Sicurezza e Mediterraneo, una questione cruciale

Le conclusioni del Forum di Roma

L’intensa due giorni di lavori (Roma, 11- 13 ottobre) con la partecipazione di autorevoli studiosi e parlamentari d’oltre oceano, europei , medio-orientali e africani ha fornito ulteriore conferma della proficua collaborazione in atto ormai da quasi due anni tra la nostra Fondazione, l’“International Repubblican Institute “( prestigiosa “think -tank“ statunitense vicina ma non organica al Partito Repubblicano) e il Comitato Atlantico italiano.

Si è trattato infatti del sesto Forum congiuntamente organizzato dalle tre fondazioni a poco più di un anno dal primo, su Europa e relazioni transatlantiche dopo la pandemia e il ritiro americano dall’Afghanistan, svoltosi lo scorso anno in non casuale coincidenza col ventesimo anniversario dell’11 settembre. L’evento, iniziato con una sessione aperta al pubblico nella mattinata del 12 ottobre per poi proseguire a porte chiuse, ha preso avvio con interventi del responsabile del Dipartimento per le Relazioni Transatlantiche dell’IRI, Ian Surotchak giunto espressamente da Washington, dell’Incaricato d’affari americano presso il polo onusiano romano Rodney M. Hunter e del Presidente della nostra Fondazione,  Adolfo Urso.

Al centro delle discussioni le ricadute sull’area EMEA (Europa, Mediterraneo e Africa) dell’aggressione russa all’Ucraina analizzate nelle loro diverse dimensioni: da quella della sicurezza alimentare, a quella energetica, fino a quella migratoria. Il tutto nel segno di una ribadita comune fedeltà ai valori dell’atlantismo che ha costituito il filo conduttore di tutti i Forum sinora realizzati in partenariato dai tre organismi.

Il forte apprezzamento americano per la salda e inequivoca collocazione di Farefuturo è stato manifestato a chiare lettere dal direttore Surotchak nel suo saluto a nome dei vertici dell’IRI.

Il senatore Urso si è soffermato su tre aspetti qualificanti: 1) la sfida lanciata alle nostre democrazie nei più diversi scacchieri dalle potenze autocratiche, come la Repubblica Popolare cinese e la Russia di Putin; 2) la necessità di una risposta ferma e congiunta da parte dell’Occidente, in uno spirito di forte solidarietà e coordinamento euro-atlantico; 3) il rilievo crescente che la regione mediterranea, così come quella centro/nord africana, sta rivestendo ( e appare destinata ancora a lungo a rivestire) in tale confronto di civiltà e per il controllo delle fonti energetiche e delle materie prime, a cominciare dalle terre rare cruciali per la competitività dei nostri sistemi industriali.

Urso ha sottolineato anche come il ricatto energetico e quello alimentare esercitato dalla Russia ai danni dell’Occidente (e dell’Europa e Africa in particolare) non rappresentino che altrettanti tasselli della guerra ibrida portata avanti nei nostri confronti da Mosca ( e Pechino) anche attraverso articolate campagne di disinformazione, sia in Europa sia nel continente africano; campagne alle quali è doveroso rispondere avvalendosi di ogni appropriato strumento, anche sul terreno della contro-narrativa.

Dobbiamo pertanto investire, ha proseguito il Presidente Urso, sia in Africa sia nella sponda sud del Mediterraneo in uno spirito di “autentico partenariato” con i paesi dell’area anche sul fondamentale versante della sicurezza alimentare. Se investiremo in questo senso, ha proseguito, sconfiggeremo anche l’altra minaccia: quella delle migrazioni incontrollate. Migrazioni, ha rilevato, che creano un serio problema anche nei paesi africani, che perdono così le loro intelligenze migliori. Per tale motivo è indispensabile, ha voluto sottolineare, sviluppare d’ora in poi una “grande politica Italiana, europea e occidentale nel Mediterraneo allargato e nel continente africano”. Perché quella parte del mondo potrà raggiungere un vero benessere, fondamentale anche ai fini del contrasto al terrorismo di matrice islamista, solo in stretto raccordo con l’Occidente ciò di cui anche da parte americana, ha concluso, si è sempre più consapevoli.

