse risultare utile nei nefasti Anni di piombo, quando il nemico che si affrontava era noto, la sua ideologia comprensibile così come la lingua. Oggi la realtà è completamente diversa. I novelli terroristi agiscono per “delega divina”, hanno un background culturale completamente diverso dal nostro, parlano una lingua ai più sconosciuta e praticano una religione che solo negli ultimi anni si è fatta conoscere all’Occidente. (OFCS REPORT, La “delega divina” che autorizza le stragi)”; insomma l’incubo che prende forma e che assilla tutti, Governi e cittadini, la minaccia e l’insicurezza globali.
L’Europa, oltre che bersaglio si è rivelata una incubatrice (ma anche sorgente autonoma) di militanti, di estremisti, di Jihadisti di ritorno, di reclutatori e predicatori radicalizzati e la minaccia terroristica permane, come accennato, oltre la sconfittamilitare e la caduta delle roccaforti di Daesh e del sedicente Stato Islamico, perché ne resta l’ideologia e la sconfitta militare non è la fine della Guerra. Ed affrontare l’eredità della sconfitta dello Stato Islamico e la nuova minaccia terroristica è la sfida delle sfide; un terrorismo agguerrito e multidimensionale ci coinvolge, riguarda la sicurezza delle nostre collettività, richiede studi strategici adeguati e sofisticati e misure di contrasto mirate ed efficaci.
Il fenomeno terroristico, infatti, ha elaborato le sue nuove tecniche offensive e si è passati da un terrorismo tradizionale ad un “nuovo terrorismo insurrezionale”, multidimensionale, fluido, dinamico, contemporaneo, di matrice islamico-radicale. Vi concorrono atti coordinati ma anche le attività offensive isolate dei cosiddetti “lupi solitari”; gli attacchi suicidi, cui hanno cominciato a contribuire anche le donne: le mogli, le sorelle, le madri dei combattenti e, purtroppo, anche i bambini, impiegati come attaccanti suicidi, imbottiti di tritolo e mandati a morire telecomandati a distanza.
Non trova qui spazio e meriterebbe un capitolo a parte l’altro fronte dei foreign fighters che sono le donne; Al-Qaida non le impiegava mentre l’Is le ha utilizzate ampiamente: da quelle operative e combattenti , impiegate in ruoli militari operativi o di spionaggio o incaricate di condurre attacchi suicidi, alle mogli forzate dei miliziani del Califfato (comprate e costrette al matrimonio) , alle vedove, alle madri e alle sorelle dei combattenti jihadisti e poi i bambini, quelli indottrinati e obbligati a fare i soldati o i martiri e quelli – i “figli dell’Isis” – nati dai matrimoni forzati e , taluni, oggi ripudiati dalle loro madri.
Gli esperti di settore distinguono gli attacchi ad intensità bassa, media, alta; e quelli compiuti con armi cosiddette non convenzionali e condotti da soggetti singoli e attori solitari ed isolati dagli attacchi sferrati da gruppi strutturati o da reti di cellule organizzate. Si aggiungono, gli attacchi che convenzionalmente vengono definiti di tipo emulativo, che seguono quelli principali e coordinati e ad alto impatto mediatico, e proprio lo “jihad mediatico” evoca e produce un effetto virale e amplia la fascia di simpatizzanti anche se non radicalizzati.
Il nodo della radicalizzazione è un risvolto fondamentale del fenomeno. Solo un dato ed una riflessione introduttiva, al proposito; secondo le analisi e gli studi di settore il fenomeno di radicalizzazione risulta in aumento, ad esempio, all’interno delle carceri :+ 72% tra il 2016 e il 2017 e + 10% dal 2017 al 2018 (Fonte “ReaCT”, l’Osservatorio sul Radicalismo e il Contrasto al Terrorismo, nato per monitorare e prevenire il radicalismo e contrastare il Terrorismo e per contribuire alle politiche di difesa e di sicurezza dei Paesi europei e dei membri della NATO). Le prigioni sono i luoghi in cui il proselitismo raggiunge anche soggetti non radicalizzati e recluta facilmente.
