QUALE RIFORMA DEL CODICE PENALE

Il codice penale, attualmente in vigore, è stato redatto in età fascista (1931) ad opera del ministro della Giustizia e degli Affari di Culto il sassarese Alfredo Rocco. Il codice penale nella prima parte statuisce sul reato in generale, con una prolusione fortemente formalistica e improntata al principio del doppio binario (uno fortemente legalistico con precisione normativa e chiarezza sistematica e un altro fortemente repressivo sotto il principio delle misure di sicurezza).

Questo principio del doppio binario ha passato indenne nei suoi aspetti finalistici l’entrata in vigore della Carta Costituzionale e sia la messa in funzione con precise norme di rango costituzionale della Corte Costituzionale, organo che giudica, tra gli altri conflitti, la costituzionalità delle leggi.

La Costituzione in ambito penale ha previsto particolari disposizioni, esplicitamente l’art. 25 secondo comma della Costituzione: “Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso” e il terzo comma dello stesso: “Nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza se non nei casi previsti dalla legge” ; e l’art. 27 primo comma Costituzione: “ La responsabilità penale è personale”.

Da questi due articoli derivano altri corollari, non disciplinati specificatamente dalla Costituzione, quali quelli di determinatezza, tassatività, specificatezza. Nel corso dell’Italia repubblicana si è proceduto alla novellazione di parti del codice penale, ma mai alla revisione organica del testo penale con l’approvazione e la promulgazione di un nuovo codice penale.

Emergenze come quella subito dopo l’entrata in vigore della Costituzione, proteste di braccianti per le terre da redistribuire, non fiducia nella politica delle ali estreme sempre pronte a moti di piazza violenti che potevano sfociare nella rivoluzione, nella sovversione delle istituzioni repubblicane e nel cambio violento di governo retto sempre, seppur con variazioni, dalla Democrazia Cristiana.

Terrorismo, Mafia e altre organizzazioni hanno impedito l’approvazione di un codice penale che rispettasse il diritto penale minimo, il principio dell’extrema ratio e anche un nuovo principio quello dell’obbligo della motivazione della legge penale.

In Italia il rapporto tra autorità e cittadino è di reciproca sfiducia e questo non fa altro che rendere più accidentato e irto di ostacoli la riforma organica del codice penale, di riflesso anche il nuovo codice Vassalli del del 1989 (riforma del codice di procedura penale) ha risentito della cultura profondamente inquieta del popolo italiano e di alcuni operatori del diritto penale, tant’è che non si può parlare di un codice garantista in senso stretto, perché permeato da reminiscenze inquisitorie e dalla previsione di riti speciali che rendono il codice disatteso nelle sue finalità.

La riforma organica del codice penale con la riformulazione di fattispecie incriminatrici diminuendo le stesse a pochi articoli di modo che il codice sia di più semplice consultazione per tutti i consociati e del diritto penitenziario, la detenzione in carcere non è l’unico modo espiare le proprie condotte antisociali e di tutela e dovrebbe essere limitato a reati gravissimi e di particolare allarme sociale.

Le esigenze di politica criminale che ha il legislatore devono avere come limite preciso il codice penale nei suoi aspetti fondamentali come Magna Charta del delinquente.

Si chiama Grande Riforma l’ambizione più grande

In questi ultimi giorni o settimane il tema delle riforme costituzionali sembra di nuovo tornato al centro dell’agenda politica del Governo e della maggioranza che lo sostiene, motivo per cui è forse opportuno cercare di fare il punto almeno su alcuni dei modelli chiamati in causa.

Quando si utilizza il concetto di forme di governo in sostanza si fa riferimento alle regole che presiedono i rapporti tra i poteri dello Stato, diversamente dalle forme di Stato che ineriscono alla relazione che intercorre tra cittadini e Stato (forma di stato democratica, liberale, autoritaria…). Vi sono una serie di modelli astratti: si ragiona, tra le altre, di forma di governo parlamentare, presidenziale, direttoriale. Tali modelli, tuttavia, rimandano quasi sempre a ben precisi paradigmi che si sono inverati nella prassi. Questo perché sulla forma di governo incidono molteplici fattori che mutano ovviamente da Paese a Paese e che quindi condizionano anche l’assetto istituzionale: il sistema dei partiti, la legislazione elettorale, il livello di decentramento, solo per citarne alcuni.

Presidenzialismo e dintorni

Ciò nondimeno, si possono indicare alcuni punti di riferimento in relazione alle varie ipotesi sul tappeto. Innanzitutto la forma di governo presidenziale. L’archetipo di tale modello, a cui anche i manuali di diritto rimandano quando si tratta di illustrarne le caratteristiche, è quello disegnato dalla Costituzione degli Stati Uniti d’America. Se l’elezione diretta del Capo dello Stato è caratteristica immancabile di questo modello, tipica è anche la concentrazione di poteri in capo al Presidente che è di norma il vertice indiscusso del Potere esecutivo (sempre riferendosi agli Stati Uniti, non si ragiona nemmeno di ministri ma di segretari di Stato, che sono ovviamente nominati dal Presidente e da questo revocabili in ogni momento). In Europa è una forma di governo poco diffusa e le esperienze maturate, ad esempio, in alcune realtà dell’America latina non hanno dato sempre buona prova di sé. Negli Stati Uniti – Paese che appunto funge da paradigma – si tratta di un assetto che ha resistito all’usura del tempo, senza per vero mai creare situazioni che ne consigliassero un superamento, nemmeno nei periodi più critici della storia americana. Questo perché il sistema è ispirato al principio dei pesi e contrappesi (checks and balances), di modo che la concentrazione di poteri in capo al Presidente risulta di fatto mitigata. Essa infatti è controbilanciata da una serie di elementi, tra cui le prerogative di controllo riconosciute in capo agli organi parlamentari, la cui maggioranza non sempre coincide con quella che ha espresso il Presidente; la presenza di un potere  giudiziario forte, connotato da una Corte Suprema che non di rado ha operato come “contropotere” rispetto anche a scelte presidenziali; infine il potere – da parte degli organi parlamentari – di mettere sotto accusa il Presidente in caso di commissione di reati (impeachment).  Si tratta di elementi per lo più caratteristici del sistema statunitense e non facilmente trapiantabili in altri contesti. Quello che è chiaro è che, laddove il sistema dei checks and balances non sia così sviluppato, il sistema difficilmente avrebbe lo stesso “rendimento” che si registra negli Stati Uniti.

