Dovrebbe essere oggetto di stupore che oggi la nozione di «interesse nazionale» possa essere oggetto di dibattito, e quindi di contrapposizione politica. E che questo venga visto come un fatto normale, di cui discorrere, e non per ciò che è: e cioè una patologia che testimonia dell’involuzione del discorso pubblico in Italia. Una patologia che si è avviata con la crisi istituzionale degli anni 1991-93; che, pur conoscendo diverse fasi, non si è mai interrotta; e che ha condotto alla situazione attuale di disorientamento della politica nazionale. Del resto l’Italia è l’unico paese dell’Europa occidentale che ha assistito, dopo il 1989, alla rimozione integrale di una classe politica, esattamente come è avvenuto nelle democrazie popolari dell’Est Europa (F. Fejto, La fine delle democrazie popolari. L’Europa orientale dopo la rivoluzione del 1989, Milano 1994). Lo stesso non è avvenuto in Francia, in Germania, in Gran Bretagna, per guardare a paesi comparabili all’Italia per dimensioni, tradizione, capacità produttiva, e cultura, che invece hanno vissuto il Nuovo Ordine Mondiale (H. Kissinger, Ordine Mondiale, Milano 2015), Maastricht, e il nascere dell’Unione in una situazione di sostanziale continuità. Un giorno si spiegheranno meglio le ragioni che furono alla base di quello strano periodo: e si spiegheranno meglio quando la storia d’Italia di quel periodo sarà ricostruita sulla base della letteratura straniera che ne ha dato conto, durante e dopo quegli anni. Non sulla base di quanto è stato scritto in Italia. Sta di fatto che è da allora, e dalla Grande Cesura che lì si è prodotta, che l’Italia vive un «8 settembre» a bassa intensità e di lunga durata, che ne ha pregiudicato la collocazione sullo scenario mondiale, sia in termini economici, sia di ruolo geopolitico nelle aree di sua tradizionale spettanza, e cioè Mediterraneo e Vicino Oriente.
Questa situazione ha contato molto anche su altri versanti. Se si dovesse fare un bilancio del ruolo giocato dall’Italia all’interno dell’Unione è difficile negare che questo bilancio non sia stato altro che negativo. Senza ragionare qui delle cause che hanno condotto a questa situazione, ci vuol poco a riconoscere che in Europa l’Italia ha contato molto di più prima che dopo Maastricht. E che da Maastricht in poi il peso specifico di un paese di 60 milioni di abitanti, con un’economia splendidamente diversificata, con la seconda capacità industriale del Continente, ed eccellenze in praticamente tutti i settori della ricerca e della cultura, che ha contribuito come pochi alla formazione di quella che da europei, dovremmo chiamare cultura europeo-occidentale, sia andato riducendosi fino a diventare l’ombra di ciò che era solo trent’anni fa. Il che si dice nella consapevolezza di tutti i problemi e gli squilibri che erano evidenti ancora trent’anni fa, e che oggi si sono accentuati, fino a fare dell’Italia qualcosa di simile ad una Baviera con annessa una enorme Grecia. Detto questo sia chiaro: il Nord Italia non è la Baviera, e il Sud Italia non è la Grecia. Ma si tratta di una metafora utile a mettere in luce le tendenze in corso nel Paese, che indicano una chiara e forte tendenza alla divaricazione dei territori, in via di forte accelerazione. E che non danno mostra di interrompersi o rallentare. Tutto questo è una anomalia.
