Il dragone in Europa attraverso l’Italia

Finalmente l’Europa si è svegliata e si tutela dagli investimenti cinesi e persino la Germania denuncia che la via della Seta è lo strumento del dominio globale di Pechino. Quando lo denunciano noi, nel meeting internazionale della Fondazione Farefuturo, organizzato alla Camera proprio il giorno dell’arrivo trionfale a Roma del Presidente cinese, gli altri plaudivano agli accordi Italia-Cina sottoscritti dal governo Conte Lega-Cinque Stelle. Ecco il testo dell’intervento che in quella occasione fu svolto da Adolfo Urso

 

Questo meeting è organizzato da Farefuturo insieme alla Fondazione New Direction, la fondazione che fa riferimento in Europa al gruppo dei conservatori e riformisti e quindi alla famiglia dei conservatori europeo-occidentale, su un tema centrale per l’interesse nazionale in una giornata particolarmente significativa a poche ore dalla visita del Presidente della Repubblica Popolare di Cina in Italia, evento a cui viene dato un alto valore politico. In tale contesto, abbiamo voluto proporre un seminario di studi dal titolo emblematico “Il Dragone in Europa. Opportunità e rischi per l’Italia” per analizzare il valore politico ed economico di alcuni accordi che verranno firmati in quella occasione dal Presidente Xi Jinping, che rappresenta tutte le cariche della Cina a cominciare da quella più prestigiosa di Segretario del Partito Comunista Cinese, e come tutti sanno, in Cina la carica del partito viene prima di quella dello Stato. Lui stesso nel presentare la sua visita ad un quotidiano italiano ne parla all’interno di un contesto storico, culturale e politico di straordinaria importanza a suggello del quale sarà apposta la firma di un MoU che riguarda la cosiddetta Via della seta, il primo realizzato da un Paese importante della NATO e da un Paese del G7.

Oggi la “Via della seta” è la più importante infrastruttura navale, ferroviaria, logistica del mondo, quindi è acciaio più che seta. Altrettanto significativi i circa cinquanta accordi collegati, alcuni tra aziende pubbliche, quindi su indirizzo specifico dello Stato, altre di aziende private di varia natura. Nel MoU non si affronta la tematica commerciale ma si parla di infrastrutture, trasporti, logistica, spazio, telecomunicazioni quindi di assetti strategici. Ovviamente non si parla di commercio strettamente inteso perché come tutti sanno la politica commerciale è esclusiva competenza dell’Unione Europea. Si parla invece di economia, di finanza e anche di quei settori strategici che vi ho citato prima ma non certamente di commercio in quanto tale, come si è voluto far credere. Il nostro export non ne trarrà alcun beneficio diretto. Ieri nel due rami del Parlamento, sia alla Camera che al Senato, c’è stato un dibattito su questo evento, certamente estremamente significativo per le conseguenze che ha sulla nostra collocazione internazionale, prima ancora per le sue ricadute sulla nostra economia.

Il Parlamento ha approvato una davvero strana mozione di maggioranza in cui si impegna il Governo a fare i dovuti accertamenti sulle ricadute del Memorandum: se il nostro interesse nazionale è garantito, se la nostra sicurezza nazionale è garantita se le relazioni e gli accordi internazionali sottoscritti dall’Italia a cominciare da quelli dell’Alleanza Atlantica e della UE sono garantiti; in sostanza, la stessa maggioranza chiede al governo di accertare e verificare ora a poche ore dalla sottoscrizione degli accordi se tutto ciò è garantito, dopo che per sette mesi i ministeri interessati hanno lavorato alla preparazione del MoU e degli accordi collegati avendo si presume fatto già tutti gli accertamenti necessari, in caso contrario sarebbe di fatto gravissimo. Il fatto che la stessa maggioranza impegni il suo governo a fare ora tutti i necessari accertamenti è di per se significativo e nel contempo inquietante per la leggerezza con cui si è affrontata la questione. Risalgono ai giorni immediatamente successivi alla formazione del governo le prime missioni in Cina del vice Primo ministro Di Maio e del ministro dell’economia Tria e poi un via vai di missione di esponenti di Cinque Stelle e del Sottosegretario al Commercio che di fatto in questi mesi ha vissuto più in Cina che in Italia. Quindi sette mesi di analisi, documentazione, contrattazioni avrebbero dovuto portare evidentemente a una verifica sotto gli aspetti che riguardano la sicurezza nazionale, quanto il rispetto dei nostri accordi internazionali e delle nostre alleanze storiche.

È anomalo, ripeto, che la maggioranza impegni il governo a fare tutto ciò a poche ore prima della firma degli accordi quando ormai tutto è già deciso. Questa missione e queste firme giungono proprio mentre l’Unione Europea, dopo un lunghissimo letargo politico e strategico in cui le singole Nazioni si sono mosse autonomamente e in cui tutti hanno affrontato la Cina come una grande opportunità, improvvisamente l’UE da una parte e gli Stati Uniti dall’altra stanno valutando con grande apprensione i rischi di quella che appariva una grande opportunità con dei provvedimenti alcuni già deliberati altri in via di deliberazione di straordinaria efficacia nella modifica di questa postura.  Tra quelli approvati io evidenzio il Regolamento sullo screening degli investimenti esteri in Europa che stranamente ha avuto come opposizione solo l’Italia (insieme alla Gran Bretagna che però non fa più parte di fatto dell’Unione Europea). Fatto perlomeno strano se lo compariamo al documento ufficiale presentato dall’attuale Governo poche settimane fa in Parlamento nel rapporto annuale dei servizi di sicurezza in cui vengono individuati alcuni rischi per la sopravvivenza del Paese. E tra i rischi per la sopravvivenza del Paese individuati nei rapporti ufficiali vi sono: – la sicurezza cibernetica come nuova frontiera per la sicurezza nazionale  su cui prestare la massima attenzione perché la sicurezza cibernetica significa la sicurezza sui nostri dati; – l’attività predatoria economica e finanziaria fatta da Paesi stranieri che utilizzano anche entità statuali per individuare per esempio le migliori start-up che hanno depositato i migliori brevetti per acquisirle prima che li sviluppino o per favorire la nomina di management nelle aziende che si intendono acquisire affinché preparino il terreno alla azione predatoria che ne seguirà.

Quindi le nuove frontiere della sicurezza nazionale e della sovranità economica – a cui io aggiungo la sovranità sulla conoscenza, sui dati, sull’intelligenza quindi sul nostro futuro – sono quelle economico-finanziarie e quelle della cyber security. Ho fatto notare recentemente al Primo Ministro in una riunione del nostro Comitato per la Sicurezza della Repubblica che l’Italia si è opposta in sede europea proprio al Regolamento sullo screening che invece il rapporto presentato in Parlamento e da Lui sottoscritto definiva come atto fondamentale per garantire la nostra sicurezza e sovranità economica e tecnologica. Com’è possibile? Se noi individuiamo in quel Regolamento il passo decisivo per tutelarci meglio, poi perché ci opponiamo in Europa a quel Regolamento? Altri episodi di questo tipo, dalla anomala posizione sul Venezuela all’annuncio del ritiro dei nostri militari dall’Afghanistan, alla lettera che quindici ambasciatori della UE hanno scritto con l’assenza della firma italiana, al governo cinese per la tutela delle minoranze in quel Paese, ci fanno capire come la postura del governo italiano nei confronti della Cina sia profondamente mutata ed appare clamorosamente diversa di quella dei nostri partner europei.

La nostra postura assomiglia sempre più alla postura (di sudditanza) che per esempio la Grecia ha assunto spesso dopo che la Cina gli ha acquistato i porti del Pireo. Tanto più grave perché l’Italia non è la Grecia e non è certo considerata come tale dai nostri alleati tradizionali e neppure dai nostri avversari tradizionali. Perché l’Italia dovrebbe guardare con attenzione non soltanto alle opportunità ma anche e forse soprattutto ai rischi? Lo dico sulla base della mia esperienza personale di Ministro delegato al commercio con l’estero: nel novembre del 2001 rappresentavo l’Italia al meeting del WTO a Doha dove la Cina realizzò ufficialmente l’obiettivo dell’adesione alla Organizzazione del commercio mondiale, che una volta era il simbolo del capitalismo mercantile. Ero fisicamente presente come capo delegazione italiana quando fu sottoscritto l’ingresso della Cina, allora qualificato come Paese in via di sviluppo a cui erano concesse, proprio per questo, anche dei vantaggi importanti. Allora essa era considerata anche una “economia non di mercato” che avrebbe dovuto nel frattempo nell’arco di quindici anni diventare un’economia di mercato. Cosa che allo stato non è ancora avvenuta. Tutt’altro: la sua economia resta dirigista e le sue aziende sono di fatto ancora in gran parte in mani allo Stato e comunque sussidiate dallo Stato. Le condizioni di allora sono ovviamente profondamente cambiate.