Più sommerso ma non meno solido e preoccupante è l’aspetto della “radicalizzazione veloce” – che non coincide con il fondamentalismo – che utilizza i social media ed attraverso i social network si propaga esercitando una capacità di “fascinazione” ed un effetto reclutamento, suggestionando, in particolare, le fasce giovanili e quelle socialmente marginalizzate, sensibili ai richiami simbolici ed un bisogno di “appartenenza” identitaria unito ad una volontà di riscatto.
La radicalizzazione veloce talvolta coincide con l’auto-radicalizzazione individuale e produce il fenomeno definito di “reclutamento 3.0”, un processo che passa attraverso percorsi diversi da quelli tradizionali e noti, viaggia sul web e tramite canali meno ortodossi e formali anche rispetto alla pratica confessionale.
Osservato nel suo insieme il fenomeno della radicalizzazione si presta ad una duplice lettura: aumentano oggettivamente i soggetti radicalizzati ed i canali di radicalizzazione ma contestualmente si affinano le capacità degli operatori e degli analisti di individuare e rilevare le “sacche” di radicalizzazione, gli indicatori e le simbologie di reclutamento. Gli studiosi sono generalmente concordi nel ritenere che la radicalizzazione sia un fenomeno subdolo e sfuggente, dinamico e sottotraccia, difficile da contrastare e che debba essere fronteggiato anche con adeguate misure di prevenzione e di “de-radicalizzazione”; è indubbio che alla sua decifrazione contribuisca anche l’individuazione dei foreign fighters ed il loro ritorno in patria dopo la dissoluzione territoriale dello Stato Islamico.
I foreign fighters, i combattenti stranieri del Califfato che sono sopravvissuti, ritornano dai territori di guerra della Siria e dell’Iraq e rappresentano una minaccia reale; sono quelli che “importano” in Europa le tattiche di combattimento convenzionale e di guerriglia che hanno acquisito sul campo di battaglia e sono in grado, non solo di fare opera di proselitismo e radicalizzazione (dentro e fuori le carceri e nelle Moschee) ma anche di costituire cellule organizzate, capaci di azioni strutturate e pianificate secondo una strategia. Il ritorno dei foreign fighters può inoltre favorire anche un aspetto diverso da quello della nascita dei nuclei, ovvero può alimentare il numero e l’attività di soggetti operativi di prossimità, i “lupi solitari” ed il “combinato disposto” delle due figure costituisce un fattore di destabilizzazione interna agli Stati, rappresenta un rischio importante e costituisce la base della nuova allerta terrorismo.
Proprio la sconfitta dello Stato islamico ha incrementato il fenomeno dei rientri dei combattenti, una sorta di diaspora dei terroristi, soggetti il cui ritorno non è assimilabile a nessuna prospettiva che non sia combattentistica e terroristica. Inoltre, avvertono gli esperti di terrorismo del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, potrebbero essere sopravvissuti almeno 30.000 foreign fighters di quelli che si erano uniti al Califfato e, ancora, dei circa 6000 che erano partiti dall’Europa per andare a combattere con l’IS (Stato Islamico) in Siria e in Iraq, almeno 2000 sarebbero rientrati. Sarebbero qui, a casa nostra! E nuovi attacchi Isis sono possibili, in Europa ma anche nel resto del mondo.
E l’allarme di nuovi attacchi in Europa (tendenzialmente di tipologia individuale-autonoma ed a “basso costo” e non coordinata ma potrebbero anche attivarsi reti di cellule internazionali) è stata appena confermato dal Rapporto Onu, datato 15 luglio 2019 e reso noto nel mese di agosto. E si tratta di una minaccia endogena (foreign fighters di rientro o terroristi dal passaporto europeo) ed esogena (che passa attraverso le direttrici migratorie della rotta balcanica e mediterranea).