Si è nel tempo sviluppata una variante di questa forma di governo che riunisce elementi tipici della forma di governo presidenziale e tratti caratterizzanti di quella parlamentare: da una parte l’elezione del Presidente della Repubblica, dall’altra il necessario rapporto di fiducia – sconosciuto nelle forme di governo presidenziali – che lega Governo e Parlamento e  da cui dipende la stessa esistenza del Governo: se la fiducia viene meno, il Governo è tenuto a rassegnare le dimissioni.  Come l’archetipo del presidenzialismo è costituito dagli Stati Uniti, il paradigma utilizzato per ricostruire il modello semipresidenziale è dato dalla Francia. Si tratta di uno schema in cui il Presidente della Repubblica è eletto dal popolo ma condivide, pur avendone l’indubbia primazia, il potere esecutivo con un Capo del governo che per vero lui stesso nomina e che deve essere sostenuto dalla fiducia parlamentare. Il Presidente della Repubblica ha svariati poteri, che tuttavia possono anche essere meno ampi di quanto previsto nel modello francese.  Talvolta accade – e questa è una disfunzione del sistema – che il Presidente e il Parlamento siano espressione di maggioranze politiche diverse: si tratta dei casi che in Francia sono stati etichettati come “cohabitation”. Non sono molti in Europa i Paesi che hanno adottato il semipresidenzialismo.

I poteri del premier

Altra forma di governo che viene evocata, e di recente pare quella più gettonata, è quella del “premierato”, anche se in questo caso si può ragionare di forma di governo solo in senso atecnico. La proposta di un “Governo del Primo Ministro” era stata peraltro avanzata già alla fine degli anni Novanta da Romano Prodi. Con tale formula si vuole alludere in effetti non tanto ad una forma di governo specifica, ma a modelli anche diversi tra loro, accomunati però da una accentuazione di poteri del Capo del governo funzionale ad assicurare maggiore coesione all’interno della compagine governativa (anche alla luce del potere di nomina e soprattutto di revoca dei ministri riconosciuta al premier) e a garantire una maggiore stabilità degli Esecutivi. Tra gli altri poteri spesso riconosciuti in questi modelli al capo del governo vi è anche quello di sciogliere le Camere (potere che la Costituzione vigente include tra le prerogative del Presidente della Repubblica). Il premier gode di norma di una legittimazione popolare, che può essere anche indiretta. Proprio quest’ultimo è il caso della Gran Bretagna, ove il voto popolare non investe direttamente il Capo del governo ma, secondo una consuetudine costituzionale, viene nominato premier il capo del partito che ha vinto le elezioni. Si tratta di una designazione che è legata alla permanenza del premier alla guida del partito: perdendo la leadership del partito, le dimissioni del Primo Ministro saranno inevitabili (come di recente confermato dal caso di Teresa May).

Un’altra variante del modello prevede l’investitura popolare diretta del Capo del governo, anche se l’Esecutivo deve comunque avere la fiducia delle Camere. Questo modello è stato denominato “neo parlamentare” e risulta oggi praticamente sconosciuto nel panorama del diritto comparato (se si accentua un periodo di vigenza di esso in Israele). Nell’ambito di questa forma di governo può essere previsto che in ogni caso di cessazione dalle funzioni del Presidente eletto dal popolo si determini automaticamente  lo scioglimento delle Camere, con un meccanismo simile a quello che nel nostro ordinamento è stato adottato nelle Regioni ove vige, con riguardo al Presidente della Regione eletto dal popolo e al Consiglio regionale, il meccanismo del simul stabunt, simul cadent  che comporta lo scioglimento del Consiglio in caso di mozione di sfiducia, dimissioni o morte del Presidente (art. 126 Cost.).

Se si pone l’accento sui poteri del Capo del governo, anche la forma di governo vigente in Germania può essere fatta rientrare tra i modelli connotati dalla centralità di questa figura, fattore che ha contribuito ad assicurare una tendenziale stabilità degli Esecutivi nella recente storia costituzionale tedesca. Non a caso si ragiona di Cancellierato, rimarcando in tal modo il “peso” del Cancelliere nelle dinamiche dei rapporti tra i vari poteri dello Stato. Tale centralità conosce due declinazioni. Da una parte il Cancelliere, pur eletto dalla Camera “politica” (il Bundesrat) e non direttamente dal popolo, dispone di poteri più ampi del nostro Presidente del Consiglio: tra le sue prerogative spicca quella di poter nominare e revocare i ministri che compongono il Governo. Dall’altra parte la sua posizione è rafforzata dal fatto che ogni tentativo di togliere il sostegno parlamentare al Governo passa attraverso la cosiddetta “sfiducia costruttiva”, con ciò intendendosi quel meccanismo in base al quale la mozione di sfiducia può avere corso solo nel caso in cui l’Assemblea elegga a maggioranza un successore, chiedendo quindi al Presidente federale la revoca del Cancelliere in caria.

Al netto di tutto questo, tra i vari elementi che condizionano la forma di governo e il suo funzionamento, è da considerare pure il tasso di decentramento esibito dai vari sistemi. È significativo a questo proposito comparare due modelli che pure condividono la finalità di conferire al vertice dell’Esecutivo poteri più penetranti. Da una parte il modello francese, fortemente centralista, e dall’altra il modello tedesco, che dà vita ad uno Stato federale, caratterizzato dalla presenza di una Camera del Länder (Bundesrat). Si tratta di un elemento da prendere in considerazione in quanto tocca i rapporti tra cittadini e istituzioni: il disegno, diverse volte abbozzato, di dare vita ad un Senato delle Regioni, limitando alla sola Camera le funzioni squisitamente politiche (in primis la fiducia), forse non andrebbe dismesso, avendo esso il pregio non solo di poter convivere con modelli costituzionali anche diversificati tra loro, ma anche di completare il processo di decentramento della nostra Repubblica (art. 5 Cost.), anche al fine di porre rimedio alle disfunzioni prodotte dalla riforma costituzionale del 2001,che ha finito per scaricato sulla Corte costituzionale un contenzioso tra Stato e Regioni che sarebbe preferibile trovasse altre e diverse sedi di composizione.

