Ottaviani: brigate russe in azione, oggi

Una guerra subdola, impalpabile, all’apparenza meno invasiva dell’orrore a cui stiamo assistendo in Ucraina, ma che sul lungo termine procura danni irreparabili. Un Paese, l’Italia, che per motivi storici ed economici viene percepito dai russi come particolarmente appetibile e malleabile e che adesso si trova davanti il rischio concreto di vedere il voto politico del 2023 influenzato indirettamente da Mosca. Marta Ottaviani nel suo libro Brigate Russe (edito da Ledizioni e pubblicato un mese prima lo scoppio della guerra in Ucraina) ha spiegato cosa sia la guerra non lineare e perché nessun Paese possa dirsi al sicuro.

Marta Ottaviani, come potremmo definire la guerra non lineare russa?

Riassumendo al massimo, si tratta di un insieme di misure volte a destabilizzare il nemico senza che questo se ne accorga, o lo faccia solo quando è troppo tardi. Le caratteristiche della guerra non lineare sono sostanzialmente due: la prima è che non si ferma mai, va avanti anche in apparente tempo di pace, la seconda è che è difficilissima da attribuire con esattezza in tempi rapidi, perché viene portata avanti soprattutto sulla rete, che è il campo dell’anonimato per eccellenza.

Quali sono queste misure?

Attacchi hacker, sciami di troll che hanno il compito di inquinare il dibattito pubblico, un sistema di soft power particolarmente aggressivo e, solo in alcuni casi, l’impiego di truppe non regolari. Sottolineo non regolari perché in Crimea nel 2014 sono riusciti a camuffare invasione proprio così. Ci sono voluti anni per capire quello che era successo veramente.

Perché dobbiamo interessarci alla guerra non lineare russa?

In questi mesi stiamo assistendo a una guerra di tipo convenzionale, novecentesca, scellerata, che sta trascinando in un gorgo l’Ucraina, la Russia e tutta la comunità internazionale. La guerra non lineare però è la guerra del futuro e dobbiamo davvero imparare a farci i conti perché sarà sempre più invasiva e sempre più difficile da individuare in tempi brevi.

Pensa che sia a rischio anche l’Italia?

L’Italia in questo momento è sotto un violento attacco di infowar, che non ha precedenti nel nostro Paese. Dall’analisi degli interventi degli ospiti nei talk show, l’attivismo sui social dell’Ambasciata russa e l’aumento degli account sulle varie piattaforme proprio in occasione di questa guerra mi fa pensare che ci sia una strategia precisa.

Quale?

Portare il nostro Paese dalla parte di Mosca e, se possibile, influenzare anche il voto politico del 2023, sul modello di quanto fatto negli Stati Uniti nel 2016 e in occasione del referendum sulla Brexit dello stesso anno. In Ucraina la Russia sta bombardando innocenti, con la guerra non lineare si bombardano le menti delle persone.

Come ci si difende?

In tanti modi, a partire da una corretta educazione digitale, che secondo me dovrebbe essere insegnata a scuola alle nuove generazioni per le quali i social e il metaverso diventeranno realtà con cui si confronteranno sempre di più. In secondo luogo, si parla giustamente del diritto all’informazione, ma troppo poco spesso del fatto che, nel momento un cui diffondiamo una notizia che abbiamo letto e che troviamo vera, diventiamo parte attiva. Quindi informarsi in modo corretto e approfondito, evitando fakew news, teorie complottiste o le uscite dell’opinionista improvvisato di turno, adesso è anche un dovere. E soprattutto tenere presente una cosa: per noi la libertà di informazione è un valore sacro e irrinunciabile, per la Russia di Putin un ventre molle in cui colpire. Va difesa con la censura, ma con la consapevolezza che qualcuno usa l’informazione per fare la guerra. Le parole d’ordine quindi sono approfondimento e selezione.

La Margherita referendaria

“Noi siamo la coerenza che non è stata mai tradita… “ Nel solco della coerenza, della serietà delle sue scelte politiche Giorgia Meloni conferma il sì al referendum per il taglio dei parlamentari.
Avrei comunque votato sì se me lo avessero chiesto ieri o l’altro ieri. Per quella naturale avversione alla casta dei politicanti e per quella voglia di riformare, di liberarsi da quella gabbia di regole vecchie di settant’anni che imprigionano questa Italia che ha voglia di risorgere. Taglio del numero dei parlamentari, poi subito al voto per rinnovare questo parlamento delegittimato , e avanti con l’elezione diretta del Capo dello Stato. Erano le idee forti che davano forza ad un sì convinto. Ieri o l’altro ieri. Sì, sì, sì… ma perché mi esce sempre più flebile mentre passano i giorni, ma perché sento salire prepotente dall’anima questa voglia di gridare no, no, no.
Puro esercizio dialettico perché prevedo un’ondata schiacciante di sì sull’onda di un’opinione pubblica da tempo giustamente schifata dalla politica dei giochini parlamentari, dalle acrobazie per evitare le elezioni politiche per non perdere la poltrona e i soldi.
Sarà perció certamente un sì. E il giorno dopo ancora una volta sarà premiata dalla soddisfazione la vincente scelta di Giorgia Meloni.
Ma a vincere veramente con il sì saranno i cinquestelle e Zingaretti , Conte e il suo governo rafforzato. Tutti i Casalino d’Italia. Il rinnovo fel parlamento delegittimato? Pura illusione. Questi non molleranno l’osso. L’elezione diretta del Capo dello Stato? E chi la farebbe questa riforma, un parlamento dove grillini e Pd sono maggioranza. Se vince il sì Giorgia sarà pure coerentemente soddisfatta, ma a vincere davvero sarà la sinistra.
Se vince il no i giochini sono finiti. Il governo finirà a gambe all’aria. E si aprirà uno spiraglio per le elezioni anticipate.
Ma il no è il contrario di ciò che indica Fratelli d’Italia, sarà dunque una sconfitta referendaria. E chi se ne frega. Ci sarà invece da festeggiare la vittoria della destra in almeno sei regioni. Ed è questo che conta.
E intanto continuo a sfogliare la margherita: sì, no, sì, no. Ma com’è che i petali del sì mi si sono tutti appassiti?