Ma è un’anomalia interessante, fortemente indicativa della condizione in cui versa il discorso sullo Stato – sulla statualità dovremmo dire – in Italia. Si sa che lo Stato, da G. Jellinek in poi, è un triangolo fatto di territorio, popolazione e governo: se viene a mancare o si indebolisce uno di questi tre elementi, lo Stato semplicemente cessa di essere uno Stato. Ma se le incrinature di territorio e popolazione sono tutto sommato facilmente riconoscibili (cosa è più misurabile di una perdita di Zona Economica Esclusiva?), lo stesso non avviene quando si parla di governo. Qui governo non è solo apparato o dominio: è innanzitutto azione, e cioè capacità di perseguire e realizzare obiettivi politici alla luce degli interessi che lo Stato di volta in volta ritiene di perseguire. Lo Stato, da questo punto di vista, si identifica con la politica, che è innanzitutto volontà e capacità di perseguire interessi. E allora non ci vuole molto a capire che uno Stato che non persegue un suo «interesse» può essere molte cose, ma ha già cessato di essere uno Stato perché non produce più politica. E di conseguenza ha lasciato spazio alla costellazione di interessi e di poteri indiretti – i poteri situazionali di cui parla sovente G. Sapelli (La democrazia trasformata. La rappresentanza tra territorio e funzione: un’analisi teorico-interpretativa, Milano 2007) – che ne occupano transitoriamente il territorio e che vengono di volta in volta scambiati per interessi italiani, tedeschi, francesi etc.: quando in realtà, nella maggior parte dei casi si tratta soltanto di interessi che si ammantano delle vesti dell’interesse nazionale (altrui) per trovare forma e realizzarsi. Quella tra potere statale e poteri indiretti, insomma, è una tensione ineliminabile, che si riflette sulla raffigurazione della rete degli interessi (del sistema, si dovrebbe dire, degli interessi) che alimentano la politica, e la sostanziano all’interno e al di fuori dello Stato. Interessi che, di quella rete, fanno una struttura in perenne movimento, decifrabile solo a prezzo di grandi sforzi e grande abilità e prudenza. Prudenza che, diciamolo pure, non sembra granché esserci stata dai tempi della Grande Cesura. Sicché la domanda che ci si dovrebbe porre è quali siano – e quali dovrebbero essere – gli interessi che sono stati perseguiti dalla politica nazionale da allora ad oggi. E quali siano i mezzi a disposizione – competenze, risorse, apparati – per perseguire oggi questi interessi. Ed è a fronte di queste domande – ma non solo di queste – che si scoprono gli effetti prodotti dalla cesura 1991-1993 sul Paese.
È su questo che si dovrebbe avviare una riflessione. Perché la politica è senz’altro identificazione di interessi altrui e capacità di realizzazione dei propri. Ma prima ancora è pensiero e capacità di ricognizione delle situazioni in cui è chiamato a muoversi lo Stato o quel che ne resta. Perché da sempre sono le domande a generare le risposte. E quindi a delineare gli scenari di azione. Questo dovrebbe essere il punto di partenza di una riflessione sull’interesse nazionale, dal momento che, se ci si muove da qui, si scopre che la società italiana ha smesso da allora, e cioè dai tempi della Grande Cesura, di interrogarsi sul proprio ruolo sullo scenario europeo e mondiale, essendosi appagata della sua dissoluzione nella nuova realtà istituzionale prodotta da Maastricht. Qualcuno, negli anni ’80, prima di Maastricht, aveva predetto che i tedeschi sarebbero entrati in Europa da tedeschi, i francesi da francesi, gli inglesi da inglesi, mentre gli italiani sarebbero stati gli unici ad entrarci da europei. I fatti gli hanno dato ragione. Ed è da allora che la politica italiana ha smesso di pensare e di pensarsi, acquietandosi nella delega firmata allora alle istituzioni europee, fino a trasformarsi in attività di esecuzione locale di scelte assunte altrove, e segnatamente in quel livello europeo dove – nel discorso pubblico italiano – tutto si fa indistinto ed opaco.
La seconda Grande Cesura, prodottasi nel 2011 con il fatto costituzionale del commissariamento finanziario della Repubblica, ha dato il colpo di grazia alla capacità del Paese di pensarsi come entità politica, favorendo il sorgere di un ceto politico sempre più penetrato da interessi esterni, che va cercando legittimazioni altrove. È esemplare – e dovrebbe essere oggetto di riflessione – la lista di politici e figure istituzionali italiane che hanno ricevuto medaglie e riconoscimenti provenienti da Stati esteri. Lo stesso non è avvenuto in altri paesi. Anzi, altrove – e non soltanto negli stati di democrazia classica occidentale, e cioè Francia e Germania, ma soprattutto negli stati di democrazia recente dell’Est, gli Stati cioè, dell’Intermarium – si è saputo capire che la nuova realtà istituzionale dell’Unione poteva essere un moltiplicatore di potenza per la realizzazione degli interessi nazionali, solo che si fosse stati in grado di coglierne le enormi potenzialità in termini di produzione di effetti egemonici. Il Trattato di Aquisgrana tra Francia e Germania del 2019 ne è un esempio; così come rischia di essere dello stesso fenomeno un esempio, ma a contrario, l’analogo Trattato tra Francia e Italia (Trattato del Quirinale) in gestazione da mesi. La vincolatività di questi Trattati sappiamo essere quella che è. Ma sono comunque spie di un unico processo in corso da decenni, che ha condotto, per merito altrui, e per incapacità nostra, alla situazione attuale. Il fatto che qualcuno sia entrato nell’Unione da Tedesco o da Francese, e solo noi da Europei ha prodotto, con il trascorrere del tempo, i suoi effetti. E lo stesso discorso dovrebbe essere fatto per altre forme di collaborazione, a cavallo tra il diritto internazionale ed il diritto dell’Unione, quali il Trattato Mes o il Trattato di Velsen con l’istituzione dell’Eurogendfor, i cui effetti benefici sul Paese sono tutto tranne che evidenti.
