Processo penale, riforma necessaria

Con l’entrata in vigore della Carta costituzionale del 1948 il dibattito tra giuristi, accademici e politici si concentrò sulla riforma sistematica del codice di procedura penale (codice Rocco entrato in vigore nel 1930).

Il legislatore del 1930 aveva preso come modello processuale il rito inquisitorio, rito che prevedeva il cumulo delle funzioni processuali (quella inquisitoria e quella del giudizio) in capo ad un unico organo.

Questo unico organo era denominato Giudice inquisitore o accusatore, il quale ricerca, acquisisce e valuta le prove concentrando nei propri poteri sia quello di esercitare l’azione penale, sia quello di formazione della prova e sia il giudizio sulla prova stessa.

Il giudice inquisitore ha il potere di attivare il processo d’ufficio e di ricercare le prove necessarie.

In tale sistema l’imputato è presunto colpevole e non c’è spazio per la contrapposizione dialettica tra le parti; il giudice opera in segreto e decide sulla base prevalentemente di prove scritte e di verbali degli atti compiuti.

Questo codice era il larga parte contrario ai principi costituzionali delineati nella nostra Carta fondamentale.

Il passaggio dal rito inquisitorio a quello accusatorio è stato da parte del legislatore è stato rinviato fino a quando non fu approvata la riforma dell’intero corpo del codice di procedura, con l’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale (codice Vassalli, dal nome del Guardasigilli dell’epoca promulgato nel 1988 ed entrato in vigore nel 1989).

Questo codice aveva come principio ricollegabile all’art. 111 della Carta costituzionale quello del Giusto processo. Corollari del suddetto principio sono:

  • Principio del contraddittorio
  • Principio dell’oralità ed immediatezza
  • Principio di imparzialità e terzietà del giudice
  • Principio di autonomia ed indipendenza del giudice
  • Principio di parità delle parti
  • Principio di ragionevole durata del processo

Nella fase dell’applicazione di tale codice si sono riscontrate profonde lacune, inerente la corretta funzionalità delle disposizioni processuali; fino a quando il legislatore del 2022 non ha proceduto ad una profonda riforma del codice Vassalli, riforma che ha modificato la maggior parte degli articoli, senza procedere alla approvazione e poi alla promulgazione del nuovo codice di procedura, che sostituisse sistematicamente il codice Vassalli.

Tale riforma Decreto legislativo n. 150 2022 (meglio conosciuta  come Riforma Cartabia) non ha dato soluzione ai problemi di funzionalità delle disposizioni processuali (disposizioni che sono strumentali alla corretta applicazione delle disposizioni sostanziali).

Il decreto legislativo n.150 2022 ha profondi profili di incostituzionalità e la Corte Costituzionale potrebbe sanzionare parti di tale decreto legislativo nella parte in cui non prevede la concreta, attuale e puntuale espletazione delle disposizioni costituzionali di cui agli articoli 24 (diritto di difesa) e delle disposizioni costituzionali e precisamente agli articoli 101, 109 e 111 e 112 di cui al titolo IV “Della magistratura, sezione I e sezione II.

Il legislatore è più che mai obbligato a procedere ad una radicale e sistematica riforma del codice di procedura in piena aderenza ai principi costituzionali e per un corretto sistema accusatorio come delineato dalla Carta Costituzionale del 1948.

15 FEBBRAIO: Autonomia rafforzata o secessione?

Il 15 febbraio è la data fissata dal Governo Salvini Di Maio per la firma della Intesa con le Regioni Lombardia Veneto ed Emilia Romagna per la nuova Autonomia rafforzata.

Tuttavia a pochi giorni dalla sottoscrizione nessuno sa niente di questo Patto cosi impegnativo per la vita socioeconomica di tutto il Paese, vista l importanza di dette Regioni, che da sole fanno più del 50% del PIL nazionale.

Sembra incredibile eppure è cosi, anche se dovrà essere sottoposto al Parlamento, che tra l’altro, non potrà emendarlo, ma solo approvare o bocciare, così come cucinato da Governo e regioni beneficiarie.