La Destra vive benissimo senza Bannon

Che si scansino Sydney Sonnino, Giovanni Gentile, Gaetano Mosca, Vilfredo Pareto, il Benedetto Croce fino agli anni Venti, Giuseppe Rensi, Julius Evola, Giuseppe Prezzolini, Giuseppe Maranini, Augusto Del Noce, Gianni Baget Bozzo, Elémire Zolla, e tanti altri (non cito viventi). A destra non li si è mai letti, in compenso si sarebbe assorbito solo un autore: Steve Bannon.
E’ la curiosa tesi di un commento di Ezio Mauro (L’ultradestra e lo stregone di nome Bannon, “Repubblica”, 20 agosto) secondo il quale la destra italiana (per Mauro la destra è solo “ultradestra”) già priva di cultura, a parte Gianfranco Fini, dopo la svolta sovranista sarebbe al grado zero, solo social e suoni gutturali. E, appunto, Bannon.
Non siamo certo interessati a riprendere il tema della “cultura di destra in Italia”, meno interessante di uno studio sulle condotte sessuali degli istrici. Il dibattito ricorda infatti, per tono, tristezza e risultati, analoghi mesti in casa di sinistra, dove è da decenni che si chiedono dove sia andata la loro cultura, in effetti morta da tempo: ciò non impedisce loro però di occupare le casamatte del potere culturale. Per non dire nulla certo, ma intanto le occupano.
Invece di discutere su cosa sia la cultura di destra, con relativo piagnisteo sulle cause della sua minorità, sarebbe assai meglio studiare e scrivere: insomma buttarsi in acqua a nuotare invece di chiedersi se sia preferibile lo stile crawl o quello rana.
Per questo scopo può essere utile Bannon? La risposta è no. Intendiamoci, Bannon è una figura che potrebbe essere definito un intellettuale, prendendo il concetto in senso gramsciano, cioè estensivo. A questo proposito raccomandiamo il recente bel libro che gli ha dedicato Benjamin Teitelbaum, uno specialista degli studi sulla destra radicale: War for Eternity: Inside Bannon’s Far-Right Circle of Global Power Brokers. Ne esce il ritratto di un organizzatore culturale, che ha avuto un ruolo nella costruzione della campagna di Trump ma poi non è riuscito ad esercitarne uno equivalente, soprattuto nel tentativo di esportare il modello in Europa, Forse perché non era esportabile: chi lo vide alla Festa di Atreju a suo tempo capì subito che Bannon era del tutto immerso nella realtà statunitense ed americana.
E per quanto noi si ritenga il legame con gli Usa fondamentale per difendere l’Occidente (purché anche loro lo vogliano!) siamo anche convinti che le tradizioni politiche statunitensi mal si impiantino sul terreno europeo, e segnatamente latino e mediterraneo.
Quindi la caduta di Bannon, che magari caduta non sarà, non ha alcun effetto né sulla politica del nazional conservatorismo o sovranismo (qui non è luogo per illustrare la differenza tra i due concetti) né tanto meno sul suo orizzonte culturale: semplicemente perché Bannon in sé non aveva offerto nulla sul piano teorico, non essendo quello il suo obiettivo.
L’eventuale caduta di Bannon segna però anche simbolicamente la nuova fase in cui stiamo entrando. Dopo quella rivoluzionaria, diciamo cosi, apertasi nel 2011, con il culmine toccato nel 2016, le forze politiche conservatrici mondiali sono radicalmente mutate: il partito repubblicano Usa è ormai trumpiano, a parte qualche sparuto nostalgico neocon passato con Biden ostaggio della ultra sinistra. I conservatori inglesi hanno ben poco a che vedere con quelli di Maggie – e si legga a tal proposito il libro di uno degli ideologi del nuovo conservatorismo, Nick Timothy, Remaking One Nation: Conservatism in an Age of Crisis.
Anche Fratelli d’Italia e la Lega, intendiamo quello salviniana, sono nati nella stagione post 2011 e rafforzatisi in quella post 2016: quelle date costituiscono una cesura e uno spartiacque da cui non si può tornare indietro. Si può solo andare avanti. E da questo punto di vista la fase 2016-2020 è stata rivolta alla distruzione e alla contestazione, più che alla edificazione. Ed era giusto cosi. Oggi però è arrivato il momento di fornire il nazional conservatorismo o sovranismo una cultura di governo. Un compito a cui la lezione di Bannon non appare molto utile.
Anche perché lo schema bannoniano dell’andare oltre la destra e la sinistra e dello scontro tra globalisti e populisti, ammesso abbia funzionato per un momento, oggi pare alle nostre spalle, mentre riappare il clivage destra / sinistra , cioè conservatori vs progressisti, come un segno di riallineamento interno al sistema.
Dove questo porterà, ancora non si può dire: ma, ad esempio, rileggere, anziché Bannon che di libri non ne ha mai scritti, molti degli autori citati all’inizio, può aiutare a capire.