Tutto questo ha avuto, in aggiunta, l’effetto di allontanare il ceto politico italiano da quello che è il suo tradizionale alleato, e cioè gli Usa, i quali, anche per ragioni interne alle ultime amministrazioni, si sono progressivamente disimpegnati dal teatro europeo. E questo ha giocato non poco sulle condizioni che hanno portato all’attuale situazione, perché se il radicamento culturale ed economico dell’Italia è – e non può che essere – in Europa, bisogna capire che il suo radicamento politico non può che essere Oltreoceano, per le ragioni che si sono appena dette, stante che il disimpegno statunitense dal Mediterraneo e dall’Europa ha creato le condizioni affinché l’egemonia franco-tedesca potesse affermarsi, sia pure in modo zoppo e claudicante, sul resto del continente.
Bisogna riconoscere che ciò che, forzando il linguaggio, ci si è abituati a chiamare Europa – per farci dimenticare che Europa è una categoria della storia e della cultura mondiale, e non un disfunzionale gruppo di Stati retti da rapporti egemonici, il cui nome proprio è Unione europea – è esclusivamente una potenza terrestre. Governa un piccolo e limitato pezzo di Eurasia. Non ha capacità di proiezione marittima, nonostante la Francia da sempre aspiri ad essere presente sul mare. Il suo naturale ambito di espansione sta nell’Oceano di Terra che inizia, al confine tra Germania e Polonia, tra Chemnitz e Wroclaw, e finisce a Khabarovsk sulle coste del Pacifico, dove l’ultimo pezzo di costa siberiana affronta le coste giapponesi e a sud confina, per terra, con un lembo di Cina. Ma quello spazio le è precluso perché da sempre quell’Oceano di Terra è troppo vasto per poter essere controllato, ed è presidiato in modo insuperabile dal gigante russo. A differenza del suo ingombrante vicino, la proiezione di potenza dell’Unione non è militare, ma esclusivamente commerciale e mercantile. Tant’è che il suo diritto è una lex mercatoria riadattata all’età della tecnica e dell’informatica, impiegata come strumento di governo contabile, ed abbellita da una retorica dei «diritti fondamentali» fatta per distruggere la tradizione plurimillenaria del diritto razionale europeo. L’Unione non può proiettarsi nel mondo attraverso la forza della finanza, perché la finanza è affare esclusivamente anglosassone. Si proietta nel mondo attraverso la produzione e l’esportazione di manufatti, e l’accumulo di surplus commerciali superiori a quelli cinesi.