Quelle tratteggiate sono solo le linee essenziali di alcuni dei modelli a cui ci si può ispirare, essendoci poi numerosi altri profili che connotano le forme di governo sommariamente descritte e a cui si sta in questo periodo guardando.

 

Condizioni da rispettare

Quello che è in ogni caso essenziale osservare è che le forme di governo vivono in determinati contesti storico-politici le cui caratteristiche finiscono per determinarne il successo. Il mero trapianto di paradigmi costituzionali difficilmente può dare gli stessi risultati prodotti nei sistemi dove quei sistemi si sono sviluppati.  Oltre all’esperienza britannica, ove le consuetudini, di livello costituzionale, costituiscono la fonte principale del sistema di governo, anche nei sistemi di civil law la prassi gioca un ruolo decisivo nel funzionamento delle istituzioni.  L’ingegneria costituzionale non appartiene certo al novero delle scienze esatte, dipendendo la forma di governo da molte variabili, alcune delle quali non modificabili poiché legate al codice genetico di ciascun ordinamento.

Ciò nondimeno un intervento mirato sui meccanismi di funzionamento delle istituzioni potrebbe determinare gli effetti desiderati, a patto che alcune condizioni siano rispettate. In primo luogo, data per scontata la chiarezza degli obiettivi perseguiti, vi deve essere un nesso di consequenziarietà tra gli interventi messi in campo e i risultati che si vogliono raggiungere, ad esempio la sempre evocata stabilità degli esecutivi. In secondo luogo va considerato che un diverso quadro di regole costituzionali potrà innescare positive dinamiche a livello di sistema solamente se le forze politiche saranno disposte ad assecondare il cambiamento determinato dal nuovo assetto normativo con comportamenti che, adattandosi al mutato contesto, migliorino la “resa” della macchina. Si tratta di comportamenti che, se reiterati nel tempo, potranno dare luogo a convenzioni o a consuetudini costituzionali che, colmando le inevitabili lacune del tessuto normativo, contribuiranno a metterne a fuoco il significato alla luce delle finalità sottese al procedimento di revisione costituzionale.

In definitiva il nuovo quadro di norme, seppure imprescindibile, non esaurisce certo l’intero processo di revisione costituzionale, che conosce un prima – costituito dalla fase progettuale che deve tenere conto delle particolarità del nostro sistema istituzionale – e un dopo – dato dal recepimento del nuovo quadro normativo da parte del sistema politico –, momenti questi non eludibili nella prospettiva di una realizzazione compiuta del disegno riformatore.

Tutto si tiene: Governo più forte e autonomia differenziata

Se la prima età repubblicana è stata caratterizzata da una lenta e macchinosa fase di attuazione dei precetti costituzionali, è dagli anni ottanta del Novecento che il tema delle riforme costituzionali ha cominciato a farsi sempre più impellente, non a caso in coincidenza con la caduta del Muro di Berlino e grazie ad un nuovo clima internazionale.

A ben guardare ci hanno provato un po’ tutti, spesso con risultati poco entusiastici, nonostante le iniziali roboanti promesse.

La prima Bicamerale, infatti, fu costituita nel 1983 ed era presieduta dal deputato Aldo Bozzi, da cui prese il nome. I lavori coinvolsero 40 parlamentari – divisi equamente fra i due rami del Parlamento – e durarono 50 sedute. Uno sforzo che giunse ad un nulla di fatto, così come capitò alle esperienze successive, con la Bicamerale De Mita – Iotti del 1992 e quella presieduta da D’Alema nel 1997.

Risonanti speranze, per l’appunto, cui non si è mai riusciti a dare seguito, per l’incapacità di trovare un equilibrio istituzionale che sapesse dare concretezza alle differenti richieste che emergevano dal tessuto sociale, economico e politico.

Sarà solamente il frastuono di tangentopoli e la distruzione della partitocrazia a provocare uno scossone, prima di tutto rimodulando l’immunità parlamentare – il tema all’epoca più scottante –, attraverso la legge costituzionale n. 3 del 1993 che riscriveva l’articolo 68 della Costituzione, passando da un regime di autorizzazione a procedere ad un regime di autorizzazione ad acta e riducendo sensibilmente le prerogative del potere politico innanzi a quello giudiziario.

L’altra tematica all’epoca scottante fu certamente quella collegata alla “questione del nord”, strettamente connessa alla formazione di nuove realtà politiche a stampo regionalistico e dalla forte impronta identitaria ed autonomista, che vedevano in una differente rimodulazione del rapporto tra centro e periferia la strada verso un ammodernamento della macchina istituzionale.

Gianfranco Miglio fu il pensatore – e il politico – che, con tutta probabilità, incarnò meglio di tutti questa sensibilità. Il celebre teorico, invero, aveva cominciato ad occuparsi di riforme dall’inizio degli anni ottanta, quando, con un gruppo di studiosi poi conosciuti come “Gruppo di Milano” puntava a risolvere il deficit di capacità decisionale dell’Esecutivo attraverso una serie di correttivi molto pervasivi, tra cui l’elezione diretta del primo ministro, il meccanismo della «sfiducia costruttiva» e il rafforzamento dei poteri della Corte costituzionale. Accanto a questa prospettiva, altrettanto marcata era la polemica contro lo Stato unitario e accentratore, da sostituire con un modello federale che, sull’esempio dei cantoni svizzeri, dividesse la Penisola in alcune grandi aree macroregionali, partendo dal presupposto dell’artificiosità della segmentazione prodotta dal Costituente.