Dichiarazioni scomposte di due viceministro

Per constatare che stiamo attraversando un momento estremamente difficile dal punto di vista economico non serve certamente un luminare dell’economia e della finanza. Stiamo attraversando la più efferata crisi dal secondo dopoguerra ad oggi, una crisi da domanda dagli effetti devastanti non ancora totalmente espressi. La crisi da domanda si sviluppa con la repentina diminuzione dei consumi, in questo caso, causata dalla pandemia da covid-19. Questa crisi è di fatto un collasso dell’incrocio tra domanda e offerta che ha dei riflessi che intaccano direttamente i comportamenti e le abitudini dei consumatori. I due fattori condizionanti sono principalmente la paura di non poter più spendere in futuro e la effettiva mancanza di liquidità. Gli esperti hanno sin da subito affermato che la principale azione di salvataggio da svolgere doveva dar luogo ad una immediata e poderosa iniezione di liquidità. Ciò non si è attuato, si è dato corso invece ad interventi palliativi e di piccola entità come il modesto finanziamento a fondo perduto e i noti 600 euro erogati dall’INPS per i mesi di marzo e aprile. In buona sostanza i restanti interventi hanno mirato a procrastinare scadenze che da settembre in avanti faranno collassare la liquidità residua. L’altro elemento molto importante che genera il calo di domanda (consumi in forte diminuzione) sono la paura di perdere il posto di lavoro abbinata alla sfiducia nel mercato e nelle istituzioni. Qui sta il nocciolo della questione, se manca liquidità e aumenta la paura nel consumatore, solo azioni forti di contrasto potranno dare i benefici sperati. E’ ovvio che se c’è crisi da domanda, le aziende produttrici e il commercio non producono e non vendono e saranno obbligati a ricercare delle soluzioni prima di arrivare a licenziare e poi purtroppo a chiudere l’attività. A questo punto entrano in gioco la paura, la sensibilità, la preoccupazione e tutte quelle emozioni negative che influenzano il consumatore. Una situazione che se mal governata può portare non solo alla depressione economica, ma addirittura alla depressione sociale e psicologica. In parole semplici, senza più ottimismo anche la residua liquidità verrà destinata maggiormente al risparmio e sempre meno al consumo. Ma è di questi giorni l’ennesima uscita infelice da parte di chi ci governa. La viceministro Castelli ha invitato i ristoratori in difficoltà a desistere e cambiare lavoro, come fosse loro la colpa di questo shock economico. Inaudita affermazione che oltre a generare rabbia e disapprovazione, per i più fragili aumenta quella sensazione di impotenza che porta inesorabilmente alla depressione psicologica. Questi sono momenti storici di fondamentale importanza che se caratterizzati da gestione pressappochista da parte di chi non conosce il mercato, l’economia politica, le dinamiche produttive, e poi si avventa anche in affermazioni completamente inopportune, può solo fare dei danni irreparabili, non solo ad un settore o una filiera ma, a tutta l’economia nazionale. Con l’autunno ci saranno molti italiani che perderanno il posto di lavoro e non sarà semplice far fronte alle necessità di tutti i giorni per 3 famiglie su 5. Servono aiuti che salvaguardino il lavoro, il reddito da lavoro autonomo e il lavoro dipendente deve essere garantito con iniezione di denaro in favore delle aziende vincolato al mantenimento dei dipendenti stessi. Solo così potrà ripartire la fiducia al consumo che da un lato permetterà alle famiglie di acquistare e dall’altro alle imprese di produzione e commercio di rimanere sul mercato. Se non si risolve con intelligenza il problema, da una iniziale crisi sanitaria da covid-19, ora precipitata in una grave crisi economica, non è escluso, anzi è molto probabile, che si ritorni ad una crisi sanitaria, questa volta però di natura psicologica e mentale, unita a quella sociale. E’ proprio qui si nasconde un altro grosso pericolo, l’emergenza sociale. L’emergenza sociale, alimentata dalla difficoltà di sbarcare il lunario, ci potrebbe portare inevitabilmente allo scontro, uno scontro che grazie alle affermazioni frettolose del vice ministro Misiani non tarderà ad arrivare. Come può un rappresentante istituzionale fare dichiarazioni che possono generare tensione sociale? Il vice ministro Misiani poteva e doveva risparmiare la sua frase velenosa contro le Partite IVA: “non lamentatevi, pagate e basta”. Serve un cambio di passo, servono persone capaci alla guida del Paese e di certo gli attuali non sono spendibili perché non ne hanno le caratteristiche. Sig.a vice ministro Castelli, serve l’incoraggiamento, serve l’aiuto concreto, non servono sentenze professionali; sig. vice ministro Misiani servono aiuti e comprensione, non serve l’arroganza.