Spunti di interesse sono emersi anche dalle successive sessioni a porte chiuse. Con riferimento ad esempio, nel caso della sicurezza alimentare, alla necessità per l’Occidente di adottare ai fini dell’assistenza ai paesi più fragili del continente africano un approccio multisettoriale. Essendo chiaro che la sicurezza alimentare, l’accesso a condizioni sostenibili alle fonti di energia, la salute e la governance sono dimensioni strettamente interconnesse, cosicché quando anche solo una delle stesse viene a essere fragilizzata ne derivano onde di shock su tutte le altre.

In sostanza, e per concludere, il Forum ha offerto eloquente riprova del ruolo di primo piano che la nostra Fondazione si è ritagliata, per molti versi un “unicum”, nel corso dei due ultimi anni, in Italia e non solo: quale prioritario punto di riferimento per tutti gli ambienti e organismi che abbiano a cuore, da un lato, le sorti dell’ Occidente nel confronto con gli stati autocratici; e, dall’altro , la volontà di fornire risposte concrete e credibili alle criticità che in tante aree del mondo portano acqua al mulino dell’estremismo e dell’instabilità.

*Gabriele Checchia, responsabile per le Relazioni internazionali della Fondazione Farefuturo

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The new frontline. Disegnare il futuro.

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Art. Graziosi

L’industria dei cavi sottomarini e gli interessi strategici del Paese

Intervento introduttivo del presidente Adolfo Urso al seminario  della Fondazione Astrid su “Industria dei cavi sottomarini: tendenze di mercato e geopolitica”

 

Colgo in apertura l’occasione per ringraziare Astrid e Franco Bassanini per la possibilità di continuare ad imparare in seminari come questo odierno, perché credo fortemente sia fondamentale per me, ed in generale per la classe dirigente di questo Paese, non smettere mai di apprendere su temi strategici e prioritari di cui è necessario avere approfondita conoscenza se si vuole agire, in tempi rapidi, in un mondo in cui assistiamo a continue accelerazioni nello sviluppo dei principali settori economici e tecnologici. Quindi, cercherò in particolare di ascoltare i vari interventi, che saranno molto utili, così come sono stati già molto utili incontri passati che ho avuto con alcuni di voi per continuare ad apprendere su questa materia.

Si tratta di questioni fondamentali nell’ambito del ruolo di Presidente che svolgo presso il “Comitato Parlamentare per la Sicurezza della Repubblica” (Copasir), soprattutto per allargare anche la prospettiva con cui in quella sede affrontiamo le tematiche della sicurezza nazionale. Il Copasir, infatti, non si occupa soltanto di intelligence, come accadeva in passato, e la stessa denominazione “Comitato Parlamentare per la Sicurezza della Repubblica” indica l’ampio perimetro della politica della sicurezza nazionale nei suoi vari aspetti, anche quelli riguardanti l’industria e la tecnologia del Paese.

Nell’ambito del mio lavoro di parlamentare, tra l’altro, ho presentato in Parlamento una mozione che riguarda proprio la politica italiana sui cavi sottomarini. Una mozione

parlamentare che non è stata né esaminata né discussa dal Parlamento, presentata oltre un anno fa, e che affrontava i temi complessi di cui discutiamo oggi.

È di assoluta importanza sottolineare che noi abbiamo un’industria ed una tecnologia da tutelare e da rafforzare nel campo dei cavi sottomarini. Non siamo infatti secondi a nessuna altra realtà internazionale, e possiamo svolgere un ruolo importante e significativo sotto i diversi aspetti che riguardano, ad esempio, le tendenze di mercato.

Ritengo su questo punto molto significativo il documento che avete presentato, in particolare per come riassume le modalità con cui si è sviluppato il mercato dei cavi sottomarini, come ha avuto un’accelerazione e quali sono i soggetti privati e pubblici, imprese e Stati, che intervengono e che comportano quindi considerazioni di natura geopolitica.

Per quanto riguarda il Copasir, la parte geopolitica di maggiore interesse è ovviamente la parte della sicurezza, tenendo però ben presente che le ricadute nel sistema industriale sono altrettanto significative: se infatti l’Italia perde eccessivo terreno nel campo della tecnologia e dello sviluppo industriale, utilizzare tecnologie altrui ci renderebbe sempre più dipendenti ed – in alcuni casi – soggetti a rischi che riguardano la nostra sicurezza nazionale. Questo vale nel settore di cui stiamo discutendo oggi, come sul terreno più ampio della transizione digitale e della transizione ecologica.