La Cina non è più un Paese in via di sviluppo; è la seconda economia del mondo e presto diventerà la prima economia del mondo, molto competitiva proprio sugli assetti tecnologici e industriali. Ma nel contempo è rimasta un’economia non di mercato anzi è sempre più un’economia non di mercato per la presenza importante e significativa dello Stato soprattutto nei settori strategici dell’economia cinese, come dimostra proprio il caso delle telecomunicazioni.  La situazione è molto cambiata in questi anni. Siamo in un’altra epoca. In quel periodo io stesso mi sono recato in Cina decine di volte con delegazioni di imprese italiane per tentare di cogliere le migliori opportunità di un Paese che si apriva al mondo. Mi recai in Cina anche nella primavera del 2003, durante la SARS, nel massimo momento di crisi del Paese, credo fui l’unico ministro del mondo a farlo per dare un sostegno politico ovviamente allora ritenuto significativo. L’anno successivo nel 2004, fui anche il propugnatore in Europa della misura anti dumping più importante della storia del WTO per vastità di settore, quella nei confronti delle calzature cinesi e vietnamite riproposta poi nel 2008. Non ho quindi mai avuto una visione ideologica o comunque pregiudiziale nei confronti della Cina. Ho guardato sempre e solo e comunque innanzi tutto all’interesse del mio Paese.

In questi anni, la Cina è profondamente cambiata, e da Grande Opportunità è diventata prevalentemente un Grande Rischio perché è molto accresciuta la sua forza competitiva e perché la nuova presidenza di Xi Jinping ne ha cambiato la postura.  Xi Jinping che sarà tra poche ore in Italia è l’unico presidente che ha assunto nelle sue mani, dopo Deng Xiaoping, tutti i poteri della struttura cinese: Segretario generale del Partito Comunista, presidente dallo Stato, coordinatore delle forze armate e altri dieci diversi incarichi di coordinamento. Ha inserito il suo Pensiero nella Costituzione cinese. Ha rimosso il vincolo dei due mandati si pone come un nuovo imperatore della Cina e nel contempo ha modificato profondamente nelle radici la stessa legislazione cinese.  Nel 2017 la “via della seta” è stata inserita nello statuto del partito comunista cinese, come obiettivo strategico per cambiare il mondo. Nel 2018 lo stesso concetto è stato ribadito nel preambolo della Costituzione cinese come nuova alleanza globale, alternativa capace di soppiantare quella del blocco occidentale. Quindi, la via della seta è tutt’altro che uno spot commerciale e nemmeno meramente economico se è inserito nello statuto del partito e nella costituzione della Cina. Inoltre dal  2015 con quattro differenti provvedimenti legislativi che riguardano la sicurezza si fanno una serie di obblighi legislativi tra i quali quello secondo cui e non solo i cittadini e le aziende cinesi operanti nel mondo hanno l’obbligo di fornire informazioni e assistenza al proprio Stato, ai propri servizi di sicurezza e alle proprie forze armate per motivi di sicurezza largamente intesi. Perché per sicurezza non intendono soltanto la sicurezza ovviamente nei confronti della lotta al terrorismo, sarebbe forse comprensibile, ma intendono la sicurezza, la sovranità economica, l’interesse sociale in sostanza ogni aspetto della vita nazionale.

Tra gli accordi sulla economia digitale, particolarmente sensibile, ve ne è persino uno che sarà sottoscritto per favorire la costituzione di una piattaforma commerciale europea di Alibaba in Europa.  Cosa significa? Significa che la piattaforma commerciale Alibaba in Europa, così come ha fatto la grande distribuzione globale per esempio francese, favorirà la vendita dei prodotti cinesi in Europa saltando ogni tipo di controllo anche sanitario. E questo mentre proprio in questo campo, sull’economia digitale, sull’intelligenza artificiale l’Europa vuole recuperare i suoi macroscopici ritardi proponendo di realizzare un piano straordinario europeo per fare dell’Europa la prima economia sull’intelligenza artificiale. Questa è  la frontiera della quinta rivoluzione industriale! Noi oggi parliamo dalla quarta rivoluzione industriale, quella della economia digitale, ma già si prepara la quinta rivoluzione industriale in cui la Cina è cinque anni avanti rispetto all’Occidente, la rivoluzione della intelligenza artificiale. Quindi l’Europa cerca di recuperare un ritardo nella frontiera più importante per il nostro futuro. Nella nuova postura dell’Unione ci sono nuove proposte di direttive o nuovi regolamenti che riguardano la cyber security, la tassazione della economia digitale, ma anche in maniera specifica le relazioni transatlantiche, le tariffe industriali. L’altro giorno nel mio intervento in Parlamento ho elencato almeno dieci argomenti che l’Europa in un senso o nell’altro sta inserendo o vorrebbe inserire nelle proprie normative comunitarie per tutelare il continente rispetto a questa competizione globale.

Nel meeting di oggi vogliamo porre a conoscenza degli addetti ai lavori e in particolare dei decisori ma anche di chi desidera meglio capire e conoscere, persino seguendoci nella diretta su Facebook di cosa si tratta, quale sia la vera posta in palio, cosa si sta per sottoscrivere, perché il Paese deve sapere.  Deve sapere che queste scelte cambiano la postura del rapporto dell’Italia rispetto alla Cina e quindi nei confronti del mondo. Il fatto stesso che in queste ore sia stata rivista la normativa contenuta nel MOU sui porti e gli investimenti in logistica ci deve far riflettere. Perché qual era quella precedente contrattata per mesi all’insaputa del Paese e degli stessi ministeri competenti?  Cosa prevedeva dato che è stata rimossa? Dato che i porti sono la chiave del Paese che non si può mai consegnare a chi ha l’infrastruttura che legherà il mondo. Una chiave che può essere aperta o può essere chiusa da chi la dispone. La conoscenza e la competizione globale si basa su tre-quattro livelli; certamente il primo è il controllo dell’infrastruttura cioè del trasporto di merci e noi stiamo consegnando le chiavi di casa dell’Europa, dell’Occidente ad un soggetto che mette nello Statuto del Partito Comunista che quella via è lo strumento per cambiare gli assetti globali del mondo. Secondo. Le altre “chiavi di casa” è la rete internet. La comunicazione è fondamentale perché riguarda la sicurezza del Paese, la conoscenza dei dati è oggi il centro di tutto e mi riferisco al 5G. Chi controlla, chi ha le chiavi delle infrastrutture digitali ha le chiavi del nostro cervello.  Terzo: chi controlla la vendita on-line ha le chiavi dei nostri mercati. Alibaba è l’esercito che controlla i mercati. Infine e su tutto, il problema dell’intelligenza artificiale, dello spazio e del suo sviluppo tecnologico ed economico, ma questo è un cuore della quarta anzi della quinta rivoluzione industriale che verrà ma i cui assetti si determinano oggi. Spero che questo meeting possa servire a capire e quindi a decidere meglio.

*Adolfo Urso, presidente Fondazione Farefuturo, al meeting “Il dragone in Europa. Opportunità e rischi per l’Italia” Roma, 20 marzo 2019

Investimenti esteri, rischi e opportunità

La tutela dell’interesse nazionale, attraverso l’attivazione del “golden power” come scudo protettivo da incursioni estere lesive degli asset strategici italiani, è di fondamentale importanza soprattutto in un momento difficile e delicato come quello che stiamo attraversando.

L’Italia è infatti ancora oggi un Paese strategico nello scacchiere internazionale per rilevanti motivi geopolitici ed economici. Catalizza interesse e attrae investimenti esteri, i cosiddetti IDE (Investimenti Diretti Esteri, appunto), seppure ben al di sotto del proprio potenziale sia quantitativamente che qualitativamente. Gli IDE in entrata sono infatti rappresentati da poco più di 14.000 imprese a partecipazione o controllo estero, le quali però generano 1.300.000 posti di lavoro, un fatturato che supera i 500 miliardi di euro ed un valore aggiunto di oltre 100 miliardi di euro. Pur rappresentando solo lo 0,3% circa delle imprese attive in Italia, il loro peso sale a quasi l’8% degli addetti, a oltre il 15% del valore aggiunto prodotto e a poco più del 18% del fatturato complessivo.