L’ultimo Rapporto delle Nazioni Unite infatti, basato sui dati forniti dai servizi e dalle Agenzie di intelligence di tutti i Paesi membri dell’ONU, richiama l’attenzione mondiale sulla minaccia terroristica ed avverte che l’attuale diminuzioni degli attacchi terroristici sembra non essere destinata a durare a lungo e già entro l’anno in corso potrebbero essere sferrati nuovi attacchi ispirati dall’Isis. Insomma, la minaccia all’Europa è elevata e l’allarme resta alto in tutto il mondo; secondo gli esperti di terrorismo, lo scenario globale dei movimenti islamisti è estremamente preoccupante e continua a rappresentare una minaccia reale e significativa. A conferma della tesi per la quale, la scomparsa geografica del Califfato, del sedicente Stato islamico, non coincide con l’esaurimento dei fattori ideologico-religiosi e politici che hanno portato alla sua nascita e la minaccia terroristica resta attuale e se possibile più pericolosa, perché può produrre “nuovi brand” terroristici internazionali , nuovi leader e diffondere la radicalizzazione nelle forme che abbiamo analizzato. Viviamo nella consapevolezza, rafforzata anche dai contenuti del Rapporto, che è imminente il rilascio della prima ondata di foreign fighters arrestati dopo il loro rientro dai campi di battaglia del Califfato e che , fin qui, i programmi di deradicalizzazione e di prevenzione della radicalizzazione di carattere terroristico, si sono dimostrati inadeguati mentre il cosiddetto “califfato virtuale” continua a fare propaganda e reclutamento ed a godere di sostegni e mezzi economici (si valuta un accesso a fondi che vanno dai 50 ai 300 milioni di dollari e non mancano altre fonti (Cfr. studio Fondazione Icsa) che confermano i contributi di guerra ed i finanziamenti al terrorismo jihadista) e l’Isis ha le capacità operative per ordinare attacchi internazionali.
I miliziani di rientro dallo Stato Islamico, sono rimasti dei combattenti, sanno maneggiare armi ed esplosivi, sono pronti ad obbedire agli ordini, per loro il terrorismo è “un legittimo atto di guerra” e vedono nell’Europa il nuovo campo di applicazione delle loro teorie; dovrebbero essere sorvegliati, arrestati, messi nella situazione di non frequentare le moschee e di fare azioni di proselitismo. E non possiamo prevedere l’impatto emotivo sui potenziali attentatori, del richiamo lanciato da al –Baghdadi nel suo ultimo video, di colpire “con coltelli e veicoli” trasferendo il campo di battaglia dal Medio Oriente all’Occidente.
La “diaspora dei terroristi”, il flusso di ritorno dei foreign terrorist fighters nonché la presenza accertata in Europa di migliaia di fondamentalisti islamici, innalzano il livello della minaccia e richiedono una strategia condivisa e complessiva di intervento. E’ necessario incrementare il sistema di condivisione delle informazioni tra servizi di intelligence e le forze di polizia; realizzare l’interoperabilità delle banche dati e dei sistemi di informazione; implementare le misure di prevenzione e contrasto alla radicalizzazione. Su quest’ultimo aspetto gioca un ruolo fondamentale il Centro di eccellenza della Radicalization Awareness Network (Ran), istituito nel 2015 per fornire sostegno agli Stati membri e condividere prassi comuni, secondo un approccio multidisciplinare e multi agency; mentre sotto il profilo di coordinamento operativo nel contrasto alla minaccia terroristica, il compito principale è affidato al centro europeo antiterrorismo (Ectc), istituito a Gennaio 2016, in seno all’Europol (che pubblica annualmente il Report Terrorism Situation and Trend – Te-SAT). Al proposito vale la pena ricordare che l’ultimo Rapporto dell’Europol – l’Agenzia europea cui spetta il compito di assistere gli stati membri nelle attività di contrasto alla criminalità internazionale ed al terrorismo – contenuto nel documento TeSAT (luglio 2019) , ha lanciato l’allarme – unitamente alla relazione dei servizi di informazione italiani – sulle infiltrazioni jihadiste nei flussi di migranti e sui rischi connessi agli sbarchi, nonché sulla connessione tra il traffico dei migranti e il finanziamento al terrorismo di matrice islamista.
