Con Anedda la Sardegna garbata e raffinata

Con la scomparsa di Gianfranco Anedda la Sardegna perde un uomo che ne è stato illustre rappresentante nelle istituzioni Nazionali e Regionali. Cagliaritano, classe 1930, iniziò la sua lunga carriera politica a Palazzo Bacaredda come Consigliere Comunale nelle file del Movimento Sociale. Nel 1969 l’elezione in Regione dove rimase per vent’anni, guadagnandosi la stima e il rispetto degli avversari politici che riconobbero in lui un’intelligenza garbata e raffinata sempre accompagnata da signorilità ed eleganza nei modi. Doti apprezzate anche virtù della sua attività da importante Giurista e Avvocato penalista, condotta dall’alto di una profonda conoscenza del mondo del diritto, culminata con la nomina a Sottosegretario alla Giustizia nel primo Governo Berlusconi. Nel 2006 dopo tre legislature alla Camera in cui fu anche Capogruppo di Alleanza Nazionale, l’elezione al Consiglio Superiore della Magistratura come membro laico con 758 voti, che ne fecero il più votato in assoluto dal Parlamento in seduta comune. 7 in più di Nicola Mancino che tuttavia ne divenne Vicepresidente. Nel corso della consiliatura in più occasioni mise in guardia la Politica dai rischi della degenerazione del sistema correntizio della magistratura e rimarcò l’assoluta necessità di una riforma organica del CSM, anticipando con lungimiranza temi destinati prepotentemente a riemergere negli anni successivi. Un’attività intensa condotta in anni di scontro tra i poteri dello Stato con decisione e garbo istituzionale, nel rispetto di chi nutriva opinioni dissenzienti, mosso dalla ricerca di un compromesso per raggiungere soluzioni rispettose dei principi di indipendenza della magistratura e piena tutela dei diritti dei cittadini.
L’autorevolezza che lo ha accompagnato nel corso degli anni è stata il frutto di una lunga carriera votata all’impegno e al lavoro, i cui traguardi non hanno mutato la personalità che lo ha sempre contraddistinto: Uomo d’altri tempi, conservatore e amante delle libertà dell’individuo, è appartenuto ad una generazione ormai passata senza che ciò ne abbia pregiudicato la sagacia e la perspicacia delle sue analisi adatte ad ogni contesto storico. Il suo ricordo vivrà nella memoria, nelle idee e negli insegnamenti di uomini come lui, con cui il Centrodestra odierno dovrà senz’altro fare i conti per riscoprire la profondità e il garbo istituzionale unite all’attitudine al compromesso, senza rinunciare ai valori in cui credere, per vestire nuovamente i panni di governo senza illusorie improvvisazioni ma con consapevolezza delle capacità e dei propri limiti.

la strage di bologna e lo “stato profondo”

L’Italia repubblicana nasce con un atto di omertà. Una rimozione radicale del proprio vissuto, un’amputazione della memoria.

A più di Settant’anni dalla nascita dell’Italia democratica, la volontà e la capacità con cui fu da subito imposto il silenzio sulla tragedia patìta da centinaia di migliaia di italiani costretti all’esodo dall’Istria e dalla Dalmazia, ha ancora dell’incredibile.

Fu il frutto necessario di quello che Biagio Di Giovanni ha definito “il patto egemonico” con il quale Dc e Pci si spartirono da subito il potere in Italia, con un accordo che ricorda molto il Patto di Yalta. La loro egemonia durò fino al crollo del comunismo sovietico.

La fine dell’Urss non ha segnato però la fine dell’apparato dei comunisti in Italia, i cui esponenti si sono mimetizzati, forse trasformati, ma non hanno ceduto le posizioni di potere che avevano conquistato in ogni snodo dello Stato.

Non può esistere un’identità nazionale, una comunanza di destino, un riconoscersi come popolo in assenza di una storia condivisa. Ma è necessario che sia una storia vera. Non si può essere agnostici sulla storia, non si può dire “ognuno ha la sua” o chiamarsi fuori con frasi vili come “sono cose del passato, pensiamo al presente”. Perché è necessario che si sappia chi furono le vittime e chi i carnefici. Soprattutto se le vittime hanno pagato il fatto di essere come noi, di parlare la nostra lingua e amare la nostra Patria.

Non si può costruire una nuova Italia sulle menzogne. Chi controlla il racconto del passato è padrone del futuro, o comunque detiene su di esso un’ipoteca.

Per decenni il Partito comunista, tra connivenze e viltà, ha deciso cosa si poteva e doveva scrivere nei libri di storia, lanciando anatemi, esautorando, mettendo al bando e perseguitando chi si ribellava alla linea.

Ma la falsificazione storica è continuata per decenni anche nei tribunali e sui mezzi di informazione.

La vicenda Battisti, come ogni altra che ha riguardato i terroristi che combattevano dalla “parte giusta”, ha fatto riemergere non solo le reti di connivenza tutt’altro che disciolte, ma anche le manipolazioni giudiziarie che hanno permesso di deviare le indagini e guadagnare tempo sottraendo i colpevoli alla giustizia.