Se, lungo il percorso di queste due transizioni, l’Italia diventa Paese meramente utilizzatore di tecnologia altrui, aumenta in maniera esponenziale la dipendenza da altri paesi, con le conseguenze che tutti conosciamo. In particolare, si tratta della sicurezza nazionale, la quale ruota intorno all’informazione e ai dati che passano attraverso i cavi sottomarini, come è evidenziato sempre nella nota che avete condiviso in preparazione del seminario, ma anche della capacità di sviluppo dell’industria e dell’economia e quindi del lavoro italiano.

Il rischio che davvero corriamo, in riferimento anche all’attuazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), e di tutto quello che ne deve conseguire in termini di investimenti, è che l’industria ed i prodotti italiani – alla fine – non siano protagonisti

nei settori tecnologici di punta, non siano quindi attori protagonisti delle due transizioni – digitale ed ecologica – verso un’era moderna, verso un nuovo modello di sviluppo.

Parlando più specificatamente dei cavi sottomarini, è importante l’esempio degli hub del gas. L’Italia, infatti, è un hub europeo di gas coi suoi gasdotti, e questo è un elemento di forza del sistema, poiché ad esempio alla luce dei recenti rincari dei prezzi, consente all’Italia di essere abbastanza garantita, se non altro sotto l’aspetto dell’approvvigionamento. Non ovviamente dal lato dei prezzi, poiché su questo aspetto incidono altri fattori legati al settore energetico. L’Italia può però diventare un hub importante anche per quanto riguarda il sistema dei cavi sottomarini e dei cavi terrestri.

In una interrogazione che presentai in Parlamento, prima di divenire Vice Presidente e poi Presidente del Copasir, posi la questione della necessità di una strategia italiana in materia di industria dei cavi, contemplando l’utilizzo dello strumento del golden power nel caso dell’azienda Interoute, una multinazionale europea che possedeva il più esteso backbone in fibra ottica presente sul continente europeo, frutto del lavoro delle imprese italiane, che avrebbe potuto essere recuperato al sistema Italia se il governo avesse attuato la stessa strategia che aveva attuato in passato. Lo strumento della golden power sarebbe infatti determinante per recuperare a sistema anche un’importante dorsale di telecomunicazione, di trasmissione di informazione europea.

Reputo pertanto che manchi all’Italia un “progetto Paese”, in cui lo Stato sappia difendere i propri interessi in settori strategici, in particolare in quelli innovativi dal punto di vista tecnologico. Recentemente, il Presidente del Consiglio Mario Draghi ha affermato, molto correttamente, che lo Stato, nella frontiera tecnologica, deve essere presente. Le sue parole erano riferite alla frontiera tecnologica del digitale, nel campo della green economy e del settore energetico.

Nei settori di frontiera tecnologica, lo Stato deve svolgere un ruolo attivo, come viene svolto ad esempio dalla Repubblica Popolare Cinese o dagli Stati Uniti, secondo un modello di “capitalismo di Stato”. Un esempio è come gli Stati Uniti si stanno muovendo nel settore dello spazio, tema a cui ci stiamo interessando molto anche noi.

Sarebbe pertanto utile che il nostro Paese si dotasse finalmente di una strategia anche nella politica riguardante i cavi sottomarini. Una strategia necessaria perché, come è stato giustamente sottolineato nella nota introduttiva al seminario, ben il 99% delle informazioni e dei dati globali passano attraverso questa infrastruttura. Peraltro, diventa ancor più fondamentale svolgere un ruolo importante in questo settore, in un momento storico in cui connettere le varie aree geografiche è fattore determinante per il modello economico dominante.

In questo contesto, ci auguriamo inoltre che la strategia di cui si deve dotare l’Italia – ma anche l’Europa – consenta al Mediterraneo di svolgere un ruolo importante nel connettere l’area atlantica con l’area del Pacifico, il continente americano e quello europeo e, queste due ultime aree, con le zone in forte sviluppo dell’Africa e dell’Asia.

Il Mediterraneo rappresenta infatti il centro strategico che può connettere tutte queste realtà, uno snodo fondamentale che sarebbe auspicabile, tramite ad esempio gli hub di Palermo o Genova e non solo di Marsiglia, potesse svolgere un ruolo da protagonista nell’ambito dello scambio e della trasmissione di dati e informazioni a livello globale.