La sconfitta territoriale dello Stato islamico, infatti, ha portato il movimento a reinterpretarsi ed a delocalizzarsi nello scenario globale e in Europa. Nel suo complesso e nella sua complessità, il nuovo modello terroristico, non è circoscritto né circoscrivibile geograficamente ma sempre più fluido, diffuso territorialmente, più dinamico e multidimensionale; la nuova allerta terroristica richiede un diverso approccio metodologico per essere fronteggiato ed una definizione condivisa per una strategia di prevenzione e di contrasto davvero comune e in grado di rafforzare la sicurezza globale. Si tratta – anche e quindi – di modificare gli organi e le organizzazioni di intelligence, di rafforzare le attività di analisi della minaccia e i rapporti di cooperazione e di alleanza europea e internazionale; anche in considerazione degli spazi geopolitici instabili e delle nuove dinamiche globali. La mancanza di una definizione condivisa delle caratteristiche del nuovo modello di terrorismo condiziona e può pregiudicare il successo delle strategie di contrasto, perché complica la definizione comune dei parametri e dei criteri di valutazione delle Agenzie di Intelligence e degli altri stakeholder coinvolti e complica l’attività di analisi (e reazione) della minaccia.
La percezione diversa della minaccia può pregiudicare l’efficacia di una strategia di contrasto e portare alla sottovalutazione della capacità offensiva del fenomeno terroristico; può essere portata ad esempio la recente notizia, passata quasi sottotraccia, che la Corte europea dei diritti umani abbia stabilito che la “sharia non è contraria ai diritti umani e che non è proibito creare dei gruppi separati che seguano le norme coraniche”. Conclusione che di fatto rappresenta la negazione di millenni di storia europea e la resa incondizionata nei confronti di chi vuole annientare la nostra libertà e la nostra cultura. E ancora, c’è un’Europa che non considera politicamente corretta nel suo linguaggio formale (e nella sua narrativa!) l’espressione “terrorismo islamico” – titolo che invece abbiamo scelto per la nostra riflessione sulla minaccia esistente di un terrorismo non convenzionale ed insurrezionale di matrice islamica radicale! – e preferisce usare la definizione “minaccia terroristica di matrice jihadista”; il punto è che seppure si può operare una distinzione tra musulmani ed Islam, ed i suoi fedeli possono essere moderati e “dialogici”, la fede in Allah di un fondamentalismo radicale che si sta diffondendo, predica l’odio e la violenza verso i miscredenti.
Una percezione diversa della minaccia terroristica da parte dei singoli Stati Membri non solo non favorisce la necessaria interoperabilità dei dati al livello europeo ma condiziona- frena! – anche le politiche comuni di contrasto e di sicurezza mentre è urgente rafforzare gli strumenti giuridici ed operativi, i controlli alle frontiere interne ed esterne, la strategia di antiradicalizzazione e, migliorare la collaborazione europea in materia di difesa e sicurezza. La Commissione Europea sta studiando misure per il contrasto al radicalismo islamico ma la strada è ancora lunga e c’è tanto da fare in Europa anche in termini di coordinamento e controllo sulla libera circolazione stabilita dai Trattati di Schengen, per cui i terroristi possono muoversi liberamente tra gli Stati. Nel nostro Paese, oltre il difetto di percezione, mancano anche gli strumenti normativi, dalla carenza di percorsi strutturati e articolati per i processi di de-radicalizzazione all’assenza di una Legge (che Fratelli d’Italia ha proposto) che introduca il reato di integralismo islamico, per punire i predicatori d’odio, chi finanzia l’integralismo islamico e le moschee clandestine, chi sostiene atti che possono mettere a rischio la sicurezza pubblica. E non è solo una questione di sicurezza e di legalità ma anche di reazione al processo di islamizzazione che stiamo subendo in Europa e in Italia.
*Contributo di Isabella Rauti al Rapporto sull’islamizzazione d’Europa della Fondazione Farefuturo