Governo longevo oltre il giro di boa

Sembra incredibile, eppure esiste e resiste in Italia un gruppo – piccolo ma variegato e…rumoroso – che a poco meno di tre anni dalla vittoria elettorale del centrodestra ancora non riesce ad accettare quel chiarissimo responso delle urne. I più agguerriti non sono politici parlamentari o esponenti dei partiti ma intellettuali e “opinionisti”, che sembrano afflitti da una specie di Meloni-mania. Incolpano la presidente del Consiglio di ogni cosa he non va, in Italia, in Europa e nel mondo: dalle guerre in corso (“tace, non interviene, non manifesta, non protesta”) ai femminicidi (“incarna una cultura patriarcale”) … E via delirando. Ma questo atteggiamento, che rimbalza da molti talk tv, con ospiti che i conduttori (altro che giornalismo british) aizzano a spararle sempre più in alto, finisce per fornire comodi alibi al centrosinistra. È semplice: se il centrodestra di governo è delegittimato dai guardiani del tempio (e del tempo) democratico, la prossima volta tutto si rimetterà nel verso giusto. Basta aspettare, accusare, esorcizzare e sperare. Appunto: aspetta e spera…

Tutto questo aiuta oggettivamente Giorgia Meloni. Nella seconda metà della legislatura ci sarà molto da fare, ma non c’è alcun pericolo incombente per la tenuta della coalizione; nella politica estera la linea dell’Italia è solida e univoca; i parametri economici mettono il segno “più” e il governo, pur muovendosi in uno scacchiere agitato come mai, dopo ottant’anni, può lavorare senza condizionamenti o pressioni politico-sindacali.

Il sigillo sulla pietra tombale del terzo mandato ha chiuso un capitolo assai complicato che lascia in eredità a tutt’e due gli schieramenti una buona dose di problemi, risentimenti e polemiche. Le prossime regionali, tra autunno e primavera ’26, saranno importanti non solo per i territori, avranno anche un corposo valore politico. Fateci caso. Dopo il definitivo stop al terzo mandato, sembra improvvisamente più vicino il traguardo di fine legislatura, a fine estate del ’27: d’ora in avanti ogni mossa politica avrà in sé anche una proiezione elettorale. Si sceglieranno iniziative sicuramente gradite a consistenti gruppi sociali, campagne condotte dai singoli partiti si alterneranno a battaglie condivise da reali o potenziali alleati.

Se le forze della maggioranza di governo tenteranno di portare a compimento (o anche solo di avviare) riforme in linea con le promesse fatte agli elettori, i partiti di opposizione hanno da percorrere un lungo tratto di strada; e la necessità assoluta di comporre un mosaico di alleanze senza il quale – come oggi attestano tutti i sondaggi elettorali – il centrodestra a guida-Meloni vincerebbe nuovamente, e senza troppa fatica.

Non sarà facile costruire un campo largo e competitivo, che risulti convincente e vincente. In questi anni si sono accumulati troppi rancori, ogni questione – interna o internazionale – ha mostrato crepe profonde, contrasti e gelosie che, di fatto, hanno consentito a Giorgia Meloni di reggere nel tempo e di superare (molto più facile quando si governa) divergenze e lacerazioni che esistono, eccome, all’interno della sua coalizione.

La storia recente, ormai trentennale, del nostro bipolarismo all’italiana c’insegna che il fronte progressista è riuscito a vincere contro il polo berlusconiano, solo quando ha saputo realizzare due condizioni: a) un’alleanza larghissima dal centro alla sinistra; b) un candidato premier “esterno”, che non fosse espressione di un solo partito. Infatti, l’Ulivo nel 1996 e l’Unione dieci anni dopo chiamarono Romando Prodi come “federatore” e candidato dell’intera coalizione per la guida del governo.

Il quadro odierno è simile. La partita è complicata. Per costruire quel campo largo che non c’è – s’intravede in qualche competizione locale, ma è un’altra storia – sarebbe necessaria una comune buona volontà di compiere l’impresa. Ora, siccome lo sanno tutti – ma proprio tutti – che Giuseppe Conte non accetterà mai di sostenere Elly Schlein come anti-Meloni (e viceversa…) il problema è quello di trovare una soluzione diversa, che comporterà rinunce e sacrifici, ambizioni represse e velleità riposte nel cassetto.

Il lavoro è già cominciato. Dietro le quinte (ma ogni tanto fanno capolino su qualche  palco) si sussurrano suggestioni e nomi tutti nuovi. Pochi mesi fa, s’era proposto l’ex capo dell’Agenzia delle entrate, Ernesto Maria Ruffini, ma nessuno ne parla più. Ora è il turno di un paio di sindaci, che taluni sospingono verso il proscenio: quello di Napoli, Gaetano Manfredi; e quella di Genova, Silvia Salis (da non confondere con Ilaria, per carità). C’è chi scommette sulla potenzialità di movimenti civici, per muovere le acque al di fuori dei partiti e convincere una quota di elettori disamorati. E proprio su questo versante sta lavorando l’assessore romano Alessandro Onorato.

Siamo appena ai nastri di partenza.  Di sicuro, al fronte delle opposizioni occorre un gran lavoro e tempo, molto tempo. E pazienza se il governo Meloni durerà ancora a lungo fino a conquistare il record di longevità dell’intera Italia repubblicana. Andreotti diceva che il potere logora chi non ce l’ha. E quel signore se ne intendeva…

Governare l’immigrazione

C’era una volta il giallo-rosso al governo. Non parliamo di calcio, né della Roma né del Lecce… Parliamo della partigianeria politica che, quando era al potere, non ha messo mano alla legge sulla cittadinanza, non ha approvato lo ius soli temperato, non ha gestito le tragiche complessità dell’immigrazione, non ha mai escogitato una via differente per contemperare le esigenze di sicurezza e legalità dei territori italiani con il rispetto del diritto internazionale, su cui pure si era rinunciato aprioristicamente ad aprire bocca.

Parliamo della stessa partigianeria politica che oggi si straccia le vesti sul referendum di giugno 2025, che strilla di fronte al Piano Mattei, che si autodefinisce “riformista” ma agisce in modo reazionario verso tutti i punti riformatori del governo Meloni. Come se non bastasse, è la stessa partigianeria che in modo illiberale, illibertario, antidemocratico e anti-garantista ha attaccato Giorgia Meloni per un presunto spionaggio nei confronti di Luca Casarini e Beppe Caccia, fondatori della Ong Mediterranea. Mentre invece il sistema d’intercettazione Paragon era stato utilizzato in seguito ad una richiesta fatta alla Procura Generale presso la Corte d’Appello di Roma dai servizi segreti, ai tempi in cui era in carica il governo Conte-bis, alias governo giallo-rosso, e quindi ai tempi in cui la componente pentastellata era a capo dei servizi stessi, nel 2019.

Occorre pertanto fare un po’ di chiarezza politica, al di là delle narrativocrazie mediatiche. Dove per politica, nel 2025, possiamo finalmente intendere l’arte di curare l’interesse nazionale attraverso una visione ampia e aperta, strategica, sul piano globale.

Le migrazioni sono un fenomeno certamente non nuovo dell’umanità, e ormai dovremmo riconoscere con maturità quando, come e perché accogliere, o non accogliere, e soprattutto chi accogliere. Ciò va fatto a garanzia della sicurezza urbana, finanziaria (e umana) che deve sempre ispirare lo Stato di diritto post-contemporaneo.

Un governo liberale e securitario, di fronte ad una tendenza immigrazionista fortemente viziata da traffici criminosi paragonabili alle tratte di esseri umani, deve garantire il giusto equilibrio tra ordine e humanitas. Non è infatti più possibile governare come si è fatto per quasi tutto il decennio degli anni Dieci del nuovo, corrente secolo: non è più possibile illudere chi scappa dalle proprie terre disagiate, da un lato, né deludere le aspettative di alleggerimento fiscale di chi lavora e paga regolarmente le imposte in Italia, dall’altro lato. Si sa bene che i flussi migratori dipendono da cause esogene rispetto alla pura volontà degli Stati nazionali occidentali, e si sa altrettanto bene che essi dipendono da cause esterne rispetto agli enti sovranazionali come l’Unione europea. Non ci sono Leviatani né Cassandre in materia. Ma se non è possibile fare cose nuove, né miracoli immediati, è possibile fare nuove le cose. Il governo Meloni sta provando a pensare ad una specie di rivoluzione diplomatica internazionale nella gestione dell’immigrazione con il Piano Mattei, attraverso gli strumenti di una cooperazione bilaterale o multilaterale fra Stati.