Questo dice diverse cose: anzitutto che, rispetto alle altre potenze economiche mondiali, l’Italia ha una quota decisamente bassa di investimenti esteri; Gran Bretagna, Francia, Spagna e anche Germania, solo per rimanere in Europa, ne hanno molti di più pur avendo un appeal internazionale in diversi casi decisamente più basso del Belpaese. In secondo luogo che gli investimenti diretti esteri buoni generano posti di lavoro, ricchezza, quote ingenti di R&S oltre che di export e hanno un effetto benefico anche sulle filiere produttive. Basti pensare che, in media, le imprese a capitale estero presentano delle performance di gran lunga migliori in termini di valore aggiunto per addetto (86 mila contro 38 mila euro), grazie alle maggiori dimensioni medie di impresa (90 addetti per impresa, contro i 4 delle imprese domestiche). In generale, poi, gli IDE portano anche maggiori e diverse competenze, tecnologie, capacità manageriali, vantaggi di scala e di network. Non tutte le azioni in questo campo, quindi, sono di natura predatoria e potenzialmente pericolosa per l’interesse nazionale, anzi tutt’altro.

Da dove nascono quindi i timori che oggi bloccano da un lato i decisori politici e dall’altro gli investitori internazionali? Sicuramente da situazioni reali, come i recenti casi soprattutto di matrice cinese insegnano; ma anche dalla mancanza di una organizzazione efficace e ottimale degli organismi e degli strumenti preposti all’attrazione degli investimenti. Su questo dovremmo prendere esempio dalla Francia che da diversi anni lavora a difesa dell’interesse nazionale, eppure riesce ad attrarre più investimenti di quanto non faccia l’Italia. Per giocare bene la partita non basta quindi chiudersi in difesa ma bisogna anche sapersi proiettare in avanti, senza lasciare i fianchi scoperti.

Un assetto ottimale dovrebbe da un lato potenziare il CAIE, Comitato Attrazione Investimenti Esteri e, se già così non fosse, rafforzare il rapporto tra questo organismo interministeriale e l’organismo parlamentare preposto alla sicurezza nazionale, il COPASIR, in un’ottica di tutela dell’interesse nazionale ex ante. Dall’altro coinvolgere attivamente non solo, come in parte già accade, ICE Agenzia e Invitalia (chiarendone bene i ruoli) sul fronte della lead generation  e gestione dei dossier di candidatura dei potenziali investitori ma anche il Sistema Camerale italiano perché, tra l’altro, esso detiene l’unico database completamente informatizzato delle imprese (Registro Imprese, deposito bilanci, etc.), decisamente utile sia nel processo di big data analytics, sia nella fase ex post di “messa a terra” dei progetti di investimento buoni in ambito territoriale, passaggio questo ancora troppo debole e non adeguatamente ingegnerizzato nel flowchart dell’attrazione degli IDE.

Un miglior assetto in questo campo potrebbe da un lato porre un argine all’aumento oggettivo delle insidie nei settori strategici delle infrastrutture, dai porti al 5G ma non solo; dall’altro invertire la tendenza alla contrazione in atto, iniziata prima della pandemia e con essa ulteriormente aggravatasi, degli IDE buoni quelli cioè che creano valore per il Paese: nel 2019 l’Italia è scesa dal 15esimo al 16esimo posto a livello mondiale, che in soldoni vuol dire da 33 a 27 miliardi di dollari (fonte Unctad) con una perdita secca di 6 miliardi di investimenti rispetto all’anno precedente. L’Italia può e deve recuperare il terreno perso su questo tema, in sicurezza e con un unico driver: l’interesse nazionale.

*Enrico Argentiero, esperto mercati internazionali

Prove tecniche di dominio

Questo martellamento mediatico sulla pandemia sta distogliendo l’attenzione di gran parte di noi da problemi seri e da decisioni che i grandi del mondo stanno prendendo a nostra insaputa o magistralmente nascoste da una comunicazione ossessiva sul COVID-19. Il virus indubbiamente c’è, è un problema, ma ciò non toglie che siamo sotto l’effetto soporifero di una “comunicazione di distrazione di massa.”

Se andiamo a vedere cosa sta succedendo nel campo della Borsa, nel campo dell’automobile, nel campo dell’intelligenza artificiale, nella geopolitica mondiale e nei circuiti finanziari c’è da far venire la pelle d’oca e comprendere che effettivamente qualcosa di sconvolgente sta succedendo, in particolare se tutte queste attività daranno i loro effetti contestualmente. In questo periodo, nessuno o quasi nessuno ne parla, ma i grandi del mondo stanno preparando il terreno per l’avvio delle valute digitali e dei circuiti della transazione digitale. In pieno lockdown la Cina ha testato, come se fosse un nuovo armamento, la versione digitale dello yuan, la moneta cinese, su quattro città prese a campione.

Il test a detta cinese è perfettamente riuscito. Il test durato circa sei mesi ha visto la PBOC cioè la Banca Centrale Cinese effettuare oltre 4 milioni di transazioni. Fin qui nulla di strano se non si scorgono alcune particolarità tra cui l’obiettivo della completa tracciabilità dei flussi di denaro. Il sistema della lotteria e quella degli “scontrini” che sembra aver mutuato dal Governo italiano, (o forse è vero il contrario), ha permesso ai presunti “fortunati” di acquistare online con la valuta digitale. Ancora più strano è il coinvolgimento che a fine 2019, proprio agli albori del COVID-19 in Cina, la stessa Cina effettuava un test con la valuta digitale coinvolgendo diverse aziende tra cui le americane Mc Donald’s con sede in California, Starbucks con sede a Seattle e Subway con sede nel Connecticut. Partner strategico di tutto ciò è la Huaway che a breve lancerà il nuovo smartphone di ultima generazione con un “wallet” (portafoglio) per le transazioni in valuta digitale (primo al mondo per la conservazione dei dati in cripto valuta) e non dobbiamo dimenticare che la Huaway è il maggiore sponsor del 5G, l’unica rete che garantirà volumi impressionanti di transazioni.

Tutto strano o magistralmente architettato e programmato?  Qui il business è di levatura planetaria e di improvvisato non c’è nulla, è tutto ben pianificato. Sono queste delle prove tecniche di dominio? Credo di sì, se pensiamo che tra un anno (febbraio 2022) ci saranno le olimpiadi invernali in Cina, (programmate nella riunione del CIO nel 2015 a Kuala Lumpur), guarda caso dopo l’esaurimento della pandemia, sarà l’ideale occasione per il lancio ufficiale della valuta digitale. Il disegno strategico finanziario di Pechino è quasi giunto al traguardo e le olimpiadi sanciranno lo yuan come moneta leader nelle transazioni in cripto valuta. Quale occasione mediatica più ghiotta? Il diabolico ritmo di crescita della Cina sta mettendo a dura prova l’intero sistema economico e finanziario di tutto il mondo, acquisizioni di asset strategici, annientamento dei possibili competitors, (non escluderei il prossimo declino della Samsung che recentemente è andata in rotta di collisione con Android a favore di Huaway). Tutto ciò sta avvenendo nel completo sviamento dell’attenzione. Il COVID-19 sta catalizzando totalmente l’attenzione, grazie ai media, al mainstream, ai social e le grandi manovre sono ignorate. E’ vero che la Federal Reserve Bank sta pensando di dotarsi di una cripto valuta, altrettanto la BCE sta avviando le consultazioni, ma mentre negli USA si pensa e in Europa si consulta, la Cina ha già i risultati dei test. Nel momento in cui la Cina è davanti a tutti seguita dagli Stati Uniti che avanzano rapidamente nel mondo digitale, l’Europa è ancora ai nastri di partenza e con lei l’Italia che risulta al 25° posto su 28 nazioni per capitalizzazione delle aziende del settore internet.

Purtroppo la velocità di raccolta dati e l’accelerazione digitale prenderanno per mano l’economia mondiale alimentando la rivoluzione virtuale e ai big data per essere completamente efficaci nel progetto di dominio assoluto manca solo l’informazione legata alla disponibilità finanziaria dei singoli, vale a dire che nel momento in cui chi detiene i dati sensibili e demografici riesce ad incrociare i dati finanziari delle stesse persone, il gioco è fatto: col controllo totale il dominio è assoluto. All’appello stanno arrivando anche i colossi di Mastercard, Visa, Maestro e American Express, i veri dominatori degli ultimi anni (nel silenzio di tutti) a discapito delle banche dell’intero pianeta, dei quali già Mastercard (recente joint venture con la PBOC) e VISA si sono già aggiornate per i circuiti in cripto valuta. Il mondo del digitale è in forte fermento e anche Facebook (che ambisce ad entrare in Cina, ma ancora bloccato) si adeguerà al punto che tutte le dinamiche in atto sembrano portare quindi inesorabilmente verso oriente, senza nessun contrasto, a sostegno del progetto imperialista cinese, ed è oramai evidente che passerà attraverso il controllo di tutte quelle realtà sovranazionali in chiave digitale (informazione, circuiti finanziari, organizzazione sanitaria, ecc.. ) per arrivare al controllo geopolitico e geodemografico mondiale. L’imperialismo digitale.

