Telecomunicazioni, prospettive in chiaroscuro

Nel corso del 2024 il settore delle telecomunicazioni in Italia andrà incontro ad un processo di riassetto societario atteso ormai da anni. Nell’attuale contesto la ridefinizione del mercato dei telco si compone di una pluralità di tasselli che vede il dossier Tim ancora in una posizione di preminenza seppur non esclusiva. Inoltre, l’evoluzione del quadro regolatorio a livello europeo unito all’andamento stagnante dei ricavi degli operatori pone un interrogativo sul futuro dell’intero settore, anche alla luce dei notevoli investimenti richiesti dalla transizione tecnologica che faticano a trovare una collocazione profittevole nel mercato.

In questa partita spicca la crescita impetuosa dei fornitori di contenuti OTT che segue una traiettoria opposta a quella dei telco e non sembra risentire della stretta regolatoria decisa dall’Unione europea. Il rapporto instaurato dagli OTT con i consumatori prescinde dal ricorso ad infrastrutture di rete di ultima generazione come le reti VHCN per la fruizione dei contenuti e poggia su una crescente personalizzazione dei contenuti audiovisivi basata sull’uso di dispositivi brandizzati e su annunci pubblicitari sempre più precisi.

Negli ultimi anni gli operatori hanno sostenuto notevoli spese per adeguare le reti mobili allo standard 5G, a partire dall’aggiudicazione delle nuove frequenze. Tuttavia, il ritorno dell’investimento è stato sotto le aspettative. I consumatori hanno giudicato gli standard di trasmissione esistenti come il 4G+ sufficienti ad assicurare la fruizione dei servizi di streaming e cloud. In assenza di uno sviluppo di smart city e IOT, il 5G si colloca ancora in una posizione di nicchia, che impedisce ai telco di fare il salto di qualità nel rapporto con i clienti sfruttando le elevate velocità di trasmissione e la riduzione dei tempi di latenza.

Un mercato in cambiamento 

Il rapporto “2024 Telcos Values Creators” curato da BCG fotografa una situazione in chiaroscuro per i telco. Gli operatori di dimensione globale hanno difeso il nucleo di attività tradizionali, in particolare con la clientela business, investito nelle infrastrutture di nuova generazione con un occhio ai costi e si apprestano a sfruttare le potenzialità dell’intelligenza artificiale. Le maggiori criticità del settore derivano dai ricavi stagnanti e da una sproporzione tra investimenti e profitti nell’adeguare le reti allo standard 5G.

Questi fattori hanno contribuito ad allargare la faglia esistente tra gli operatori presenti a livello globale e quelli attivi nei confini nazionali. I primi tre telco al mondo (T-Mobile US, Deutsche Telekom e Bharti Airtel) hanno creato da soli quasi il 40% del valore aggiunto nel settore – 247 miliardi di dollari su 574 – cifra che sale al 60% tenendo conto anche di Comcast e American Tower. Le dimensioni contano anche sul piano dei margini. Secondo l’analisi BCG la reddittività degli operatori più grandi oscilla tra il 6 e il 7% in un arco quinquennale. In questo contesto sono i telco più piccoli spesso in perdita a soffrire per i dividendi ridotti e i rischi associati ad una presenza geografica ristretta, fattore quest’ultimo che contraddistingue buona parte degli operatori dell’Unione europea.

Per raggiungere l’orizzonte del 2030 senza scossoni i telco dovranno semplificare le proprie strutture aziendali senza rinunciare ad investire nell’innovazione. La capacità di creare valore dipenderà ancora una volta dai servizi a più alto valore aggiunto offerti alle imprese e supportati da nuove tecnologie come l’intelligenza artificiale e il 5G. La scarsa redditività ha spinto gli operatori a sondare i mercati collegati sempre più accessibili dallo smartphone come i servizi finanziari e i contenuti audiovisivi. La presenza di incumbent poco disposti ad abdicare al loro ruolo porterà i telco a stringere accordi commerciali con i partner per accelerare la penetrazione nei mercati come già accade nel settore delle assicurazioni.