Si ricorderà l’evento paradigmatico del summit Italia-Africa tenutosi presso la sede del Senato della Repubblica italiana a Palazzo Madama all’inizio del 2024. In quella occasione Moussa Faki, non uno qualunque bensì il presidente della Commissione africana, aveva sostenuto che l’Italia “è il principale punto di arrivo dei flussi migratori”, e che con l’Africa “l’Italia condivide la preoccupazione di contenere i flussi migratori, la fuga di forza-lavoro giovane”. Secondo Faki, per fermare le ingestibili migrazioni di massa la via è quella di “trasformare in prosperità le aree economicamente depresse dell’Africa”.

Si sta avendo a che fare con l’inizio di una rivoluzione tolemaica delle prospettive geopolitiche, partendo dal coraggio della politica interna italiana. E pertanto non dovrà essere più la disperazione africana a girare attorno alle coste italiane attraverso i viaggi organizzati dalle criminalità transnazionali (per sommarsi al disagio delle classi meno abbienti d’Italia). Ma sarà il knowhow gestionale nonché governativo dell’Italia a viaggiare, per insediarsi globalmente, e supportare gli ardui processi dialettici e produttivi delle democrazie, delle risorse naturali e dei capitali sociali di vari Paesi africani, e non solo. Se poi si pensa che, dopo la stagione apatica di Biden, Trump sembra direzionare l’interesse statunitense sul versante del Sud del mondo con un avvicinamento rilevante alle realtà dell’Africa, (anche) per non lasciare la Cina da sola a tessere strategie sul continente nero, l’Italia ha il ruolo di risvegliare l’Europa intera e di escogitare contenuti progressivi attraverso il Piano Mattei.

Le cose non sempre sono lisce. Soprattutto quando c’è il fermento del cambiamento da perseguire, e il volere popolare da onorare, con in mano sempre e comunque i nobili strumenti di mamma legalità.

In Italia appena un governo divergente intende riformare gli incrostati – e più volte incastrati – meccanismi di potere carsico, avallati da un buonismo internazionale militante, si agitano pulsioni partitico-corporative che di morale hanno ben poco.

L’Internazionale moralista e benpensante del buonismo, fra i suffumigi post-ideologici di un politicamente corretto nichilista capace di uccidere ogni evidenza politica, aggredisce l’empiricità dello Stato di diritto, per monopolizzare l’ermeneutica giudiziaria o dottrinaria, e applicare conseguentemente il diritto in modo distorto, e spesso costoso. Sempre più costoso per le tasche dei ceti medi e medio-bassi d’Italia. Si è giunti persino a piegare il tanto sacro garantismo costituzionale in un doppio binario procedimentale che, irragionevolmente, discrimina i requisiti d’accesso al gratuito patrocinio a spese dello Stato a seconda della categoria umana a cui si appartiene.

Chi aspira ad ottenere il diritto costituzionale al gratuito patrocinio, inviolabile come il diritto di difesa in sé nonché essenziale al concreto realizzarsi di quest’ultimo, deve dimostrare di avere un reddito annuo imponibile, risultante dall’ultima dichiarazione dei redditi, che non deve superare una determinata somma, così come fissata ed aggiornata periodicamente dalla decretazione del Ministero della Giustizia. Nel presentare una legale richiesta di gratuito patrocinio occorre il codice fiscale. La Corte di Cassazione, però, con una pronuncia paradigmatica del 22 ottobre 2024 ha affermato che lo Stato – e quindi la collettività degli italiani – può pagare le spese legali di un cittadino extracomunitario anche senza che questi abbia fornito un proprio codice fiscale.

Il fenomeno della rinuncia pubblicistica a chiedere conto dei conti personali, beneficiando i soli extracomunitari che agiscono davanti ai tribunali o alle corti giudiziarie, è apparentemente innocuo. Ma in realtà per le casse dello Stato, e quindi per le tasche degli italiani dei ceti medi e medio-bassi, questo nuovo corso papabile della giustizia risulterebbe concretamente problematico. Senza dubbio dannoso.

Nel 2022 si era arrivati ad una situazione in cui i gratuiti patrocini per gli stranieri a spese dello Stato (e della collettività degli italiani) erano 48.937, con 39.021 casi in più rispetto ai numeri che si registravano vent’anni prima. A parlare sono i dati di una nota relazione biennale del Ministero della Giustizia al Parlamento. Nel 2022, pertanto, la spesa solo per il gratuito patrocinio dello Stato nonché dei contribuenti d’Italia in favore di persone straniere, che hanno usufruito di assistenza e rappresentanza legali gratuite, è stata di circa 52 milioni di euro, rappresentando più del 24% del totale delle somme destinate al gratuito patrocinio in generale.

L’Italia, per aspirare ad essere patria italeuropea di fermenti da sviluppare senza sosta, dovrà far venire al pettine della legalità ogni dispendioso nonché irragionevolmente discriminatorio doppio binario di garanzie giudiziarie. I meccanismi dei poteri carsici, a braccetto con il buonisticamente corretto di quest’èra di post-verità, di nichilismi e post-ideologie, hanno un costo culturale e finanziario per le famiglie italiane.

Ma la nostra patria italiana ha l’ambiziosa missione di divenire patria italeuropea, in quanto pioniera di una via diplomaticamente divergente in Europa: al fine di garantire ai popoli nazionali uniti quella libertà, quella sicurezza e quei diritti che meritano (che meritiamo!), nel rispetto dei doveri e delle responsabilità. Nonché nel sacro rispetto della nostra identità culturale. Senza dubbio occidentale.

Quelli che: Trump è pazzo…

Negli ultimi anni, molte delle decisioni economiche prese dall’ex presidente Donald Trump sono state liquidate come azioni impulsive, populiste, prive di visione. Ma se ci fosse, invece, una strategia? Se dietro i tweet e le dichiarazioni roboanti si celasse un disegno più ampio, capace di sfruttare le debolezze del sistema globale per rafforzare la posizione degli Stati Uniti al centro dell’ordine economico mondiale? Proviamo, per divertimento, a seguire una narrativa alternativa. Prendiamo i dazi, ad esempio. Non come barriera fine a sé stessa, ma come strumento negoziale. Prima si annunciano con tre mesi di anticipo: un tempo sufficiente per permettere alle aziende americane di fare scorte, prepararsi. In quel trimestre, le controparti straniere iniziano a sudare. Quando i dazi entrano in vigore, le imprese USA hanno già magazzini pieni e il governo ha già costruito il terreno per trattare da una posizione di forza.

Nel frattempo si lavora a qualcosa di più ambizioso: riportare a casa la produzione, soprattutto quella strategica. Parliamo di semiconduttori, intelligenza artificiale, tecnologie avanzate. La politica industriale si veste di pragmatismo: sussidi statali e federali spingono la creazione di nuova capacità produttiva. E tutto accade in tempi rapidi, perché il mercato americano – a differenza di quello europeo – è flessibile, reattivo, abituato a muoversi veloce. La deregolamentazione fa il resto, soprattutto nei settori hi-tech.

E mentre si costruisce il nuovo, si mobilita l’esistente. Migliaia di lavoratori irregolari, invisibili, vengono selettivamente regolarizzati per colmare i vuoti nelle filiere produttive. È l’esercito industriale di riserva: manodopera già presente, pronta, a basso costo. Non serve importare merci, se puoi importare il lavoro.

Sul fronte energetico, l’America riscopre sé stessa. Il fracking, criticato da molti, diventa una leva geopolitica: più indipendenza energetica significa meno ricatti esterni e più potere negoziale nelle relazioni internazionali. I costi energetici bassi rendono competitiva la manifattura. E i dazi? Si usano come leva, si sospendono all’occorrenza, si dosano con intelligenza politica. È precisamente quello che sta facendo Donald Trump. In molti si sono posti retoricamente l domanda: c’è del metodo in questa follia? Probabilmente la domanda più corretta sarebbe questa: c’è della follia in questo metodo?