C’è un altro campo della storia sofferta della nostra Nazione che è ancora ostaggio del controllo che il Pci e i suoi associati esercitavano fino a pochissimo tempo fa sull’informazione e la magistratura: il capitolo giudiziario delle stragi.

Nulla esiste di più abietto che colpire alle spalle i propri vicini di casa, i propri concittadini, i passanti innocenti. In Italia le bombe sono scoppiate nelle banche, nelle stazioni e nei treni. Per il patto egemonico, tenuto insieme dalla pregiudiziale antifascista, determinare ancor prima che iniziassero le indagini che i colpevoli fossero “fascisti” era doveroso e naturale: doveva essere per forza l’altro da sé, un’incarnazione mostruosa dell’altro da sé. L’etichetta era a monte dell’individuazione del nome. Erano stati sicuramente i fascisti… poi si sarebbe deciso quali.

Non è causale che legittimi dubbi sulle indagini e le sentenze sulle stragi siano stati sollevati in modo argomentato e coerente proprio dopo la caduta dell’Urss e dei suoi satelliti. Grazie alle commissioni parlamentari sulle stragi, ma in particolare alla commissione Mitrokhin, è stato possibile accedere agli archivi dei servizi segreti dei regimi comunisti e svelare le reti di agenti dell’Est, scoprire il ruolo degli agenti operativi della Stasi della DDR in Italia, i traffici di armi e di esplosivi che venivano dalla Romania di Ceaucescu e servivano per seminare il panico in Europa, i patti scellerati di protezione e sostegno che esponenti dei nostri servizi di sicurezza avevano con i servizi nemici e con i loro gruppi di fuoco.

Grazie ai consulenti indipendenti che hanno lavorato per le commissioni parlamentari d’inchiesta – tra tutti meriterebbe una medaglia Gian Paolo Pelizzaro – sono stati scoperti documenti, indizi, riscontri sul sequestro di Moro e sulla Strage di Bologna che i magistrati e gli inquirenti italiani nei decenni avevano scientemente ignorato, lasciandosi guidare da depistaggi orditi dai vertici stessi degli apparati dello Stato e giungere a condanne a dire poco incerte.

Se, come è vero, lo Stato italiano è stato dominato da accordi oscuri fino alla caduta del Muro di Berlino, se il potere assoluto del “patto egemonico”, che ha permesso la coesistenza di una “Gladio Bianca” e una ormai altrettanto nota e identificata “Gladio Rossa”, se la politica di spartizione non si è fermata, com’è documentato, nemmeno sulle nomine dei magistrati e l’assegnazione dei processi e sulle nomine dei vertici dei Servizi di Sicurezza, non è solo legittimo, ma doveroso, stendere il dubbio sulla gestione di tutte le vicende più gravi e nebbiose della storia recente d’Italia. E valga d’esempio la scabrosa storia dell’abbattimento su Ustica.

Chiamarli “misteri” è ipocrita, perché invece tutti i documenti e tutti gli elementi per trovare la verità sono “custoditi” nei monumentali archivi delle commissioni parlamentari d’inchiesta. E molti documenti sono desecretati o solo riservati. Ma, scandalosamente, nessuno vuole vederli…

Se veramente vogliamo un’Italia nuova, forte, libera e giusta, dobbiamo fare i conti con l’Italia sbagliata sulle cui fondamenta stiamo cercando di creare la nuova casa comune. Perché quelle fondamenta sono marce e nei loro interstizi ancora covano le ombre.

Ancora oggi delle Foibe si parla poco e male. Qualcuno aveva persino consigliato al sindaco pentastellato Virginia Raggi di inviare staffette dell’associazione partigiani nelle scuole di Roma in occasione del giorno del ricordo dei martiri istriano-dalmati, per riaffermare la linea dei filo-titini. Nel 2019! E la stessa associazione, finanziata con ingenti somme pubbliche, ha lanciato iniziative negazioniste nei confronti dei massacri e insultanti nei confronti degli esuli e dei loro discendenti.

Questo significa che gli anti-italiani che hanno asservito l’Italia ai suoi nemici per mezzo secolo sono ancora forti, coesi e in condizione di sabotare ogni tentativo di ricostruire l’identità italiana e il senso di appartenenza dei suoi cittadini odierni e futuri.

Ci sono processi ancora aperti da quarant’anni, che in quarant’anni hanno fatto arricchire sicuramente qualcuno ma non certo la ricerca della verità.

Che a Bologna si stia svolgendo, nella distrazione e nel disinteresse, un ennesimo processo per la strage del 2 agosto 1980, con un unico imputato mai coinvolto nei precedenti processi e al quale si sta cercando, annaspando, di assegnare un ruolo nella vicenda in assenza totale di qualunque prova o indizio del suo coinvolgimento, è una vicenda che dovrebbe far rizzare i capelli in testa anche a chi non sa nulla del Diritto e della Giurisprudenza.

Esiste ancora uno “Stato profondo” che resta impermeabile ai cambiamenti, il cui potere non viene minimamente intaccato dall’opinione pubblica e dalla volontà popolare, che domina lontano dalle luci della ribalta e che teme la verità che possa esporre al giudizio pubblico la gestione criminale degli ultimi Settant’anni.