Criminalità all’assalto dell’economia

Con l’emergenza sanitaria sono state accertate innumerevoli truffe, reati di usura e varie ipotesi di corruzione, soprattutto legate alle procedure per la fornitura di prodotti e servizi necessari a contrastare la pandemia. L’offerta di prodotti contraffatti o di qualità inferiore agli standard richiesti sono aumentate considerevolmente insieme ad ipotesi di manovre speculative sui presidi sanitari, comprese le proposte di sottoscrizione/vendita di titoli di aziende impegnate nella ricerca scientifica o nella produzione di device elettromedicali. La conferma di questo fenomeno viene dall’UIF (Unità di Informazione Finanziaria) che negli ultimi tre mesi ha ricevuto oltre 350 segnalazioni di operazioni sospette collegate all’epidemia del covid-19. Si tratta prevalentemente di “forniture sanitarie legate all’assenza di requisiti tecnici richiesti dalla normativa, all’incongruenza tra l’entità degli acquisti e la reputazione imprenditoriale dei fornitori, all’estraneità degli articoli venduti rispetto al settore produttivo di appartenenza”. Il “profilo soggettivo” dei personaggi coinvolti e le tecniche impiegate inducono a ritenere il coinvolgimento della criminalità organizzata in operazioni di usura. Nel primo quadrimestre del 2020 la Uif ha ricevuto 35.927 segnalazioni di operazioni sospette (più 6,3% rispetto allo stesso periodo del 2019).
Ma anche l’Organismo permanente di monitoraggio ed analisi sul rischio di infiltrazione nell’economia del quale fanno parte Dia, GdF, Servizio Analisi Criminale della Polizia di Stato e Carabinieri nel suo ultimo report ha lanciato l’allarme sui tentativi delle mafie di acquisire “posizioni creditorie nei confronti delle imprese e, in prospettiva, asset proprietari nelle compagnie societarie”. Affari illeciti – che include turismo, ristorazione, rifiuti, giochi e scommesse, gestione di impianti sportivi e palestre, distribuzione e commercio di generi alimentari, autotrasporto, industria manifatturiera dell’energia, immobiliare, commercio e noleggio autoveicoli – la sanità occupa un posto di grande rilievo con prevalenza della ‘ndrangheta. Non è un caso, infatti, che “proprio lo scorso anno” siano “state sciolte molte Aziende sanitarie. “La crisi di liquidità delle imprese e le difficoltà economiche di molte famiglie nella fase emergenziale – scrive il report – costituiscono condizioni che potrebbero favorire attività strutturate delle organizzazioni criminali attraverso l’utilizzo di raffinati e complessi strumenti finanziari che consentono (anche attraverso l’acquisto dalle banche che di crediti deteriorati e il coinvolgimento di fondi di investimento compiacenti) di entrare in possesso di asset imprenditoriali di particolare interesse nel settore turistico, della ristorazione e del commercio”.
Del resto già la Guardia di Finanza in occasione della celebrazione del suo 246° anniversario della fondazione aveva reso noto alcuni risultati preoccupanti: 1,8 miliardi di euro recuperati dal riciclaggio di denaro sporco; 1.168 indagini di polizia giudiziaria; 2.351 persone denunciate per i reati di riciclaggio e autoriciclaggio, con sequestri di 838 milioni di euro.
Il nucleo speciale di Polizia valutaria della Guardia di Finanza ha analizzato 82.810 segnalazioni di operazioni sospette (Sos), il 31% di queste è stata poi sottoposta a indagini approfondite. L’attività del 2019 è stata contrassegnata, poi, tra l’altro, da 19.086 controlli alle frontiere, che hanno portato a scoprire oltre 166 milioni di euro e ad accertare 6.080 violazioni. Sui reati fallimentari sono stati effettuati sequestri per circa 390 milioni di euro su un totale di patrimoni di oltre 5,6 mld di euro; sono state rilevate falsificazioni di monete, di valori bollati contraffatti per un valore complessivo di oltre 41,6 milioni di euro.
Oggi più che mai a causa del blocco di tutte le attività per il corona virus il sistema economico finanziario risulta fortemente indebolito, esposto al rischio di infiltrazione da parte della criminalità organizzata che ne potrebbe approfittare.
Occorre perciò tenere gli occhi aperti sugli assetti proprietari e sulle varie operazioni aziendali e societarie nonché sull’origine dei fondi e sulle effettive finalità economiche-finanziarie sottese alle transazioni.
Oltretutto le misure di distanziamento sociale aumentano i rischi di truffe telematiche, i reati informatici e l’utilizzo in contesti illegali degli strumenti di pagamento elettronici.
In questo scenario, fermi restando i compiti di polizia giudiziaria e di pubblica sicurezza che la legge assegna a ciascuna Forza di polizia, sono proprio le Fiamme Gialle a rivestire un ruolo di primaria importanza per il presidio della legalità e della correttezza dei movimenti di denaro, titoli e valori nel circuito economico nazionale, svolgendo i propri compiti istituzionali:
a livello centrale, per tramite delle capacità specialistiche del Nucleo di polizia valutaria e del Servizio Centrale di Investigazione sulla Criminalità Organizzata (S.C.I.C.O.), entrambi alle dipendenze del Comando Tutela Economia;
a livello periferico, con i Nuclei di polizia economico-finanziaria (Nuclei P.E.F.) ed i Reparti territoriali.
Il Nucleo di polizia valutaria è chiamato ad espletare la propria mission a tutela dei mercati finanziari, con particolare riferimento al riciclaggio, ai movimenti transfrontalieri di capitali, all’intermediazione finanziaria, all’usura, alla disciplina dei mezzi di pagamento, al finanziamento al terrorismo, alla tutela del risparmio ecc. In questo ambito esegue indagini di polizia giudiziaria su tutto il territorio nazionale, approfondisce le segnalazioni di operazioni sospette pervenute dall’UIF, esegue le ispezioni nei confronti degli intermediari finanziari, dei professionisti e degli operatori non finanziari, sviluppa gli accertamenti a richiesta del Comitato di Sicurezza Finanziaria e le altre attività connesse al congelamento delle risorse economiche.
Il Riciclaggio, dunque, proprio in questo periodo che vede la criminalità organizzata lanciarsi senza nemmeno le vecchie cautele in acquisizioni di ogni genere nei settori, in particolare, della ristorazione, del turismo e del commercio, in genere, è il fenomeno da tenere maggiormente sotto controllo.
Ed allora parliamone.
Si ha operazione di riciclaggio ogniqualvolta un dato flusso di potere d’acquisto, che è potenziale viene trasformato in potere d’acquisto effettivo. Il riciclatore perciò è colui che offre il servizio economico illegale con la finalità di trasformare la liquidità “sporca” proveniente da una qualunque attività criminale o illegale in fondi che – in quanto “puliti” – possono essere utilizzati per scelte di consumo, risparmio, investimento nei settori illegali e di reinvestimento nei mercati illegali. Tra le tecnologie (o strumenti) del riciclaggio, un ruolo centrale possono svolgere gli intermediari bancari e finanziari sia come soggetti inconsapevoli di tale attività, sia come attori conniventi, quindi inquinati. Il riciclaggio dei proventi illeciti è fattore di forte inquinamento del sistema economico poiché determina rilevanti flussi finanziari non orientati da aspettative di una efficiente allocazione delle risorse, impedendo un corretto sviluppo della concorrenza; gli effetti dannosi della criminalità sul sistema economico si verificano sui mercati del prodotto, del lavoro, dei capitali, della proprietà.
Per i soggetti criminali la presenza di operatori collusi (intermediari inquinati) o inefficienti nella tutela della propria integrità (banche inconsapevoli) aumenta la possibilità di utilizzare il sistema dei pagamenti o del credito, o in generale dei servizi finanziari, per propri obiettivi, specifici di riciclaggio o generali di immissione e controllo rispetto al sistema economico legale, La peculiarità dell’intermediario bancario rispetto alla più generale specificità dell’intermediazione finanziaria giustifica un’attenzione maggiore, ma non esclusiva, su tali aziende. Le banche possono essere utilizzate in tecnologie diverse di riciclaggio in ciascuna di esse può essere immaginato un possibile coinvolgimento degli intermediari bancari:
Il soggetto criminale perciò può far assumere al riciclaggio due diverse fisionomie:
a) riciclaggio bancario e finanziario consapevole: utilizza un intermediario anch’esso soggetto criminale, la cui funzione obiettivo è cioè controllata e/o influenzata precipuamente da un soggetto criminale;
b) riciclaggio bancario e finanziario inconsapevole, si serve invece di transizioni passanti attraverso intermediari onesti, le cui funzioni obiettivo sono invece dedicate esclusivamente all’attività bancaria e finanziaria legale.
Come si vede il riciclaggio bancario finanziario svolge una funzione essenziale nella crescita dell’attività criminale complessiva, separando i fondi liquidi dalla loro origine illecita, qualunque essa sia, e consentendone il rivestimento in attività sia lecite che illecite.
Ed allora oggi più che mai occorrerà avere gli occhi aperti e soprattutto sensibilizzare i professionisti che potrebbero essere utilizzati per operazioni poco trasparenti, se non addirittura illecite: avvocati, commercialisti, notai e persino agenzie immobiliari.

Il diario dei mesi di fango

Anche luglio sta passando e sono ancora lì.
Un governo come scherzo della natura. Un presidente del consiglio che nessuno ha mai eletto, incollato alla poltrona prima da una parte poi dall’altra. Ministri incompetenti che provocano disastri dalla scuola, alla giustizia, alle opere pubbliche. Il Pd che non interpreta più i valori della sinistra. Riprende l’attività fiorente degli scafisti che scaricano a raffica sulle nostre coste clandestini in compagnia del coronavirus. E l’Europa se ne frega. Gli annunci di Conte sono parole vuote. I miliardi promessi un’illusione. Sono sempre di più le famiglie che non riescono a sfamare i propri figli. E la tensione nel Paese sale. A settembre il voto amministrativo farà traballare quest’accozzaglia unita solo dalla paura della destra. Settembre verrà. È questo un diario dell’attesa, una traccia dei mesi di fango che stiamo vivendo.
Li ho visti, li ho sentiti. Erano su un treno, o sul tram, in strada o dovunque Ecco il dialogo di un venditore di almanacchi del governo e di un cittadino incavolato.