Per evitare una deriva schiettamente federale, le forze del centro-sinistra nel 2001 diedero vita ad una riforma, nata zoppa e che non ha prodotto gli effetti sperati: essa si strutturava attorno al principio di sussidiarietà, per cui l’azione di governo si dovrebbe svolgere attraverso il potere possibilmente più vicino ai cittadini, mentre alle Regioni fu attribuita autonomia legislativa più ampia rispetto all’originario disegno costituzionale, essendo stato previsto che lo Stato disponesse solamente di alcune competenze esclusive, mentre poi – tolte alcune materie dove permaneva la competenza concorrente tra Stato e Regioni – tutto il resto sarebbe diventato di competenza regionale. Di fatto questi decenni hanno dimostrato come la competenza residuale si sia ridotta a ben poca cosa, anche grazie ad una lettura estensiva che la Corte ha dato delle materie di competenza esclusiva dello Stato. Veniva anche riconosciuta una maggiore autonomia finanziaria in capo agli Enti, tuttavia tutta da attuare per via legislativa.

Questa riforma si inserisce in un claudicante percorso che con il nuovo Millennio ha conosciuto tre tentativi di metter mano al testo costituzionale in maniera organica, attraverso il meccanismo previsto dall’articolo 138, per il quale le modifiche «sono adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi, e sono approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda». Inoltre, ove non vi sia stata una approvazione a maggioranza di due terzi dei componenti, è possibile sottoporre il testo a referendum confermativo.

Se nel 2001 si giunse ad interpellare il popolo, con un esito positivo, nelle esperienze successive – targate Berlusconi nel 2006 e Renzi nel 2016 – il risultato fu negativo, bloccando cambiamenti più strutturati e incidenti il complesso dei poteri istituzionali.

Questi precedenti aprono al delicato problema del metodo da adottare per completare positivamente un iter di riforma costituzionale: ad oggi, infatti, risultano aperti tavoli di lavoro che sembrano muoversi parallelamente.

Da una parte la riforma delle autonomie sotto la spinta del ministro Calderoli, cui è affidato l’arduo compito di determinare i livelli essenziali delle prestazioni riguardanti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale. Si tratta di un processo che muove dall’anomalo referendum consultivo indetto dalla Regione Veneto – poi seguita dalla Lombardia – nell’ottobre 2017, in cui quasi cinque milioni e mezzo di elettori regionali sono stati sollecitati a conferire mandato ai rispettivi vertici esecutivi per dare concretezza al terzo comma dell’articolo 116 della Costituzione, in cui si prevede che «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia possono essere attribuite alle Regioni [ordinarie], con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei principi di cui all’articolo 119». Si tratta di trovare un nuovo equilibrio in relazioni a quelle funzioni che possono essere richieste dalla Regione e – trovato l’accordo con il Governo – poi trasferite, puntando ad una più elevata qualità dei servizi erogati a beneficio dei cittadini e del territorio e utilizzando le risorse secondo criteri di economicità e produttività.

Dall’altra parte la questione della forma di governo, che ha di recente visto aprirsi un tavolo di confronto tra la maggioranza e le opposizioni.

Quindi, il tavolo dedicato alla giustizia, le cui connessioni in caso di riforma costituzionale non possono essere sottovalutate, se solo pensiamo alle implicazioni relative alla guida del Consiglio Superiore della Magistratura e della nomina dei giudici costituzionali da parte del Presidente della Repubblica. Si tratta di competenze certamente da ripensare in caso di adozione di una forma di governo di tipo presidenziale.

Appare evidente come tutti questi aspetti debbano essere tenuti assieme e coordinati, per aggirare nuovi sfasamenti e per evitare di incespicare in un nuovo decennio di tentativi di riforma inconcludenti o velleitari, tra spinte riformiste e tendenze a conservare lo status quo.

L’intento dell’attuale maggioranza è quello di trovare una sua sintesi interna, alimentando sia le spinte autonomiste quanto quelle di potenziamento dell’Esecutivo: due pilastri attorno ai quali trovare la necessaria sintesi politica, dando così ascolto alle istanze di modernizzazione di cui il Paese ha obbiettivamente necessità.

Se l’idea di diventare i demiurghi della Costituzione attrae quanto Ulisse dalle Sirene, la recente storia, però, racconta come sia un tema su cui quasi tutti quelli che si sono cimentati nel tentativo di riforma hanno finito per farsi male.

La solidità di Giorgia Meloni appare al momento incontestabile, ma non dovrà sottovalutare gli inciampi di un percorso affascinante quanto periglioso: sono carte da giocare solamente quando in mano si è certi di avere una scala reale.

Scuola e università appunti per una riforma

Negli ultimi anni la scuola è stata soggetta a molte riforme che non hanno risolto i gravi problemi che  sono ancora tutti sullo sfondo.

Problemi come la forte dispersione scolastica, l’ignoranza degli studenti in discipline fondamentali, come la matematica, la lingua Italiana, le lingue straniere per citarne alcune.

Tutti i livelli scolastici sono totalmente  inadeguati alla formazione e alla acquisizione di competenze dei discenti con profonde lacune anche nelle facoltà universitarie e nel mercato del lavoro, con imprese che non riescono a trovare profili giusti da inserire nel proprio organico.

Questi problemi rendono il nostro sistema economico profondamente inadeguato nella competizione globale.

Bisogna che ci sia un piano serio con pochi punti che sia soggetto all’attenzione del legislatore (la importantissima formazione professionale è quasi totalmente delegata alle Regioni come disposto dall’articolo 117,  comma 2 della Costituzione):

 

1- Potenziamento delle scuole dell’Infanzia con personale qualificato e

con Sussidiari di facile comprensione  e con compiti zero a casa,

(si insegna a scuola, si impara a scuola si studia a scuola);

2- Portare la Scuola Media Superiore di primo grado dal ciclo di tre

anni a  quattro con potenziamento dell’Educazione Tecnica,

dell’Educazione Artistica, dell’Educazione Civica con zero compiti a

casa privilegiando lo studio a scuola; introdurre lo studio della

lingua latina, greca e lo studio della Filosofia.