Voltare la testa, pensare che quelle vicende appartengano a un passato da seppellire anziché da scoperchiare, è un atteggiamento che avvantaggia solo chi ha commesso i crimini e chi, con depistaggi e manipolazioni, li ha protetti e ha allontanato le indagini indirizzandole in direzioni spesso opposte.

Chi non conosce e non conserva le proprie radici è destinato ad essere portato via dal vento. Chi pensa che la ricerca della verità sia una perdita di tempo finirà avvelenato dalla menzogna.

Migliaia di vittime italiani meritano la giustizia che gli è stata negata. Milioni di italiani meritano di conoscere la verità della propria storia, per potersi ritrovare e riconoscere.

In Italia nessun passato può passare davvero, perché chi si è imposto e ha consolidato il proprio potere sulla semina dell’odio fazioso e sulla falsificazione della storia – anzi, delle storie! – ancora oggi ha il potere di impedirlo.

 

*Marcello De Angelis,giornalista, già parlamentare

 

 

 

20 ANNI DOPO TATARELLA PIU’ VIVO CHE MAI

“La passione politica consiste nel credere in ciò che si fa, nell’amare la politica sia quando si è Vice Presidente del Consiglio sia quando si passa la notte a stampare un volantino in una sezione, la politica come battaglia per affermare le proprie idee, la politica con spirito di parte necessario a comporre quel tutto che poi è la vita democratica. Ecco, Tatarella era un uomo che aveva una grande passione politica, una passione politica che si forma in chi sale l’edificio anche del potere, degli onori, partendo dallo scantinato; ad ogni piano che sale sa che domani potrebbe ridiscendere quelle scale, ma questo non spezzerebbe la sua passione.”.
Sono già passati vent’anni dalla scomparsa di Pinuccio Tatarella, e, tra le tante, questa definizione di Massimo D’Alema, all’epoca Presidente del Consiglio, espressione del Pci e suo avversario, rispecchia più di ogni altra la vera essenza del Pinuccio politico, amministratore, uomo e giornalista.
In occasione del Ventennale della sua scomparsa la Fondazione An, partito da lui fondato, e la Fondazione Tatarella, fortemente voluta dal fratello Salvatore, hanno promosso venerdì 8 febbraio alle ore 11.00, alla Sala della Lupa della Camera dei Deputati un convengo con alcuni dei protagonisti di quella stagione politica come Gianni Letta, Roberto Maroni, Luciano Violante.
In questi venti anni la politica è cambiata profondamente: i comizi, la colla dei manifesti, i volantinaggi per le strade sono un ricordo antico.
Di Tatarella è sempre stata sottolineata la lungimiranza, la capacità di andare oltre gli schemi, dialogando anche con le parti avversarie.
Pinuccio Tatarella era un uomo semplice e semplici erano i valori e le abitudini che ha conservato anche durante le più alte cariche istituzionali: giocava a carte a Bari vecchia con amici e passanti, girava senza scorta anche dopo un attentato fallito di stampo mafioso che gli aveva indirizzato una bomba, preferiva il contatto diretto con la sua gente, a prescindere dalle ideologie.
Per questo è difficile immaginarlo oggi, nell’era dei social network, mentre digita un post; fedele com’era alla sua macchina da scrivere dalla quale sono nati giornali e riviste per mano sua per divulgare cultura e politica.
Una passione, quella del giornalismo, ma anche uno strumento in cui credeva molto per formare le nuove generazioni.
Ma è stato proprio quel suo modo di fare, sempre spontaneo, imprevedibile e a volte irriverente, a fare di Pinuccio un uomo “social” prima ancora che i nuovi mezzi di comunicazione e diffusione della politica sostituissero il modo di interpretarla.
In questa giornata particolare, in cui si rinnova il ricordo da parte delle Istituzioni e del mondo politico in generale, il dolore dei parenti e degli amici, è giusto chiarire alcuni aspetti.
Pinuccio Tatarella appartiene a tutti.
A destra, a sinistra, a chi l’ha conosciuto e a chi ne ha solo potuto osservare i comportamenti o semplicemente sentito parlare.
Pinuccio appartiene alla storia politica del nostro paese, non solo a quella della destra italiana da cui proviene, e a quella del centrodestra italiano, che per primo ha immaginato tanto da esserne inserito nel Pantheon delle figure di riferimento politico e culturale.
Se è vero, come è vero, che la politica sta nella buona  amministrazione e nel realizzare qualcosa per la propria gente, Tatarella, può essere considerato, a pieno titolo, un punto di riferimento e un esempio da seguire.
Orgogliosamente espressione del suo territorio, è stato un vero e proprio “artigiano della politica”, fondatore di giornali, ideatore di dibattiti, convegni e iniziative culturali.
“Non si può governare un paese senza amare la sua gente e la sua terra”, era solito asserire.
Ha lasciato un segno tangibile anche della sua azione politica da assessore alle Culture del Comune di Bari, fino alla costruzione del più moderno Ospedale pugliese, quello di Cerignola, che dal Governo fece finanziare e che non a caso è, oggi, a lui intitolato.
Il suo percorso non è stato né facile, né veloce; è stato raggiunto con umiltà, perseveranza, impegno, tenacia e passione, insieme alla cultura, alla competenza, alla lealtà e alla lungimiranza.
Tutte queste doti e caratteristiche che mancano alla politica di oggi hanno fatto di quel giovane proveniente dalla “rossa” Cerignola e che per decenni aveva combattuto nelle strade e nelle piazze di Bari una solitaria battaglia politica, un uomo che ha contribuito in modo decisivo e incisivo  alla nascita di una destra democratica nel nostro Paese e al superamento di vecchi steccati ideologici tipici del Novecento.
Profetiche e veritiere furono le parole di Luciano Violante pronunciate tanti anni fa: “Tatarella ci ha insegnato la differenza tra morire e finire. Grazie alla sua personalità generosa e alla sua frenetica attività politica a distanza di tanti anni molti ancora lo ricordano e la politica a lui fa sempre costante riferimento. Ecco perché Tatarella è morto, ma non è finito.”