Venditore: Almanacchi, almanacchi del governo: potenza di fuoco, bazooka, poderoso, poderoso, poderoso.
Cittadino: Direi piuttosto baluginante.
Venditore: Baluginante. Chi era costui?
Cittadino: Baluginante è ciò che appare e rapidamente scompare, brilla, guizza, lampeggia, luccica e si spegne. Come le promesse del governo. La pioggia di miliardi annunciata e mai vista, la ripresa proclamata e inesistente.È il gioco delle tre carte.
Venditore: Il gioco delle tre carte, come osa? Lei è un sovranista che spaccia fake news. La segnalerò a quel fine intellettuale che sul Fatto Quotidiano potrebbe suggerire iniziative da prendere anche nei suoi confronti.
Cittadino: No, la prego no. Non mi segnali, non lo faccio più. La mia più che una critica voleva essere un complimento per Conte. Lui è straordinario. Il più straordinario illusionista della nostra storia. Sì, sì, lo dice anche Paolo Mieli.
Venditore: Paolo Mieli chi è, un giornalista? Non lo conosco. Se è un complimento va bene, se no mettiamo all’indice anche lui. Io mi fido solo di Casalino, della sua grande esperienza come testimonia lo scintillante curriculum.
Cittadino: E io mi dovrei fidare di Casalino, di Conte e della loro squadra?
Venditore: Vede che il presidente è pronto a sacrificarsi, ad impegnarsi di più, a mantenere i pieni poteri per fronteggiare l’emergenza.
Cittadino: L’emergenza del coronavirus?
Venditore: Del coronavirus non so, quella elettorale piuttosto. Non si può certo votare alle amministrative a settembre col rischio di far crollare il castello di carte che ci tiene in piedi.
Cittadino: Non volete mollare le poltrone. Ma fino a quando?
Venditore: Resistere, resistere, resistere. Almeno fino al 4 agosto dell’anno venturo.
Cittadino: Il 4 agosto 2021?
Venditore: Scatterà quel giorno il semestre bianco. Mattarella non potrà scioglere le Camere. E noi potremo fare quel che ci pare. Obiettivo: Conte al Quirinale.
Cittadino: Ma non sente questo rumore che viene da lontano, non avverte la rabbia che sta per esplodere. Vuoi andate avanti con sotterfugi e giochetti. Ma attenti all’autunno. L’economia crolla, la disoccupazione va alle stelle. Nelle famiglie mancano i soldi e la speranza. E quando un popolo ha fame può succedere di tutto.
Venditore: Almanacchi, almanacchi della resistenza.

Luci ed ombre del decredo rilancio

Ora è il momento di fare una valutazione serena su quanto il lockdown da covid-19 ha effettivamente provocato. E’ indubbio che questa calamità abbia fatto emergere degli aspetti positivi del nostro essere italiani da un lato, ma dall’altro abbia messo a nudo molte criticità del nostro sistema politico-amministrativo. Chi si è trovato a gestire questa eccezionalità si è fatto trovare impreparato, non importa se sia stato dovuto ad inesperienza, ad incapacità o a solo un complicato intreccio di problemi non gestibili nel loro insieme, ma sta di fatto che i membri del Governo, in prevalenza senza esperienza imprenditoriale o di pubblica amministrazione, abbiano stentato ed abbiano prodotto soluzioni spesso inefficaci ed iwnefficienti. E’ venuta a mancare quella capacità manageriale utile all’attività di problem-solving. La cartina di tornasole è stata la sequela di conferenze stampa con annessi proclami delle ore 20:30, orario che negli anni ‘60, ’70 era rigorosamente ad appannaggio del Carosello. Il parallelismo è automatico perché le conferenze stampa del Premier erano connotate da un forte impatto di propaganda della propria persona. Al termine di tutto ciò arriva il famigerato Decreto Rilancio che ahimè non conferma le attese e per molti si traduce nel decreto che, pur nella sua complessità, non riesce a soddisfare tutti traducendosi in una colossale diseguaglianza sociale. Potremo fare molti esempi, ma è sufficiente attenzionare solo alcuni di questi per comprenderne il perché di un giudizio così negativo. Partiamo dai fatidici 600 euro assegnati alle partite IVA ed erogati da INPS per i mesi di marzo e aprile. Lasciamo perdere il fatto che non tutti li hanno ricevuti, lasciamo perdere che molte professioni non sono state soddisfatte, ma valutiamo perché i 600 euro sono arrivati anche a coloro che NON mostravano particolari problemi di liquidità, mentre ad altri non è stato corrisposto nulla nonostante fossero in reale situazione di indigenza o insolvibilità. Un altro esempio su tutti è stata l’erogazione dei 600 euro a chi fa sport dilettantistico. In questo particolare caso stiamo parlando di tutti quegli sportivi dilettanti anche in età scolare che risultavano percepenti di poche decine di euro a fronte di attività sportiva svolta nei primi mesi ante chiusura da pandemia. Se mi fermassi qui, non ci sarebbe nulla di male, d’altronde è stata data loro l’opportunità su un piatto d’argento ed individualmente hanno presentato la domanda ottenendo così le tre mensilità da 600 euro cadauna. Ripeto, fin qui, “sembra” tutto normale, ma se andiamo a fondo noteremo che questi sussidi sono arrivati anche agli sportivi che, non erano in condizioni precarie o in crisi economica e li abbiamo “scoperti” tali curiosando nei social network, nei quali, gli stessi destinatari del contributo si mettevano in mostra su auto di lusso o imbarcazioni. A questo punto sorgono spontanee alcune domande del tipo: Pensare di erogare sulla base del reddito familiare no? Non è stato considerato l’ISEE? Perché non ci si è adoperati per una effettiva equità? Forse sono proprio gli stessi politici che hanno ideato il reddito di cittadinanza e che hanno determinato il quantum del reddito di emergenza a stabilire ciò? Allora è tutto chiaro. Solo per trovare delle risposte analizziamo perché l’INPS a molti lavoratori non ha corrisposto i 600 euro della terza mensilità come ha fatto invece per gli sportivi (tra loro molti studenti). Perché in occasione della mensilità di maggio hanno deciso di corrispondere denaro a fondo perduto a tutti coloro che dimostravano di aver fatturato almeno il 33% in meno nel mese di aprile con riferimento al pari periodo del 2019. Geni? Non proprio. Se prima hanno commesso degli errori frutto del tipico stile dell’erogazione a pioggia, in questo ultimo caso hanno dimostrato la loro completa ignoranza e ciò fa comprendere del perché si siano inventati gli Stati Generali dell’Economia. Ovvio, non avendo le specifiche competenze, necessitavano di consulenze e il Decreto Rilancio si presentava già con falle in tutti i settori. Tra l’altro molte professioni ed attività hanno delle caratteristiche e peculiarità che solo professionisti ed addetti ai lavori conoscono nel dettaglio. Prendiamo ad esempio il caso degli agenti di commercio che per forza degli Accordi Economici Collettivi, fatturano su base trimestrale. Ecco, proprio qui casca l’asino ed entriamo nel dettaglio cogliendo il primo effetto distorsivo: Il primo trimestre scade il 31 marzo e le aziende inviano l’estratto conto entro il 30 aprile sul fatturato incassato. Quasi tutte le aziende aspettano l’ultimo giorno utile o addirittura i primi giorni di maggio affinché l’agente controlli e poi possa emettere la fattura elettronica che quasi sicuramente sarà datata maggio. La maggioranza degli agenti di commercio fattura, infatti, le provvigioni “in un mese successivo al trimestre o al mese di riferimento. Inoltre, quasi sempre, gli agenti di commercio maturano le provvigioni al momento del pagamento del bene e servizio da parte del cliente” e nella seconda metà di marzo 2020 sono maturate provvigioni su affari procurati prima del lockdown. A questo punto si verificano due casi: il primo è l’impossibilità di stabilire l’effettiva diminuzione da un anno all’altro e il secondo è la ricaduta reale che si ha sul fatturato di aprile dell’azienda che l’agente conteggerà solo a luglio/agosto o addirittura ottobre/novembre sull’incassato, e in questo caso, non potrà più farne domanda perché scaduti i termini. Morale: la fretta e l’incompetenza hanno prodotto enormi disparità tra i cittadini, in particolare escludendo gli agenti di commercio dal terzo sussidio che in Italia ne sono censiti più di 270.000, non pochi. Queste sono solo due delle tante incongruenze che molti cittadini si sono trovati di fronte. In definitiva di questo Decreto, possiamo affermare che di Rilancio ha solo il nome.