La competizione è molto forte anche sulla scelta delle aree dove i cavi sottomarini si ricollegano a quelli terrestri; per questo è importante avere una posizione dell’Italia decisa e in grado di favorire i propri hub e quindi di creare una dorsale italiana strategica a livello internazionale. È necessario quindi porre grande attenzione che le nuove infrastrutture di cavi sottomarini che stanno nascendo e nasceranno nel Mediterraneo non “saltino” i nostri hub, in favore di hub tedeschi (Francoforte) o francesi (Marsiglia), favorendo quindi le economie e gli interessi di altri paesi a discapito dei nostri.

In conclusione, l’Italia deve recuperare al più presto il terreno perso in questo settore strategico anche a causa, e lo dico senza intenti polemici, di alcune privatizzazioni di grandi imprese nazionali che hanno di fatto impedito all’Italia di avere un ruolo importante nella costruzione delle infrastrutture dei cavi sottomarini. Motivo per cui, ad esempio, per altre grandi imprese italiane come Enel ed Eni, fu scelto un modello

diverso, che ha oggettivamente funzionato, in cui il ruolo del pubblico rimaneva centrale. Per altre aziende, come ad esempio Telecom Italia, purtroppo furono fatte scelte diverse: meno di tre decenni fa Telecom Italia era una delle più grandi aziende di telecomunicazione globali ed oggi abbiamo quel che il mercato ci ha riservato.

Si tratta purtroppo di errori del passato che hanno conseguenze importanti sul presente. Nell’ambito del settore di cui discutiamo oggi, quello dell’informazione e dei dati, della loro trasmissione, circa trent’anni fa furono fatte scelte sbagliate, non considerandolo strategico al pari di quello dell’energia, del gas o del petrolio. Non si è avuta la capacità di comprendere che invece si trattava di settori probabilmente ancor più strategici di quelli citati, che – se affrontati con politiche economiche e industriali adeguate – oggi non ci avrebbero posto nella condizione di dover gestire e superare le enormi difficoltà con cui invece dobbiamo confrontarci.

È importante però recuperare il tempo perso e rimediare agli errori fatti in passato, poiché è ancora possibile ritagliarsi un ruolo importante a livello internazionale, applicando un’unica logica in quello che è lo sviluppo del sistema digitale in questo Paese. Lo Stato può avere una sua strategia che può poi declinarsi di volta in volta secondo strumenti diversi: ad esempio, tramite la golden power per difendere i propri interessi nazionali, o tramite la Cassa Depositi e Prestiti, per intervenire in maniera attiva in alcuni settori strategici, o infine attraverso la politica regolamentare.

A monte di tutto ciò, è però decisivo che lo Stato si doti di una strategia ben precisa ed organica, in grado di fare dell’Italia una piattaforma digitale e di connettività tra contenimenti nel Mediterraneo e in Europa. Per questo, è necessario che anche le aziende svolgano un ruolo attivo e centrale nel settore dei cavi sottomarini, ragionando e operando in una logica di sistema. Soltanto ragionando in questi termini, si può giungere ad accordi internazionali che tutelino gli interessi italiani ed europei. Il nostro Paese, ovviamente, non può aderire direttamente a consorzi internazionali, né è dotato di imprese in grado di fare da sole quello che sono in grado di fare le grandi Big Tech americane o cinesi, ma può mettere in campo una strategia di sistema Italia, in cui le

nostre imprese sono incentivate ad aderire a consorzi di imprese internazionali, delineando un piano nazionale che renda la nostra penisola una piattaforma strategica, interconnessa con cavi sottomarini al resto d’Europa e, attraverso l’Europa, all’Atlantico, interconnessa nel Mediterraneo con i paesi africani. In particolare, l’Italia deve mirare a rappresentare un hub centrale tra i paesi della sponda sud del Mediterraneo, che dovranno interconnettersi con la piattaforma europea, e quei paesi che vorranno connettersi con i paesi asiatici, dove nei prossimi anni, è prevista la maggiore produzione di informazione.

Non dobbiamo inoltre dimenticare che l’Europa resta il continente che produce la maggior quantità di dati ed informazioni, e di conseguenza non dobbiamo dimenticare quanto sia importante preservare questi dati e queste informazioni. Questi elementi, infatti, oggi rappresentano il campo da gioco dove si svolge la partita della geopolitica, ed è estremamente importante per l’Italia svolgere un ruolo centrale. Dotarsi di una gestione strategica dei dati oggi consente, da una parte, di garantirsi maggiore sicurezza nazionale, e, dall’altra parte, di sviluppare i settori dell’industria, della ricerca della tecnologia, incentivando e attraendo investimenti internazionali.