Ovviamente, tutto ciò può creare instabilità. I mercati diventano nervosi. Ma anche questo, nel grande schema delle cose, non è un difetto: è un’opportunità. Chi vive di volatilità – i grandi fondi, gli operatori finanziari – guadagna proprio nei momenti turbolenti. Wall Street, nonostante le apparenze, non ha mai amato troppo la noia.

E poi c’è la Cina. Il vero obiettivo. Un gigante industriale con una domanda interna ancora fragile, fortemente dipendente dalle esportazioni. Pechino ha investito gran parte delle sue riserve in titoli del Tesoro USA. È, in parte, prigioniera del debito americano. Non può vendere senza danneggiare sé stessa. In questo equilibrio precario, Washington alza i dazi, accelera sul reshoring e sfrutta il vantaggio finanziario strutturale che ha costruito in decenni di egemonia monetaria.

Così si passa dal vecchio modello dei profitti da outsourcing – produrre all’estero per vendere in casa – a un nuovo paradigma: sovraprofitti costruiti sul controllo. Controllo della produzione, del consumo, del mercato, dell’offerta e – se serve – anche della domanda. Una transizione silenziosa, ma potentissima.

Trump è davvero pazzo? Forse. Ma forse è solo un interprete brutale di una strategia che non ha bisogno di essere elegante per essere efficace. E se è così, non è l’imprevedibilità il vero messaggio. È il ritorno della forza come fondamento della politica economica.

Un nuovo codice civile?

Consapevole del rischio dell’impresa che proporrò. Consapevole d’incassare – per poi magari veder cassare – fiumi di critiche, come giurista e come giornalista riformisticamente attivo, approfitto dell’ospitalità di Charta Minuta per rivolgere un appello al governo e a tutte le forze politiche che hanno a cuore l’ulteriore corso della storia che possiamo scrivere, insieme. In questo tempo neo-repubblicano nonché neo-costituzionale, tra conservazione e innovazione, dovremmo codificare nuovamente il diritto civile.

Scriviamo il nuovo codice civile.

Dai fondali delle sinistre più rosse mi censurerebbero, forse. Direbbero che la ricodificazione del diritto civile potrebbe farsi e che anzi sarebbe il caso di farla poiché il codice attuale fu emanato all’inizio degli anni ’40 del Novecento, in pieno regime fascista, ma per nulla al mondo avvierebbero adesso i lavori, ai tempi in cui il partito politico d’Italia più in alto nei sondaggi è Fratelli d’Italia con Giorgia Meloni presidente del Consiglio dei ministri. Le sinistre più rosse opporrebbero al mio appello tutto il loro pregiudizio contro questo governo di destra-centro. Sbaglierebbero: accecati dalle loro post-ideologie, non vedrebbero la luce dell’opportunità di riunirsi attorno ad una commissione per declinare al presente tutto il peso di una tradizione giuridica. Dagli anni ’40 dello scorso secolo ad oggi, infatti, si è andato arricchendo in modo sparso, via via, un magma normativo complementare che necessita di solidificarsi in un sistema codicistico nuovo.

Oggi, non solo i giuristi pratici ma gli stessi cittadini destinatari in quanto tali della legge codificata a sistema certo, devono impiegare tanto tempo – troppo – per comporre i pezzi di ciò che vige nel nostro ordinamento, tra oceaniche legislazioni complementari e realtà tecnologicamente avanzate che dobbiamo sforzarci di ricondurre tra le righe di ciò che fu codificato, egregiamente sì, ma in quel tempo troppo distante.

Dal centrodestra non dovrebbero aver paura di avviare studi e lavori per un nuovo codice civile. Non dovrebbero temere le probabili critiche per le consonanze storiche della codificazione: vari giornali titolerebbero con manierismo antistorico e ipocritamente anacronistico sulla coincidenza tra la destra attuale che codifica e il regime fascista, alla cui epoca il codice civile ancora in vigore risale. Non devono temere questi titoli, tutti coloro che hanno il coraggio di osare per il bene di tutti e di ciascuno, giacché nei fatti si dimostrerebbe ancora una volta che nulla vi è da spartire tra il governo Meloni e l’inizio degli anni ’40 del politragico Novecento.

Consapevoli tutti del grande lume razionale, tecnico-giuridico ed empirico dei fervidi maestri della civilistica che, al netto del triste sistema corporativo di quell’epoca, fecero grande quel codice, e mi riferisco per esempio al giurista Emilio Betti, è giunto il tempo di osare per codificare, nuovamente, il diritto. L’elemento conservativo della tradizione civilistica è fondamentale, poiché conservare la grande metodologia delle fatiche scientifiche di quei tempi potrà recare al nostro tempo, nel suo (nostro) divenire storico e dialettico, il progresso di un nuovo codice più calzante alle sfide che ci attendono. Un codice civile che sappia rispondere più utilmente alla nuova vita sociale ed economica, culturale e tecnologica, con le sue (con le nostre) complessità.

Si garantirebbe più certezza ai privati nelle proprie relazioni giuridicamente rilevanti della nuova èra, con un nuovo codice; e i giuristi pratici avrebbero meno problemi interpretatiti nel ricondurre i fatti dell’attualità all’interno delle fattispecie civilistiche. Le fattispecie civili attualmente in vigore, infatti, pur nella propria generica e astratta riconducibilità alla vita socioeconomica e personologica dei tempi successivi agli anni ’40 del secolo scorso, non sono al passo (nemmeno eventuale) dei problemi che la civiltà digitale, internet o le economie capitalistiche tipiche della nostra èra post-globalizzata pongono quotidianamente. Non da ultimo, a fronte di tutti gli anzidetti benefici dovremmo auspicabilmente celebrare processi civili meno problematici, con minori rischi di abusi giudiziari e con minori interpretazioni ondivaghe da parte dei togati.

Già le sedimentate conquiste storiche, dalle più datate alle più recenti, richiedono una sistemazione più appropriata all’interno di un nuovo codice civile: dal diritto al divorzio risalente al 1970 al diritto bancario del testo unico del 1993, dal diritto dei consumatori del 2005 alle unioni civili del 2016. Le nuove sfide delle intelligenze artificiali, da liberalizzare giuridicamente e in senso antropocentrico nei vari campi dei diritti della personalità o dei diritti della contrattualistica in generale, o dei diritti impresari e societari, richiedono un nuovo codice civile. Interpolare gli articoli con i bis, ter e quater, o allungare il brodo di quelli vigenti, non renderà al cittadino un diritto oggettivo al passo coi peculiari tempi, chiaro, funzionale alla risoluzione o alla prevenzione delle liti fra privati.

Il codice civile attualmente in vigore è stato sì più volte rivisitato e riformato, e ad esso si è aggiunta una mastodontica quantità di leggi nei vari settori, e la stessa Costituzione repubblicana – cronologicamente sopravvenuta alcuni anni dopo, successivamente alla sconfitta del fascismo – ha rivoluzionato in parte l’interpretazione di quel codice. Ma questo giuoco di interpretazioni avanti e indietro non è sufficiente per raggiungere i nuovi orizzonti demo-libertari e sociali che ci aspettano e ci spettano, come cittadini e come giuristi in uno Stato di diritto in continua evoluzione.

Vedrei già pronti coloro che direbbero che il governo rifà il codice come il fascismo nella sua fase più autoritaria fece il suo codice civile. Tuttavia, se il governo accettasse questa mia proposta sfidante e performante di transizione ricodificatoria nel diritto civile, per renderlo più funzionale ad una giustizia civile più certa, più celere e per una vita economica più libera e giusta, non avrebbe bisogno di un avvocato difensore di fronte al tribunale della storia. Ricodificando ciò che negli anni più bui del fascismo venne codificato, prenderebbe le distanze nei fatti – senza bisogno di chiacchierarci sopra – da quel ventennio dittatoriale, come già ha fatto, ed in particolare dalla fase più nefasta di quel ventennio.

Non sarebbe un problema ascoltare e rispondere alle critiche provenienti da più parti. Certamente quelle risposte sarebbero meno faticose rispetto all’invito da fare ai giovani laureati in Giurisprudenza, che dovrebbero mettersi subito sul nuovo codice, a studiare! Ma i giovani aspiranti giuristi in formazione si abituerebbero a quella che da sempre è la vita professionale nel mondo del diritto, una vita sempre aperta allo studio del nuovo, cosciente e irrobustita dallo studio delle fonti giuridiche precedenti.