3- Biennio della Scuola secondaria di secondo grado uguale per tutti  e

    Triennio di specializzazione.

4– Formazione universitaria a numero aperto per alcuni corsi e a

numero chiuso per altri (dove è più alto il numero degli iscritti non

assorbili mercato del lavoro), impegnando il Ministero

dell’Università e della Ricerca ad elaborare un piano annuale di

fabbisogno di iscrizione

destinando gli studenti che vogliano accedere all’Istruzione

Universitaria a corsi di studi con maggiori sbocchi lavorativi.

Valutare se trasformare le Università in Fondazioni (istituti di diritto

privato)  aperte al contributo finanziario, culturale delle Imprese

sempre sotto la vigilanza del Ministero;

     5- Riforma del concorso a preside (dirigente scolastico) con nomina del

Ministro previo parere del Provveditore agli Studi di insegnanti con

più anzianità di servizio, il  preside deve tornare ad

occuparsi approfonditamente della didattica e della preparazione

dei discenti. Le questioni economiche totalmente da delegare al

DSGA, il preside manager non è funzionale al sistema scolastico

italiano;

La formazione scolastica ed universitaria  sono fondamentali per la crescita culturale, sociale ed economica  della Nazione.

Le riforme devono mettere al centro del sistema il discente ed il suo successo scolastico e lavorativo.

IL TRENO DELLE RIFORME

È come la faccenda del dito e della luna. Con la differenza che, stavolta, anche indicando la luna, è impossibile distogliersi dal dito, che pretende attenzione prioritaria. Insomma, il dito è l’emergenza in  cui siamo immersi anche in questo inizio 2023. E la luna sono le cose importanti che il governo Meloni intende realizzare nell’orizzonte temporale della legislatura. Per dare un senso, lasciare un’impronta, segnare il futuro. Che fare? E come fare?

La manovra finanziaria è stata quasi interamente assorbita dalle emergenze ereditate, altrettanti macigni ad ostruire il cammino per colpa della maledetta guerra in Ucraina  che – tra poche settimane – segnerà un anno dall’aggressione russa. Se le cose non cambieranno, e non si vedono segnali perché possano cambiare, a fine marzo occorreranno altri interventi, a sostegno e ristoro di imprese e famiglie, tra bollette sempre più care, energia a prezzi proibitivi e inflazione pericolosamente (stabilmente?) a due cifre.

Eppure, la luna è là, c’è il dovere di provare a realizzare quelle ambizioni, che hanno un cuore antico e dovranno essere il cemento migliore per una coalizione politica e strategica che non può essere una semplice sommatoria dei voti conquistati. Il 2023 deve sancire la partenza del treno delle riforme. E deve farlo, sulla spinta del governo, riaffermando la centralità del Parlamento per l’intero iter del processo riformatore. Un confronto coinvolgente potrà dare buoni frutti sull’asse portante di un nuovo assetto costituzionale. Presidenzialismo, certo, da realizzare secondo le declinazioni che, nel confronto, troveranno i maggiori consensi e le più convincenti ragioni a sostegno di una riforma radicale, importante, degna di una Nazione democratica occidentale ed europea. Autonomia, certo, per realizzare una riforma nel segno della sussidiarietà, che dia maggiori poteri e responsabilità alle regioni, in un quadro unitario che non solo non allarghi il divario tra nord e sud ma, al contrario, dia alle regioni del Mezzogiorno la carica indispensabile per una definitiva liberazione dai gravami di un passato oneroso che dovrebbe essere rinnegato, abbandonato e superato definitivamente.

Il treno delle riforme può partire presto, ché è già tardi. Non ha costi aggiuntivi, né coperture da trovare nelle pieghe del bilancio. L’iter andrà realizzato con lo strumento parlamentare più idoneo, probabilmente una commissione bicamerale ad hoc che, sulla spinta di una maggioranza parlamentare determinata e decisa, potrebbe conoscere sorte migliore di quelle che, nei decenni, l’hanno preceduta, nonostante l’impegno di quanti furono chiamati a presiederle (Bozzi, Iotti, D’Alema). Ogni passaggio andrà comunicato agli italiani, perché nessuno si senta escluso da un  processo riformatore di portata epocale. Ferme restando le prerogative del Parlamento come luogo centrale del processo riformatore, a dargli spessore e sostanza potranno servire anche gli Appunti di Giorgia,  che il capo del governo saprà utilizzare anche per informare, aggiornare, coinvolgere gli italiani. Non sarebbe solo un modo di governo attraverso gli strumenti di comunicazione più diffusi. Sarebbe anche una forma di comunicazione assolutamente democratica. Tra i molti precedenti in questo senso, è bene ricordare quello, autorevolissimo e fortunato, che vide protagonista quasi un secolo fa il presidente americano Franklin Delano Roosvelt, che ogni sabato incontrava milioni di connazionali parlando alla radio coi suoi Dialoghi del Caminetto. Presidente amatissimo, informava gli americani sulle cose che l’amministrazione stava realizzando per superare la grave crisi del ’29. Lo faceva con un linguaggio semplice, che tutti comprendevano e apprezzavano perchè chiamava i cittadini e le famiglie a condividere responsabilità e speranze, doveri e ambizioni di quel grande paese.

L’Italia ha bisogno di riforme – assetto istituzionale, giustizia, fisco, pensioni – che quanto prima vanno avviate, incardinate, guidate lungo un percorso che dovrà concludersi entro i prossimi quattro anni, con una legge elettorale che sarà completamento coerente e, finalmente, duraturo perché coerente con la rinnovata struttura istituzionale. Anno 2023, il treno delle riforme è pronto a partire. Se non ora, quando?

