Genova per loro…

Mettiamoci nei loro panni, anche solo per un momento. L’esito sorprendente delle elezioni regionali in Liguria, che hanno confermato la fiducia al centrodestra, è stato l’ennesima smentita di un’opposizione articolata e irriducibile che da due anni annuncia l’incombente, immanente e imminente crollo del governo Meloni e della sua leadership. Stavolta, in Liguria, erano sicuri che la vittoria sarebbe andata al candidato della sinistra, l’ex ministro Orlando. Gli ingredienti c’erano tutti: la disavventura giudiziaria che travolse la giunta del presidente Toti; la difficoltà oggettiva di affrontare l’appuntamento elettorale anticipato nel pieno della bufera; qualche scricchiolio nella coalizione di governo, talvolta alle prese con eccessivi personalismi e competizioni interne.

Invece, a ridosso della convocazione dei comizi, una telefonata personale di Giorgia Meloni al sindaco di Genova lo ha convinto ad accettare la scommessa, ha sbloccato la situazione e ha creato le premesse di un successo inatteso e clamoroso.

Ora, come sempre, chi vince festeggia e chi perde spiega. Ma nell’opposizione “larga” (quella sì, altro che campo…) politici, opinionisti, intellettuali spiegano poco, perché dopo una brevissima autocritica di maniera, hanno ricominciato a dire peste e corna della coalizione che invece continua a godere del consenso degli italiani.

Chiariamo. Nessuno si aspetta che in quella opposizione “larga” – diciamo da La7 a Repubblica – si manifesti un qualche riconoscimento, almeno parziale, dei meriti e dei risultati di un governo che dopo il primo biennio può puntare credibilmente al traguardo della legislatura. Ma onestà imporrebbe, quanto meno, di smetterla con la tiritera della destra illiberale, della democrazia in pericolo e del totalitarismo dietro l’angolo.

Qualche attenuante la si può riconoscere a quegli scrittori che hanno fatto del fascismo l’oggetto dei loro libri (o delle loro ossessioni) e quindi promuovono le loro opere (o se stessi) secondo la categoria del “fascismo eterno”, che peraltro gli studiosi meno impregnati di ideologismi  considerano fuorviante e lontana dalla verità storica. Ma i politici no. Loro avrebbero il dovere di opporsi al governo Meloni con proposte alternative, prefigurando un’alternativa per il prossimo futuro da sottoporre a  un elettorato che – come dimostrano i risultati delle consultazioni negli ultimi due anni – non se la bevono più, non vogliono piagnistei né grida “al lupo! al lupo!”, ma programmi e proposte convincenti.

È vero. Esiste il problema della scarsa affluenza alle urne; questione che sarebbe sbagliato liquidare con sufficienza ricordando (ad esempio) che in molte democrazie consolidate, come gli Stati Uniti, gli elettori “attivi” sono da anni meno della metà degli aventi diritto. Ma una cosa va detta: un astensionismo così elevato è un problema per tutti, anche per i partiti di maggioranza; ma è un dramma per le forze politiche di opposizione che non riescono ad essere credibili né convincenti.

G7, L’IMPRONTA ITALIANA

In un contesto geopolitico regionale sul quale gravano nubi pesanti, il 2024 si è tuttavia aperto per il nostro Paese in maniera promettente.
E’ un avvio che lascia ben sperare per quello che potremo conseguire, su una pluralità di versanti, anche come presidenza in esercizio di un G7 che sempre più sta acquisendo un ruolo di “cabina di regia “ del mondo.

Si tratta di un risultato importante e non scontato – sul quale vi è da augurarsi possano essere costruiti ulteriori successi – riconducibile soprattutto a due fattori: da un lato, il credito maturato in quest’anno e poco più dal nostro governo presso le principali capitali europee ed alleate; dall’altro, la credibilità personale che il nostro Presidente del Consiglio, che ha saputo conquistarsi e consolidare presso i suoi principali interlocutori europei e “atlantici” oltre che presso i vertici delle Istituzioni comunitarie.
Valgano, a conferma di questo, tre sviluppi registratisi in un ristretto arco di tempo: vale a dire a partire dalla fine del mese appena conclusosi .