Tornando alla dimensione politica, chissà, la parte più liberale delle opposizioni attuali potrebbe proporre d’inserire nell’azione ricodificatrice tratti linguistici e specificazioni che rendano più plastica la parità di genere. D’altronde un codice civile è un testo giuridico di portata sub-costituzionale sì, al livello di gerarchia tra le fonti del diritto nel nostro ordinamento, ma comunque di portata paradigmatica e sistemica. La storia delle codificazioni euro-continentali, infatti, lo insegna.

Fortezza centripeta e centrifuga di civiltà attraversata dai fasti civilistici del diritto romano, fucina di coraggio nel perpetuare le buone tradizioni innovandone le azioni: la patria italeuropea, senza paura, in questa auspicabile nuova codificazione del diritto potrà ispirarsi a quel “ricorda di osare sempre” del grande poeta-vate Gabriele D’Annunzio, o a quel sempre verde “abbi il coraggio di conoscere!” di Orazio, ripreso tanti secoli dopo dal razionalismo illuminato di Kant.

Portando ad unità le apparenti contraddizioni culturali delle nostre radici italiane, e facendo di quella unità un paradigma per il nostro coraggio riformatore, tra conservazione e innovazione, rischieremmo di dar lustro – tanto lustro! – alla nostra patria liberale. Il lustro, così come i progressi civici, valgono il rischio di provarci. Consapevolmente, nonché in buona fede. Rischiamo. È giunto il tempo di osare, civilmente, per ricodificare.

Dalla parte dell’Italia

L’aveva previsto quel sapientone di Salomone qualche millennio fa: c’è un tempo per distruggere e uno per costruire, c’è un tempo per strappare e uno per ricucire.  Non si sa con certezza se gli attori che si muovono sulla scena contemporanea abbiano mai dato un’occhiata all’Ecclesiaste ma va da sé che senza scomodare l’intelligenza artificiale anche i meno perspicaci si possono rendere conto che dopo il tempo della rottura è ora di riparare le cose che si sono frantumate.

Calato il sipario sulla sceneggiata Zelensky -Trump protagonisti, con la partecipazione straordinaria di Vance il vice del Tycoon, necessario è ricomporre i cocci se non si vuole che la farsa continui in dramma e tragedia. Ogni giorno in più trascorso facendo chiacchiere in Ucraina e in Russia si continua a morire.

Si sono dati immediatamente da fare Macron da un lato e Starmer di là della Manica in una gara di attivismo concorrenziale con riunioni sostanzialmente fallimentari circa soluzioni concrete da adottare. Un bla-bla tutto orientato in difesa di Zelensky ora con la proposta di inviare militari in Ucraina, non si sa bene sotto quali insegne, ora sul rafforzamento degli arsenali per un esercito unico europeo non si sa bene al comando di chi. L’unica indicazione realistica che traspare in mezzo al vociare su un’ipotetica unità granitica dell’Unione Europea rimane  quella del nostro Presidente del Consiglio. Non è il momento di dividersi nel tifo da curva per Trump o per Zelensky, piuttosto di interloquire con gli Stati Uniti, nel solco di una politica atlantica. Certo tutto più facile sarebbe se l’Unione Europea fosse stata a suo tempo concepita su solide basi e comuni ideali di civiltà giudaico-cristiana non su un prosaico vincolo monetario che sa di mortadella rancida.

“Vengo anch’io, vengo anch’io” non solo dalle confuse ambizioni di questo o quel leader europeo ma anche al nostro interno dove si agitano bandierine dell’una o dell’altra forza politica di opposizione, partiti divisi su tutto ma uniti  in un coro inevitabilmente stonato che addebita a Giorgia Meloni le colpe di questo mondo e dell’altro.  Anche nel recinto della maggioranza s’è vista una certa alacrità di chi, per farsi notare, è apparso un po’ più realista del re, semmai della regina.

Ma c’è un tempo per i politicanti e un tempo per gli statisti. In avaria irreparabile è la locomotiva europea franco-tedesca, gli equilibri politici francesi non splendono al sole, in Germania il parto doloroso di una maggioranza rocambolesca, fatta di popolari in buona salute e di socialdemocratici  alla canna d’ossigeno, evoca l’immagine di un gatto in tangenziale; mentre la destra, in gran forma ma esclusa, resta a guardare sgranocchiando popcorn.

L’Unione Europea, frastornata, prova a battere un colpo ma non sempre i fantasmi riescono a far rumore: brutto viso a Trump e accanto a Zelensky ora e sempre, si però, nella misura i cui… già ma senza gli americani chi paga il biglietto? Un valzer sulle note di armiamoci e partite…

E allora? E allora si torna al realismo della politica e della diplomazia, si torna alla capacità di un governo stabile con un solido rapporto con la nuova amministrazione americana che può fare da mediazione e da unione tra le due sponde dell’Atlantico sia per la pace in Ucraina sia  per la battaglia dei dazi. Tocca all’Italia, tocca a Giorgia Meloni.

“Ma dica da che parte sta, con Trump o con Zelensky”, s’agita la variegata compagnia di quel che fu il centrosinistra, “venga in parlamento, venga riferire” ripete ora questo o quel personaggio riemerso dal passato magari per poi chiedere le dimissioni di questo o quel ministro o del governo del suo insieme. È salutare che l’opposizione alzi la voce e che si faccia sentire, cioè in mancanza di proposte dimostri di non essere sepolta e chieda a gran voce dimissioni. Insomma fa movimento, anzi ammuina. È il “facite ammuina” comando ricondotto a un presunto regolamento da impiegare a bordo delle navi della real marina del regno delle Due Sicilie: “tutti chilli che stanno a poppa vanno a prora, chilli che stanno a sinistra vanno a dritta, chilli che stanno ‘ncoppa vann’abbascio passanno po stesso portuso”.

Fanno cosi i sopravvissuti della prima e seconda repubblica ricalcando comunque un falso, perché la marina borbonica era la più potente e moderna del Mediterraneo e il “ facite ammuina” era una storiella scritta dagli storici piemontesi. Si sa sono stati sempre i vincitori a scrivere la storia. Ma tutto questo avveniva tempo fa, un tempo remoto. Ora è tutta un’altra storia. Già, ma da che parte sta la Meloni? Come sempre dalla parte dell’Italia.

Trump, America First, UE e noi

Dal 20 gennaio 2025, giorno del suo insediamento alla Casa Bianca, Donald J. Trump sta rivoluzionando in maniera profonda la politica statunitense e ruolo degli USA sullo scacchiere mondiale con quasi duecento ordini esecutivi emanati in queste prime settimane.

L’Amministrazione Trump in politica interna si sta concentrando sulla  sicurezza interna e particolarmente sull’immigrazione illegale (la vittoria in  due contee democratiche ispaniche del Texas che non votavano un presidente repubblicano dalle elezioni del 1892 e 1896 fa intendere di come le minoranze etniche vivano questo problema dell’accoglienza indiscriminata e della relativa criminalità urbana e suburbana da parte di molti immigrati clandestini (il Laken Riley Act firmato dal presidente Trump il 29 Gennaio dopo l’approvazione del Bill a larga maggioranza con parte della minoranza democratica che hanno votato con la maggioranza repubblicana, questa legge prende il nome da uno studente della Georgia ucciso  da un immigrato clandestino nel campus universitario) questo  provvedimento rafforza il ruolo dell’ICE (Immigration and Customs  Enforcement) agenzia operativa del dipartimento Sicurezza interna (Department Homeland Security) con a capo Kristi Noem   ex governatrice del South Dakota  e con le  deportations (rimpatri) con accordi con gli Stati di provenienza, sotto la minaccia di dazi verso Canada, Messico (operativi dal 4 febbraio e poi sospesi per un mese) e Cina (ordini esecutivi che da un lato hanno un effetto deterrente economico e dall’altro un effetto di sicurezza ); il problema del Fentanyl, droga degli zombies, che come già accennato in un articolo precedente è una questione di sicurezza nazionale, ci sono alcuni reportage che fanno riflettere sulle conseguenze di questa droga nelle città americane.