Credo quindi che il seminario che Astrid ha organizzato oggi sia molto importante anche per lanciare un messaggio alle istituzioni, che devono rendersi conto della grande velocità con cui certe dinamiche si stanno sviluppando, anche a seguito della recente pandemia e del lockdown a cui siamo stati costretti. Abbiamo infatti scoperto tutti quanto sia importante il lavoro a distanza, e quanto sia importante la rete Internet. L’uso della rete ha raggiunto livelli incredibili, rendendoci consapevoli sia degli aspetti positivi, sia di quelli negativi in termini di sicurezza e vulnerabilità (ad esempio in ambito sanitario).

Ci rendiamo quindi conto, e mi rivolgo in particolare all’amico Bassanini, quanto sia importante creare una rete in Italia che giunga all’ultimo miglio nel più breve tempo possibile. Se non abbiamo una rete italiana di banda ultra larga, se non abbiamo un Cloud nazionale della pubblica amministrazione che preservi i nostri dati, se non

abbiamo investimenti significativi, una connessione di cavi marittimi e cavi terrestri per farci diventare piattaforma digitale europea nel Mediterraneo e quindi nel mondo, anche le risorse, il PNRR, subiranno una dispersione e andranno a beneficio di altri, non certamente a noi.

*Adolfo Urso, presidente Fondazione Farefuturo

 

De Felice: rischiamo altra invasione dalla Libia

“L’arrivo della bella stagione incoraggia gli scafisti a riprendere il loro ignobile e lucroso traffico di esseri umani. Occorre attivare l’organizzazione nazionale per la crisi in Libia prima che si verifichi qualche altra tragedia in mare”.  Non è la dichiarazione da talk show di un esponente politico in cerca di  consenso, ma la tesi dell’ammiraglio di Divisione Nicola De Felice che fino a tre mesi, era,  dalla base di Augusta, il comandante di  Marisicilia.

L’alto ufficiale, romano di nascita,  vanta un curriculum di tutto rispetto. Studi approfonditi sul diritto marittimo e sulla strategia navale, ha partecipato a numerose missioni all’estero, dal Libano al Kossovo. E’ stato a Parigi, inviato come consulente operativo del programma missilistico Italo-Francese”Fsaf”. Già comandante di importanti unità della Marina Militare come le fregate “Orsa” e “Scirocco” e del cacciatorpediniere “Francesco Mimbelli”, De Felice conosce da vicino il problema dei flussi migratori che incalzano da Sud per essere stato addetto per la Difesa dell’ambasciata italiana a Tunisi e dal 2015 al 2018 il numero uno della Marina in Sicilia.

 

Ammiraglio, con la fine dell’inverno è prevedibile che riprenda con maggiore intensità il traffico  di migranti tra il Nordafrica e le coste siciliane?

“Certamente. E un dato che abbiamo sempre registrato. Il  verificarsi di un rinnovato flusso di migrazione illegale via mare dalla Libia e dalla Tunisia nei prossimi mesi è alquanto probabile. Il tempo buono ed il mare calmo – nonché la peggiorata instabilità della situazione in Libia – invoglieranno i trafficanti di esseri umani a rinnovare le loro intenzioni riavviando – di conseguenza – l’ignobile mercato degli schiavi, in versione XXI secolo”.

 

Con quali strumenti si può contrastare un fenomeno che sembra senza soluzione?

“Gli strumenti già ci sono, occorre la volontà politica di utilizzarli. L’Italia può organizzare una ‘strategia diretta’ di doppio blocco navale, responsabilizzando l’Onu  per una più efficace gestione della crisi umanitaria in Africa e gli Stati di bandiera delle navi che solcano il Mediterraneo per il rispetto di chi deve assicurare asilo politico secondo i dettami della Legge del Mare delle Nazioni Unite e del Trattato Ue di Dublino, art. 13. Questo consente di raggiungere l’obiettivo di stroncare sul nascere un fenomeno che tanti morti ha provocato in mare”.