*Fabrizio Tatarella, avvocato, componente la “Fondazione Tatarella

Così Tatarella costruì Alleanza Nazionale

«Ciao Adolfo, sei rientrato?». Lo ricordo ancora come se fosse ieri: Pinuccio Tatarella che mi blocca così in uno dei corridoi di accesso al “Transatlantico” a Montecitorio. Era il settembre del 1992 e si profilava l’introduzione di una legge elettorale maggioritaria, frutto del referendum Segni, che avrebbe di fatto cancellato la destra politica del Movimento sociale italiano dal Parlamento, riservandolo nella ridotta della quota proporzionale. Ai tempi non ero ancora parlamentare: avevo trascorso quasi due anni come vicedirettore del Roma a Napoli ed ero appena “rientrato” a Roma, dunque, come caporedattore di quell’avvenutura editoriale e culturale chiamata L’Italia Settimanale.
Davanti a uno scenario così potenzialmente disastroso per tutti noi, Tatarella non era per nulla rassegnato né preoccupato, anzi. Sognava di raccogliere pienamente la sfida del tempo – ricordiamo che erano i primi mesi dall’esplosione di Tangentopoli – per far uscire, una volta per tutte, la destra dal “ghetto” politico. Sperava di portare a compimento, ciòè, quello che da tempo era volontà sua e di pochi altri, tra cui certamente i suoi coetani Domenico Mennitti e Altero Matteoli, che su questo orizzonte avevano addirittura fondato una corrente negli anni Ottanta, dal nome Proposta Italia, di cui peraltro dirigevo l’omonima rivista.
Pinuccio Tatarella era già riuscito nell’intento di affermare la nuova segreteria di Gianfranco Fini, fortemente voluta da lui (e da Giorgio Almirante), ed ora aveva l’occasione di imporre finalmente la svolta politica che aveva sempre agognato, nonostante i timori diffusi anche nei gruppi parlamentari del Msi nei confronti del nuovo sistema elettorale che si profilava.
«Adolfo, hai letto l’articolo di Domenico Fisichella su Il Tempo?». Tatarella si riferiva ad un editoriale – che poi diventerà un contributo cult per gli studiosi della fondazione della destra di governo – del professore e politologo uscito pochi giorni prima dove, per la prima volta, emergeva la necessità politica di realizzare una Alleanza Nazionale. «Sì – gli risposi -, è quello che abbiamo sempre aspirato a fare». Ed ecco arrivare qui una delle sue intuizioni: «Mi aiuti a costruire questa Alleanza Nazionale? Tu sei stato “fuori” in questi ultimi anni e ti possiamo far considerare come un soggetto esterno al partito, come me hai sempre pensato che fosse questa la strada giusta».
Ovviamente accettai senza battere ciglio ed ebbe inizio da lì non solo una collaborazione ma anche un vero e proprio schema di azione. La prassi, solo in apparenza, era semplice: Tatarella indicava la strada, io cercavo di elaborarla e Fini, da parte sua, la percorreva. In mezzo stava tutto il resto. Ogni sera noi due ci vedevamo per fare il punto a cena e sempre con qualcuno che intendevamo coinvolgere nel processo: intellettuali, giornalisti, economisti, esponenti politici della destra diffusa. Quel cotè non burocratico né contiguo ai carrierismi che tanto amava Pinuccio. E ogni settimana relazionavamo i percorsi e le novità salienti a Fini, cercando di suscitare il suo interesse. Alla fine, e in brevissimo tempo, riuscì ad avere ragione sul metodo e nel merito, vincendo ogni resistenza interna ed esterna.
Tatarella aveva vinto la sua battaglia. In tanti compresero solo dopo che rappresentava in realtà la battaglia “per tutti”: era riuscito a cambiare la destra, poteva ora cambiare l’Italia. A tempo, oltretutto, con l’occasione della storia: di lì a poco, infatti, riuscimmo a portare il Msi-An nel primo governo di centrodestra della storia repubblicana, molto prima di quanto tutti ci aspettassimo. Tutto ciò in pochi, entusiasmanti mesi. Quella foto del maggio 1994, che riprende i ministri “missini” di An (Adriana Poli Bortone, Domenico Fisichella, Publio Fiori, Altero Matteoli e, ovviamente, Pinuccio Tatarella) con il leader Gianfranco Fini, conferma in pieno la bontà della regia di colui che Alleanza nazionale l’ha pensata, quando in pochi la immaginavano, e fortemente voluta, quando in tanti, all’interno dello stesso partito, si opponevano.