PARLAMENTO DI NUOVO CENTRALE

All’inizio di ogni legislatura si ripropone il tema del ruolo del Parlamento, di cui viene rimarcata la centralità in ogni sistema democratico, quale che sia la sua forma di governo. Anche nel presente contesto la questione si è riaffacciata forse con maggiore vigore rispetto ad altre occasioni. Ciò è dovuto probabilmente a due fattori concorrenti: il primo ha a che fare con i segnali di crisi che negli ultimi anni si sono registrati con riguardo al “posto” del Parlamento nel nostro sistema costituzionale; il secondo riguarda la natura marcatamente politica che connota il governo appena insediato che potrebbe avere ricadute anche con riguardo all’attività parlamentare.

In riferimento al primo profilo, è agevole osservare che la crisi del Parlamento ha avuto negli  ultimi anni diverse epifanie correlate a cause diversificate. Il discorso potrebbe essere lungo ma ci possiamo limitare ad alcune  esemplificazioni. In primo luogo non serve nemmeno rimarcare il ruolo subalterno che il Parlamento ha avuto rispetto al governo a far data dall’inizio della pandemia. Tutte le scelte relative alla gestione del fenomeno si sono concentrate sul governo non solo nel momento in cui l’emergenza si era manifestata ma anche in un secondo tempo, quando di fatto la recrudescenza della pandemia non era solo prevedibile ma era stata prevista: anche in tale frangente il Parlamento non ha avuto un ruolo significativo nonostante il  fatto che, come la dottrina giuridica insegna, ogni fenomeno emergenziale deve per sua natura essere temporaneo: solo a questa condizione il ricorso a strumenti eccezionali è consentito. E se nel primo periodo dell’emergenza si registra un utilizzo molto discutibile dei Dpcm, solo in parte “coperti” da fonti di grado legislativo, in un secondo momento vi è stato un uso insistito dei decreti legge, di norma convertiti de plano dal Parlamento proprio in considerazione dell’emergenza in atto. La situazione di tendenziale centralità del governo si è perpetuata anche a seguito dell’insediamento del governo Draghi in relazione alla gestione del PNRR, che ha visto il Parlamento in posizione piuttosto defilata.

Al contrario ad esempio di quanto avviene in Germania ove sempre alta è l’attenzione in relazione alla vigilanza sul rispetto dei limiti di competenza da parte  degli organi dell’UE (controllo ultra vires) e sul ruolo del Bundestag (il Parlamento federale) che non può essere pretermesso quando si tratta di decisioni che hanno ricadute significative sul bilancio dello Stato: sul punto si è pronunciata la Corte costituzionale tedesca (Bundesverfassungsgericht) con la sentenza del 6 dicembre 2022. Si tratta di una decisione particolarmente attesa in quanto relativa alle misure adottate dall’UE per fronteggiare la crisi epidemica attraverso forme di  indebitamento comune. Si evocava da parte dei ricorrenti anche una violazione dell’identità costituzionale tedesca, dal momento che le nuove forme di indebitamento sovranazionale avrebbero espropriato il Parlamento federale di un controllo effettivo sulle decisioni di bilancio. La Corte non accoglie tale doglianza avendo tuttavia occasione di ribadire che il Bundestag deve in ogni caso mantenere un’influenza rilevante sia rispetto al ruolo del governo federale sia delle istituzioni europee in relazione all’implementazione del NGEU.

Anche con riguardo al rapporto con le autonomie locali, si può evidenziare che il processo di attuazione dell’autonomia differenziata ha conosciuto una lunga parentesi di stasi, nonostante le indicazioni referendarie provenienti da alcune regioni coinvolte in questo processo. Ed è proprio la procedura parlamentare che non ha fatto passi in avanti per realizzare gli obiettivi di una ulteriore devoluzione di competenze ad alcune regioni. Sul punto il governo sembra intenzionato  a rimettere in piedi il processo disciplinato dall’art. 116 Cost. in tempi rapidi, collocando al centro della scena il Parlamento, come si desume dall’intervento del ministro per i rapporti con il Parlamento Luca Ciriani in occasione del question time alla Camera del 23 novembre 2022.  Secondo il ministro, il disegno di legge di attuazione avrà un duplice obiettivo: “Disciplinare in modo armonico e omogeneo la procedura per il raggiungimento delle diverse intese in costante dialogo con il sistema delle autonomie territoriali e favorire il confronto parlamentare, in modo da evitare che le intese, una volta concluse, possano precludere un’attenta valutazione sui contenuti da parte delle Camere”.

Con riguardo ai rapporti con la Corte costituzionale si registra un altro significativo caso di inerzia del Parlamento che si auspica non si replichi in futuro. Con una tipologia decisoria per vero non esente da dubbi accade che la Corte costituzionale, dopo avere prefigurato l’illegittimità costituzionale di una certa legge, e dopo aver constatato che diverse potrebbero essere le modalità con cui porvi rimedio, rinvia la trattazione della questione di norma di un anno. In questo modo la Consulta, in  uno spirito di collaborazione con il Parlamento, lascia uno spazio di tempo al potere legislativo per intervenire al fine di sanare la situazione di incostituzionalità. Questo modus procedendi è stato sperimentato per la prima volta nel noto “caso Cappato”, ma è stato riprodotto in relazione alla questione del “carcere per i giornalisti” ed anche con riguardo al cosiddetto ergastolo “ostativo”. Il Parlamento è rimasto inerte con riguardo al caso Cappato e la Corte è intervenuta con la sentenza n. 242 del 2019; lo stesso è accaduto nel caso del “carcere per i giornalisti”, che ha dato luogo alla sentenza n. 150 del 2021. In riferimento all’ergastolo ostativo, dopo un ulteriore rinvio della data dell’udienza da parte della Corte, il governo appena insediato ha infine provveduto col decreto legge n. 162 del 31/10/2022. L’intervento ha suscitato discussioni ma in tal modo si è per lo meno evitato che per la terza volta il termine scorresse invano e fosse la Corte costituzionale a dovere procedere alla dichiarazione di illegittimità.  Se è vero che in casi consimili, ove  non sussiste una soluzione che sia, come insegnava la migliore dottrina, a “rime obbligate”, forse una pronuncia di inammissibilità sarebbe più rispettosa delle prerogative del Parlamento, è anche vero che il silenzio del Parlamento è divenuto assordante, non essendo accettabile che l’inerzia si protragga sino a determinare una sostituzione della Corte al potere legislativo pur avendo l’organo rappresentativo avuto tempo per intervenire.