Un ulteriore capitolo riguarda la pressante tendenza alla riduzione dei costi che rischia di produrre degli impatti significativi sui livelli occupazionali di molti operatori. La propensione ad una radicale ristrutturazione aziendale è diventata molto più di un’ipotesi scolastica per tutti i telco che si confrontano con gli effetti dell’evoluzione tecnologica e l’aumento dei costi, non adeguatamente compensato da una cornice regolatoria che ha dimostrato di privilegiare a tutti i costi il welfare consumeristico rispetto alla sostenibilità dei bilanci. Ritoccare al rialzo i prezzi delle tariffe è necessario per preservare la stabilità di un comparto investito negli ultimi anni da profonde trasformazioni. Gli operatori necessitano tempi e risorse certe per affrontare le sfide poste dalla transizione digitale e questo concetto è ancor più valido per i telco più piccoli ed esposti alla concorrenza che beneficerebbero di un processo di consolidamento dal quale al momento sono tenuti fuori.

La nuova cornice regolatoria

Sin dal libro verde sulle telecomunicazioni del 1987, la Commissione europea aveva previsto che in un futuro lontano l’apparato regolatorio introdotto a supporto dei processi di armonizzazione e liberalizzazione fosse gradualmente ritirato in favore dell’applicazione delle sole norme antitrust. Dopo un’attesa pluridecennale in cui il numero di mercati regolati delle tlc si è via via assottigliato complice l’evoluzione tecnologica e la crescita della concorrenza, nell’ultima raccomandazione del 2020 è emersa una posizione intermedia. Da un lato la Commissione ha reiterato la richiesta di continuare a regolare i mercati d’accesso, mentre ha previsto una speculare riduzione del tipo di obblighi che si applicano agli ex monopolisti, sotto forma di condizioni tecniche di accesso.

La necessità di un alleggerimento della regolazione è stata fatta propria anche dal Connectivity package presentato a febbraio 2023, a margine del quale la Commissione è ritornata sul tema dei mercati d’accesso con la Raccomandazione Gigabit che avvia il tanto atteso processo di deregulation delle nuove reti VHCN, a vantaggio degli operatori con significativo potere di mercato come gli ex monopolisti. È opinione condivisa che l’apparato regolatorio dell’Unione non abbia favorito gli investimenti nella fibra ottica da parte degli incumbent, penalizzandoli con obblighi spesso sproporzionati rispetto al reale potere di mercato detenuto dopo anni di misure correttive, tantopiù nell’era degli OTT rimasti estranei al perimetro.

La decisione di rivedere gli obblighi applicabili discende dalla necessità di costruire un quadro regolatorio coerente, che favorisca nel lungo periodo la remunerazione del capitale investito nelle reti VHCN. Per garantire la proporzionalità, la Commissione prevede di graduare l’intensità delle misure correttive, concentrandosi sul solo accesso all’infrastruttura passiva nei casi in cui sia prevedibile a livello nazionale una dinamica competitiva nell’arco di cinque anni. In presenza di determinate condizioni (come la costruzione di reti alternative), la Commissione si spinge anche ad abbandonare lo storico criterio dell’orientamento al costo del prezzo d’accesso che ha contraddistinto anni di regolazione degli ex monopolisti. L’obiettivo principale non è più contenere il potere di mercato degli incumbent ma favorire gli investimenti da parte dei soggetti regolati, confermando l’obiettivo della connettività ad un gigabit di tutti i nuclei familiari nell’orizzonte temporale del 2030, previsto dalla strategia Digital Compass dell’Unione.

Nel definire i nuovi orientamenti la Commissione prevede di segmentare su base geografica le misure correttive, rifacendosi ad una distinzione già sperimentata per permettere il supporto pubblico alle reti in fibra ottica. Il miglioramento delle condizioni di concorrenza permette di distinguere mercati geografici separati, garantendo una proporzionalità degli obblighi in base all’effettiva competitività, che può variare in funzione degli investimenti in reti alternative realizzate da altri operatori. Il principio di non discriminazione diventa così fondamentale per garantire parità di accesso agli operatori non verticalmente integrati. Il modello di equivalence of input introdotto in Italia da TIM nel 2016 si conferma il modo più sicuro per promuovere la concorrenza senza gravare eccessivamente sulle attività dell’incumbent.

Questa piccola rivoluzione degli assetti regolatori della Commissione è il segnale che il rapporto costi benefici della politica di “contenimento” degli ex monopolisti inizia a volgere dopo anni a favore di questo ultimi. La promozione degli obiettivi di connettività nell’Unione entro il 2030 diventerebbe utopistica e inattuabile se legata ad un’eccessiva limitazione dei prezzi. Nel caso della telefonia fissa, questa è fin troppo presente sia a monte che a valle, con dirette conseguenze sulla qualità dei servizi offerti ai consumatori e sulla sostenibilità economica degli operatori, che devono sostenere investimenti non remunerativi.