Nel campo economico l’Amministrazione Trump è concentrata da un lato con il provvedimento all’esame del Congresso sul tetto del debito, sul taglio strutturale delle imposte (il Tax Cuts and Jobs Act in vigore dal 2017) alcuni tagli fiscali (recentemente è stato approvato un bill  omnibus con quasi tutti i punti della Agenda Trump e in esame al Senato con il procedimento della  Reconciliation volto a superare l’ostruzionismo dem) per le persone fisiche scadono nel 2025 e l’aumento delle tariffe doganali dovrebbero aumentare il gettito fiscale e diminuire il deficit sia commerciale sia  quello più ampio del debito pubblico degli Stati Uniti, come dichiarato (tagli fiscali che se non confermati potrebbero portare alla contrazione del pil usa e a maggiori tasse per i cittadini e lavoratori usa al Senato durante il procedimento di conferma da parte del segretario al Tesoro Bessent e nelle dichiarazioni di Stephen  Marin nominato da Trump a capo del Council Economic Advisers (CEA); i tagli fiscali dovrebbero riguardare anche le pensioni, le mance  e gli straordinari con totale esenzione per le prime due; dall’altro con l’abbattimento della burocrazia  e degli sprechi delle agenzie federali e dipartimenti dell’Esecutivo federale sotto la vigilanza del recente costituito Dipartimento Efficienza governativa (Doge, Department of government efficiency) nonostante alcuni ritardi nell’applicazione di tali misure  da parte di alcuni giudici distrettuali e federali anche se l’orientamento dei giudici è ondivago (un giudice distrettuale  di  Washington John Bants ha respinto nei giorni scorsi un ricorso volto a bloccare al dipartimento del lavoro, al dipartimento della Salute e alla Commissione federale finanziaria per i Consumatori di far  accedere a dati cosiddetti sensibili  al Doge di Elon Musk volto a tagliare il bilancio federale e al suo efficientamento.

Un ordine esecutivo firmato dal presidente Trump ha dato mandato alle agenzie e ai dipartimenti competenti di declassificare documenti segreti relativi all’omicidio del presidente Kennedy, sia quello di Martin Luther King e di Robert Kennedy, ha aperto nuovi scenari su pagine oscure della storia degli Stati Uniti e non solo, circa 2400 file e  14 mila pagine inedite  classificati sono stati declassificati e desecretati; nuove prove sono state trovate da parte  dell’ FBI sull’assassinio del presidente Usa John Kennedy; ordine che ha dato mandato alle agenzie e ai dipartimenti competenti di declassificare sia questo assassinio, sia quello di Martin Luther King e di Robert Kennedy.

In politica estera invece ci sono novità interessanti: l’impegno della presidenza Trump per la pacificazione globale (in una dichiarazione forse passata sotto silenzio il presidente ha detto “spero che Russia, India e Cina vadano d’accordo e che vuole denuclearizzare gli arsenali militari con la cooperazione delle maggiori potenze) e forse una nuova Yalta è all’orizzonte….

Gaza (la tregua reggerà se Hamas rilascerà gli ostaggi nei tempi stabiliti e il popolo palestinese ha diritto di vivere in sicurezza e in pace) e Ucraina sono questioni centrali per la pacificazione globale; in Ucraina già ci sono colloqui formali con la Federazione Russa per porre fine al  conflitto, il team americano è al lavoro il segretario  Rubio,  il direttore della Cia Ratcliffe, il consigliere per la sicurezza nazionale Waltz, l’inviato Kellogg e Witkoff (quest’ultimo ha già avuto un colloquio di ore con il presidente Putin dirigendosi in Russia a Mosca per il rilascio di Fogel insegnante americano recluso nelle prigioni russe accusato per contrabbando e detenzione di droga).

Il vicepresidente degli Stati Uniti Vance alla Conferenza di Monaco sulla sicurezza ha fortemente criticato l’Unione Europea e alle sue inclinazioni antidemocratiche, il riferimento è alle elezioni tedesche di febbraio che hanno effettivamente premiato l’estrema destra di AFD e punito le forze tradizionali, soprattutto il partito socialdemodratico; l’Europa è fuori dagli incontri di pace in Arabia Saudita che vedranno i tema ucraini, statunitensi e russi (importante nei negoziati sarà  Kirill Dmitriev con studi negli Stati Uniti a Stanford  e Harvard) e correndo ai ripari ci sarà un incontro a Parigi sulla questione ucraina e sulla pace in Europa come obbiettivo quello di uscire dall’angolo segno più di debolezza che di forza, il globo corre e l’Europa è come la fortezza Bastiani del celebre libro Il deserto dei Tartari…. in attesa di altri che decideranno il futuro, ma l’Europa con le sue regole inefficaci, con il patto di Stabilità e crescita folle, con le regole di bilancio che non garantiscono crescita e sviluppo con una Banca centrale più proiettata a  calcoli econometrici e a tassi volti a salvare la moneta che non l’economia reale (la moneta senza economia reale solida, senza uno sviluppo, senza un prodotto interno lordo  che cresce a un ritmo sostenuto non reggerà a lungo, è un processo storico, si veda la storia del sesterzo romano e degli Accordi di Bretton Woods che per poco non causarono il crollo del dollaro e furono revisionati nel  1971, decisione del presidente Nixon della non convertibilità del dollaro in oro non sta creando da sola il proprio crollo e la propria disgregazione).

Il presidente Trump e gli Stati Uniti si sono accorti che senza un riequilibrio commerciale (il costo delle uova negli Stati uniti è aumentato e il dipartimento dell’Agricoltura di Rollins è impegnata a ridurre l’inflazione di beni agricoli e ha come obiettivo di portare la Cina a miti consigli in ambito commerciale, senza un crescita robusta, senza un benessere concreto gli Stai Uniti non reggeranno) e a poco giova che il dollaro sia moneta  (governata dalle banche centrali e che invece dovrebbero seguire le indicazioni politiche) di riserva globale nei traffici commerciali traffici commerciali marittimi hanno subito rischi nell’approvvigionamento, supply chain  nel recente passato le criticità di Baltimora, del canale di Suez e di Panama)… Questo incontro a Riad è stato un primo passo verso il disgelo delle relezioni russo-statunitensi; il recente scontro allo Studio Ovale di Venerdì 28 Febbraio tra il presidente Trump,  il vice Vance e il presidente Zelensky ha preoccupato molti in Europa e sarà oggetto di discussione sul tavolo del vertice già stabilito in precedenza tra alcuni Stati Europei e alcuni Stati Nato. Un ruolo importante dovrà ritagliarsi il nostro presidente del Consiglio Meloni “necessario un vertice Usa e Europa per  trovare una posizione comune da sottoporre al presidente russo, necessaria una posizione di prudenza, di cerniera tra gli Usa e Europa e  la nostra Presidente del Consiglio ha questo difficile ruolo per trovare una soluzione accettabile da tutti, notevoli sforzi diplomatici e capacità negoziali che sono nel carattere della presidente (tenendo unita la coalizione di governo e di maggioranza che regge il sistema politico italiano dal 93-94 ad oggi). Il nostro ruolo è centrale anche nelle trattative per evitare i dazi al 25% minacciati da Trump (La Cina ha deciso nel decennio passato un piano Made in China 2025 per incentivare la domanda interna, i consumi interni e la produzione nella repubblica popolare, disarticolando e accorciando le catene di approvvigionamento e una filiera più corta per rendersi più autonoma dal commercio internazionale non rinunciando ad essere pur sempre una nazione esportatrice). Occorre da parte nostra insistere nel far cambiare rotta all’Europa e c’è un alto capitale politico da poter utilizzare per convincere i nostri Partners che alzare i toni non porta a grandi risultati!

PS: Le potenze che hanno scambiato la globalizzazione per mercantilismo sono implose (Regno delle due Sicilie e prima ancora la Francia colbertista che dopo Luigi XIV è implosa con risultato delle guerre Napoleoniche e relativo embargo, neutralità da parte della potenza giovane che fa i primi passi gli Stati Uniti……) la Germania (in recessione) e la Cina dovrebbero studiare di più la Storia, perché essa trasforma ma non cancella.