Se è vero, però, che quella prima stagione di governo durò poco – a causa dell’idiosincrasia dei poteri forti, che lui stesso “sfidò” nel merito, defininendoli con nome e cognome nel celebre colloquio con La Stampa, e del ribaltone di Umberto Bossi -, questo lasso di tempo fu comunque sufficiente a Tatarella per innestare nel tessuto istituzionale i rami più vitali della destra politica. A partire da quell'”armonia”, la caratteristica che lui rivendicava per se stesso, che è stato l’elemento con cui ha trattato – da meridionale e pugliese puro sangue – la questione nazionale come contraltare alle spinte secessioniste dell’allora Lega Nord. Ricerca della concordia in luogo della guerra civile permamente che ha caratterizzato anche il suo personalissimo approccio ai rapporti con gli avversari politici, trattati (a partire da Massimo D’Alema) con un rispetto e una cura sotto il cui velo si celava il politico astuto, capace di praticare una forma raffinata di egemonia che oggi chiameremo soft-power.
Tutto questo in ogni caso sarebbe risultato comunque insufficiente se, a monte, Tatarella non si fosse preoccupato di fissare bene gli assi cartesiani della destra: il primo, il “riformismo nazionale” che ha nel presidenzialismo da lui proposto fin dagli anni ’80 lo sbocco naturale (e che oggi più che mai, nella democrazia delle leadership forti, dimostra tutta l’attualità dell’intuizione tatarelliana); il secondo, una nuova generazione che ha coltivato, motivato e condotto fino al congresso di Fiuggi, in cui peraltro fu ancora una volta immortalata dallo stesso Tatarella in un’altra foto “a cinque” sul palco, che lui fortemente volle chiamandoci ad uno ad uno, quasi a indicare in modo iconoclastico quale fosse il nuovo ceto dirigente, che avrebbe dovuto assistere e proteggere Fini
Quella nuova classe dirigente è stata chiamata per vent’anni a rappresentare una “comunità dirigente” che si è dovuta scontrare, con alterne fortune ma con un chiaro riferimento alla sua scuola, contro quelle stesse “caste” che Tatarella aveva individuato prima di tutti: le stesse che ancora oggi ostacolano lo sviluppo economico e la piena emancipazione dell’Italia nel contesto europeo.
Ecco solo alcuni dei motivi di una sterminata letteratura politica, umana e persino antropologica, per cui Pinuccio Tatarella ci manca maledettamente. A maggior ragione in un momento come questo, dove le ricette della destra politica sono maggioritarie nel mondo ma non ancora “armonizzate” in una proposta organizzata come, sono certo, lui si impegnerebbe a fare oggi. A partire proprio dalla politica estera, che lo entusiasmava, lui barese, legato alla propria terra e al proprio dialetto, perché la politica estera è l’essenza della politica e dello Staro, ne definisce i confini e la stessa esistenza. Tanto più oggi, nell’epoca post-globale.
Non a caso eravamo a New York in quel febbraio del 1999 quando giunse la notizia della sua morte improvvisa, durante una difficile operazione di trapianto. Ignazio La Russa chiamò me, Gasparri e Matteoli nella sua stanza per comunicarci la notizia. Eravamo giunti poco prima in albergo dall’aeroporto, perché avevo organizzato una missione per alcuni dirigenti nazionali e locali di Alleanza nazionale con l’obiettivo di incontrare il sindaco Rudolph Giuliani e altri esponenti del partito repubblicano. Tatarella mi aveva sempre spinto, infatti, a curare con dedizione e non solo a livello formale i rapporti con i leader dell’Occidente e riteneva fondamentale la collocazione internazionale della destra italiana.
Nella stanza di Ignazio decidemmo, ovviamente, di rientrare subito a Roma, lasciando gli altri della delegazione in un clima di dolore che è facile immaginare. Tatarella infatti era il padre politico di tutti noi, per la verità più degli altri che mio. Di certo era il padre della nostra generazione, lui che non ebbe figli ma ne aveva “adottati” tanti. Curava, stimolava, talvolta rimproverava, ma sempre con lo spirito di un dirigente militante, tanti giovani che poi hanno segnato la storia della Repubblica, certamente la storia della destra.
Quel padre mancò a tutti noi troppo presto, nel momento cruciale, e la storia, purtroppo, ha preso un corso diverso. Senza la sua guida, quei giovani non riuscirono a proteggere da se stesso, colui che era stato indicato a guidarli. Ma questa è un’altra storia. Quella di Tatarella si ferma in una sala operatoria di Torino. Lui giovane pugliese che tanto amava la sua terra e il suo Meridione, muore nella capitale della emigrazione meridionale. Ma le sue idee sono ancora vive e basta andare a Bari Vecchia per capire quanto avevano seminato e prodotto anche tra il popolo. Sì, Pinuccio è stato un uomo capace di suscitare timore e ammirazione nell’establishment, ma anche e soprattutto rispetto e amore tra i vicoli della sua gente. Li stessi che trovava nelle sezioni dove si è alimentata grazie al suo contributo determinante la nostra speranza. Ecco perché Tatarella con i suoi insegnamenti ha sempre un posto d’onore nei nostri ricordi e nelle nostre azioni. Del resto è lì che è sempre voluto stare: in prima linea a difendere la nostra Italia.