*Stefano Lecca, consulente in comunicazione social e web marketing

La ripresa sarà trainata dal digitale

Nei prossimi 12/24 mesi si deciderà il futuro delle aziende, delle imprese pubbliche, delle organizzazioni e degli stati e tutto passerà attraverso la comunicazione digitale e l’utilizzo dei nuovi strumenti sempre più tecnologici e alla avanguardia. Oggi al solo pensiero del telefono a rotella, al telex, al telefax, al megafono, alla filodiffusione, alla tv analogica, alla tv in bianco e nero, ci viene da sorridere. Per molti, ancora oggi, il computer, il drone, lo smartphone, la tv satellitare in 3d, le App, i social, sono strumenti di non facile approccio e talvolta di difficile accettazione se non addirittura di rifiuto.

Ma se vogliamo rimanere al passo col mondo che ci circonda e dire la nostra, l’immediato futuro ci chiede uno sforzo senza precedenti. Il 5G, l’intelligenza artificiale, i bot, i big data e i social stessi prenderanno il sopravvento e ci guideranno verso una società automatizzata e digitalizzata sulla quale fonderà le basi la nuova economia mondiale. Aziende private, imprese pubbliche, organizzazioni e gli stati stessi non potranno farne a meno, pena il loro inesorabile declino. Il domani è già “oggi”, l’intelligenza artificiale non è altro che un algoritmo che assume comportamenti “razionali” pronto a compiere azioni e dare risposte che si basano sull’interazione con gli esseri umani, sull’interpretazione del contesto, sia culturale che ambientale o sul riconoscimento di elementi fisici.

Sono molte le aspettative che riguardano l’evoluzione cognitiva della tecnologia, mentre gli esperti già sviluppano applicazioni intelligenti in campo medico o capaci di rendere elettrodomestici ed automobili veri e propri smart sistems, gestibili attraverso l’utilizzo delle applicazioni da mobile. Proviamo ad entrare nel vivo dell’argomento e pensiamo ai bot di Apple, in particolare all’assistente “SIRI” degli IPhone. Basta pronunciare un semplice “hey Siri” e subito dal cellulare una voce risponde facendoti capire che attende la formulazione di una domanda. Si può chiedere quasi tutto, quale sia il clima meteorologico in quel momento in un determinato luogo, qual è stato l’ultimo risultato dell’Atalanta nel campionato di calcio in serie A, o addirittura quando è stato firmato l’ultimo DPCM dal Premier Conte. Il Bot di Apple “Siri” risponde in pochi secondi ed il gioco è fatto.

Alexa è il software dell’intelligenza artificiale di Amazon che oggi risponde alle domande dell’utente ma a breve governerà il business della piattaforma. Fin qui nulla di nuovo o di trascendentale, anche perché si può pacificamente dire che l’intelligenza artificiale è nata nel 1956 con l’avvento dei primi computer. Oggi l’intelligenza artificiale è il settore dell’informatica che studia la programmazione e progetta sistemi hardware e software che interagiscono con l’uomo utilizzando caratteristiche tipiche del genere umano. L’intelligenza sociale è invece quella che percepisce il tono di voce, il contesto, le abitudini, gli spostamenti, i contatti, il tipo di relazione, i gusti e i sentimenti. Con questi presupposti giocheranno un ruolo importante i social media, i big data e il famigerato 5G. Si giocherà tutto il nostro imminente futuro nei prossimi 12/24 mesi sia sotto il profilo dell’intelligenza sociale, sia sotto il profilo dell’intelligenza corporeo – cinestesica, (interpretazione del linguaggio del corpo), ma ancor più importante è che questi strumenti accompagneranno inevitabilmente il nostro sviluppo economico.

La comunicazione fonda la sue basi sulla semiotica, sulla psicologia, sul bisogno, sul valore, elementi che fino ad oggi sono stati letti ed interpretati dall’uomo, da professionisti, ma da qualche anno questi elementi hanno iniziato ad essere letti ed interpretati anche dai software e dai loro algoritmi creati ad hoc da ingegneri informatici sulla base dei comportamenti umani. Con il 5G, le compagnie telefoniche come Wind Tre e Vodafone, i social media come Facebook ed Instagram, le piattaforme quali Google e Microsoft , le imprese leader nella telefonia quali Huawei ed Apple, le piattaforme di Amazon piuttosto che Alibaba godranno degli investimenti in tecnologia pronti a suddividersi il mercato dell’intero pianeta. Una spartizione Asia-Occidente che taglierà fuori il vecchio continente salvo non si intervenga massicciamente in difesa dell’economia europea e dei singoli Stati che la compongono.

Come? Innanzi tutto frenando, con forti incentivi a restare, la cosiddetta fuga di cervelli verso l’estero, in seconda battuta, organizzare delle grandi piattaforme di e-commerce misto pubblico-privato che contrastino i colossi già presenti sul mercato dell’ online. La Cina ci ha insegnato una cosa su tutte: non ha inventato nulla e ci ha sovrastato nei nostri settori tipici, depredando asset e mercati di sbocco già esistenti. Noi dovremo fare lo stesso con loro, in particolare sul commercio e sulla promozione dei nostri prodotti e servizi, uscendo dal profondo provincialismo in cui ci siamo insabbiati. Servono importanti asset online che sotto il controllo dei governi europei, promuovano, salvino ed incentivino (nel nostro caso) l’offerta turistica, l’alimentare, la moda, il design, l’arredamento, la cultura e la storia sia verso il mercato domestico che in chiave di export. Serve un nuovo approccio nel marketing e nella comunicazione online che porti aziende ed organizzazioni a fare rete, scacciando così quell’individualismo sfrenato che si è autoalimentato durante il successo delle PMI, che oggi, come dimostrato dalla pandemia, non rende più competitive.

*Stefano Lecca, dirigente A.I.A.

 

 

INVESTIMENTI ESTERI E INTERESSE NAZIONALE

L’Italia è ancora oggi un Paese strategico nello scacchiere internazionale per rilevanti motivi geopolitici ed economici. Catalizza interesse e attrae investimenti esteri, i cosiddetti IDE (Investimenti Diretti Esteri, appunto). Sul fronte dell’internazionalizzazione passiva, IDE in entrata, sono oltre 14.000 le imprese a controllo estero residenti nel Bel Paese, con oltre 1.300.000 dipendenti, un fatturato che supera i 500 miliardi di euro ed un valore aggiunto di oltre 100 miliardi di euro. Pur rappresentando solo lo 0,3% circa delle imprese attive in Italia, il loro peso sale a quasi l’8% degli addetti, a oltre il 15% del valore aggiunto prodotto e a poco più del 18% del fatturato complessivo.

Numeri importanti, quindi, e ben vengano gli investimenti esteri oggi più che mai! Anzi dovremmo essere in grado di attrarne di più perché, in generale, qualificano le nostre filiere produttive. Basti pensare che, in media, le imprese a capitale estero presentano delle performance di gran lunga migliori in termini di valore aggiunto per addetto (86 mila contro 38 mila euro), grazie alle maggiori dimensioni medie di impresa (90 addetti per impresa, contro i 4 delle imprese domestiche). In generale, poi, gli IDE portano anche maggiori e diverse competenze, tecnologie, capacità manageriali, vantaggi di scala e di network.

Ciò premesso, non è tutto oro quel che luccica e, a volte, dietro apparenti vantaggi si nascondo pericolose insidie. Se ne è parlato ad esempio, nel recente passato, con l’investimento della cordata franco indiana Arcelor Mittal in quella che era la più grande acciaieria d’Europa, l’ILVA di Taranto e i risultati attuali sono sotto gli occhi di tutti. Sempre restando a Taranto è di pochi giorni fa la notizia degli interessi cinesi per il suo porto e per la gestione della relativa logistica, cosa che ha subito fatto drizzare le antenne agli americani (in zona ci sono importanti presidi militari strategici per l’area del Mediterraneo). Oggi la notizia dell’acquisto, da parte dei tedeschi di Hhla, del pacchetto di maggioranza del terminal multifunzionale del porto di Trieste, altra infrastruttura strategica molto ambita (anche dai cinesi, per altro). Nelle operazioni appena citate, cosa non banale, non ci sono solo privati ma anche i rispettivi Stati di provenienza.