Una nuova fase fiscale per il dopo Covid-19

La sfida che ci attende dopo le varie fasi è quella di riscrivere le regole del sistema Paese. Quanto vissuto ci ha messo in evidenza che l’impianto normativo e l’organizzazione generale della nostra Italia è fragile. Dunque, è indispensabile iniziare a pensare a come riscrivere le regole che giocoforza dovranno “cambiare” se vogliamo ripartire guardando al futuro con speranza. Se il lavoro costituisce ancora uno dei capisaldi della nostra Costituzione, bisognerebbe aprire un bel dibattito e di conseguenza un intervento normativo mirato a salvaguardare i posti di lavoro, tutelare i lavoratori e aiutare le imprese. Un mix che non è facile far dialogare se continuiamo a pensare con l’impianto che abbiamo finora conosciuto. I posti di lavoro non si difendono a parole ma con i fatti. Immaginiamo ad esempio l’azzeramento del costo del lavoro: il dipendente deve essere retribuito adeguatamente senza operare nessuna ritenuta previdenziale e/o fiscale, di colpo ogni lavoratore avrebbe in busta paga un aumento considerevole che in assoluta libertà impiegherà per i suoi bisogni. Una delle eccezioni a questa idea potrebbe essere: come evitare lo stato di povertà futura? Anche su questo aspetto occorre immaginare un nuovo sistema capace di arginare questa eventualità, magari inserendo nel nostro sistema un acquisto mensile di un titolo di stato di modesto importo che sarà rimborsato nel momento in cui il dipendente a fronte del montante versato decidesse di andare in pensione. Altra possibilità per invertire la rotta sul fronte fiscale sarebbe quella di far leva sulle imposte indirette a fronte delle dirette; una modalità potrebbe essere: far applicare l’IVA solo al passaggio finale e totale riversamento nelle casse dello Stato. Tutti abbiamo imparato che l’IVA viene pagata dal consumatore finale, basterebbe solo pensare agli incassi giornalieri di tutte le attività e procedere a quantificare la somma che giornalmente lo Stato potrebbe introitare. Non è un qualcosa di cui non conosciamo i numeri, tutt’altro, lo Stato detiene una basa informativa a tal riguardo unica: lo storico delle dichiarazioni IVA e da qualche anno le liquidazioni periodiche mensili e trimestrali. Questo aspetto andrebbe a rivoluzionare il nostro sistema fiscale incentrando la sua attenzione sui consumi e di riflesso l’utile diventerebbe una ricchezza reale, il giusto riconoscimento all’attività di impresa. Si sta iniziando a parlare di riforma organica del nostro sistema fiscale: certamente non è un argomento di facile approccio in considerazione del fatto che la nostra Costituzione all’art. 53 ne detta i principi di gradualità. Proprio in merito a questo anche senza modificare l’articolo, la gradualità e quindi la compartecipazione al pagamento delle imposte troverebbe la sua materiale concretezza; infatti ognuno andrebbe a pagare in base a quanto principalmente spende in beni o servizi di cui ha bisogno e soprattutto in base alla sua capacità di spesa che diventa allo stesso tempo contributiva. Partendo sempre dal principio che non è più accettabile guardare un cedolino paga che parte da uno stipendio accettabile e dopo aver subito alla fonte le scremature non è più in grado di soddisfare i bisogni primari. Una cosa è certa, nulla potrà essere come prima, maggiore sarà la propensione di innovare, minore sarà il rischio di una catastrofe economica e sociale senza precedenti.

Non è tempo di piagnistei!