La sua massima economia, quella tedesca, è un aliante trainato dal motore dell’aereo cinese e non è autosufficiente, essendo condannata all’esportazione dal modello economico scelto fin dal dopoguerra, e codificato nella Stabilitätsgesetz del 1967. Il progetto europeo per una proiezione di forza finanziaria in competizione con il dollaro nelle aree asiatiche e del Medio Oriente, che pure c’è stato, è fallito anche prima della crisi del 2008. Di quel progetto restano solo gli effetti interni, e cioè la capacità da parte di alcuni Stati-nazione di impiegare una moneta creata dall’ingegneria finanziaria per egemonizzarne altri con la collaborazione della classe dirigente di questi stati nuovamente asserviti. Con l’unica differenza, rispetto al passato recente, che questa egemonia si basa sulla forza contabile e non più militare. Da qui la differenza tra Core e Piigs – e cioè tra «Nucleo» e «Porci» – che descrive in due parole l’attuale disequilibrio europeo. La collocazione geografica degli Stati-nazione egemoni, e cioè Germania e la subordinata Francia, è però determinante per il loro destino politico. Vista la loro collocazione, la proiezione di forza attraverso l’esportazione è destinata a svolgersi soltanto per vie di terra, come per via di terra doveva proiettarsi la potenza manifatturiera tedesca sulla direttrice Berlino-Baghdad-Baku all’inizio del XX secolo: la via di terra, insomma, che, secondo il pensiero strategico tedesco di fine ‘800, doveva essere la risposta continentale alla rotta che, attraverso Suez, da Londra arrivava in India e in Australia e che costituiva la «spina dorsale» dell’Empire da proteggere ad ogni costo (Correlli Barnett, The Collapse of British Power, London 1972).
Già la diversa percezione degli spazi coinvolti dalle vie di terra e dalle rotte di mare avrebbe dovuto mettere in guardia i suoi architetti dal riporre troppe speranze in un progetto che si è interrotto con l’avvio della guerra civile europea, iniziata nel 1914 e finita nel 1945. Così non è stato, come aveva capito benissimo Carl Schmitt, quando diceva «la Germania non è mai stata altro che uno stato continentale europeo di media grandezza. Questo è il nostro destino: un destino da topi di terra! Il Reich tedesco è ridicolo a confronto con l’Empire inglese» (Terra e Mare. Riflessioni sulla storia del mondo, Adelphi 2002). Il Landnahme, l’impossessamento di Terra, insomma, non è niente in confronto al Seenahme, all’impossessamento di Mare: questa è la lezione lasciata da Carl Schmitt ai mediocri strateghi di Maastricht e Lisbona. E questo segna il destino dell’Unione, che è un destino di inevitabile fallimento, nonostante le sue strategie mercantiliste. In realtà l’Europa di Maastricht ha avuto la possibilità di diventare una potenza marittima attraverso il rapporto con la Gran Bretagna, che è stata la grande continuatrice, in età moderna, della tradizione medievale veneziana – e dunque italiana – di traffici commerciali ed influenze politiche. Un’Europa che avesse saputo dare alla Gran Bretagna il ruolo che le spettava nel progetto europeo avrebbe potuto espandersi strategicamente sia per terra che per mare. Ma avrebbe dovuto risolvere l’equilibrio di potenza tra Terra e Mare attraverso un patto del genere di quello cercato nel 1940 e mai realizzato. Questo patto non c’è mai stato. E allora non deve stupire che la Gran Bretagna di Maastricht sia salpata una seconda volta nella sua storia, dopo il XVII secolo, ed abbia abbandonato i topi di terra al loro destino. Perché la convivenza tra Terra e Mare – e, cioè, fra pensieri strategici diversi e diverse percezioni dello spazio – è impossibile. Se temporaneamente questa convivenza si realizza, è sempre instabile e occasionale. Questo è il senso storico della Brexit, che riporta la Gran Bretagna nella sua antica posizione di ago della bilancia dello scacchiere europeo, e che restituisce il Foreign Office alla sua tradizione funzione di regolatore, per via diplomatica, degli equilibri europei.