 

 

 

 

 

 

Genova per loro…

Mettiamoci nei loro panni, anche solo per un momento. L’esito sorprendente delle elezioni regionali in Liguria, che hanno confermato la fiducia al centrodestra, è stato l’ennesima smentita di un’opposizione articolata e irriducibile che da due anni annuncia l’incombente, immanente e imminente crollo del governo Meloni e della sua leadership. Stavolta, in Liguria, erano sicuri che la vittoria sarebbe andata al candidato della sinistra, l’ex ministro Orlando. Gli ingredienti c’erano tutti: la disavventura giudiziaria che travolse la giunta del presidente Toti; la difficoltà oggettiva di affrontare l’appuntamento elettorale anticipato nel pieno della bufera; qualche scricchiolio nella coalizione di governo, talvolta alle prese con eccessivi personalismi e competizioni interne.

Invece, a ridosso della convocazione dei comizi, una telefonata personale di Giorgia Meloni al sindaco di Genova lo ha convinto ad accettare la scommessa, ha sbloccato la situazione e ha creato le premesse di un successo inatteso e clamoroso.

Ora, come sempre, chi vince festeggia e chi perde spiega. Ma nell’opposizione “larga” (quella sì, altro che campo…) politici, opinionisti, intellettuali spiegano poco, perché dopo una brevissima autocritica di maniera, hanno ricominciato a dire peste e corna della coalizione che invece continua a godere del consenso degli italiani.

Chiariamo. Nessuno si aspetta che in quella opposizione “larga” – diciamo da La7 a Repubblica – si manifesti un qualche riconoscimento, almeno parziale, dei meriti e dei risultati di un governo che dopo il primo biennio può puntare credibilmente al traguardo della legislatura. Ma onestà imporrebbe, quanto meno, di smetterla con la tiritera della destra illiberale, della democrazia in pericolo e del totalitarismo dietro l’angolo.

Qualche attenuante la si può riconoscere a quegli scrittori che hanno fatto del fascismo l’oggetto dei loro libri (o delle loro ossessioni) e quindi promuovono le loro opere (o se stessi) secondo la categoria del “fascismo eterno”, che peraltro gli studiosi meno impregnati di ideologismi  considerano fuorviante e lontana dalla verità storica. Ma i politici no. Loro avrebbero il dovere di opporsi al governo Meloni con proposte alternative, prefigurando un’alternativa per il prossimo futuro da sottoporre a  un elettorato che – come dimostrano i risultati delle consultazioni negli ultimi due anni – non se la bevono più, non vogliono piagnistei né grida “al lupo! al lupo!”, ma programmi e proposte convincenti.

È vero. Esiste il problema della scarsa affluenza alle urne; questione che sarebbe sbagliato liquidare con sufficienza ricordando (ad esempio) che in molte democrazie consolidate, come gli Stati Uniti, gli elettori “attivi” sono da anni meno della metà degli aventi diritto. Ma una cosa va detta: un astensionismo così elevato è un problema per tutti, anche per i partiti di maggioranza; ma è un dramma per le forze politiche di opposizione che non riescono ad essere credibili né convincenti.

G7, L’IMPRONTA ITALIANA

In un contesto geopolitico regionale sul quale gravano nubi pesanti, il 2024 si è tuttavia aperto per il nostro Paese in maniera promettente.
E’ un avvio che lascia ben sperare per quello che potremo conseguire, su una pluralità di versanti, anche come presidenza in esercizio di un G7 che sempre più sta acquisendo un ruolo di “cabina di regia “ del mondo.

Si tratta di un risultato importante e non scontato – sul quale vi è da augurarsi possano essere costruiti ulteriori successi – riconducibile soprattutto a due fattori: da un lato, il credito maturato in quest’anno e poco più dal nostro governo presso le principali capitali europee ed alleate; dall’altro, la credibilità personale che il nostro Presidente del Consiglio, che ha saputo conquistarsi e consolidare presso i suoi principali interlocutori europei e “atlantici” oltre che presso i vertici delle Istituzioni comunitarie.
Valgano, a conferma di questo, tre sviluppi registratisi in un ristretto arco di tempo: vale a dire a partire dalla fine del mese appena conclusosi .

  1. La conferenza Italia-Africa

Il primo è rappresentato dal successo di immagine e di sostanza della Conferenza Italia-Africa tenutasi presso il Senato della Repubblica lo scorso 28 e 29 gennaio.
Un evento che, per numero e qualità delle presenze nonché per il rilievo dei temi trattati nelle diverse sessioni (istruzione e formazione; salute; agricoltura; acqua ed energia: in quest’ultimo caso nel giusto convincimento del nostro governo “che l’Italia abbia tutte le carte in regola per diventare l’hub naturale di approvvigionamento energetico per l’intera Europa”) fa del nostro Paese un attore ormai imprescindibile nell’interazione tra l’Occidente e il Sud globale, a cominciare appunto dall’Africa.

Interazione più che mai necessaria in una fase in cui, com’è noto, l’interconnessione tra i diversi “dossier” non consente soluzioni a problemi globali (siano essi ambientali, economici o geo-politici) che non tengano nel debito conto le esigenze di un continente, come quello africano, che detiene il 30% delle risorse minerarie del mondo, il 60% delle terre coltivabili e il 60% della popolazione di età inferiore ai 25 anni.

Non a caso il Presidente Meloni ha tenuto a evidenziare, nel suo intervento di apertura, come la conferenza abbia rappresentato il primo appuntamento internazionale ospitato dall’Italia quale  Presidente del G; e come ciò sia non sia casuale bensì il frutto di una precisa scelta di politica estera “volta a riservare all’Africa un posto d’onore nell’agenda della sua Presidenza del Gruppo dei Sette”.
Il tutto, ha proseguito ( ed è aspetto di fondo che merita di essere sottolineato) con l’obiettivo di scrivere una pagina nuova nella storia delle relazioni tra l’Italia ( e l’Europa ) e l’Africa.
Quella, ha precisato, di ”una cooperazione da pari a pari, lontana da qualsiasi tentazione predatoria, ma anche da quell’impostazione “caritatevole “ nel nostro approccio con l’Africa che mal si concilia con le sue straordinarie potenzialità di sviluppo”.

Aggiungo che il vertice ha anche fornito al nostro Presidente del Consiglio (che si è espressa in sintonia con il messaggio veicolato ai partecipanti la sera prima dal Presidente Mattarella ) di fornire elementi di dettaglio in merito ad alcuni dei progetti intorno ai quali si articolerà il Piano Mattei.
Si tratta di un piano dotato di cospicue risorse finanziarie, nei 5 prioritari settori di intervento che ho sopra evidenziato, funzionali anche a contrastare il drammatico fenomeno dell’ emigrazione illegale e della tratta di esseri umani.

È dunque un’Italia determinata a porsi davvero come quel “ponte per l’Africa per crescere insieme“, che ha dato il titolo alla Conferenza.
In uno spirito di apertura e sincera condivisione con i nostri partner della “sponda sud” ben sintetizzato nelle parole conclusive della nostra premier: “l’Africa che noi vediamo è soprattutto un continente che può e deve stupire, ma che ha bisogno di essere messo alla prova e di competere ad armi pari nel contesto globale;

  1. L’Ucraina e il superamento del veto ungherese

Il secondo sviluppo che conferma la centralità acquisita in Europa dal nostro Paese risiede nel ruolo cruciale svolto da Giorgia Meloni, in occasione del più recente Consiglio europeo per giungere al superamento del veto ungherese allo sblocco del pacchetto di aiuti europei da 50miliardi di euro a beneficio dell’Ucraina aggredita.
Si è trattato, certo, di risultato ottenuto grazie anche a una stretta concertazione del Presidente Meloni con la von der Leyen, Scholz e Macron, nonché al ventilato ricorso da parte dell’UE al meccanismo di sospensione dalla vita comunitaria di uno Stato membro (nel caso di specie l’Ungheria) previsto, in casi precisi, dall’art.

7 paragrafo 2 del Trattato costitutivo dell’Unione con riferimento tra l’altro all’esercizio del diritto di voto.
Ma e’ indubbio – vanno in tale senso anche le valutazioni di qualificati commentatori e “thinktank” non riconducibili al centro-destra – che Orban non avrebbe con ogni probabilità rinunciato alle sue pretese (a quel che consta senza sostanziali contropartite, salvo forse quella -prospettata si dice all’interlocutore dal nostro Presidente del Consiglio – di un futuro ingresso di FIDESZ nel gruppo dei Conservatori e Riformisti/ECR al Parlamento europeo) in assenza dell’opera di “moral suasion” portata avanti con ammirevole determinazione da Giorgia Meloni.