  1. La conferenza Italia-Africa

Il primo è rappresentato dal successo di immagine e di sostanza della Conferenza Italia-Africa tenutasi presso il Senato della Repubblica lo scorso 28 e 29 gennaio.
Un evento che, per numero e qualità delle presenze nonché per il rilievo dei temi trattati nelle diverse sessioni (istruzione e formazione; salute; agricoltura; acqua ed energia: in quest’ultimo caso nel giusto convincimento del nostro governo “che l’Italia abbia tutte le carte in regola per diventare l’hub naturale di approvvigionamento energetico per l’intera Europa”) fa del nostro Paese un attore ormai imprescindibile nell’interazione tra l’Occidente e il Sud globale, a cominciare appunto dall’Africa.

Interazione più che mai necessaria in una fase in cui, com’è noto, l’interconnessione tra i diversi “dossier” non consente soluzioni a problemi globali (siano essi ambientali, economici o geo-politici) che non tengano nel debito conto le esigenze di un continente, come quello africano, che detiene il 30% delle risorse minerarie del mondo, il 60% delle terre coltivabili e il 60% della popolazione di età inferiore ai 25 anni.

Non a caso il Presidente Meloni ha tenuto a evidenziare, nel suo intervento di apertura, come la conferenza abbia rappresentato il primo appuntamento internazionale ospitato dall’Italia quale  Presidente del G; e come ciò sia non sia casuale bensì il frutto di una precisa scelta di politica estera “volta a riservare all’Africa un posto d’onore nell’agenda della sua Presidenza del Gruppo dei Sette”.
Il tutto, ha proseguito ( ed è aspetto di fondo che merita di essere sottolineato) con l’obiettivo di scrivere una pagina nuova nella storia delle relazioni tra l’Italia ( e l’Europa ) e l’Africa.
Quella, ha precisato, di ”una cooperazione da pari a pari, lontana da qualsiasi tentazione predatoria, ma anche da quell’impostazione “caritatevole “ nel nostro approccio con l’Africa che mal si concilia con le sue straordinarie potenzialità di sviluppo”.

Aggiungo che il vertice ha anche fornito al nostro Presidente del Consiglio (che si è espressa in sintonia con il messaggio veicolato ai partecipanti la sera prima dal Presidente Mattarella ) di fornire elementi di dettaglio in merito ad alcuni dei progetti intorno ai quali si articolerà il Piano Mattei.
Si tratta di un piano dotato di cospicue risorse finanziarie, nei 5 prioritari settori di intervento che ho sopra evidenziato, funzionali anche a contrastare il drammatico fenomeno dell’ emigrazione illegale e della tratta di esseri umani.

È dunque un’Italia determinata a porsi davvero come quel “ponte per l’Africa per crescere insieme“, che ha dato il titolo alla Conferenza.
In uno spirito di apertura e sincera condivisione con i nostri partner della “sponda sud” ben sintetizzato nelle parole conclusive della nostra premier: “l’Africa che noi vediamo è soprattutto un continente che può e deve stupire, ma che ha bisogno di essere messo alla prova e di competere ad armi pari nel contesto globale;

  1. L’Ucraina e il superamento del veto ungherese

Il secondo sviluppo che conferma la centralità acquisita in Europa dal nostro Paese risiede nel ruolo cruciale svolto da Giorgia Meloni, in occasione del più recente Consiglio europeo per giungere al superamento del veto ungherese allo sblocco del pacchetto di aiuti europei da 50miliardi di euro a beneficio dell’Ucraina aggredita.
Si è trattato, certo, di risultato ottenuto grazie anche a una stretta concertazione del Presidente Meloni con la von der Leyen, Scholz e Macron, nonché al ventilato ricorso da parte dell’UE al meccanismo di sospensione dalla vita comunitaria di uno Stato membro (nel caso di specie l’Ungheria) previsto, in casi precisi, dall’art.

7 paragrafo 2 del Trattato costitutivo dell’Unione con riferimento tra l’altro all’esercizio del diritto di voto.
Ma e’ indubbio – vanno in tale senso anche le valutazioni di qualificati commentatori e “thinktank” non riconducibili al centro-destra – che Orban non avrebbe con ogni probabilità rinunciato alle sue pretese (a quel che consta senza sostanziali contropartite, salvo forse quella -prospettata si dice all’interlocutore dal nostro Presidente del Consiglio – di un futuro ingresso di FIDESZ nel gruppo dei Conservatori e Riformisti/ECR al Parlamento europeo) in assenza dell’opera di “moral suasion” portata avanti con ammirevole determinazione da Giorgia Meloni.