Per capire di che si tratta occorre rifarsi alla preintesa del 28 febbraio 2018 siglata dal Governo Gentiloni, a pochi giorni dal voto, in un estremo e grottesco tentativo di intestarsi una merito autonomistico verso l’ elettorato del Nord.

Cosicchè si può partire dai contenuti di quella preintesa per esaminare le condizioni minime di quel che ci aspetta e quindi capire la gravità delle conseguenze politiche ed economiche per tutto il Paese ed in particolare a danno del Sud.

Infatti già nel documento Gentiloni emerge chiaramente quella che molti commentatori ha definito come una “secessione economica di fatto” o “secessione morbida”, con la attribuzione a dette Regioni di competenze che, seppur contemplate all’ art 116 della Costituzione, determina, comunque, un vulnus alla Sovranità dello Stato se ad esso sono sottratte anche nella normativa Generale e per di più contemporaneamente.

Istruzione, Ambiente, Sanità, Lavoro, Infrastrutture, Energia, Beni Culturali, in queste materie, così strategiche per lo sviluppo nazionale si trasferirebbe oltre la competenza organizzativa territoriale, anche la potestà di “normazione generale”.

Dalla preintesa, forse aggravata dalla Intesa definitiva prossima, si evince anche l accordo sulle pretese di maggiori finanziamenti a fronte delle maggiori spese collegate alle nuove competenze!

Nonostante le vacue e tentennanti dichiarazioni di Salvini, Zaia e Fontana, che si affannano ad assicurare che le regioni del Mezzogiorno non perderanno nemmeno un euro da questa Autonomia differenziata, in realtà già nella preintesa si scopre l ‘inganno.

Infatti la invarianza finanziaria è prevista solo per il primo anno!

Al suo termine, infatti, l’ art 4 della preintesa prevede la istituzione di una Commissione paritetica per definire gli stanziamenti per le materie delegate sulla base dei “bisogni standard parametrati al gettito fiscale.”

In pratica, maggiori finanziamenti a chi ha maggiori capacità contributiva! Con tanti saluti al principio Costituzionale  della perequazione e della solidarietà Nazionale.

Dunque gravi conseguenze sia sul piano economico per il Sud, ma il Centro non sta molto meglio, e sia sul piano della erosione della Sovranità Nazionale, a cui bisognerebbe rispondere innanzitutto chiedendo una moratoria che permetta un dibattito che è stato fatto finora solo su base regionale sfociati in referendum locali  che certo non possono essere cogenti per tutta la Nazione.

In via subordinata concedere l autonomia ma con esplicita riserva di decisioni strategiche per lo Stato ed infine assoluto divieto di finanziamenti aggiuntivi a scapito del fondo perequativo regionale.

 

*Luciano Schifone, già Assessore regionale in Campania ed Europarlamentare

 