Un riassetto incompleto e tardivo

L’accoglimento delle novità introdotte dalla Raccomandazione Gigabit si scontra in Italia con un riassetto proprietario delle tlc che porta in una direzione opposta a quella immaginata dalla Commissione. In particolare, è il ruolo dell’ex monopolista Telecom Italia ad essere ancora una volta chiamato in causa, in attesa di un definitivo chiarimento sul suo futuro come operatore non verticalmente integrato. Sin dalla privatizzazione, la sostenibilità economica di TIM è stata messa a dura prova da una combinazione di fattori endogeni ed esogeni. L’enorme mole di debito che pesa sui bilanci non avrebbe costituito però un problema insormontabile, tale da richiedere la vendita della rete, in presenza di assetti regolatori più favorevoli all’incumbent.

Le direttive dell’UE hanno accompagnato con successo l’armonizzazione e la liberalizzazione dei servizi di telefonia fissa, ma l’eccessivo carico di misure correttive ha impattato sugli equilibri di bilancio di Telecom Italia che, a differenza dei suoi omologhi europei, non godeva già all’epoca di ottima salute. A ciò si aggiunge la concorrenza fin troppo dinamica tra i telco in Italia, che ha portato ad un abbassamento dei prezzi delle tariffe al dettaglio in misura tale da impattare pesantemente sui ricavi di TIM.

Lo scorporo della rete, così come immaginato da Rovati diciotto anni fa, avrebbe rappresentato una soluzione lungimirante per un problema che si manifestava in un’epoca precedente alla transizione digitale per come la conosciamo oggi. Nel 2024 la vendita dell’infrastruttura è più un rimedio obbligato che il migliore possibile. In assenza di un aumento di capitale, sulla cui entità andrebbe aperto un discorso a parte, è difficile prevedere quanto sopravviverebbe TIM alle attuali condizioni. Concentrarsi su soluzioni alternative o ritardare quelle già pianificate avrebbe l’ulteriore difetto di ritardare gli investimenti che latitano non solo per ragioni economiche, ma anche per l’assenza di una prospettiva di medio e lungo periodo, essenziale per programmare uno sforzo di questo tipo.

In un futuro prossimo la Commissione potrebbe rimuovere quasi del tutto gli obblighi imposti a carico degli operatori verticalmente integrati, procedendo di pari passo allo switch off del rame. Il raggiungimento di un effettivo grado di concorrenza nel mercato delle tlc non dipenderà solo dalla regolazione dei prezzi all’ingrosso, ma riguarderà la capacità di remunerare gli investimenti garantendo ai consumatori servizi ad alto valore aggiunto a partire dalle utenze business. In questo contesto le dimensioni degli operatori saranno di cruciale importanza per sostenere gli effetti del cambiamento tecnologico e sarà inevitabile andare incontro ad un nuovo processo di consolidamento.

La vendita di Vodafone Italia a Swisscom è il primo passo dopo la fusione Wind 3 di un riassetto proprietario che nei prossimi mesi potrebbe coinvolgere anche la nuova TIM e Iliad. La parola chiave sarà la valorizzazione delle attività più redditizie che si concentrano nel segmento imprese, abbinate ad una drastica riduzione dei costi nella parte consumer. L’arco di tempo richiesto per una diffusione capillare delle smart city e di internet of things che sfrutteranno appieno le novità del 5G è troppo dilatato per consentire un immediato ritorno dell’investimento e ancor di più per provocare la migrazione di massa dal rame alla fibra, ancora assente in varie parti del paese.

Il principale ostacolo a questo processo è rappresentato dalla Commissione europea, che ad oggi si conferma il vero convitato di pietra. Se Vestager ha più volte manifestato la sua contrarietà ad un consolidamento deciso in laboratorio, i cui risvolti sul piano dei consumatori potrebbero non essere così positivi, Thierry Breton ha più volte richiamato la necessità di andare avanti nel processo di riassetto. Un possibile assist potrebbe venire dal rapporto sul mercato interno di Enrico Letta che nell’evidenziare le differenze tra l’UE e il resto del mondo nel numero e dimensioni degli operatori, ha sottolineato come per propiziare fusioni transfrontaliere sia prima necessario raggiungere un ulteriore grado di armonizzazione tra gli Stati membri.