E’ un problema politico e umanitario allo stesso tempo…

“Le condizioni politiche, sociali, economiche ed umanitarie in quell’area geografica risultano oramai inaccettabili. Non si può più fare finta di nulla.  Siamo di fronte ad una minaccia per gli interessi italiani ed anche internazionali. La Libia, in particolare, non è in grado di garantire in proprio le funzioni istituzionali di un’organizzazione statuale, prima fra tutte quella della sicurezza. Nel mese di maggio le condizioni politiche in Europa potrebbero essere più favorevoli e molti sono gli avvicendamenti che si attendono entro l’anno, a partire dall’Alto Rappresentante degli Affari Esteri e della Sicurezza dell’Ue, del Presidente della Commissione Europea, del semestre di Presidenza del Consiglio Europeo ed anche alla Bce. Inoltre, c’è un generale italiano chairman del Comitato Militare europeo”.

 

Finora l’Europa non sembra aver mostrato grande attenzione per un fenomeno che interessa, in particolare l’Italia e la Sicilia…

“E’ vero. Anche che la crisi in Libia non è avvertita in Europa nello stesso modo che in Italia, ma il protrarsi per un così lungo periodo potrebbe espandersi in altri domini. Non interpretata correttamente, la crisi libica  può causare delle prese di posizione imprevedibili  da parte dei numerosi attori coinvolti. Consideriamo il caos che caratterizza la Libia e i numerosi clan che si sono formati e si muovono dopo il vuoto di potere scaturito dall’intervento voluto dalla Francia nel 2011”.

 

Quali organismi dovrebbero attivarsi per affrontare in primavera l’emergenza immigrazione e gestire la crisi in Nord Africa?

“In ambito nazionale, la responsabilità della gestione della crisi risale all’Organizzazione nazionale per la gestione delle crisi, che definisce la composizione e le attribuzioni degli organi decisionali e del consesso interministeriale di supporto, per l’adozione delle misure di prevenzione, risposta e gestione delle situazione di crisi, ai sensi del DPCM del 5 maggio 2010. L’organizzazione posta in essere determina le misure necessarie da attuare, sia come Nazione che come Stato facente parte di organizzazioni quali l’Onu, la Nato, l’Ue, l’Osce o coalizioni che maturino analoga volontà di cooperare, da creare ad hoc ovvero permanenti. Il Comitato Politico Strategico (CoPS) di tale organizzazione valuta gli elementi di situazione e gli eventuali provvedimenti da sottoporre all’approvazione del Consiglio dei Ministri dando l’indirizzo strategico all’approccio della crisi. Il CoPS interagisce con gli attori esterni, in particolare con il Consiglio Europeo e con il Consiglio Atlantico, con le ambasciate dei Paesi dell’aerea. Se si fosse perseguita l’applicazione di tale organizzazione nel caso della nave “DICIOTTI”, non saremmo giunti al paradosso di vedere indagato un Ministro del governo”. Terenzio, nell’Adelphoe, diceva: “Saggezza non è vedere solo quello che ci sta tra i piedi, ma anche intuire le cose che ci stanno lontane nello spazio e nel tempo”.

*Intervista con Nicola De Felice, di Giampiero Cannella, giornalista

l’integrazione (im)possibile. Immigrazione africa – islam

Mentre in Italia sull’uso improprio della parola “razzista” si montano settimane di polemiche pochi sanno che in Sudafrica si è approvato un emendamento costituzionale per cui si potranno espropriare i terreni ai bianchi senza indennizzo, ma anche a vantaggio dei cinesi che in Sudafrica sono equiparati ai neri.

Un razzismo alla rovescia di cui non parla nessuno, un esempio di quante poche informazioni si hanno in questo campo.

Marco Zacchera (già deputato di Alleanza Nazionale, per cinque legislature in Commissione Esteri  e per molti anni missionario laico in Africa) cerca nel suo recente libro “L’INTEGRAZIONE (IM)POSSIBILE ? – QUELLO CHE NON CI DICONO SU ISLAM, AFRICA ED IMMIGRAZIONE” di documentare le ragioni profonde del fenomeno migratorio e le sue conseguenze sul futuro italiano ed europeo, soprattutto se si continuerà a non agire in termini continentali.

Un libro dove contano più i dati che le opinioni, con informazioni corrette, numeri certi, fatti documentati ed esperienze personali, tutto in presa diretta.