Ecco che, allora, entra in campo l’interesse nazionale, o almeno così dovrebbe essere. Nel contesto attuale le infrastrutture materiali (come ad esempio i porti) e immateriali (ad esempio le tecnologie 5G), assieme ai settori strategici, rappresentano infatti degli asset fondamentali per i singoli Paesi.

Questo all’estero sembra che lo sappiano bene mentre a livello governativo italiano pare non esserci al momento la stessa sensibilità. Diverso, invece, il clima che si registra in Parlamento, grazie all’azione meritoria portata avanti negli ultimi tempi dal COPASIR. Ma non basta, perché l’attività di monitoraggio va fatta prima, sulla base di azioni preventive che abbiano da un lato l’obiettivo di incentivare e promuovere gli investimenti che fanno bene all’Italia e, dall’altro, “attenzionare” con maggiore efficacia e nel caso stoppare quelle operazioni potenzialmente lesive dell’interesse nazionale.

Ecco che, allora, andrebbero promosse anche specifiche commissioni parlamentari con compiti sia di vigilanza, sia di indirizzo generale rispetto al tema della tutela dell’interesse nazionale in ragione dei tentativi di incursione di potenze straniere portate avanti anche attraverso gli IDE.

In parallelo andrebbe promosso un vero e proprio “Osservatorio Italia Internazionale” che monitori l’andamento degli investimenti esteri in Italia e italiani all’estero, per fornire non solo un cruscotto di dati ma un vero e proprio supporto tecnico ai decisori politici, cosa diversa dall’attuale Caie.

E mentre aumentano le insidie nei settori strategici delle infrastrutture, dai porti al 5G ma non solo, diminuiscono per effetto della crisi gli IDE buoni, quelli che creano valore per il Paese: nel 2019, in epoca cioè pre-Covid, l’Italia è scesa dal 15esimo al 16esimo posto a livello mondiale, che in soldoni vuol dire da 33 a 27 miliardi di dollari (fonte Unctad) con una perdita secca di 6 miliardi di investimenti rispetto all’anno precedente.

*Enrico Argentiero, esperto mercati finanziari

È tempo di sicurezza nazionale

In un momento di vulnerabilità, come quello che il Coronavirus ci costringe a vivere, il Paese diventa facile bersaglio di chi punta ad approfittarne per interessi geopolitici ed economici. Occorre dunque che lo Stato si difenda dalle silenziose aggressioni esterne che, seppur impercettibili, ledono fortemente la sicurezza del sistema Paese. Il Golden Power diventa così tema bollente di questi giorni. Se prima dell’epidemia il campanello d’allarme era principalmente sul 5G, ora ad essere esposti sono anche il mondo bancario, quello assicurativo e quello industriale che dopo i tonfi in Borsa vivono momenti delicati.

Nel rispetto della libera economia di mercato, il Golden Power è la barriera di contenimento per difendersi da campagne acquisti predatorie, da parte di fondi sovrani e nazioni, verso tecnologie in settori strategici o significativi come trasporti, telecomunicazioni ed energia. Un meccanismo non automatico, da innescare in caso di reale pericolo ponendo uno stop a scalate societarie ostili.
Il 2 marzo, nel corso della ‘Relazione sulla politica dell’informazione per la Sicurezza’, il vicepresidente del Copasir (il comitato per la sicurezza della Repubblica), Adolfo Urso, aveva dichiarato che “l’Italia deve fare un salto di qualità sul piano della sicurezza nazionale e in particolare sul fronte della tutela degli interessi strategici economici con il pieno coinvolgimento del Parlamento stesso e delle forze politiche, sociali e culturali del Paese”, evidenziando “le nuove minacce cibernetiche ed economiche produttive, così come la necessità di continui adeguamenti normativi, cosa peraltro avvenuta più volte nel corso dell’ultimo anno”.
Già il 5 marzo, Urso ha depositato un disegno di legge che va nella direzione di potenziare la cultura della sicurezza nelle istituzioni. Il DDL prevede un iter parlamentare, a seguito della relazione annuale sulla sicurezza dei Servizi, per non perderne il prezioso patrimonio di informazioni. In sostanza, a seguito della discussione nelle aule di Camera e Senato, il Parlamento vota delle risoluzioni fornendo le indicazioni per metterle in atto al governo, che ha due mesi per presentare una legge annuale sulla sicurezza, un po’ come con la legge annuale sulla concorrenza.
In questi giorni, preso atto del rischio Italia, il Governo sta dichiarando di lavorare ad una sintesi normativa che estenda lo scudo del Golden power, nel solco tracciato dal Copasir divenuto sempre più soggetto di impulso e riferimento. In proposito il vicepresidente Urso si spinge oltre il DDL depositato, dichiarando che ora, con la Borsa sotto attacco, il rischio di azioni predatorie e speculazioni internazionali sia aumentato; ed annuncia di lavorare ad un pacchetto di emendamenti al decreto Cura Italia sui temi della sicurezza nazionale. Un pacchetto di emendamenti, annuncia Urso, che “prevedono l’estensione del Golden power ai settori strategici”, oltre a “coinvolgere Cassa Depositi e Prestiti, Banco Poste, e Invitalia per la sicurezza del sistema industriale”, aggiungendo che “bisogna poi predisporre le necessarie contromisure per evitare che quanto previsto nel decreto Cura Italia per la digitalizzazione della pubblica amministrazione non diventi il cavallo di Troia per le aziende cinesi già oggetto della relazione del Copasir al Parlamento sul 5G”.
Mai come ora c’è bisogno di unità e responsabilità da parte di tutta la migliore classe dirigente, perché oltre al rischio sanitario c’è un altrettanto concreto rischio del sistema Paese. E c’è bisogno di uno Stato forte, autorevole, in grado di far fronte alla grande sfida che il 2020 ci ha posto dinnanzi. Nella storia della Repubblica l’Italia ha saputo affrontare diversi momenti bui, confidiamo ci riesca anche questa volta.
*Antonio Coppola, collaboratore Charta minuta

Cina e 5G, cosa cambia dopo il dossier Copasir?

Il Vicepresidente del Copasir a Formiche.net: “Da oggi nasce una maggiore consapevolezza della sicurezza nazionale, con l’auspicio che l’Italia sia non retroguardia, ma avanguardia di Europa ed Occidente, ergendosi a modello per gli altri Paesi”. Più consapevolezza sulla sicurezza nazionale, e l’auspicio che l’Italia sia avanguardia in Europa ed Occidente, ergendosi a modello per gli altri Paesi. È quanto si augura ai microfoni di Formiche.net il vicepresidente del Copasir Adolfo Urso (FdI) commentando il rapporto conclusivo dell’indagine sulla sicurezza delle telecomunicazioni a proposito di 5G e Cina.

L’ingresso delle aziende cinesi nella rete 5G italiana costituisce un pericolo per la sicurezza nazionale, sostiene il Copasir. Cosa può cambiare da domani?

Il rapporto è una relazione al Parlamento che il Copasir ha predisposto dopo un anno di indagini molto approfondite e ascoltando le diverse parti in causa, come gli organismi di sicurezza nazionale e le aziende italiane e straniere. L’obiettivo è stato quello di avere una valutazione certamente sulla sicurezza ma anche sui costi tecnologici di una decisione del genere da sottoporre a governo e Parlamento.

Qual è il vostro auspicio?

Che il governo possa valutare la sua azione anche alla luce di ciò che il Copasir ha accertato rispetto ai compiti che gli sono stati conferiti. La relazione, approvata all’unanimità, dimostra che adesso il governo ha gli strumenti legislativi per agire, come la riforma della golden power e alla possibilità di estensione alle reti infrastrutturali, in modo specifico al 5G.

Dal colosso tech Huawei, però, c’erano state molte rassicurazioni. Perché non hanno convinto il Copasir?

Come scritto nella relazione, abbiamo ascoltato tutte le parti in causa, quindi anche Huawei, e al contempo abbiamo ascoltato ciò che ci hanno riferito i nostri servizi di sicurezza. Cito un passaggio significativo della relazione, quando si sottolinea che dalle indagini emerge che la legislazione cinese, così come è stata innovata negli ultimi anni, consente che gli organi dello Stato e le stesse strutture di intelligence possano fare pieno affidamento sulla collaborazione di cittadini e imprese. Ovvero aziende e cittadini di quel paese rispondono al sistema di sicurezza nazionale cinese.