La sua è stata un’azione di convincimento il cui buon esito è stato senza dubbio agevolato dal buon rapporto – basato sulla stima reciproca e su una convergenza su rilevanti temi identitari- che il nostro Presidente del Consiglio ha in questi anni tenuto a mantenere con il suo omologo magiaro.
E questo, nonostante le ripetute sollecitazioni a rompere quel legame, come le viene richiesto reiteratamente dalle famiglie politiche europee più critiche nei confronti delle componenti “sovraniste” come quella di cui Orban e il suo partito sono espressione.

Un atteggiamento coraggioso e coerente, quello di Giorgia Meloni, che ha ora portato i suoi frutti nel superiore interesse dell’Unione Europea e del sostegno alla causa ucraina, in un momento per giunta di particolare delicatezza, nel quale Kiev stenta purtroppo da qualche tempo a ottenere risultati tangibili nella sua coraggiosa resistenza all’aggressione putiniana.
In un recente lucido editoriale sul “Corriere della Sera” Federico Fubini ha ben sintetizzato le lezioni di ordine più generale che si possono trarre dall’accaduto.
La prima è che gli Stati dell’Unione europea non di prima fascia – come appunto l’Ungheria – non possono resistere a oltranza alla massa critica di Germania, Francia e Italia e di tutti gli altri insieme.
La seconda e forse ancora più importante lezione, ha scritto Fubini,  “è che per i principali leader europei – Ursula von der Leyen, Olaf Scholz, Emmanuel Macron e Giorgia Meloni – la sopravvivenza di un’Ucraina indipendente è ormai una questione esistenziale“.

Meglio di una parte dei rispettivi elettorati, i quattro politici più in vista del Continente, ha aggiunto l’editorialista “hanno compreso che una vittoria di Vladimir Putin metterebbe in dubbio il futuro stesso dell’Unione europea”.
In sostanza – ed è difficile non convenire – una “sconfitta dell’Ucraina diverrebbe ancora più devastante per le democrazie europee perché il Cremlino avrebbe così dimostrato che può prevalere contro oltre 230 miliardi di euro di aiuti finanziari e militari già forniti a Kiev dai suoi alleati”.

Di qui,  la valenza (ben più ampia del riassorbimento delle rimostranze del leader di un Paese riottoso) che riveste, da un lato , il venir meno del veto di Budapest al pacchetto di aiuti; dall’altro, il ruolo centrale svolto a tal fine dal nostro Presidente del Consiglio in raccordo con la Commissione Europea e i Capi di Stato e/o di governo di Francia e Germania.
Un’Italia dunque non solo credibile e apprezzata in ambito NATO – nonché attenta a salvaguardare un rapporto privilegiato con Washington chiunque sieda alla Casa Bianca – ma anche entrata ormai a far parte a pieno titolo della ristretta “cabina di regia” di un’Unione europea sempre più chiamata a far fronte a sfide globali.

È un‘Europa che, c’è da augurarsi, riesca quanto prima a dotarsi anche di un ”esercito comune“ e di quel Commissario Ue per la Difesa auspicato nella lettera comune indirizzata nei giorni scorsi ai cittadini europei da Tajani e Weber, figure di vertice del PPE, sulla scia dell’invasione russa dell’Ucraina e delle inquietanti ulteriori mire europee di Vladimir Putin, della guerra di Gaza e degli attacchi alle navi mercantili nel Mar Rosso a opera degli Houthi con la regia iraniana.

  1. La scommessa vinta in Albania

Il terzo sviluppo che il governo Meloni può portare a credito in questo inizio del 2024 è di diversa natura ma non per questo meno importante, toccando un aspetto cruciale come quello della gestione e controllo dei flussi migratori.
Davvero “tout se tient ” direbbero i nostri cugini d’oltralpe.

Si tratta della recente pronuncia con la quale la Corte Costituzionale albanese ha convalidato l’Accordo con l’Italia per la costruzione di due centri di accoglienza/rimpatrio nel Paese balcanico.
Per la massima magistratura del vicino Paese l’intesa Meloni- Rama dello scorso 6 novembre “non lede infatti l’integrità territoriale dell’Albania“.
E’ quanto si legge nel comunicato stampa dell’organo albanese che ha così rigettato le istanze di 30 deputati dell’opposizione e di varie ONG, che avevano richiesto e ottenuto la sospensione del processo di ratifica del protocollo che dovrà ora passare ( ma non si prevedono sorprese) al vaglio dei due Parlamenti.

