Caso Alfie. Chi decide che il principio di "autodeterminazione" per lui non vale?

Magari sarà solo una sensazione, un retropensiero infondato. Peccato però che la questione sia delle più serie e irreversibili: perché quando c’è da scegliere tra la difesa della vita e l’opzione per la morte, il pendolo – ormai – oscilla quasi sempre su quest’ultima? Un piano inclinato a cui il nostro mondo pare essersi consegnato mani e piedi legati. La tragica vicenda del piccolo Alfie Evans è l’ultima in ordine di tempo che sembra confermare un teorema indimostrabile ma che lacera di netto la coscienza occidentale. Integro resta invece l’orientamento dell’Alta Corte di Londra, pronta a sentenziare su quali vite siano «futili» e quali addirittura «inutili». Altro che parole eque, si tratta invece di vere e proprie pietre tombali che si accompagnano all’immagine feroce di una pattuglia di polizia inviata in ospedale per impedire a una coppia di genitori di accompagnare il figlio in un’altro centro pediatrico, magari al Bambin Gesù di Roma. Insomma, se non è una scena tragica questa, che rivela una sproporzione ineluttabile tra le istanze del potere e le lacrime di un uomo e una donna immersi nel dolore, poco ci manca.
È chiaro che gli strascichi della vicenda di Charlie Gard siano ancora lì sul campo dove il common law ha fatto a sportellate con il principio di speranza, o meglio con i paradigmi più evidenti e immediati della natura umana. È nel codice genetico di ogni essere vivente lottare per garantire la sopravvivenza dei propri figli, anche a costo di sfidare la pubblica autorità e la sorte. Pare però che su tutto questo i giudici inglesi siano nel piano diritto di sorvolare, calpestando anche la liberalità del sistema britannico a tutto favore di un pensare dove lo Stato si arroga una missione etica finalizzata a un mero calcolo costi-benefici nemico di ogni dignità o pretesa di autodeterminazione personale. E se il Regno Unito è spesso l’antenna anticipatrice dei dettami mainstream c’è davvero di che preoccuparsi. È qui che sta o cade tutta la questione: perché se a prendere piede è l’idea cotonata che il fine vita debba essere sempre rispettato, anche pennellando l’idea di un’Italia arretrata perché non ha “ancora” una legislazione pro-eutanasia, vuol dire che una nuova ipocrisia sta prendendo velocemente piede.
Chissà cosa avrà pensata il sindaco di Roma Virginia Raggi quando ha fatto oscurare la cartellonistica pro-life che proponeva una riflessione provocatoria sugli stadi della vita prenatale. Non ne condivideva il contenuto del manifesto o la sua presenza era semplicemente imbarazzante in forza di chissà quale vezzo salottiero? Qualunque risposta le abbia suggerito il foro interno, il risultato finale è un atto di censura culturale da brivido nella schiena. Ma anche la cartina tornasole che rivela come sia ormai fastidioso ammettere che la scelta di proseguire o no una gravidanza, o le cure, debba poter aggrapparsi su di un confronto libero con la propria coscienza. Se questa poi è informata, tanto peggio. Detta in soldoni, per alcuni la scelta è legittima solo quando spinge sull’acceleratore del Thanatos. Diversamente, è da biasimare.
Tutto questo perché dei diritti acquisiti sull’onda lunga di un certo radicalismo sessantottardo non è lecito fare passi indietro, neanche per addrizzare il tiro su alcuni punti aperti in favore degli argomenti pro-vita. Semmai c’è la volontà di rimettere in discussione l’obiezione di coscienza. Oltre la retorica, manca la consapevolezza che erodere uno degli istituti giuridici che segna l’incontro tra il cristianesimo e il mondo romano aprirebbe a scenari inquietanti. Perché si tratta di uno strumento che ha garantito il principio entro il quale il potere politico, in ultima istanza, non può mai violare l’interiorità personale.  Perdere questa coordinata non sarebbe tanto un salto indietro, ma nel vuoto. Intanto però il diritto e le sue ragioni scricchiolano, perché se c’è una cosa che dovrebbe realmente imbarazzare tutti è il fatto che si stia discutendo a livello planetario sulla liceità di due giovani genitori a potere sperare il meglio per la propria creatura. Ecco: tutto questo è davvero poco libertario. Poco civile, poco umano.

*Fernando Adonia, collaboratore Charta minuta