La sua è stata un’azione di convincimento il cui buon esito è stato senza dubbio agevolato dal buon rapporto – basato sulla stima reciproca e su una convergenza su rilevanti temi identitari- che il nostro Presidente del Consiglio ha in questi anni tenuto a mantenere con il suo omologo magiaro.
E questo, nonostante le ripetute sollecitazioni a rompere quel legame, come le viene richiesto reiteratamente dalle famiglie politiche europee più critiche nei confronti delle componenti “sovraniste” come quella di cui Orban e il suo partito sono espressione.

Un atteggiamento coraggioso e coerente, quello di Giorgia Meloni, che ha ora portato i suoi frutti nel superiore interesse dell’Unione Europea e del sostegno alla causa ucraina, in un momento per giunta di particolare delicatezza, nel quale Kiev stenta purtroppo da qualche tempo a ottenere risultati tangibili nella sua coraggiosa resistenza all’aggressione putiniana.
In un recente lucido editoriale sul “Corriere della Sera” Federico Fubini ha ben sintetizzato le lezioni di ordine più generale che si possono trarre dall’accaduto.
La prima è che gli Stati dell’Unione europea non di prima fascia – come appunto l’Ungheria – non possono resistere a oltranza alla massa critica di Germania, Francia e Italia e di tutti gli altri insieme.
La seconda e forse ancora più importante lezione, ha scritto Fubini,  “è che per i principali leader europei – Ursula von der Leyen, Olaf Scholz, Emmanuel Macron e Giorgia Meloni – la sopravvivenza di un’Ucraina indipendente è ormai una questione esistenziale“.

Meglio di una parte dei rispettivi elettorati, i quattro politici più in vista del Continente, ha aggiunto l’editorialista “hanno compreso che una vittoria di Vladimir Putin metterebbe in dubbio il futuro stesso dell’Unione europea”.
In sostanza – ed è difficile non convenire – una “sconfitta dell’Ucraina diverrebbe ancora più devastante per le democrazie europee perché il Cremlino avrebbe così dimostrato che può prevalere contro oltre 230 miliardi di euro di aiuti finanziari e militari già forniti a Kiev dai suoi alleati”.

Di qui,  la valenza (ben più ampia del riassorbimento delle rimostranze del leader di un Paese riottoso) che riveste, da un lato , il venir meno del veto di Budapest al pacchetto di aiuti; dall’altro, il ruolo centrale svolto a tal fine dal nostro Presidente del Consiglio in raccordo con la Commissione Europea e i Capi di Stato e/o di governo di Francia e Germania.
Un’Italia dunque non solo credibile e apprezzata in ambito NATO – nonché attenta a salvaguardare un rapporto privilegiato con Washington chiunque sieda alla Casa Bianca – ma anche entrata ormai a far parte a pieno titolo della ristretta “cabina di regia” di un’Unione europea sempre più chiamata a far fronte a sfide globali.

È un‘Europa che, c’è da augurarsi, riesca quanto prima a dotarsi anche di un ”esercito comune“ e di quel Commissario Ue per la Difesa auspicato nella lettera comune indirizzata nei giorni scorsi ai cittadini europei da Tajani e Weber, figure di vertice del PPE, sulla scia dell’invasione russa dell’Ucraina e delle inquietanti ulteriori mire europee di Vladimir Putin, della guerra di Gaza e degli attacchi alle navi mercantili nel Mar Rosso a opera degli Houthi con la regia iraniana.

  1. La scommessa vinta in Albania

Il terzo sviluppo che il governo Meloni può portare a credito in questo inizio del 2024 è di diversa natura ma non per questo meno importante, toccando un aspetto cruciale come quello della gestione e controllo dei flussi migratori.
Davvero “tout se tient ” direbbero i nostri cugini d’oltralpe.

Si tratta della recente pronuncia con la quale la Corte Costituzionale albanese ha convalidato l’Accordo con l’Italia per la costruzione di due centri di accoglienza/rimpatrio nel Paese balcanico.
Per la massima magistratura del vicino Paese l’intesa Meloni- Rama dello scorso 6 novembre “non lede infatti l’integrità territoriale dell’Albania“.
E’ quanto si legge nel comunicato stampa dell’organo albanese che ha così rigettato le istanze di 30 deputati dell’opposizione e di varie ONG, che avevano richiesto e ottenuto la sospensione del processo di ratifica del protocollo che dovrà ora passare ( ma non si prevedono sorprese) al vaglio dei due Parlamenti.

La ricerca da parte di Giorgia Meloni di una risposta al problema dell’immigrazione illegale che veda il coinvolgimento dei nostri partner di area balcanica e nord-africana (vedasi il caso del noto accordo con la Tunisia ) fa cosi registrare un ulteriore passo avanti.
Passo avanti che vi è da sperare possa poco a poco portare a quell’ approccio globale al problema per il quale il nostro Presidente del Consiglio si sta adoperando sin dall’inizio del suo mandato in stretto raccordo, per quanto possibile, con le istanze comunitarie a cominciare dalla Commissione europea a guida von der Leyen.
E la sintonia, consolidatasi in queste ultime settimane, tra quest’ultima e Giorgia Meloni costituisce un altro dei tratti politicamente qualificanti dell’attuale momento politico a livello europeo, con verosimili ricadute sulle scelte non facili (per una pluralità di motivi) cui il nostro governo si troverà confrontato allorché si tratterà di rinnovare i vertici della stessa Commissione dopo le elezioni europee del prossimo giugno.

  1. C’è anche il Mar Rosso

A conferma del positivo momento che sta vivendo la nostra politica estera e della credibilità del nostro governo e Paese sulla scena internazionale vi è poi uno sviluppo più recente.

Mi riferisco al fatto che l’Unione Europea ha deciso di affidare proprio all’Italia il comando tattico, cioè la guida sul campo con un nostro Ammiraglio, della missione aeronavale nel Mar Rosso (che prenderà il via il 19 febbraio) per vigilare sul traffico marittimo messo in pericolo dagli attacchi missilistici con droni da parte degli Houthi .
Eravamo in lizza per la guida di “Aspides” con la Francia e la Grecia .
Alla fine l’abbiamo spuntata noi.

“Si tratta di un ulteriore riconoscimento – ha commentato il Ministro Crosetto – dell’impegno del governo e della Difesa e della competenza e professionalità della nostra Marina Militare “.
Alla scelta in parola non è poi estraneo, come ha opportunamente ricordato il vice-Presidente e Ministro Tajani, il fatto che il lancio della missione sia soprattutto il frutto di “un’iniziativa politica del nostro Paese che ha portato con sé Francia e Germania“.

La missione a guida italiana ( con proprie distinte regole di ingaggio, di natura squisitamente difensiva) affiancherà quella a guida anglo-americana “Prosperity Guardian” che da settimane si scontra con gli Houthi anche colpendo le loro basi in territorio yemenita.

Siamo dunque in presenza, è lecito dire, di una politica estera del nostro esecutivo articolata su vari e interconnessi versanti, innovativa nella scelta delle soluzioni ai problemi che di volta in voltasi pongono e sorretta da una apprezzabile visione d’insieme (quella che la stessa Giorgia Meloni ha più volte esplicitato anche in Aula) che ha fortemente contribuito, in questi mesi, a fare del nostro governo e della nostra Nazione un interlocutore ascoltato e credibile su entrambi i lati dell’Atlantico.
È una visione d’insieme che dovrebbe ora trovare nella nostra Presidenza del G7 un’ulteriore preziosa d’opportunità di esprimersi al meglio, al servizio dei valori dei quali l’Italia e l’Occidente tutto sono espressione.

Via della Seta, il giusto “no” del governo italiano

Il Primo Ministro italiano Giorgia Meloni ha fatto un regalo di Natale ad un’Europa libera e prospera all’inizio di questo mese, quando ha abbandonato l’accordo dell’Italia con Pechino sulla Belt and Road Initiative.
Nonostante le assicurazioni del Partito Democratico di centrosinistra che inizialmente ha orchestrato l’accordo, l’Italia, come la maggior parte dei 17 paesi dell’Unione Europea che ci hanno firmato accordi, non ha mai tratto molti benefici tangibili dal suo rapporto con la Cina. Invece, Pechino ha utilizzato gli accordi per rafforzare il suo potere globale e ostentare la sua influenza.