Il futuro delle Regioni? Pensare "macro", oltre il limes

L’amministrazione di una espressione geografica, come una regione, risulta sempre inutile quando, come spesso accade, è vittima della casualità di chi la interpreta senza accorgersi della condizione statuale, vera e propria, in possesso. Mentre ha la capacità di essere un’importante impalcatura di sviluppo laddove al posto della casualità trova spazio la progettualità, il protagonismo delle iniziative, lo scavalcamento del confine, la velocità nel cogliere le aspettative da una parte e le opportunità dall’altra. E le regioni hanno a disposizione le premesse ed i poteri per l’assunzione di qualsivoglia iniziativa nello spazio nazionale ed europeo, a patto che vi sia un programma che si nutra di una visione particolareggiata, fatto non soltanto di toner; e che vi sia soprattutto la voglia di responsabilità, che non può avere nulla a che fare con la frase «questo non mi compete».
Vi sono esperienze regionali che, partendo dalla consapevolezza delle risorse normative in possesso, hanno saputo essere strumento realizzativo, che ponendosi domande su quali bisogni riuscire a soddisfare hanno proiettato il raggio d’azione anche oltre i propri confini. Pensiamo alla Lombardia che ha scavalcato addirittura il confine nazionale, ponendo la propria offerta territoriale in competizione con la Baviera, ad esempio, ma anche con istituzioni extra europee… una regione che nell’Europa non ha visto semplicemente un luogo da cui attingere finanziamenti comunitari, ma un luogo in cui contaminarsi. E i Quattro motori dell’Europa ne sono l’esempio: Rodano-Alpi, Catalogna, Baden Württenberg e Lombardia appunto, siglando un vero e proprio memorandum hanno dato vita ad una partnership di lungo termine per sviluppare insieme tematiche che vanno dalla ricerca all’economia, dall’istruzione all’ambiente, dalla cultura ad altri settori, per la crescita delle rispettive qualità territoriali. E il Veneto degli ultimi anni lascia trasparire la stessa ambizione.
Ovviamente non tutte le regioni italiane hanno le caratteristiche per esercitare un ruolo come quello lombardo o veneto, ma non possono essere ammessi gli atteggiamenti di arrendevolezza che abbandonano i territori centro-meridionali nella pigrizia. La domanda che le regioni “minori” devono porsi sono sostanzialmente due: quali esperienze dimostrano che si possono raggiungere comunque dei validi risultati? Quale spazio può consentire protagonismo istituzionale? Senza ombra di dubbio un’esperienza degna di nota è il Quadrilatero, Marche ed Umbria, che hanno saputo attuare quello scavalcamento necessario a raggiungere una dimensione di estensione territoriale e soprattutto di bisogno da soddisfare, ben più ampio di quello di una regione “minore”. Il progetto infrastrutturale che queste due regioni hanno sapientemente messo in piedi e stanno portando avanti respira in una dimensione di collegamento tra il Tirreno e l’Adriatico in uno spazio interregionale verso l’esterno, verso i Balcani, in quell’emergente Europa di prossimità dove le Marche hanno già saputo declinarsi per garantirsi uno sviluppo di scala.
Degna di menzione è la regione Friuli Venezia-Giulia che, nonostante le piccole dimensioni geografiche e di popolazione, è stata promotrice di una vera e propria politica finanziaria, svolta per il tessuto territoriale delle PMI, attraverso la costituzione di una società di gestione di risparmio funzionale al punto da scavalcare il raggio di azione anche nei confinanti di Austria e  Slovenia… ma soprattutto nel più “grande” Veneto con cui infine ha dato vita ad una comune ed efficiente agenzia di sviluppo che è un unicum per la qualità dei servizi finanziari a vantaggio dell’economia territoriale. La prossimità a ciò che è in corso e in corsa è il nodo focale da sciogliere per la crescita delle regioni “minori”. E come si raggiunge la prossimità se non con un’ampiezza di dimensione geografica e di bisogno?… La realtà ha già superato il limes: l’ha superato l’economia, la società, il livello della sfida.
Le regioni possono trovare le proprie ragioni solo mediante una visione macroregionalistica, che è una scelta per le regioni “maggiori” ed è l’unica chance di sviluppo per le regioni “minori” che arrancano, che restano indietro, che vengono percepite come inutili perché incapaci di rispondere ai progetti di vita individuali e collettivi sia pubblici che privati. Per essere utili ai propri territori storici, all’Italia, all’oltre l’Italia, le Regioni non devono più vivere al passato e devono pensare al futuro che è fatto di sfide di ampia scala contendibili soltanto abbandonando la logica campanilistica e pensando alle macroregioni perché si può essere utili soltanto nella misura del bisogno che si riesce a soddisfare.
Lo Stato centrale deve avere ovviamente una funzione pienamente organica nella vivacità regionale e sicuramente la forma di una Repubblica presidenziale gli consentirebbe di farlo meglio. La dinamicità regionale come spinta proattiva di sviluppo ha bisogno di uno Stato centrale più forte, al passo con i tempi decisionali moderni; uno Stato compatto nei poteri propri e dunque più fluido nel rapporto con i poteri delegati ai territori regionali che per sprigionare le proprie qualità hanno bisogno di più facilità e velocità che purtroppo una Repubblica parlamentare può tenere ingessate.
*Antonio Coppola, collaboratore Charta minuta