Lo scenario immaginato implicherebbe un maggior coordinamento sul piano della governance, partendo proprio da quel super BERER abbandonato per timore di perdere le varie rendite di posizione a livello nazionale. Allo stesso modo, una gestione armonizzata delle frequenze permetterebbe all’Unione di non farsi trovare impreparata alla luce delle evoluzioni tecnologiche che porteranno di qui al 2030 al 6G e ad un uso dei satelliti nelle orbite LEO su larga scala. Infine, andrà chiarito una volta per tutte il contributo degli OTT alle reti, perché è inimmaginabile che lo sforzo economico necessario per adeguarle non ricada sui maggiori beneficiari.

 

Tim: una questione di sicurezza nazionale

Lo storico Greco Polibio, nell’analizzare le cause dei successi della Repubblica Romana, per primo traspose su un’opera il concetto di anaciclosi: una teoria dell’evoluzione caratterizzata dalla ciclica alternanza di fasi positive ma deboli e intrinsecamente instabili, destinate a mutare naturaliter in forme negative, incontrollabili e degeneri ma soprattutto portatrici di particolari vizi e difetti, specchio rovesciato della loro forma “benigna”. Con i dovuti distinguo, la storia recente di Tim (dalla privatizzazione del 1997 ad oggi), è stata senza dubbio “anaciclotica” e camaleontica. Ai regolari cambi di proprietà annunciati con ottimismo prima e rassegnazione poi dalla stampa di mezza Italia, ha fatto seguito un progressivo peggioramento dei rapporti e degli equilibri in capo all’azionista di controllo, anche a causa di delicate vicende giudiziarie, che hanno fatto di Telecom una gigantesca porta girevole in cui consumare un fugace passaggio. Con l’aggravante che il mercato in cui era solita ad operare da efficiente monopolista si è via via ristretto, tanto che oggi l’ampiezza dello scontro è proporzionale all’inesorabile declino che vede unicamente nella rete la sua ancora di salvezza. I 30 miliardi di debito che gravano come una spada di Damocle sulla testa della società, sono il punto di partenza per comprendere come lo scontro tra Vivendi ed Elliott rischi di tradursi in un pessimo affare per consumatori e investitori. Nessuno dei soci privati che si sono succeduti è riuscito a fare fronte ad un problema di per sé irrisolvibile: la contraddizione formale che ha portato i capitani coraggiosi a ritenere erroneamente di poter replicare con “l’Opa all’Italiana” (quella con annesso debito), quanto portato avanti su altre società privatizzate che tutt’oggi conservano un chiaro monopolio naturale, risolvendosi invece in un buco nell’acqua con la crescente concorrenza nel settore delle telecomunicazioni. Un giusto mantra che ha soffocato per sempre ogni possibilità di sviluppo futuro di Telecom Italia, così l’Italia si ritrova da pioniera della fibra coassiale della Stet di Ernesto Pascale, a dover immaginare scenari futuri di scorpori di rete o servizi per porre fine ad un profondo vulnus generazionale che ha segnato per un ventennio la nostra crescita economica e al quale, governo permettendo, non si è ancora trovata una soluzione. Perché le radici più profonde di Tim oggi bussano alla porta della stanza dei bottoni, reclamando una gerarchia di tutto rispetto nella narrativa pentastellata delle telco tanto cara a Casaleggio, ed è lecito pensare che un tassello chiave nella crisi diplomatica con la Francia l’abbia giocata proprio la sorte dell’ex monopolista contesa in borsa da Vincent Bolloré. La funzione organica di Tim infatti, non si estrinseca soltanto nella sua permeante presenza nelle abitazioni degli Italiani, ma attraversa la dorsale in fibra ottica Seabone di Sprakle sino a giungere in Israele e nel Medio Oriente, poi in Asia, America e nel resto del mondo. Anche Telsy poi, vera eccellenza italiana nel settore della cybersecurity, rappresenta la personificazione della sicurezza delle comunicazioni del nostro apparato statale, prima ancora che questo termine oggi tanto inflazionato prendesse piede. L’azienda nata nel 1975 in pieni anni di piombo allo scopo di fornire alle forze di polizia sistemi di comunicazioni cifrata, è diventata una controllata di Telecom Italia nel 1990, ed annovera tra i suoi clienti le più alte gerarchie Ministeriali, le forze armate e Palazzo Chigi. In uno scenario geopolitico di totale incertezza, una eventuale caduta di Telecom Sparkle, “snodo di telecomunicazioni di tutto il mondo occidentale” e dei telefonini di Telsy in mani straniere, rappresenterebbe la pietra tombale alle nostre ambizioni da potenza regionale in tutto il Mediterraneo, nonché un deficit di credibilità internazionale ormai da “protettorato” difficilmente recuperabile. Questa eventualità non solo è da scongiurare con tutte le forze che possono essere messe in campo, ma occorre sgombrare in fretta il cielo di Tim dalle fosche nubi che si addensano per far tornare il sereno, coniugando le necessità strategiche a quelle economiche. La decisione di uno scorporo della rete, disapprovata dall’Agcom per via del mantenimento di una univoca posizione dominante, opererebbe secondo i suoi detrattori a favore di una filosofia che non tiene conto del valore storico e sociale di Telecom Italia che verrebbe così smembrata e cannibalizzata in assenza dell’infrastruttura, unico asset di valore da porre come contraltare alla furia del debito e degli interessi miliardari che da 20 anni si pagano su di esso. Il conferimento della rete ad Open Fiber inoltre solleva parecchi dubbi sul piano occupazionale visti i possibili esuberi all’orizzonte in un clima di congiuntura negativa, Tim non si farebbe trovare impreparata avendo ridotto progressivamente l’organico ma ciò potrebbe comunque non bastare ad evitare il rischio di un uso massiccio delle cesoie.