Non è tempo di piagnistei! Piero Bargellini, allora sindaco di Firenze, pronunciò questa frase nella Galleria degli Uffizi, con il fango sino alle ginocchia nel novembre 1966, quando l’Arno aveva tracimato facendo danni incalcolabili. Una frase semplice che provocò una svolta e si passò in poche ore dal dolore per il disastro nella Città del Giglio al lavoro entusiasta per la ricostruzione.
E’ una frase che vorrei ripetere, a gran voce, agli amici del centro destra. Basta con le geremiadi perché le proposte non vengono ascoltate da chi ha la responsabilità di governare. Le lamentale non fanno mai bene a nessuno e soprattutto non infondono coraggio ai potenziali elettori. Non bisogna neanche farsi soverchie illusioni su “gli stati generali dell’economia”, una passarella fuorviante inventata, pare, dalla fervida mente del portavoce della Presidenza del Consiglio, l’ing. Rocco Casalino.
Il centro destra dovrebbe cogliere con entusiasmo, invece, l’opportunità offerta su un vassoio d’argento dall’Unione europea (Ue). E’ in arrivo un vero fiume di denaro per facilitare il rilancio dell’economia italiana, con particolare riguardo alle piccole e medie imprese ed ai ceti più deboli. Gli aiuti, però, sono soggetti a “condizionalità”: la predisposizione di un programma non solo di come verranno spesi ma anche e soprattutto di come verrà rimessa in sesto l’economia.
Gli obiettivi di tale programma e, quindi, della “condizionalità” europea si possono, per il momento, dedurre dalle raccomandazioni al nostro Paese pubblicate dalla Commissione un paio di settimane fa. In breve, l’Italia dovrebbe assicurare: a) politiche di bilancio tali da permettere una ripresa economica a medio termine e la sostenibilità del debito della pubblica amministrazione; b) aumentare gli investimenti pubblici e privati; c) migliorare il coordinamento tra Stato centrale e Regioni; d) rafforzare la sanità; e) sostenere la fasce deboli più colpite dalla crisi; f) mitigare la disoccupazione con politiche attive del lavoro; g) rafforzare istruzione e formazione a distanza tramite strumenti digitali; h) fare giungere liquidità all’economia reale soprattutto alla piccole e medie imprese ed alle imprese innovative; i) porre l’accento su investimenti “verdi” e digitali; e soprattutto l) migliorare l’efficienza del sistema giudiziario e  l’efficacia della pubblica amministrazione.
Sono obiettivi ineccepibili. Chiaramente il Governo ha difficoltà ad articolarli in un programma con contenuti e scadenze monitorabili (gli aiuti, infatti, verranno erogati a rate, a misura che il programma verrà attuato). Si pensi ad esempio alle profonde differenze tra Partito Democratico (PD) e Movimento 5 Stelle (M5S) emerse in queste ultime settimane su aspetti fondanti della giustizia e della scuola. Oppure alle divergenze sulle grandi opere.
Gli stessi “Stati generali dell’economia” sembrano un diversivo per ritardare una inevitabile resa dei conti su punti chiave del programma richiesto.
L’opposizione potrebbe redigere, e pubblicare, un programma in linea con gli obiettivi indicati. Non si dovrebbe produrre un voluminoso “libro dei sogni” ma un programma triennale di sviluppo dell’economia di 30-40 pagine, con alcune tabelle chiave e se possibile schemi di provvedimenti (decreti legge, disegni di legge, proposte di legge) condivisi tra i partiti del centro destra. Se il Governo non ne tiene conto, l’opposizione dovrebbe utilizzare la propria sponda al Parlamento Europeo per portarlo alle autorità dell’Ue. Che dovrebbero giudicare della solidità delle proposte del Governo (ove vengano presentate ed escano dalla nebuloso di questi mesi) e di quelle di chi oggi siede sui banchi dell’opposizione e si prepara a governare un domani non troppo lontano.