Ci sono rischi e costi di un ritardo tecnologico?

Il lavoro svolto è stato significativo anche perché ha riguardato l’eventuale impatto economico sul sistema generale, oltre al faro della sicurezza nazionale. E abbiamo convenuto che rischi di ritardo tecnologico non ve ne sono e che il sistema italiano può essere modernizzato a costi contenuti anche senza la tecnologia cinese.

Senza dimenticare l’elemento dumping…

Molti dei nostri interlocutori in Commissione ci hanno riportato che alcune aziende cinese sono sovvenzionate dallo Stato, oltre al fatto che altrettante di fatto sono addirittura di proprietà statale e realizzando un dumping rispetto alle aziende di altri Paesi, perché possono vendere “sotto costo” spiazzando i concorrenti. Sul punto c’è anche la possibilità di rivolgersi all’autorità europea in materia, al fine di realizzare misure anti dumping sul piano commerciale ove fosse acclarato.

Importante il passaggio in cui si dice che ragioni di mercato, “che assumono un ruolo fondamentale in una economia aperta, non possono prevalere su quelle che attengono alla sicurezza nazionale, ove queste siano messe in pericolo”. La questione è stata sottovalutata fino ad oggi?

Il fatto stesso che sia stato migliorato l’impianto legislativo durante la visita del presidente cinese Xi in Italia ha rappresentato una diversa definizione del sistema, che ha portato il Paese a meglio definire il perimetro nazionale. Sotto la spinta di alcune forze politiche e le sollecitazioni di alcuni alleati internazionali il sistema italiano è stato notevolmente migliorato. Mi auguro che adesso nasca una maggiore consapevolezza della sicurezza nazionale, con l’auspicio che l’Italia sia non retroguardia, ma avanguardia di Europa ed Occidente, ergendosi a modello per gli altri Paesi.

*Francesco De Palo, Formiche.net

“Via della seta” strumento di dominio globale

Questo meeting è organizzato da Farefuturo insieme alla Fondazione New Direction la fondazione che fa riferimento in Europa al gruppo dei conservatori e riformisti e quindi alla famiglia dei conservatori europeo- occidentale, su un tema centrale per l’interesse nazionale in una giornata particolarmente significativa a poche ore dalla visita del presidente della Repubblica popolare di Cina in Italia, evento a cui viene dato un alto valore politico.

In tale contesto, abbiamo voluto proporre un seminario di studi dal titolo emblematico ” Il Dragone in Europa. Opportunità e rischi per l’Italia” per analizzare il valore politico ed economico di alcuni accordi che verranno firmato in quella occasione dal Presidente Xi LinPing, che rappresenta tutte le cariche della Cina a cominciare di quella più prestigiosa di Segretario del Partito Comunista Cinese, come tutti sanno in Cina la carica del partito viene prima di quella dello Stato.
Lui stesso nel presentare la sua visita ad un quotidiano italiano ne parla all’interno di un contesto storico, culturale e politico di straordinaria importanza a suggello del quale sarà apposta firma di un MoU che riguarda la cosiddetta Via della seta, il primo realizzato da un Paese importante della Nato e dal un Paese dei G7.

Oggi la “via della seta” è la più importante infrastruttura navale, ferroviaria, logistica del mondo, quindi è acciaio più che seta. Altrettanto significativi i circa cinquanta accordi collegati, alcuni tra aziende pubbliche, quindi su indirizzo specifico dello Stato, altre di aziende private di varia natura.
Nel MoU non si affronta la tematica commerciale ma si parla di infrastrutture, trasporti, logistica, spazio, telecomunicazioni quindi di assetti strategici.
Ovviamente non si parla di commercio strettamente inteso perché come tutti sanno la politica commerciale è esclusiva competenza dell’Unione europea.
Si parla invece di economia, di finanza e anche di quei settori strategici che vi ho citato prima ma non certamente di commercio in quanto tale, come si è voluto far credere. Il nostro export non ne trarrà alcun beneficio diretto.

Ieri nel due rami del Parlamento, sia alla Camera che al Senato, c’è stato un dibattito su questa evento, certamente estremamente significativo per le conseguenze che ha sulla nostra collocazione internazionale, prima ancora per le sue ricadute sulla nostra economia. Il Parlamento ha approvato una davvero strana mozione di maggioranza in cui si impegna il Governo a fare i dovuti accertamenti sulle ricadute del Memorandum: se il nostro interesse nazionale è garantito, se la nostra sicurezza nazionale è garantita se le relazioni e gli accordi internazionali sottoscritti dall’Italia a cominciare da quelli dell’Alleanza atlantica e della Ue sono garantiti; in sostanza, la stessa maggioranza chiede al governo di accertare e verificare ora a poche ore dalla sottoscrizione degli accordi se tutto ciò è garantito, dopo che per sette mesi i ministeri interessati hanno lavorato alla preparazione del MoU e degli accordi collegati avendo si presume fatto già tutti gli accertamenti necessari, in caso contrario sarebbe di fatto gravissimo. Il fatto che la stessa maggioranza impegni il suo governo a fare ora tutti i necessari accertamenti è di per se significativo e nel contempo inquietante per la leggerezza con cui si è affrontata la questione.
Risalgono ai giorni immediatamente successivi alla formazione del governo le prime missioni in Cina del viceministro Di Maio e del ministro dell’economia Tria e poi un via vai di missione di esponenti di Cinque Stelle e del Sottosegretario al Commercio che di fatto in questi mesi ha vissuto più in Cina che in Italia
Quindi sette mesi di analisi, documentazione, contrattazioni avrebbero dovuto portare evidentemente a una verifica sotto gli aspetti che riguardano la sicurezza nazionale ,quanto il rispetto dei nostri accordi internazionali e delle nostre alleanze storiche.
È anomalo, ripeto, che la maggioranza impegni il governo a fare tutto ciò a poche ore prima della firma degli accordi quanto ormai tutto è già deciso.
Questa missione e queste firme giungono proprio mentre l’Unione europea, dopo un lunghissimo letargo politico e strategico in cui le singole nazioni si sono mosse autonomamente e in cui tutti hanno affrontato la Cina come una grande opportunità , improvvisamente l’Ue da una parte e gli Stati Uniti dall’altra stanno valutando con grande apprensione i rischi di quella che appariva una grande opportunità con dei provvedimenti alcuni già deliberati altri in via di deliberazione di straordinaria efficacia nella modifica di questa postura.
Tra quelli approvati io evidenzio il Regolamento sullo screening degli investimenti esteri
In Europa che stranamente ha avuto come opposizione solo l’Italia (insieme alla Gran Bretagna che però non fa più parte di fatto dell’Unione Europea). Fatto perlomeno strano se lo compariamo al documento ufficiale presentato dall’attuale governo poche settimane fa in Parlamento nel rapporto annuale dei servizi di sicurezza in cui vengono individuati alcuni rischi per la sopravvivenza del Paese. E tra i rischi per la sopravvivenza del Paese individuati nei rapporti ufficiali vi sono:
– la sicurezza cibernetica come nuova frontiera per la sicurezza nazionale
su cui prestare la massima attenzione perché la sicurezza cibernetica significa la sicurezza sui nostri dati;
– l’attività predatoria economica e finanziaria fatta da Paesi stranieri che utilizzano anche entità statuali per individuare per esempio le migliori start-up che hanno depositato i migliori brevetti per acquisirle prima che li sviluppino o per favorire la nomina di management nelle aziende che si intendono acquisire affinché preparino il terreno alla azione predatoria che ne seguirà.
Quindi le nuove frontiere della sicurezza nazionale e della sovranità economica – a cui io aggiungo la sovranità sulla conoscenza, sui dati, sull’intelligenza quindi sul nostro futuro – sono quelle economico-finanziare e quelle della cyber security. Ho fatto notare recentemente al Primo Ministro in una riunione del nostro Comitato per la Sicurezza della Repubblica che l’Italia si è opposta in sede europea proprio al Regolamento sullo screening che invece io rapporto presentato in Parlamento e da Lui sottoscritto definiva come atto fondamentale per garantire la nostra sicurezza e sovranità economica e tecnologica. Com’è possibile?
Se noi individuiamo in quel Regolamento il passo decisivo per tutelarci meglio, poi perché ci opponiamo in Europa a quel Regolamento?
Altri episodi di questo tipo, dalla anomala posizione sul Venezuela all’annuncio del ritiro dei nostri militari dall’Afganistan, alla lettera che quindici ambasciatori della Ue hanno scritto con l’assenza della firma italiana, al governo cinese per la tutela delle minoranze in quel Paese, ci fanno capire come la postura del governo italiano nei confronti della Cina sia profondamente mutata ed appare clamorosamente diversa di quella dei nostri partner europei. La nostra postura assomiglia sempre più alla postura (di sudditanza) che per esempio la Grecia ha assunto spesso dopo che la Cina gli ha acquistato i porti del Pireo. Tanto più grave perché l’Italia non è la Grecia e non è certo considerata come tale dai nostri alleati tradizionali e neppure dai nostri avversari tradizionali.
Perché l’Italia dovrebbe guardare con attenzione non soltanto alle opportunità ma anche e forse soprattutto ai rischi? Lo dico sulla base della mia esperienza personale di Ministro delegato al commercio con l’estero: nel novembre del 2001 rappresentavo l’Italia al meeting del WTO a Doha dove la Cina realizzo ufficialmente l’obiettivo della adesione alla Organizzazione del commercio mondiale, che una volta era il simbolo del capitalismo mercantile. Ero fisicamente presente come capo delegazione italiana quando fu sottoscritto l’ingresso della Cina, allora qualificato come Paese in via di sviluppo a cui erano concesse, proprio per questo, anche dei vantaggi importanti. Allora essa era considerata anche una “economia non di mercato” che avrebbe dovuto nel frattempo nell’arco di quindici anni diventare un’economia di mercato. Cosa che allo stato non è ancora avvenuta. Tutt’altro: la sua economia resta dirigista e le sue aziende sono di fatto ancora in gran parte in mani allo Stato e comunque sussidiate dallo Stato.
Le condizioni di allora sono ovviamente profondamente cambiate. La Cina non è più un Paese in via di sviluppo; è la seconda economia del mondo e presto diventerà la prima economia del mondo, molto competitiva proprio sugli assetti tecnologici e industriali. Ma nel contempo è rimasta un’economia non di mercato anzi è sempre più un’economia non di mercato per la presenza importante e significativa dello Stato soprattutto nei settori strategici dell’economia cinese, come dimostra proprio il caso delle telecomunicazioni.