La ricerca da parte di Giorgia Meloni di una risposta al problema dell’immigrazione illegale che veda il coinvolgimento dei nostri partner di area balcanica e nord-africana (vedasi il caso del noto accordo con la Tunisia ) fa cosi registrare un ulteriore passo avanti.
Passo avanti che vi è da sperare possa poco a poco portare a quell’ approccio globale al problema per il quale il nostro Presidente del Consiglio si sta adoperando sin dall’inizio del suo mandato in stretto raccordo, per quanto possibile, con le istanze comunitarie a cominciare dalla Commissione europea a guida von der Leyen.
E la sintonia, consolidatasi in queste ultime settimane, tra quest’ultima e Giorgia Meloni costituisce un altro dei tratti politicamente qualificanti dell’attuale momento politico a livello europeo, con verosimili ricadute sulle scelte non facili (per una pluralità di motivi) cui il nostro governo si troverà confrontato allorché si tratterà di rinnovare i vertici della stessa Commissione dopo le elezioni europee del prossimo giugno.

  1. C’è anche il Mar Rosso

A conferma del positivo momento che sta vivendo la nostra politica estera e della credibilità del nostro governo e Paese sulla scena internazionale vi è poi uno sviluppo più recente.

Mi riferisco al fatto che l’Unione Europea ha deciso di affidare proprio all’Italia il comando tattico, cioè la guida sul campo con un nostro Ammiraglio, della missione aeronavale nel Mar Rosso (che prenderà il via il 19 febbraio) per vigilare sul traffico marittimo messo in pericolo dagli attacchi missilistici con droni da parte degli Houthi .
Eravamo in lizza per la guida di “Aspides” con la Francia e la Grecia .
Alla fine l’abbiamo spuntata noi.

“Si tratta di un ulteriore riconoscimento – ha commentato il Ministro Crosetto – dell’impegno del governo e della Difesa e della competenza e professionalità della nostra Marina Militare “.
Alla scelta in parola non è poi estraneo, come ha opportunamente ricordato il vice-Presidente e Ministro Tajani, il fatto che il lancio della missione sia soprattutto il frutto di “un’iniziativa politica del nostro Paese che ha portato con sé Francia e Germania“.

La missione a guida italiana ( con proprie distinte regole di ingaggio, di natura squisitamente difensiva) affiancherà quella a guida anglo-americana “Prosperity Guardian” che da settimane si scontra con gli Houthi anche colpendo le loro basi in territorio yemenita.

Siamo dunque in presenza, è lecito dire, di una politica estera del nostro esecutivo articolata su vari e interconnessi versanti, innovativa nella scelta delle soluzioni ai problemi che di volta in voltasi pongono e sorretta da una apprezzabile visione d’insieme (quella che la stessa Giorgia Meloni ha più volte esplicitato anche in Aula) che ha fortemente contribuito, in questi mesi, a fare del nostro governo e della nostra Nazione un interlocutore ascoltato e credibile su entrambi i lati dell’Atlantico.
È una visione d’insieme che dovrebbe ora trovare nella nostra Presidenza del G7 un’ulteriore preziosa d’opportunità di esprimersi al meglio, al servizio dei valori dei quali l’Italia e l’Occidente tutto sono espressione.

Via della Seta, il giusto “no” del governo italiano

Il Primo Ministro italiano Giorgia Meloni ha fatto un regalo di Natale ad un’Europa libera e prospera all’inizio di questo mese, quando ha abbandonato l’accordo dell’Italia con Pechino sulla Belt and Road Initiative.
Nonostante le assicurazioni del Partito Democratico di centrosinistra che inizialmente ha orchestrato l’accordo, l’Italia, come la maggior parte dei 17 paesi dell’Unione Europea che ci hanno firmato accordi, non ha mai tratto molti benefici tangibili dal suo rapporto con la Cina. Invece, Pechino ha utilizzato gli accordi per rafforzare il suo potere globale e ostentare la sua influenza.