Davanti ad un’Europa distratta, Marco Zacchera si pone anche il problema dal punto di vista cristiano sottolineando come sia  un preciso dovere aiutare il prossimo per obbligo morale e sociale, ma sottolineando che bisogna farlo con intelligenza, organizzazione, capacità e programmazione altrimenti non solo si finisce in un disastro, ma attecchisce anche la mala pianta della corruzione e dello sfruttamento alimentando rinnovato odio e razzismo.

Nel suo libro si può scoprire cosa stia succedendo in Sudafrica o le divisioni che spaccano la Nigeria, viene denunciato – dati alla mano – il vorace neo-colonialismo cinese che in occidente ed in Europa viene tuttora sottovalutato.

Ampio spazio per  la schiavitù fisica ed economica praticata nei paesi arabi del Golfo e il rifiuto di molti musulmani ad accettare i principi costituzionali europei, così come si sottolinea il  vergognoso silenzio europeo sull’Eritrea e soprattutto sui disastri combinati da multinazionali senza scrupoli.

Desertificazione e incremento demografico alla radice dei mali africani, ma anche una documentata e forte richiesta di maggiore attenzione su chi emigra dall’Italia verso l’estero nell’ipocrisia di un paese che accoglie immigrati ma costringe ad emigrare ogni anno oltre 100.000 diplomati e laureati italiani perdendo risorse preziose.

Temi di fondo su cui si parla poco, ma che sono le cause documentate che portano poi i poveracci a sbarcare disperati sulle nostre coste o a morire in mezzo al mare.

Una informazione corretta – anche se magari scomoda, antipatica, anticonformista e poco “buonista” – è allora necessaria per portarci a riflettere, un po’ come il medico  che ha il dovere di dire la verità al proprio paziente.

Una realtà che potrà essere a volte impietosa e crudele, ma che va conosciuta da chi è malato (come lo è la nostra società europea) per almeno tentare le cure necessarie alla sua sopravvivenza con zacchera che in merito offre una serie di ricette da non sottovalutare.