* Articolo di Adolfo Urso pubblicato sul volume della Fondazione Tatarella in occasione del ventennale che sarà ricordato nel meeting in programma alla Camera per venerdì 6 febbraio

Red Land-Rosso Istria. Operazione verità contro l’oblio di Stato

Le urla di disperazione, gli spari che echeggiano nel vuoto del bosco, i corpi senza vita che cadono, portandosi dietro i vivi, nell’oscurità di quelle gole carsiche: le Foibe. Con queste immagini, che rappresentano il doloroso climax del film “Red Land – Rosso Istria”, Maximiliano Hernando Bruno ricostruisce con necessaria crudezza le fasi più drammatiche della pulizia etnica, praticata dai partigiani comunisti di Tito, ai danni della popolazione italiana in Istria.
Il film, infatti, è ambientato nel settembre drammatico del 1943. In quei giorni, successivi l’armistizio di Cassibile da parte degli anglo-americani, richiesto dal maresciallo Badoglio che fuggì da Roma insieme al Re, l’Italia e gli italiani vennero abbandonati a se stessi. L’esercito, non sapendo distinguere chi fosse l’alleato o il nemico, era allo sbando. Fu l’inizio della tragedia per le popolazioni civili Istriane, Fiumane, Giuliane e Dalmate che si trovarono praticamente davanti ad un nuovo nemico: i comunisti di Tito, che penetrarono in quei territori, alimentati dal feroce odio per gli italiani.
In quel contesto storico, il film racconta la storia di Norma Cossetto, giovane studentessa istriana, laureanda in lettere e filosofia all’Università di Padova, e figlia del dirigente locale del PNF. In quei giorni di settembre, come avvenne per altri italiani, la famiglia Cossetto iniziò a ricevere minacce e intimidazioni da parte dei partigiani jugoslavi e italiani presenti in quelle zone. Un giorno la giovane venne prelevata dalla sua abitazione e condotta presso la caserma dei Carabinieri di Visignano, diventata avamposto dei Titini. Presa di mira dai partigiani, a causa della carica di spicco ricoperta dal padre, venne separata dagli altri prigionieri e inizialmente interrogata; non ottenendo valide risposte dalla ragazza, i carcerieri decisero allora di seviziarla e stuprarla, a turno, ripetutamente e per giorni. L’incubo di Noma terminò pochi giorni dopo, nei pressi della foiba di Villa Surani, dove venne gettata insieme ad altri prigionieri italiani deportati.
Il film di Maximiliano Hernando Bruno, uscito nelle sale alquanto sottotraccia e molto poco promosso, boicottato come hanno dimostrato diverse inchieste giornalistiche, è necessariamente duro, brutale. Regala allo spettatore quell’ansia crescente, vissuta dai protagonisti e dovuta ad un destino che, mano a mano che la storia prosegue, diventa sempre più incerto e pericoloso. Proprio lo sguardo freddo, smarrito e rassegnato del professore Ambrosin, interpretato magistralmente da Franco Nero, trasmette la precarietà di quelle tante vite ingiustamente spezzate dalla rabbia anti-italiana. Quella rabbia che ha mietuto migliaia di vittime innocenti tra donne, vecchi, bambini, intellettuali e contadini, senza escludere tutti coloro (350.000 il numero stimato) che, invece, furono costretti ad abbandonare le loro case e la loro terra per salvare la propria vita. La memoria di quel triste ma salvifico esodo è ancora oggi custodita all’interno del Magazzino 18, presso il Porto Vecchio di Trieste, dove le masserizie dei rifugiati, accatastate le une sulle altre, attendono ancora il ritorno dei loro proprietari.
Oltre a Franco Nero, il cast artistico, diretto dal regista italo-argentino, ha saputo far rivivere brillantemente la complessità di quei momenti terribili e intensi della storia italiana del novecento: Selene Gandini è Norma Cossetto, Geraldine Chaplin un’esule sopravvissuta, Romeo Grebenseck lo spietato capo dei Titini. Hanno contribuito a rendere ancora più autentiche le performance attoriali gli straordinari paesaggi del territorio istriano, sapientemente colti dalla macchina da presa del regista.
A “Red Land– Rosso Istria”, in definitiva, va riconosciuto il merito di rompere sul grande schermo il silenzio su una tragedia italiana, spesso dimenticata dai partiti di centro e di sinistra e silenziata per decenni dalla storiografia ufficiale, affrontando oltretutto il tema delle violenze che le donne, ieri come oggi, hanno subito e subiscono in situazioni di conflitto. La pellicola, con l’aspra forza dei suoi fotogrammi lascia nella mente di chi la guarda un segno, necessario e indelebile come il sangue innocente che ha bagnato quella terra rossa di bauxite.