La situazione è molto cambiata in questi anni. Siamo in un’altra epoca. In quel periodo io stesso mi sono recato in Cina decine di volte con delegazioni di imprese italiane per tentare di cogliere le migliori opportunità di un Paese che si apriva al mondo. Mi recai in Cina anche nella primavera del 2003, durante la Sars, nel il massimo momento di crisi del Paese, credo fui l’unico ministro del mondo a farlo per dare un sostegno politico ovviamente allora ritenuto significativo. L’anno successivo nel 2004, fui anche il propugnatore in Europa della misura anti dumping più importante della storia del Wto per vastità di settore quella nei confronti delle calzature cinesi e vietnamite riproposta poi nel 2008. Non ho quindi mai avuto una visione ideologica o comunque pregiudiziale nei confronti della Cina. Ho guardato sempre e solo e comunque innanzi tutto all’interesse del mio Paese.

In questi anni, la Cina è profondamente cambiata per quello che vi ho detto rispetto ad allora e da Grande Opportunità è diventata prevalentemente un Grande Rischio perché è molto accresciuta la sua forza competitiva e perché la nuova presidenza di Xi Jinping ne ha cambiato la postura.

Xi Jinping che sarà tra poche ore in Italia è l’unico presidente che ha assunto nelle sue mani, dopo Deng Xiaoping, tutti i poteri della struttura cinese: Segretario generale del Partito Comunista, presidente dallo Stato, coordinatore delle forze armate e altri dieci diversi incarichi di coordinamento. Ha inserito il suo Pensiero nella Costituzione cinese. Ha rimosso il vincolo dei due mandati si pone come un nuovo imperatore della Cina e nel contempo ha modificato profondamente nelle radici la stessa legislazione cinese.
Nel 2017 la “via della seta” è stata inserita nello statuto del partito comunista cinese, come obiettivo strategico per cambiare il mondo.
Nel 2018 lo stesso concetto è stato ribadito nel preambolo della Costituzione cinese
come nuova alleanza globale, alternativa capace di soppiantare quella del blocco occidentale.
Quindi, la via della seta è tutt’altro che uno spot commerciale e nemmeno meramente economico se è inserito nello statuto del partito e nella costituzione della Cina.

Inoltre dal 2015 con quattro differenti provvedimenti legislativi che riguardano la sicurezza si fanno una serie di obblighi legislativi tra i quali quello secondo cui e non solo i cittadini e le aziende cinesi operanti nel mondo hanno l’obbligo di fornire informazioni e assistenza al proprio Stato, ai propri servizi sicurezza e alle proprie forze armate per motivi di sicurezza largamente intesi. Perché per sicurezza non intendono soltanto la sicurezza ovviamente nei confronti della lotta al terrorismo, sarebbe forse comprensibile, ma intendono la sicurezza, la sovranità economica, l’interesse sociale in sostanza ogni aspetto della vita nazionale.

Tra gli accordi sulla economia digitale, particolarmente sensibile, ve ne è persino uno che sarà sottoscritto per favorire la costituzione di una piattaforma commerciale europea di Alibaba in Europa.
Cosa significa? significa che la piattaforma commerciale Alibaba in Europa, così come ha fatto la grande distribuzione globale per esempio francese, favorirà la vendita dei prodotti cinesi in Europa saltando ogni tipo di controllo anche sanitari.
E questo mentre proprio in questo campo, sull’economia digitale, sull’intelligenza artificiale l’Europa vuole recuperare i suoi macroscopici ritardi proponendo di realizzare un piano straordinario europeo per fare dell’Europa la prima economia sull’intelligenza artificiale. Questa è la frontiera della quinta rivoluzione industriale!

Noi oggi parliamo dalla quarta rivoluzione industriale, quella della economia digitale, ma già si prepara la quinta rivoluzione industriale in cui la Cina è cinque anni avanti rispetto all’Occidente, la rivoluzione della intelligenza artificiale.
Quindi l’Europa cerca di recuperare un ritardo nella frontiera più importante per il nostro futuro.

Nella nuova postura dell’Unione ci sono nuove proposte di direttive  o nuovi regolamenti che riguardano la cyber security, la tassazione della economia digitale, ma anche in maniera specifica le relazioni transatlantiche, le tariffe industriali, l’altro giorno nel mio intervento in Parlamento ho elencato almeno dieci argomenti che l’Europa in un senso o nell’altro sta inserendo o vorrebbe inserire nelle proprie normative comunitarie per tutelare il continente rispetto a questa competizione globale.
Nel meeting di oggi vogliamo porre a conoscenza degli addetti ai lavori e in particolare dei decisori ma anche di chi desidera meglio capire e conoscere, persino seguendoci nella diretta su Facebook di cosa si tratta, quale sia la vera posta in palio, cosa si sta per sottoscrivere, perché il Paese deve sapere.
Deve sapere che queste scelte cambiano la postura del rapporto dell’Italia rispetto alla Cina e qui di nei confronti del mondo.

Il fatto stesso che in queste ore sia stata rivista la normativa contenuta nel MOU sui porti e gli investimenti in logistica ci deve far riflettere. Perché qual era quella precedente contrattata per mesi all’insaputa del Paese e degli stessi ministeri competenti?

Cosa prevedeva dato che è stata rimossa?
Dato che i porti sono la chiave del Paese che non si può mai consegnare a chi ha l’infrastruttura che legherà il mondo. Una chiave che può essere aperta o può essere chiusa da chi la dispone.
La conoscenza e la competizione globale si basa su tre-quattro livelli ; certamente il primo è il controllo dell’infrastruttura cioè del trasporti merci e noi stiamo consegnando le chiavi di casa dell’Europa, dell’Occidente ad un soggetto che mette nello Statuto del Partito Comunista che quella via è lo strumento per cambiare gli assetti globali del mondo
Secondo. Le altre “chiavi di casa” è la rete internet. La comunicazione è fondamentale perché riguarda la sicurezza del Paese, la conoscenza dei dati è oggi il centro di tutto e mi riferisco al 5G. Chi controlla, chi ha le chiavi delle infrastrutture digitali ha le chiavi del nostro cervello
Terzo: chi controlla la vendita on line ha le chiavi dei nostri mercati. Alibaba è l’esercito che controlla i mercati.