*Marco Zacchera, già Deputato e Sindaco di Verbania

La solidarietà? Finanziare lo sviluppo in Africa, non dare false speranze

Parlando di immigrazione da anni molti giornalisti, politici ed intellettuali di sinistra sostengono il grande apporto culturale ed economico che tale fenomeno porta e porterà all’Italia, all’Europa e al mondo Occidentale in genere. Tale miope visione (di quei pochi che ci credono veramente) o ipocrita e falsamente buonista (per il resto della collettività asservita al “politically correct”), è stata da sempre serva di interessi particolari e mai coerente con la realtà (si ricordi ancora il caso Capalbio, roccaforte estiva dei radical chic del PD, ribellatisi all’idea di accogliere una ventina di immigrati), trasformandosi in un male decisamente più deplorevole rispetto al presunto razzismo di cui in questi giorni viene accusata la destra.
Il buonismo, sia italiano che europeo, nei confronti del fenomeno immigratorio, ha di fatto aperto le porte ad un’accoglienza senza alcun progetto che, proprio per tale mancanza di lucidità, uccide due volte. La sua prima vittima è il mondo Occidentale, la seconda tutti i paesi da cui i migranti provengono. Ma vediamo il perché, prendendo proprio questi due punti cardine della propaganda buonista: la cultura e l’economia. La prima tesi dei buonisti è che gli immigrati contribuiscono ad accrescere la multiculturalità dei paesi ospitanti il che è di per sè un bene. Ma un bene per chi?
È stato sicuramente un bene per l’immenso, selvaggio e praticamente privo di popolazione continente americano che grazie ai coloni europei che si insediarono più di 300 anni fa ha avuto il suo primo contributo in termini di civilizzazione, o per l’ancora più sperduto continente australiano dove con gli esuli è nata una nazione multiculturale ed oggi anche tra le più avanzate. Ma in un paese come l’Italia, che custodisce oltre l’80% del patrimonio artistico e culturale mondiale, che ha dato all’umanità alcuni tra i più celebri filosofi, scrittori, artisti, architetti ed ingegneri, la cui storia passa dagli Etruschi alla civiltà Romana, dal Rinascimento alle eccellenze odierne, quale ulteriore e così prezioso contributo si potrà avere dalla multiculturalità importata dal terzo mondo?
E anche se non parlassimo di arte, di letteratura o architettura o meccanica, ma di settori ben più “terreni”, le domande restano le stesse. Perché, chiederei ai buonisti, l’arte culinaria italiana che ha sorpassato quella francese diventando la n.1 del pianeta, avrebbe bisogno del kebab o del tajine? Perché la moda italiana, esempio di eccellenza e di estro creativo ammirata in tutto il mondo necessiterebbe di burka o chador? Quali sarebbero i contributi culturali degli immigrati odierni così straordinari da poter essere importati nel paese di Dante, Raffaello, Leonardo, Caravaggio ma anche di Umberto Eco, di Renzo Piano, di Ennio Morricone? Quali precise lacune o carenze nella cultura italiana colmerebbero gli immigrati del Mali o dalla Nigeria di oggi? Non ci dimentichiamo quanta contaminazione “araba” c’è nella nostra cultura, ma parliamo di quella di secoli fa, quando quei popoli avevano veramente qualcosa da insegnare e tramandare!
La multiculturalità è un concetto straordinario, visto nell’ottica del fenomeno più importante dei nostri tempi, la Globalizzazione. La multiculturalità sta nell’apertura mentale e sociale al diverso, e non alla fusione forzata dei vari – e spesso contrapposti – modi di vivere. La tanto decantata “integrazione” funziona laddove c’è la volontà di integrarsi, mentre nella maggior parte dei casi crea solo scontri, religiosi o etnici che siano. Ormai sono decenni che non ci sono più guerre tra Stati, mentre i conflitti sono diventati regionali, basati sulla volontà di avere una propria identità ed appartenenza in un mondo ormai aperto e senza confini.
Il secondo punto sbandierato dai buonisti è il tanto decantato contributo all’economia degli immigrati, che ha portato anche alla (tristemente) celebre definizione di “risorse”. Risorse che non vengono da un altro paese ma da un altro continente, risorse con usi, conoscenze, istruzione, ritmi e capacità lavorative totalmente differenti. E non è un offesa. Chi ha lavorato in una piantagione di banane conosce i cicli del raccolto, sa valutare il grado di maturazione e la qualità delle banane, ma non quelle dei pomodori pachino, prodotto tipico del sud Italia. È normale.
L’edilizia e l’architettura di una nazione equatoriale è talmente diversa da quella della pianura padana da rendere totalmente inutile la necessità di importare manodopera proveniente da tali paesi. E se si dicesse che bisogna istruire, formare e specializzare gli immigrati per poterli inserire nel tessuto produttivo nazionale, ciò rappresenterebbe un altro immenso errore nonché spreco di risorse pubbliche, in un paese come il nostro dove il tasso di disoccupazione è tra i più altri in Europa e dove il lavoro nero – proprio quello alimentato dagli immigrati – esercita una spinta a ribasso dei salari ben sotto i minimi di legge.
La vera solidarietà, l’unica sana, nobile e non ipocrita, di cui prima o poi i buonisti dovranno prendere atto, è quella di aiutare a casa loro quei popoli che, per un’infinità di motivi storici o sociali, si trovano oggi in difficoltà. Finanziare delle opportunità sul posto, creare impresa, formare le future generazioni, importare know-how e cultura, anziché sradicare i giovani, per lo più uomini, dalla loro terra attraverso il perverso meccanismo dell’accoglienza. Perché il passaparola dei governi buonisti, che raccolgono gli immigrati a poche miglia dalle loro coste per portarli nell’agognato Occidente, non fa altro che desertificare i paesi africani privandoli dalla loro forza lavoro più giovane e riempire le città europee di persone che non conoscono la lingua, non hanno una professionalità da vendere, non appartengono alla cultura locale e a cui non resta che delinquere, spesso non per scelta ma per mera necessità.

*Kiril Maritchkov, avvocato internazionalista

 

L’Italia nel vuoto, il vuoto d’Italia. L’azione internazionale nella stagione del ritorno degli interessi nazionali: geopolitica, economia, sicurezza

L’evento è stato organizzato in collaborazione con il Center for Near Abroad Strategic Studies

Sono intervenuti: Paolo Quercia (direttore del Center for Near Abroad Strategic Studies), Adolfo Urso (presidente della Fondazione Farefuturo), Alberto Negri (giornalista de Il Sole 24 Ore), Giulio Maria Terzi di Sant’Agata (presidente del Comitato Mondiale per lo Stato di Diritto – Marco Pannella), Guido Crosetto (presidente dell’AIAD), Carlo Jean (professore), Gabriele Checchia (ambasciatore), Raffaele De Lutio (ministro plenipotenziario).