Stop all’Italia del "stai sereno". Ecco come disincentivare il trasformismo

Per gentile concessione dell’editore e dell’autore, pubblichiamo di seguito un estratto dalle conclusioni di “State sereni. L’Italia è una Repubblica fondata sul tradimento” (Iuppiter, pp. 160, € 14) , l’interessante libro-inchiesta del giornalista de Il Tempo Carlantonio Solimene sul fenomeno sempreverde del trasformismo in politica e su alcune “cure” individuate dall’attento cronista a colloquio con esperti e analisti. Un tema di stringente attualità questo del “tradimento” parlamentare – con proposte ad hoc di autoriforma indicate in campagna elettorale come il “patto anti-inciucio” – rispetto al quale la nacente Terza Repubblica non potrà prescindere se intende emanciparsi, non solo dal punto di vista generazionale, dalle storture bizantine della Prima e dai fenomeni degenerativi della Seconda. (A.R.)
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La riforma del regolamento approvata al Senato prevede una serie di misure destinate a snellire l’iter di approvazione delle leggi e a scoraggiare i cambi di gruppo. È l’ultimo aspetto che interessa in questa sede. Sostanzialmente, il senatore che decide di lasciare il gruppo d’origine, può solamente andare nel Misto oppure tra i banchi di una formazione uscita dalle elezioni. Non può, cioè, contribuire alla creazione di nuovi gruppi. Per fare un esempio, se il regolamento fosse stato in vigore in questa legislatura, non avremmo avuto né il Nuovo Centrodestra, né Gal, né Ala eccetera. Inoltre, il parlamentare che passa da un gruppo all’altro perde gli incarichi che aveva acquisito per conto della formazione d’origine, ad esempio quello di vicepresidente del Senato o di segretario d’Aula. La “penalizzazione” non vale invece per il Presidente, che rappresenta un organo monocratico eletto da tutti i senatori e non designato da un partito.
Quest’ultimo aspetto, in particolare, costituisce certamente un disincentivo al trasformismo, seppur limitato ai senatori “graduati”. Ma anche il divieto di formare nuovi gruppi può in qualche modo arginare il fenomeno dei voltagabbana. Poter contare su un gruppo in Parlamento, infatti, consente di avere una serie di vantaggi: tempi di intervento nelle discussioni sulle leggi in Aula oltre a stanze ed uffici a Palazzo Madama. Anche per questo motivo, nel corso della legislatura, si è assistito al balletto di diversi senatori centristi che saltavano da un gruppo all’altro in base alle necessità per garantire che le formazioni createsi in corso di legislatura avessero sempre il minimo stabilito di componenti (dieci) per sopravvivere.
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Il nodo dell’articolo 67 della Costituzione
La domanda da porsi è se “punire” i trasformisti, declassandoli eventualmente da vicepresidenti d’Aula a senatori semplici, violi in qualche modo il divieto del vincolo di mandato sancito dall’articolo 67 della Costituzione. La risposta – stando a quanto spiega Alfonso Celotto, professore di Diritto pubblico comparato all’Università Roma Tre – è piuttosto complessa.
«Quando c’è un onere, un peso riguardo la tua libertà di scelta, tu hai perso la tua libertà di scelta. Da questo punto di vista, quindi, questa parte del regolamento corre il rischio di essere dichiarata incostituzionale di fronte a un’interpretazione molto rigida dell’articolo 67. Le norme giuridiche, però, devono necessariamente essere lette a seconda del tempo in cui si vive. Il divieto del vincolo di mandato era rigoroso negli anni ’50 e ’60, perché i partiti erano molto forti e si doveva garantire una certa indipendenza all’eletto. Faccio un esempio: Democrazia Cristiana e Partito Comunista facevano firmare le dimissioni in bianco ai propri parlamentari per agitarle in caso di “disobbedienza”. Ed è il motivo per cui la giurisprudenza prevede che per lasciare lo scranno non basta presentare le dimissioni, ma queste devono essere anche accettate dalla Camera di appartenenza. Una tutela che, forse, oggi è un po’ fuori dal tempo. Allo stesso modo, anche l’interpretazione rigida del divieto del vincolo di mandato ai nostri giorni può essere attenuata. Anche perché in fondo chi cambia gruppo non decade da senatore: al limite perde i gradi di vicepresidente o segretario d’aula, ma il suo dissenso è comunque garantito».
I dubbi restano: l’articolo 67 della Costituzione, a seconda della sua interpretazione, potrebbe depotenziare il nuovo regolamento del Senato. Così come, ad oggi, rende totalmente inesigibile la multa che il MoVimento 5 Stelle ha previsto nel suo nuovo codice di condotta per gli aspiranti parlamentari, con l’impegno a versare 100mila euro nel momento in cui si cambi partito. Uno stratagemma già usato in passato (per gli europarlamentari la multa era addirittura di 250mila euro), ovviamente senza alcun risultato concreto.
Tuttavia a questo punto è lecito chiedersi: è possibile cambiare il principio costituzionale che vieta il vincolo di mandato? La domanda può apparire provocatoria: oggi qualche forma di mandato “condizionato” è prevista solo in Portogallo, Bangladesh, Panama e India. Nel resto del mondo, e in particolare in tutte le più autorevoli democrazie occidentali, i parlamentari esercitano le loro funzioni senza dover rendere conto né ai partiti né agli elettori. Eppure la richiesta di revisionare questo principio costituzionale nel corso di quest’ultima legislatura è stata avanzata da più parti. In vari momenti, si sono espressi a favore del vincolo di mandato il MoVimento 5 Stelle, Forza Italia, Lega e Fratelli d’Italia. Partiti che, tra qualche mese, presumibilmente avranno i numeri per varare questa modifica costituzionale. Superando le facili ironie su queste posizioni (Berlusconi ora è per il vincolo di mandato, ma lo era assai meno quando i “responsabili” salvavano il suo governo), è giusto interrogarsi asetticamente sul merito della questione. Anche in questo caso, è opportuno lasciare la parola ai giuristi. A partire da Stefano Ceccanti.