Infine e su tutto, il problema dell’intelligenza artificiale, dello spazio e del suo sviluppo tecnologico ed economico, ma questo è un cuore della quarta anzi della quinta rivoluzione industriale che verrà ma i cui assetti si determinano oggi.

Spero che questo meeting possa servire a capire e quindi a decidere meglio.

*Intervento di Adolfo Urso, presidente della Fondazione Farefuturo, al meeting “Il Dragone in Italia. Opportunità e rischi per l’Italia”

 

Urso: “L’Italia strumento dell’egemonia cinese”

Nel 2001 Adolfo Urso, allora viceministro al Commercio estero, era al Wto quando si decise l’ingresso della Cina. “E in passato ho fatto moltissimo per spiegare l’importanza della Cina alle aziende italiane. Ma la Cina non è più il paese di vent’anni fa. Oggi i cinesi sono politicamente aggressivi e sono economicamente competitivi. Inoltre la Cina sta costituendo un blocco di alleanze alternativo al blocco Atlantico di cui noi abbiamo sempre fatto parte. E’ proprio cambiata la postura dello stato cinese. Dunque è evidente che siglare un accordo dai tratti politici come il memorandum di cui si discute in queste ore – malgrado pare si stia modificandone il contenuto – è un’eventualità di primaria grandezza dal punto di vista della politica estera. E c’è una superficialità sconcertante da parte del governo”. Vicepresidente del Copasir, il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, senatore di Fratelli d’Italia, Urso ha una visione ampia della questione. “Sono successe cose poco comprensibili nell’ultimo anno”, dice. “In primo luogo l’Italia ha impedito il riconoscimento europeo di Juan Guaidó, il leader dell’opposizione venezuelana al dittatore Maduro. Il cui regime è un alleato della Cina. Altrettanto incomprensibile è stata l’op – posizione italiana al regolamento europeo sullo screening degli investimenti stranieri in Europa. Una cosa al limite dell’irrazionale. Certamente sbagliata, specialmente visto che i nostri servizi segreti hanno segnalato, in più recenti occasioni, con il governo Gentiloni e anche con il governo Conte, due minacce nuove: quella cibernetica e quella della colonizzazione predatoria da parte di potenze straniere nei confronti dell’industria tecnologica italiana” Adolfo Urso parla di “inconsapevolezza del governo”, eppure dalle sue stesse parole sembra venire fuori invece il quadro di una “intelligenza” che spinge l’Italia verso gli interessi cinesi. “I nostri servizi segreti hanno spiegato che ci sono entità statali, diciamo altri servizi di intelligence, che agiscono nel nostro paese per indirizzare la nomina di certi manager in aziende italiane, manager considerati amichevoli e ben disposti all’apertura nei confronti dei capitali provenienti da questi paesi. Come pure sappiamo bene che ci sono servizi di intelligence che segnalano quali nostre aziende possiedono i migliori brevetti tecnologici, favorendo così l’acquisizione di queste aziende da parte di compagnie controllate da stati stranieri. In questo contesto è molto strano che l’Italia si sia opposta allo screening sugli investimenti stranieri in Europa, ed è altrettanto strano che il nostro sia l’unico paese a non aver firmato la lettera degli ambasciatori europei a tutela delle minoranze etniche e religiose in Cina. Se metti insieme tutte queste cose, ti fai delle domande”. Tanto più se ci si concentra sulla natura e sul significato della cosiddetta Nuova Via della Seta, il progetto cui pare l’Italia stia aderendo. “La Nuova Via della Seta è stata inserita nel 2017 nello statuto del Partito comunista cinese come obiettivo strategico”, dice Urso. “Nel 2018 il governo di Pechino ha riformulato la Costituzione. E la Via della Seta è stata inserita pure nel preambolo della Costituzione. Questo lo dico per rendere l’idea di ciò di cui parliamo. La finalità è quella di creare una nuova alleanza mondiale alternativa a quella occidentale. Ecco. L’Italia storicamente ha avuto una posizione direi quasi da ‘nazione ponte’ nei confronti dei blocchi contrapposti al nostro. Ma senza mai confondersi su chi fossero gli alleati che condividono i valori della democrazia. Tutti ricordiamo i rapporti con l’Unione sovietica, gli stabilimenti della Fiat in Urss, a Togliattigrad. Ricordiamo bene quando Gianni De Michelis costituì l’Ince con Austria, Ungheria e Jugoslavia. Sappiamo anche quali sono stati i rapporti con il mondo arabo, a cominciare da Andreotti fino a Craxi e Berlusconi. Un atteggiamento sempre di ‘comprensione’ che ha giovato sia all’Unione europea sia all’alleanza atlantica. Il ruolo di ponte dell’Ita – lia è stato un elemento di forza e non di debolezza, per il nostro paese e per i nostri alleati. E questo è dipeso dal fatto che, malgrado ci fossero rapporti economici e di ascolto con i blocchi contrapposti, l’Italia non si sia mai confusa sulla sua natura e sulla sua posizione strategica. Abbiamo sempre saputo chi eravamo ‘noi’ e chi erano gli ‘altri’. Ecco, una cosa del genere si può fare anche con la Cina, oggi. Ma si tratta di un processo che andrebbe portato avanti all’interno di una visione che sia condivisa e comunicata ai partner occidentali. Guardi, la questione è molto seria. I cinesi intendono la Via della Seta come una specie di piano Marshall. Solo che noi non condividiamo gli stessi principi dei cinesi, e i cinesi non condividono i nostri principi di libertà civile ed economica. Quindi qualche preoccupazione sorge. L’Italia non deve perdere l’occasione di diventare una ‘nazione ponte’. Solo che il ponte non deve essere il luogo da dove passano poi le armate che vengono a colonizzare l’Europa”. Geraci e la regola diplomatica La colonizzazione è metaforica, ma neanche troppo. “Vede”, riprende Urso, “l’inter – connessione moderna si dipana su tre linee, sulle quali bisogna assolutamente vigilare: il trasporto delle merci, le telecomunicazioni con tecnologia 5G, e le reti di vendita online. Per quanto riguarda il trasporto merci, è evidente che chi ha le chiavi del casello autostradale poi può bloccare l’intero paese. Quindi bisogna porsi il problema di non cedere il controllo delle infrastrutture. Per quanto riguarda il 5G, anche qui è fondamentale il controllo, perché dalla rete 5G passano tutti i dati. E chi ha i dati ha in mano la sicurezza nazionale. E a questo proposito bisogna tener conto del fatto che, secondo la legge cinese, istituzioni, cittadini e aziende, anche quelle private, sono tutti obbligati per legge a condividere con i servizi segreti, se richieste, tutte le informazioni considerate di interesse nazionale. Chiaro, no? S’immagina cosa significherebbe l’orecchio cinese dentro l’in – frastruttura delle telecomunicazioni italiane? Infine non bisogna sottovalutare la questione del commercio online. E’ vero che Alibaba, cioè l’Amazon cinese, si prepara a lanciare una rete di vendita in Europa? E cosa succederebbe se questo accadesse? Già sappiamo cosa c’è costato perdere la grande distribuzione in Italia a vantaggio dei francesi. Ma con l’economia online, con la distribuzione via posta, porta a porta, potremmo essere sommersi dai prodotti cinesi. Con rischi evidenti dal punto di vista della competitività delle nostre imprese, dal punto di vista dell’elusione fiscale, e anche dal punto di vista della sicurezza perché diventerebbe difficile controllare che i prodotti venduti dal distributore cinese abbiano standard qualitativi e sanitari di tipo occidentale”. Cosa ci sia scritto nell’accordo tra Italia e Cina non lo sa nessuno. “Ma pare che, pian piano, si stia svuotando di affermazioni politiche impegnative che documenti simili, firmati da altri paesi con la Cina, invece contenevano. E mi pare che anche il tema delle telecomunicazioni stia saltando. Però ci sono anche altri 40 o 50 accordi collaterali di cui nulla sappiamo. La verità è che tutta questa faccenda è stata affrontata con grandissima superficialità, con tutti questi viaggi in Cina di membri del governo”. Luigi Di Maio. Ma soprattutto il sottosegretario Michele Geraci. “Non voglio esprimermi su Geraci”, dice Urso. Poi: “Le dico solo questo. Esiste una regola assoluta che vale per i diplomatici. Non devono stare troppo a lungo in un paese. Non più di quattro anni. Vi siete mai chiesti il perché?”.

 

*Salvatore Merlo, giornalista. Riproduciamo la sua intervista ad Adolfo Urso per Il Foglio