Una soluzione opposta che risolverebbe i problemi di quest’ordine potrebbe essere lo scorporo del gestore di servizi, che sarebbe comprensivo dei rami commerciali di vendita e distribuzione, ramificati in tutta Italia. La nuova società sarebbe pesantemente alleggerita dal carico del debito che continuerebbe a gravare parzialmente su Tim Reti, in misura tale da non compromettere gli investimenti avviati da Open Fiber e da consentire allo stesso tempo alla neonata Tim servizi una strategia di ampio respiro basata sullo sviluppo del 5G, che ha visto nel frattempo un esborso notevole (record europeo e forse mondiale) alle aste di aggiudicazione delle frequenze. L’infrastruttura rimarrebbe dentro il perimetro della società storica, insieme agli altri asset strategici del gruppo: Sparkle, Telsy ed Inwit che sarebbero così messi definitivamente al riparo dalle tempeste del mercato.

Con lo scorporo di Tim Servizi, Tim Reti potrebbe continuare la sua politica di esuberi controllati con l’appoggio delle forze sociali più rappresentative, decidendo a tavolino anche una quota del debito da trasferire alla neonata società. A questo punto entrerebbe in gioco Vivendi, che vedrebbe di buon occhio come ponti d’oro una storica fusione del ramo dei servizi con Mediaset, un’operazione da sempre rimandata che però parrebbe destinata ad avverarsi nel prossimo futuro, in assenza del rischio di integrazione verticale ravvisato dall’Antitrust.

Una terza soluzione, che parrebbe quella più praticabile da CDP ed Elliott nel terreno borsistico, è il rafforzamento della presenza del “sindacato di voto” ostile a Vivendi nell’azionariato di Tim. La società francese ha svalutato per la seconda volta da luglio il valore della sua partecipazione di poco più di un miliardo e questo agevolerebbe le mire di controllo sul CDA in caso di una nuova convocazione. Al di là dei tatticismi da adoperare nel breve periodo, rimarrebbe lo scetticismo sul raggiungimento di un accordo stabile che decida una volta per tutte il destino della società, ammesso e concesso che Vivendi non molli la presa, senza una visione di lungo periodo a perderci sarebbe unicamente l’Italia. Non Elliott di sicuro che gode già di un paracadute che dimezza le perdite del valore azionario e nemmeno Bolloré che potrebbe decidere di cedere a caro prezzo le proprie quote ponendo fine alla sua calata ostile in Italia.

In ogni caso con il ridimensionamento del raider Bretone i dubbi che si palesano sulla proprietà degli asset strategici andrebbero progressivamente a scemare e si aprirebbero nuovi scenari sull’agenda digitale, che potrebbe essere portata a conclusione in tempi ragionevoli con maggior afflusso di capitali. Recuperare il divario accumulato nel tempo è una necessità oramai improcrastinabile 25 anni dopo il congelamento del lungimirante progetto SOCRATE. Le infrastrutture materiali e immateriali sono oggi l’unico gold standard praticabile (meglio se con l’apporto di risorse private) per condurre l’Italia fuori dalle sabbie mobili della recessione e verso una sana ripresa economica, che non può prescindere da moderne e sicure telecomunicazioni.

*Giovanni Maria Chessa, collaboratore Charta minuta