Carlantonio Solimene

«Io non credo sia giusto toccare l’articolo 67 della Costituzione. Inserire il mandato imperativo, infatti, significherebbe dare ai segretari di partito il potere di sostituire un eletto con un altro. Se un parlamentare non rispetta gli ordini del partito, viene fatto decadere e gli subentra il primo degli esclusi. Questo rafforzerebbe il rapporto tra eletti e segretari di partito, ma non quello tra elettori ed eletti, che è la relazione che oggi maggiormente andrebbe potenziata. Da questo punto di vista, l’inserimento in Costituzione del vincolo di mandato rappresenterebbe un non rimedio. Se noi, invece, vogliamo fortificare il nesso tra parlamentari e corpo elettorale, dobbiamo immaginare una serie di disincentivi al trasformismo di altro tipo. Come quelli previsti dal nuovo regolamento. Il divieto di creare un nuovo gruppo, ad esempio, impedisce a partiti mai passati dalle urne di accedere al finanziamento pubblico e di conquistare visibilità. Impedisce, cioè, che si parta dal Parlamento per arrivare nel Paese e non viceversa, come in realtà dovrebbe essere».
Più possibilista su un ritocco dell’articolo 67 è invece Alfonso Celotto.
«Tutte le disposizioni vanno iscritte nel tempo in cui sono pensate. Nel 1947 il divieto del vincolo di mandato era indispensabile, perché venivamo da un sistema a partito unico in cui era necessario garantire la libertà dell’eletto. Anche altre costituzioni scritte in quegli anni hanno articoli molto simili. Le costituzioni più recenti, invece, come quelle di Portogallo o Grecia, non hanno più principi di questo tipo perché i tempi sono cambiati. Anche in Italia, oggi, il divieto di mandato imperativo potrebbe essere leggermente revisionato, basterebbe usare un po’ di buonsenso. Il nuovo articolo 67 andrebbe legato al meccanismo odierno della rappresentanza. Oggi, con leggi elettorali che prevedono il listino bloccato, la rappresentanza passa inevitabilmente attraverso i partiti. Non si viene eletti per il proprio consenso personale, ma perché una formazione politica ha deciso di inserire nella propria lista una certo candidato. L’eletto, quindi, rappresenta sì la Nazione, come recita la Carta, ma rappresenta anche il partito che l’ha fatto eleggere. Basterebbe aggiungere una parolina all’articolo in questione, scrivere che “Ogni membro del Parlamento rappresenta anche la Nazione”, per cambiare sostanzialmente la disciplina. Le norme appena varate dal Senato, ad esempio, con una riformulazione di questo tipo non correrebbero più il rischio di incostituzionalità».
Il dibattito è aperto. Nella legislatura che sta per cominciare certamente se ne parlerà di nuovo.

*Carlantonio Solimene, giornalista, scrittore