Da oggi in poi l’unico suo interesse sarà lavorare per contenere o distruggere quel che resta di quel progetto imperiale europeo, che era poi nient’altro, come ha spiegato benissimo sempre H. Kissinger, se non la riproposizione in età moderna del modello di Carlo V d’Asburgo da parte del pensiero strategico americano del dopoguerra. E infatti, per qualcosa che non è una coincidenza della storia, l’altra grande potenza marittima che, dopo aver preso il dominio degli Oceani nel 1945, ha preso il dominio del Mediterraneo dai tempi di Suez, e cioè gli Usa, è oggi, sia pure con i nuovi limiti di pensiero strategico che un tempo non le appartenevano, in rotta di collisione con quel che resta del progetto neoimperiale europeo. E cioè di un progetto che, in origine, era stato voluto proprio dagli americani, prima in funzione di contenimento dell’Urss e poi, dopo il 1989, per stabilizzare un lembo comunque rilevante – una regione – di Eurasia, partendo dal presupposto della realizzabilità di un mondo unipolare a dominio americano. Gli anni della presidenza Obama-Clinton sono stati gli anni di massimo sviluppo del progetto neo-asburgico e l’euro ne è stata parte integrante. Così come ne è stata parte integrante, in Italia, la collaborazione di buona parte della classe dirigente di quegli anni, che, per sopravvivere e governare un paese che doveva deindustrializzarsi in nome della teoria dei vantaggi comparati, si è alimentata del doppio rapporto con la centrale americana e con i suoi terminali europei, in Francia e Germania. Sono anni, questi, che, nel Mediterraneo, sono finiti. E sono finiti prima con la vicenda libica, iniziata con una guerra combattuta dell’Italia, per conto terzi, contro gli interessi italiani, e poi con la vicenda siriana, in cui la Francia ha mostrato tutta la sua incapacità di sostituire la Gran Bretagna come braccio marittimo di proiezione di potenza, nonostante iniziative come la Scuola di Guerra Economica (Ecole de guerre économique), concepita dagli enarchi per perseguire, in forme non militari, e a discapito dei vicini europei, tra cui l’Italia, gli interessi francesi. E a buon diritto: in fondo il conflitto economico è il cuore del progetto europeo, come dimostra l’art. 3 del Trattato Unico Europeo, che fa della «forte competizione» l’obiettivo privilegiato dell’ordinamento dell’Unione, cui tutti gli altri devono subordinarsi. La creazione, da parte della Francia, di un’istituzione come la Scuola di Guerra Economica è solo un sintomo di salute e consapevolezza di sé da parte di uno Stato che non vuole rinunciare ad essere Stato, pur all’interno del «sogno» europeo. E che sfrutta il «sogno» per continuare ad operare, sia pure nel modo tradizionalmente velleitario e sbilenco che gli è proprio, come uno Stato. Semmai sono stati i paesi o, meglio, le classi dirigenti di paesi come l’Italia, che si sono voluti fare satellite, a precludersi questa consapevolezza di organizzazione e, dunque, di azione politica. Accettando così, e anzi, accelerando, una sorte di declino che sarebbe stata evitabilissima.
Oggi quel che resta del progetto europeo si è ridotto, come già nel 1943, all’area franco-tedesca e ai rispettivi satelliti (F. Merusi, Il sogno di Diocleziano, Torino 2012), anche extraeuropei, come sono dei satelliti le excolonie del Franco CFA, le cui popolazioni sono state fatte fluire in Italia negli ultimi anni come destinazione di seconda scelta, che alleggerisse la naturale pressione sulle coste francesi di popolazioni francofone. È un’area, quella franco-tedesca, tutta di Terra che oggi è sotto pressione dal Mare tanto da Ovest, con la Brexit, quanto da Sud, e cioè dal Mediterraneo, attraverso l’Italia. Non sono ricorrenze casuali quelle in corso, per il semplice fatto che la geopolitica ha una sua logica e che, come aveva capito benissimo Schmitt settant’anni fa, il mostro mitologico di Terra, il Behemoth, è destinato ad essere sempre strangolato dal mostro mitologico di Mare, il Leviatano. Una volta che gli equilibri di potere americani si saranno definitivamente stabilizzati, sarà solo questione di tempo perché l’anglosfera riprenda il controllo del piccolo gigante di Terra, e riduca a ragione uno strumento – in realtà un esperimento – di governo regionale sfuggito di mano ai suoi creatori. E che è stato venduto alle popolazioni di questa parte di Eurasia come «sogno europeo», infarcendolo di richiami a Kant, alla «pace perpetua», all’ideologia dei diritti in impossibile, perenne espansione, all’economia «in equilibrio» dell’ordoliberismo, e ad altre amenità del genere. Per l’Italia, che è una potenza regionale anfibia, che non ha mai scelto veramente fra Terra e Mare, e dunque non si è mai veramente compiuta, presa com’è fra un Nord manifatturiero ed esportatore, ed un Sud centro naturale del Mediterraneo, se ci sarà salvezza, questa salvezza verrà dal Mare. E sarà una salvezza dolorosa da raggiungere. Come, sempre dal Mare e dalle sue potenze, verrà – se verrà – la salvezza del resto d’Europa.
*Alessandro Mangia, professore ordinario di Diritto Costituzionale Università Cattolica, Milano