Più nello specifico, Pechino ha utilizzato la Belt and Road per dividere ed emarginare l’Europa, acquistando porti e altre infrastrutture critiche, monopolizzando il mercato delle telecomunicazioni e di altri importanti settori commerciali e spingendo le nazioni europee a competere per l’attenzione e per le intese con la Cina piuttosto che lavorare insieme nel loro migliore interesse.

La Meloni ha invertito questa dinamica e ha messo l’Europa davanti alla Cina fin dal primo giorno. Nel 2022, poco prima delle elezioni legislative italiane, la Meloni ha espresso sostegno a Taiwan, facendo arrabbiare l’ambasciata cinese. Lo scorso marzo ha visitato l’India, rafforzando i legami tra Roma e Nuova Delhi, riducendo ulteriormente l’importanza delle relazioni cinesi.

Già durante l’estate, prima della sua visita di luglio a Washington, la Meloni aveva segnalato che la fine del percorso per l’accordo sulla Belt and Road era imminente. Ma tagliando finalmente il cordone, la Meloni ha segnalato che ne ha avuto abbastanza, dimostrando vero coraggio e leadership e dando il buon esempio agli altri nella comunità transatlantica.

Tuttavia, Roma non deve adagiarsi sugli allori. La Cina probabilmente metterà in atto ritorsioni politiche e commerciali contro l’Italia. Pechino ha tentato proprio questo con la Lituania quando Vilnius si è ritirata dal 17+1, l’iniziativa diplomatica del Partito comunista cinese nell’Europa centrale e orientale. Inoltre, Pechino continuerà a prendere di mira le infrastrutture italiane, a partire dall’assicurarsi una partecipazione nel porto strategico di Trieste, rendendo l’Italia vulnerabile alle infiltrazioni cinesi ed esercitando pressioni sull’Alleanza Atlantica nel Mediterraneo.

Per continuare a respingere le avances di Pechino, Roma deve guardare più vicino a casa per gli investimenti. Prendiamo ad esempio il porto di Taranto. Come ha recentemente riportato il quotidiano italiano La Verità, sarebbe probabilmente caduto nelle mani di Pechino se non fosse stato per un investimento di 60 milioni di dollari da parte di un consorzio polacco nel settore della logistica.

Ma per trasformare casi individuali come questo in eventi ricorrenti, l’Italia ha bisogno di una visione strategica più ampia. Il rilancio del Baltic-Adriatic Corridor, che collega l’Europa meridionale alla Polonia, nonché al Caucaso e all’Asia centrale, è un’idea promettente. E la Meloni ha già proposto il Piano Mattei, una partnership con l’Africa settentrionale e occidentale per costruire una comunità nel Mediterraneo.

Il passo successivo più immediato e ovvio, tuttavia, è che Roma aderisca all’Iniziativa dei Tre Mari, come ha fatto la Grecia a settembre. I “Tre Mari” si riferiscono al Mar Baltico, all’Adriatico e al Mar Nero, e l’iniziativa consolidata comprende già 13 stati che lavorano insieme per costruire connettività e creare posti di lavoro, crescita, stabilità e prosperità. Questo è l’opposto della visione malevola della Cina per la regione.

Aderendo, l’Italia non solo darebbe all’Iniziativa un forte punto d’appoggio nel Mediterraneo, ma aiuterebbe anche a rafforzare le sue relazioni con gli Stati Uniti, con cui potrebbe collaborare per frenare l’influenza cinese nel Nord Africa, dove Pechino cerca di espandere la sua influenza e fare pressione sul fianco meridionale della NATO. Allo stesso modo, l’Italia migliorerebbe anche il rapporto dell’iniziativa con l’India, che offre opportunità di espandere le fonti di energia e la connettività digitale. A loro volta, sia Washington che Nuova Delhi potrebbero anche aumentare i loro investimenti nella stessa Italia in una prospettiva filo-occidentale e anti-cinese.

È incoraggiante che Giorgia Meloni abbia già mostrato interesse per la Three Seas Initiative. Lo scorso luglio membri del governo italiano hanno partecipato ad un evento organizzato a Roma dalle ambasciate di Polonia e Romania e specificamente dedicato a questo forum internazionale. Inoltre, a settembre, gli influenti think tank italiani FareFuturo e il Centro Studi Machiavelli hanno ospitato delegazioni internazionali sul futuro ruolo dell’Italia nell’Iniziativa dei Tre Mari.

Se Roma fa il salto e si unisce all’Iniziativa dei Tre Mari, il regalo di Natale della Meloni di aver lasciato la Cina potrebbe portare a un nuovo anno davvero felice e prospero.

Questo articolo è apparso sul Washington Times il 27 dicembre 2023

Processo penale, riforma necessaria

Con l’entrata in vigore della Carta costituzionale del 1948 il dibattito tra giuristi, accademici e politici si concentrò sulla riforma sistematica del codice di procedura penale (codice Rocco entrato in vigore nel 1930).

Il legislatore del 1930 aveva preso come modello processuale il rito inquisitorio, rito che prevedeva il cumulo delle funzioni processuali (quella inquisitoria e quella del giudizio) in capo ad un unico organo.

Questo unico organo era denominato Giudice inquisitore o accusatore, il quale ricerca, acquisisce e valuta le prove concentrando nei propri poteri sia quello di esercitare l’azione penale, sia quello di formazione della prova e sia il giudizio sulla prova stessa.

Il giudice inquisitore ha il potere di attivare il processo d’ufficio e di ricercare le prove necessarie.

In tale sistema l’imputato è presunto colpevole e non c’è spazio per la contrapposizione dialettica tra le parti; il giudice opera in segreto e decide sulla base prevalentemente di prove scritte e di verbali degli atti compiuti.

Questo codice era il larga parte contrario ai principi costituzionali delineati nella nostra Carta fondamentale.

Il passaggio dal rito inquisitorio a quello accusatorio è stato da parte del legislatore è stato rinviato fino a quando non fu approvata la riforma dell’intero corpo del codice di procedura, con l’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale (codice Vassalli, dal nome del Guardasigilli dell’epoca promulgato nel 1988 ed entrato in vigore nel 1989).

Questo codice aveva come principio ricollegabile all’art. 111 della Carta costituzionale quello del Giusto processo. Corollari del suddetto principio sono:

  • Principio del contraddittorio
  • Principio dell’oralità ed immediatezza
  • Principio di imparzialità e terzietà del giudice
  • Principio di autonomia ed indipendenza del giudice
  • Principio di parità delle parti
  • Principio di ragionevole durata del processo

Nella fase dell’applicazione di tale codice si sono riscontrate profonde lacune, inerente la corretta funzionalità delle disposizioni processuali; fino a quando il legislatore del 2022 non ha proceduto ad una profonda riforma del codice Vassalli, riforma che ha modificato la maggior parte degli articoli, senza procedere alla approvazione e poi alla promulgazione del nuovo codice di procedura, che sostituisse sistematicamente il codice Vassalli.

Tale riforma Decreto legislativo n. 150 2022 (meglio conosciuta  come Riforma Cartabia) non ha dato soluzione ai problemi di funzionalità delle disposizioni processuali (disposizioni che sono strumentali alla corretta applicazione delle disposizioni sostanziali).

Il decreto legislativo n.150 2022 ha profondi profili di incostituzionalità e la Corte Costituzionale potrebbe sanzionare parti di tale decreto legislativo nella parte in cui non prevede la concreta, attuale e puntuale espletazione delle disposizioni costituzionali di cui agli articoli 24 (diritto di difesa) e delle disposizioni costituzionali e precisamente agli articoli 101, 109 e 111 e 112 di cui al titolo IV “Della magistratura, sezione I e sezione II.

Il legislatore è più che mai obbligato a procedere ad una radicale e sistematica riforma del codice di procedura in piena aderenza ai principi costituzionali e per un corretto sistema accusatorio come delineato dalla Carta Costituzionale del 1948.