La cultura del piagnisteo

La polemica innestata qualche tempo fa da Vittorio Feltri con le sue parole sulle capacità, le attitudini, l’inferiorità del Sud ha scatenato ancora una volta le opposte tifoserie nordiste e sudiste in un momento in cui serve invece unità, solidarietà e coesione sociale.
Vediamo perciò con quanta più obiettività possibile come stanno veramente le cose nel Mezzogiorno d’Italia.
Qualche tempo fa il Censis rilevò come la comunità meridionale si andasse sempre più parcellizzando in gruppi chiusi, separati e non dialoganti. E la Fondazione Res spiegava che resta un’incompiuta la cooperazione tra imprese. Successivamente arrivò un saggio per i tipi di Rubbettino, i cui autori Mariano D’Antonio, Matteo Marini, Sonia Scognamiglio, Annalisa Marini, Antonio Russo, Lucia Cavola, Achille Flora, Giovanni Laino, Francesco Pastore, Sara Gaudino, Giuseppe Leonello, Roberto Celentano, individuavano la causa dei mali del Sud, negli stessi meridionali, in particolare nella loro scarsa attitudine a rispettare le regole, nella scarsa fiducia reciproca, nel sospetto e invidia sociale, nel familismo amorale e poi nell’evasione fiscale e contributiva, nell’assenteismo per malattia, nell’inflazione dei diplomi e delle lauree, nel mancato pagamento delle tariffe del trasporto pubblico locale. «Lo scarso senso civico – scriveva D’Antonio – è effetto e al tempo stesso concausa dell’insufficiente sviluppo: la povertà spinge a violare le regole, l’illegalità a sua volta ostacola la riduzione della povertà ». Di qui i reati segnalati dalla Corte dei conti: la corruzione è al 42% del totale nazionale, la concussione al 53%, l’abuso d’ufficio arriva al 62%. (Tutti i dati e le citazioni sono tratti da Riccardo Pedrizzi – Il Salvadanaio. Manuale di sopravvivenza economica – Guida Editori – Napoli 2019).
A queste miriadi di difetti o, quantomeno di mancanze di qualità etiche, civiche e sociali si aggiunge un fattore che, oltre al clientelismo, la corruzione, il diffuso basso livello d’istruzione, ci accomuna veramente alla Grecia ed è “la cultura del piagnisteo”, con la tendenza d’addebitare tutti i guai del Mezzogiorno all’azione di forze esterne. Se le cose vanno male, – scrisse Luca Ricolfi sul “Il Sole 24 Ore” – è sempre colpa di qualcun altro: la storia, l’unità d’Italia, i piemontesi e l’occupazione, l’Europa, il Nord e il governo centrale. La politica nazionale ha ovviamente le sue responsabilità, prime fra tutte quella di non aver dotato il Sud di una rete di infrastrutture decente, il mancato controllo del territorio ecc. ecc., ma si dimenticano le gravissime responsabilità delle classi dirigenti locali, sulla connivenza che la gente del Sud ha nei confronti delle proprie classi dirigenti. Se il resto del paese è più ordinato del Mezzogiorno, se gli sprechi della Pubblica amministrazione sono più contenuti, ci sarà pure un motivo. “Ormai 35 anni fa Manlio Rossi Doria concludeva uno scritto sui cent’anni di questione meridionali con le seguenti parole. ‘Non vi è dubbio che nelle caratteristiche di una larga parte delle classi dirigenti meridionali vada ancora oggi individuato, a distanza di un secolo da quando per la prima volta se ne parlò, uno dei nodi più gravi e decisivi della ‘questione meridionale’” (M.R. Doria, Scritti sul mezzogiorno, L’ancora del mediterraneo, 2003, p. 222)».
Chi scrive, da sempre sostenitore della causa del Mezzogiorno, difensore della storia meridionale soprattutto preunitaria e borbonica, tanto da essere gratificato dalla Casa Borbone con l’Ordine cavalleresco Costantiniano di San Giorgio, condivide da sempre questa analisi. Aver da decenni attribuito le cause dei mali del Sud a fattori esterni ed a forze estranee alla società ed alla storia meridionali non solo ha contribuito a deresponsabilizzare le classi dirigenti e la politica, ma ha creato in certi ceti sociali (la borghesia in particolare), che avrebbero dovuto rappresentare e costituire l’ossatura della struttura istituzionale, amministrativa e burocratica dello Stato e degli enti locali, una mentalità diffusasi poi in tutta la popolazione secondo la quale tutto è dovuto e niente si deve fare per cambiare la situazione. “Così è diventato preponderante il concetto del posto pubblico come vademecum di tutti i problemi”. (cf. Rapporto Unimpresa). “Non c’è dubbio, dunque, che il problema è innanzitutto nelle istituzioni, prima ancora che sul versante economico: la classe dirigente del Sud è stata orientata a una ricerca clientelare e assistenziale del consenso, che ha solo drenato risorse e i governi nazionali lo hanno tollerato in cambio di voti”, come dichiarò Carlo Triglia, professore di sociologia economica a Firenze, già ministro per la Coesione territoriale nel governo Letta. Il ruolo perciò delle istituzioni pubbliche è cruciale. Nel Sud, anche per ragioni storiche, si è affermato e aggravato un modello di potere predatorio. Proprio per questo siamo obbligati a dar ragione persino a Matteo Renzi quando anni fa diceva alla direzione del Pd, convocata per affrontare l’emergenza Sud dopo i dati del rapporto Svimez: “Se il Sud è in difficoltà non è colpa di chi lo avrebbe abbandonato. La retorica del Sud abbandonato è autoassolutoria. L’autoassoluzione è un elemento che concorre alla crisi del Mezzogiorno”. La verità è che oggi nel Sud non si può fare a meno di quella eredità storica che è in grado di esprimere quella forza vitale che deve dirigere e alimentare il “benessere” di un paese. Massimo Lo Cicero in: “Sud a perdere? Rimorsi, rimpianti e premonizioni”, (Rubbettino, 2010, p. 151.) scrive: “La teoria della crescita insegna che la prima fragilità dei deboli nasce dalla perdita della conoscenza accumulata nelle proprie radici”. (Lo Cicero cit., p. 164.). «Tale conoscenza ovviamente non rinvia al sapere che deriva dalla tradizione, né tanto meno della potenza della nostalgia e della memoria, ma appunto si qualifica come “conoscenza accumulata” come deposito del dato collettivo del sapere sociale e del capitale sociale, come riconoscimento reciproco di comportamenti e atteggiamenti virtuosi e creatori di ricchezza comune».
Il Sud però non è affatto una terra arretrata e sottosviluppata, era ed è solamente una realtà “diversa” da quella del resto d’Italia, ancora abbastanza compatta nella struttura sociale, dotata in larghi strati della popolazione di una radicata cultura tradizionale, legata ancora ad un cattolicesimo vissuto e concepito in maniera completamente diversa da come lo si vive altrove. È stato perciò un grave errore tentare di omologare tutto ciò, schiacciare ed annichilire le particolarità, le peculiarità, gli usi, i costumi, le tradizioni, persino la lingua. Infatti per oltre un secolo e mezzo si è inculcato, nell’animo di ogni generazione di meridionali, il sentimento della sconfitta e della rassegnazione, un autodistruttivo fatalismo che ha costituito la psicologia individuale e, soprattutto, la psicologia collettiva dell’intero popolo meridionale. E poiché questo sentimento è stato prodotto principalmente dalla falsificazione storiografica ufficiale chiusa nella cerchia di ambienti ristretti fortemente impregnati di una cultura illuministica, è venuto il tempo di lanciare un’offensiva culturale di largo respiro, cogliendo, eventualmente, le opportunità di alleanza con quei settori del mondo economico ed imprenditoriale meridionale che siano sensibili ad un progetto di autentico sviluppo del Meridione. Per questo la rivisitazione, la ricostruzione e la riconsiderazione del nostro “Risorgimento” sarebbe forse un’operazione culturale e storica utile per individuare più correttamente la nostra identità e per riappropriarci delle nostre vere radici. Ed allora bisogna chiedersi possono oggi la stessa storia e la cultura esser “maestra di vita” e forza di sviluppo? Il voler far rivivere, ai nostri tempi, usi e tradizioni sviluppatisi nel corso dei secoli potrebbe a prima vista apparire anacronistico o comunque di ostacolo alla naturale crescita economica di un territorio. Ma non è così. Recentemente infatti si incominciano ad intravedere i segni di una maggiore consapevolezza della nostra storia che individua nel “vuoto di memoria” la causa principale dell’attuale perdita dell’identità meridionale ed anche il tramonto delle nostre tradizioni economiche e culturali che, fino all’800, avevano contribuito a rendere le nostre regioni non solo meta preferita dei viaggiatori stranieri, ma anche centri di produzione e di scambi internazionali. Un progetto ambizioso quanto difficile per il decollo del Sud, quindi, deve partire da qui. Una verità appare evidente: la cultura, per quanto rinvigorita da nuovi spazi e mezzi, ancora non riesce oggi
nel Meridione né a favorire uno sviluppo di “benessere”, (benessere inteso non solo e non tanto in termini patrimoniali e materiali, ma soprattutto quale ricchezza morale e civile), né ad ottenere una diffusione su vasta scala, soprattutto in ambienti quali quelli dell’economia. Se davvero vogliamo riconoscere alla cultura una funzione propulsiva per il risveglio del Mezzogiorno e delle sue attività, bisogna renderla patrimonio disponibile per tutti. In un Sud che manifesta solo in rari casi attitudini industriali e che, quindi, rivolge le sue attenzioni principalmente alla produzione turistica, artigianale e agricola, nonché a tutte le conseguenti attività commerciali, non si può fare a meno dell’eredità storica che è invece in grado di esprimere quella forza vitale che deve dirigere e alimentare l’economia e il “benessere” di un paese. E dunque, bisogna riportare alla luce tutto questo patrimonio sommerso nelle miniere e nei giacimenti della nostra storia. Infatti solo attingendo al comune bacino dell’identità può generarsi una efficace e redditizia simbiosi tra cultura e impresa: l’economia, recuperando le sue forme naturali (cosiddetta “economia della tradizione”), tornerà così ad essere espressione culturale e la cultura, dal suo canto, potrà diventare il volano dell’economia. Occorre creare perciò nuove possibilità di “intervento attivo” dell’imprenditoria, che consentano di ottenere immediati benefici nella vendita e nella qualità del proprio prodotto. Nell’ambito di una grande strategia di sviluppo, va riconosciuto perciò agli imprenditori un ruolo di fondamentale importanza: – il prodotto, se rinvigorito da tutte le qualità desunte dalla tradizione storica, potrà avere una veste nuova ed antica, nello stesso tempo, che sia vincente sui mercati nazionali e stranieri; – dall’intervento diretto degli imprenditori nelle attività di promozione dei luoghi ove essi operano, deriverà ai loro prodotti il beneficio di un valore aggiunto derivante proprio dal legame con la terra di origine. Tutto questo significa Economia Tradizionale. Il Mezzogiorno d’Italia è come un genio imprigionato in una lampada. Aspetta un Aladino che lo faccia solamente uscire. Segnali propositivi ce ne sono.