 

Per sessant’anni “storia di serie B”, nascosta all’opinione pubblica del resto d’Italia, la vicenda delle Foibe e dell’esodo giuliano-dalmata è il grande peccato morale della Repubblica nata dalla fine della Guerra. Per precisa volontà della cultura comunista allora dominante. Ecco perché – proprio durante il periodo natalizio – invitiamo tutti i nostri lettori a recarsi alle presentazioni di “Red Land” organizzate, con meritoria dedizione, da tante associazioni e circoli in tutta la Penisola. Noi non dimentichiamo, ma soprattutto noi ricordiamo. (Ff)

*Alessandro Boccia, collaboratore Charta minuta

Basta divisioni. 4 novembre festa nazionale

Fra le tante anomalie italiane, quella di aver sbiadito la ricorrenza della «Vittoria» nella Grande guerra, per derubricarla in festa delle forze Armate, è quella che meglio descrive la schizofrenia di un popolo votato all’autolesionismo. La ragione vuole che si debbano festeggiare i trionfi, le conquiste, i balzi avanti nello scacchiere della storia. Invece no: nel calendario della Repubblica italiana, il rosso pennella una data che a ben vedere non decifra la vittoria di un’intera comunità nazionale, semmai la sua lacerazione. Una distorsione bella e buona. Quel che resta del 25 aprile è una somma di livori e rivendicazioni incompiute. Ma non poteva essere altrimenti se, come data, essa evoca la fine di una guerra civile, di una lotta fratricida, che ancora oggi non può dirsi totalmente pacificata. Tant’è che neanche sul versante partigiano, all’indomani della caduta della Milano mussoliniana, è stato possibile stabilire una narrazione che mettesse alla pari bianchi e rossi in un unico progetto di democratizzazione patriottica.
A cent’anni di distanza dal 4 novembre del 1918, non si tratta di rilanciare una guerra a muso duro tra due date che legittimamente rappresentano due snodi della vicenda nazionale. Per una volta almeno, questo Paese non deve andare di bianchetto o promuovere dei tentativi di rimozione forzata della memoria collettiva. L’Italia deve invece promuovere un movimento che la aiuti invece a ristabilire delle priorità e fissare nuovi obbiettivi. Riscrivere le tappe della coscienza comune a partire da una data luminosa, riscriverebbe le sorti di una compagine nazionale che ancora oggi non sa trovare pacificamente le ragioni del proprio stare assieme. Neanche le vittorie dei mondiali del 1982 e del 2006, riescono a stabilire un nuovo inizio. Appunto perché c’è sempre chi – convinto della propria superiorità morale – è lì a ricordare i misfatti di Calciopoli o i peccati sportivi che hanno preceduto il trionfo spagnolo di Paolo Rossi.
Se quella del calcio è una metafora, anche sul fronte antimafia i se e i ma sono lì ad azzoppare la costruzione di un patrimonio comune. Ce lo ricorda lo storico Salvatore Lupo, quando afferma – in soldoni – che il processo Trattativa ha dato adito di parlare a quei tanti che non riescono ad accettare che lo Stato, all’indomani del terribile 1992, ha comunque vinto. Roba a cui neanche i neuroscienziati saprebbero dare risposte. L’Italia è questo, un Paese fermo psicologicamente all’8 settembre 1943. Giorno in cui, in tanti, si trovarono a gioire per un tragico atto di viltà. Strana gente gli italiani, che per fare un dispetto alla moglie taglierebbero volentieri “il naso”. Vittime del campanilismo, dei pantheon a porzione singole e delle scomuniche continue.
La vittoria nella Prima guerra mondiale va festeggiata perché ci ricorda che in un determinato momento storico, mentre la classe dirigente  di questo paese – assieme ai suoi intellettuali – era palesemente incapace di comprendere il tempo presente, la gente comune seppe comprendere il valore della sfida e vincerla. Una vicenda che pare dirci qualcosa anche sul tempo attuale. È un dato storico ormai acquisito che furono le trincee a cementificare le passioni di una nazione giovanissima. Fu l’altissimo contributo di sangue versato dai ragazzi provenienti sia dal nord sia dal sud a difesa dei confini nordorientali, a rendere l’Italia una nazione di eroi. Mutilata o no, la vittoria ci fu. Obliare quella stagione perché in qualche modo fece da propellente al fascismo, è sminuire i fatti e continuare nella sostanza un errore grossolano.
L’errore cioè di una parte del mondo progressista che allo scoppio della Guerra non riuscì a mettere in discussione il dogma neutralista, neanche davanti all’aggressione delle truppe del Kaiser ai danni di un Belgio inerme. Fu quello il momento in cui parte del mondo socialista, capitanato da Benito Mussolini da un lato e dal riformista Leonida Bissolati dall’altro, fiutò un’ opportunità irripetibile. Tornati dai campi di battaglia, i combattenti compresero (anche se in direzione non unitaria) che quell’esperienza avrebbe potuto offrire spunti di modernizzazione sociale anche in tempo di pace. Il quadriennio successivo è tra le fasi più vivaci, fantasiose e vitali, ma anche tra le meno digerite, della storia italiana. Ciò che venne dopo, ma molto dopo, fu invece l’ascesa di quei maitre a penser che sbagliarono prima e che in un certo modo continuano ancora oggi con presunzione a dettare le coordinate sbagliate dello storicamente corretto.