Anche a livello di fonti del diritto, in riferimento all’impiego della legge come fonte primaria per eccellenza, i dati non appaiono confortanti. Nel Rapporto sulla legislazione 2019-2020 predisposto dall’Osservatorio sulla legislazione della Camera dei Deputati (La legislazione tra stato, regioni e Unione europea. Rapporto 2019-2020) emerge lo stato della legislazione nel periodo considerato. Secondo le griglie utilizzate, la produzione risulta così ripartita: 28% leggi “istituzionali”; 13% leggi qualificate come “settoriali”; il 17% intersettoriali; 28% leggi “provvedimento”; 14% leggi di cosiddetta “manutenzione” normativa (contenenti limitate modifiche di assestamento alla normativa previgente). A queste categorie si aggiungono le leggi di bilancio e quelle di ratifica  dei trattati internazionali.  La percentuale di leggi che recano disposizioni che abbiano un carattere generale, e che quindi rispondono ai requisiti classici della “legge”, appare piuttosto modesta, del 28% (nella XVII legislatura la percentuale si è arrestata addirittura al 13%).

Un governo politico

Il quadro è completato dal proliferare di fonti subordinate, fin anche di soft law (cioè di atti di cui è pure dubbia la riconducibilità alle fonti del diritto) che erodono il territorio tipicamente coperto dalla legge,  e da un utilizzo dei decreti legge che, complice anche il periodo pandemico, non ha mai conosciuto in questi anni una flessione, nonostante i paletti posti dalla Corte costituzionale che consentono alla stessa Corte, pur in casi circoscritti, di sindacare i presupposi di necessità e urgenza che devono per Costituzione assistere i decreti leggi.

In sostanza da questi brevissimi cenni si desumono elementi di criticità in relazione alla centralità del Parlamento, sia con riguardo all’assetto delle fonti del diritto, sia riguardo al rapporto con le   autonomie regionali sia infine per quanto attiene alla tutela dei diritti, la cui garanzia si fonda, in primis, sulle riserve di legge che presidiano tutte le libertà costituzionali. Se questi sono gli elementi di crisi che rendono attuale il tema della centralità del Parlamento, l’insediamento di una nuova compagine governativa dai tratti marcatamente “politici”,  sorretta da una maggioranza sicuramente più omogenea di quanto accaduto nel recente passato per altri governi della  Repubblica, porta ancora a ragionare di centralità del Parlamento, ma in un senso diverso, alla stregua appunto di un obiettivo non solo auspicabile ma anche possibile. Non a caso il Presidente della Camera, nel suo discorso di insediamento, ha osservato che “la legislatura che sta iniziando dovrà avere il compito di riaffermare il ruolo centrale del Parlamento quale luogo delle decisioni politiche: dopo la parentesi imposta dalle emergenze che hanno attraversato la scorsa legislatura […]  è necessario che il Parlamento riacquisti la consapevolezza della sua funzione costituzionale, che è, primariamente, quella della definizione delle “regole” che impegnano tutti i cittadini”. Tutto ciò non solo costituirebbe un segnale di discontinuità apprezzato in modo tendenzialmente bipartisan, ma potrebbe sanare una situazione di subalternità dell’organo che incarna la rappresentanza popolare che corre il rischio altrimenti di divenire endemica. Sul tema  aleggia ancora il monito di uno dei più grandi giuristi del secolo scorso, Hans Kelsen, secondo cui “una sottrazione alla politica della legislazione significherebbe l’autodistruzione di quest’ultima”.

STAVOLTA E’ VIETATO FALLIRE

La narrazione politica vuole che i primi cento giorni di un esecutivo ne delineino i connotati. Invero, il primo governo a trazione femminile si è dovuto districare attraverso una complessa rete di questioni internazionali ed interne di non facile risoluzione, a partire da una finanziaria in parte ereditata e una guerra in territorio europeo di cui si fatica a vedere una positiva definizione, un contesto geopolitico pieno di timori nei confronti di un partito connotato politicamente a destra, il tutto tralasciando le polemiche quotidiane.

Tra i temi che necessariamente caratterizzeranno questa legislatura da poco insediata troviamo le riforme costituzionali, annosa questione che attanaglia l’agenda italiana almeno dagli anni Ottanta del secolo scorso.

La prima commissione bicamerale, infatti, fu costituita nel 1983 ed era presieduta dal deputato Aldo Bozzi, da cui prese il nome. I lavori coinvolsero 40 parlamentari – divisi equamente fra i due rami del Parlamento – e durarono 50 sedute. Uno sforzo che giunse ad un nulla di fatto, così come capitò alle esperienze successive, con la bicamerale De Mita – Iotti del 1992 e quella presieduta da D’Alema nel 1997.

Con il nuovo millennio per altre tre volte si è cercato di metter mano al testo costituzionale in maniera organica, attraverso il percorso previsto dall’articolo 138, per il quale le modifiche «sono adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi, e sono approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda». Inoltre, ove non vi sia stata una approvazione a maggioranza di due terzi dei componenti, è possibile sottoporre il testo a referendum confermativo. Sia nei tentativi del 2001 sia in quelli del 2006 e del 2016 si è giunti ad interpellare il popolo, e l’unico esito positivo fu il primo, mentre risultato negativo ebbero le due successive proposte – rispettivamente targate Berlusconi e Renzi – più strutturate e incidenti il complesso dei poteri istituzionali.

Soffermandoci su quanto accadde nel 2001, l’evidente intento dell’allora maggioranza di centro-sinistra fu quello di non lasciare alla sola Lega l’appannaggio di un argomento estremamente delicato come quello legato agli equilibri tra il centro e la periferia. A distanza di oltre vent’anni, Lombardia e Veneto – seguite a ruota dall’Emilia-Romagna – con enorme fatica e ritrosia statale stanno intavolando trattative con l’esecutivo con l’intenzione di ottenere i più ampi margini di autonomia legislativa e amministrativa e con il precipuo scopo di sostituirsi allo Stato nella gestione di competenze e funzioni, assumendosi la responsabilità e puntando ad erogare servizi di migliore qualità e a costi più contenuti.

Più autonomia

Si tratta di un percorso peculiare che muove dall’anomalo referendum consultivo indetto dalla Regione Veneto – poi seguita dalla Lombardia – nell’ottobre 2017 in cui quasi cinque milioni e mezzo di elettori regionali sono stati sollecitati a conferire mandato ai rispettivi vertici esecutivi per dare concretezza al terzo comma dell’articolo 116 della nostra Costituzione repubblicana, in cui si prevede che «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia possono essere attribuite alle Regioni [ordinarie], con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei principi di cui all’articolo 119». Si badi che l’intento di Governatori come Zaia e Fontana non è quello di abolire o modificare la Costituzione vigente, bensì di attuarla in quelle parti che sono rimaste per troppo tempo lettera morta, per dar corso al principio dell’autonomia regionale differenziata, previsto ma mai ancora realizzato.

Un’intesa tra Stato e Regioni che fin da subito è apparsa tutt’altro che facile e che si muove su un doppio binario, nel solco normativo dell’articolo 117 della Costituzione in cui sono elencate le materie potenzialmente attribuibili ai poteri periferici, e soprattutto in quello economico, collegato al problema della quantificazione del costo del livello delle prestazioni essenziali.

Quindi non si tratta di effettiva autonomia, ma di “margini” di autonomia, cioè di funzioni che possono essere richieste dalla Regione e – trovato l’accordo con il Governo – poi trasferite, aumentando il livello di concorrenza rispetto allo stato attuale, puntando ad una più elevata qualità dei servizi erogati a beneficio dei cittadini e del territorio e utilizzando le risorse secondo criteri di economicità e alta produttività.

Posto questo percorso già in atto, l’attuale maggioranza ha quindi cercato di trovare una sua sintesi interna prospettando una riforma in senso contemporaneamente autonomista ma anche presidenzialista, venendo incontro ai desiderata espressi dalle varie componenti della coalizione. L’architettura appare ancora da delineare contenutisticamente, dove, per l’appunto, l’autonomia viene proposta come uno dei due pilastri di un progetto istituzionale più ampio e che trova nel presidenzialismo l’altro necessario riferimento di sintesi politica.

Non è un caso che sia stato previsto un dicastero dell’Autonomia, affidato ad un nome storico del leghismo, quel Roberto Calderoli che ha appena cominciato la sua nona legislatura nei Palazzi romani. A ciò si deve necessariamente aggiungere il ripristino del ministero per le Riforme e la Semplificazione Amministrativa, anche qui non a caso assegnato ad un’altra forte personalità come l’ex Presidente del Senato Elisabetta Casellati. Ad onta di precisione, dopo l’esperienza del governo Gentiloni in cui non era stato previsto un ministero ad hoc, il Conte I lo aveva trasformato in “democrazia diretta”, mentre il Conte II e Draghi ne avevano conferito le attribuzioni al ministero per i Rapporti con il Parlamento.

È indubbio come la partita delle riforme sarà un campo minato quanto fondamentale: se da una parte non ci si può permettere di scontentare il proprio elettorato sul tema dell’autonomia (la Lega lo ha pagato non poco lo scorso settembre) senza però alimentare il divario tra nord e sud della Penisola, dall’altro bisogna coniugare questo percorso all’interno di un più esteso e razionale piano di modifiche costituzionali di cui il paese ha obbiettivamente necessità.

Se è evidente che un problema così delicato come la predisposizione delle regole del gioco deve trovare maggior sostegno possibile e sarà necessario il coinvolgimento di tutti gli attori politici, è altrettanto necessario che non si devono aprioristicamente demonizzare modelli soltanto perché distanti da quello attualmente in vigore, evocando inconsistenti timori di derive autoritarie. Il sistema presidenzialista – concetto generico in quanto apre le porte a più ipotetiche forme di governo – evoca una sorta di “primo cittadino” d’Italia, riproponendo lo schema oggi previsto per il sindaco dei Comuni o dei governatori delle Regioni. È evidente che si tratta di un vero e proprio salto quantico se comparato con l’esperienza attuale, che necessiterebbe di forti contropoteri ed una legittimazione reciproca dei partiti molto distante dalle pratiche italiche. Il nuovo Presidente non dovrebbe più nominare i giudici della Consulta né potrebbe evidentemente presiedere l’organo di autogoverno dei magistrati. Ciò comporta una totale revisione degli assetti istituzionali e degli equilibri in essere, con un vero e proprio cambio di mentalità.

Non dimentichiamoci, però, che anche l’elaborazione della nostra Carta fu accompagnata da aspre discussioni e pesanti critiche, se solamente ricordiamo lo sprezzante giudizio di un intellettuale come Gaetano Salvemini per cui «era una vera alluvione di scempiaggine. I soli articoli che meriterebbero di essere approvati sono quelli che rendono possibile emendare o prima o poi questo mostro di bestialità», oppure il giudizio di un giurista come Carlo Artuto Jemolo, che la considerava «piena di espressioni che non hanno nulla di giuridico».

Ciò che è certamente lapalissiano è la necessità di aggiornare un testo che ormai sente il peso degli anni, senza preconcetti e nella consapevolezza che non esiste il modello in astratto migliore, ma quello che meglio si addice alle circostanze culturali, storiche ed economiche, frutto del compromesso e dell’accordo dei soggetti in causa.

Il vero nodo risiede nel recupero della solidità delle forze politiche, che dovrebbero essere radicate nelle società, e non paradossalmente aggrappate allo Stato. Dove il Parlamento risultasse fragile ed incapace di un costante dialogo con il cittadino, tutto rischierebbe di essere sarebbe fallito in partenza.