*Fernando Adonia, collaboratore Charta minuta

Ciao Altero, missino di governo. "Saggio" a servizio della Nazione

Il romanzo politico, lungo e pieno, di Altero Matteoli si è infranto ieri su una strada della sua Toscana. Un finale che, come ripetono a testa bassa i dirigenti di lungo corso davanti a fatti del genere, è tragicamente coerente con chi ha scelto la politica come motore perpetuo delle proprie azioni. Per capire l’entità della perdita è sufficiente guardare il video della diretta della Commissione banche: alla notizia della sua morte, giunta via sms, tutti i membri restano impietriti. E dopo qualche minuto l’intero arco parlamentare – destra, sinistra e 5 Stelle – si è stretto nel ricordo di un testimone attivo del pieno traghettamento della destra politica all’interno delle istituzioni, fino alle massime vette, ma anche di un “saggio” stimato e apprezzato dagli alleati e dagli avversari politici inclusi gli ambientalisti con cui è stato protagonista, da ministro, di una stagione vissuta più che vivacemente su fronti opposti.
Solo qualche giorni fa – poche ore prima del terribile incidente automobilistico in cui Matteoli ha perso la vita – proprio a lui Silvio Berlusconi aveva affidato il delicato compito di presiedere il tavolo delle candidature in vista delle prossime Regionali. Un incarico delicato che si accompagnava alla riconferma di fatto della sua stessa candidatura come rappresentante senior di Forza Italia nel prossimo Senato. Un rapporto di stima condivisa divenuto storico, questo tra il senatore “missino” e il Cavaliere, con quest’ultimo che lo ha voluto praticamente in tutti i suoi governi come ministro, incaricato di gestire – non senza polemiche e appendici giudiziarie – dicasteri strategici come l’Ambiente e i Trasporti. Affetto e considerazione ricambiati totalmente da Matteoli che ha confermato – dopo l’implosione del Pdl – proprio Berlusconi come suo leader tanto da seguirlo senza se e senza ma in Forza Italia.
In mezzo, come nelle saghe, ci sta un’altra storia intera che affonda le radici in quella dimensione volontaristica che ha contraddistinto i post-fascisti nati sotto la guerra, nei primi anni ’40, e affermatisi in politica solo dopo decenni trascorsi nell’opposizione “esclusa” dall’arco costituzionale. Insomma, è stato un percorso decisamente importante quello di “Altero”, come ieri lo hanno ricordato commossi tutti i “camerati”, dai coetanei ai sodali nella corrente Nuova Alleanza fino ai “giovani” di FdI con cui le strade politiche si sono separate (ma non l’affetto): con tutti questi ha condiviso anni di difficile militanza a partire proprio dalla “rossa” Toscana.
Da qui, dalla regione più difficile a maggior ragione dalla sua Livorno, ha mosso i primi passi come esponente del Msi e allievo del massimo esponente espresso da questa regione: Beppe Niccolai, “l’eretico” socializzatore del quale in seguito ereditò anche il seggio parlamentare. Dal 1983 al 1994 Matteoli è stato segretario regionale del Msi in Toscana e con questa responsabilità si è fatto le ossa nei Comuni toscani: da Cecina (dove è nato), a Castelnuovo di Garfagnana, fino al capoluogo Livorno. Dopo diverse legislature nel 1994, poi, anche a lui tocca rappresentare nel primo governo Berlusconi l’ingresso della pattuglia degli “esuli in patria” nelle istituzioni che contano: lo fece da ministro dell’Ambiente. Incarico che dal 2001 fino al 2006 – adesso come esponente di spicco di Alleanza nazionale – tornerà a ricoprire nel secondo e terzo governo Berlusconi. Fra le attività da deputato (dall’83 al 2006), lo si ricorda come membro della Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle associazioni criminali e similari, nella quale ha redatto – come la scuola di Niccolai insegna – una relazione sulla collusione tra mafia e politica. Dal 2006 al 2011, poi, è stato anche sindaco di Orbetello: un’esperienza che ha confermato il suo legame per la Toscana.
Nell’ultimo governo Berlusconi, il quarto, è stato nominato poi ministro delle Infrastrutture e dei trasporti: stagione complessa, questa, dove ha dovuto vedersela con i contestatori della Tav, e dove è stato promotore anche del Piano Casa, targato centrodestra. Imploso il Pdl e iniziata la diaspora degli ex An, Matteoli ha scelto di aderire (assieme a Maurizio Gasparri) a Forza Italia nella quale, dal 2014, è stato componente del Comitato di Presidenza e per la quale era impegnato, ieri incluso, in prima persona nell’ennesima campagna elettorale.

*Marco Marconi, collaboratore Charta minuta