Più nello specifico, Pechino ha utilizzato la Belt and Road per dividere ed emarginare l’Europa, acquistando porti e altre infrastrutture critiche, monopolizzando il mercato delle telecomunicazioni e di altri importanti settori commerciali e spingendo le nazioni europee a competere per l’attenzione e per le intese con la Cina piuttosto che lavorare insieme nel loro migliore interesse.

La Meloni ha invertito questa dinamica e ha messo l’Europa davanti alla Cina fin dal primo giorno. Nel 2022, poco prima delle elezioni legislative italiane, la Meloni ha espresso sostegno a Taiwan, facendo arrabbiare l’ambasciata cinese. Lo scorso marzo ha visitato l’India, rafforzando i legami tra Roma e Nuova Delhi, riducendo ulteriormente l’importanza delle relazioni cinesi.

Già durante l’estate, prima della sua visita di luglio a Washington, la Meloni aveva segnalato che la fine del percorso per l’accordo sulla Belt and Road era imminente. Ma tagliando finalmente il cordone, la Meloni ha segnalato che ne ha avuto abbastanza, dimostrando vero coraggio e leadership e dando il buon esempio agli altri nella comunità transatlantica.

Tuttavia, Roma non deve adagiarsi sugli allori. La Cina probabilmente metterà in atto ritorsioni politiche e commerciali contro l’Italia. Pechino ha tentato proprio questo con la Lituania quando Vilnius si è ritirata dal 17+1, l’iniziativa diplomatica del Partito comunista cinese nell’Europa centrale e orientale. Inoltre, Pechino continuerà a prendere di mira le infrastrutture italiane, a partire dall’assicurarsi una partecipazione nel porto strategico di Trieste, rendendo l’Italia vulnerabile alle infiltrazioni cinesi ed esercitando pressioni sull’Alleanza Atlantica nel Mediterraneo.

Per continuare a respingere le avances di Pechino, Roma deve guardare più vicino a casa per gli investimenti. Prendiamo ad esempio il porto di Taranto. Come ha recentemente riportato il quotidiano italiano La Verità, sarebbe probabilmente caduto nelle mani di Pechino se non fosse stato per un investimento di 60 milioni di dollari da parte di un consorzio polacco nel settore della logistica.

Ma per trasformare casi individuali come questo in eventi ricorrenti, l’Italia ha bisogno di una visione strategica più ampia. Il rilancio del Baltic-Adriatic Corridor, che collega l’Europa meridionale alla Polonia, nonché al Caucaso e all’Asia centrale, è un’idea promettente. E la Meloni ha già proposto il Piano Mattei, una partnership con l’Africa settentrionale e occidentale per costruire una comunità nel Mediterraneo.

Il passo successivo più immediato e ovvio, tuttavia, è che Roma aderisca all’Iniziativa dei Tre Mari, come ha fatto la Grecia a settembre. I “Tre Mari” si riferiscono al Mar Baltico, all’Adriatico e al Mar Nero, e l’iniziativa consolidata comprende già 13 stati che lavorano insieme per costruire connettività e creare posti di lavoro, crescita, stabilità e prosperità. Questo è l’opposto della visione malevola della Cina per la regione.

Aderendo, l’Italia non solo darebbe all’Iniziativa un forte punto d’appoggio nel Mediterraneo, ma aiuterebbe anche a rafforzare le sue relazioni con gli Stati Uniti, con cui potrebbe collaborare per frenare l’influenza cinese nel Nord Africa, dove Pechino cerca di espandere la sua influenza e fare pressione sul fianco meridionale della NATO. Allo stesso modo, l’Italia migliorerebbe anche il rapporto dell’iniziativa con l’India, che offre opportunità di espandere le fonti di energia e la connettività digitale. A loro volta, sia Washington che Nuova Delhi potrebbero anche aumentare i loro investimenti nella stessa Italia in una prospettiva filo-occidentale e anti-cinese.

È incoraggiante che Giorgia Meloni abbia già mostrato interesse per la Three Seas Initiative. Lo scorso luglio membri del governo italiano hanno partecipato ad un evento organizzato a Roma dalle ambasciate di Polonia e Romania e specificamente dedicato a questo forum internazionale. Inoltre, a settembre, gli influenti think tank italiani FareFuturo e il Centro Studi Machiavelli hanno ospitato delegazioni internazionali sul futuro ruolo dell’Italia nell’Iniziativa dei Tre Mari.

Se Roma fa il salto e si unisce all’Iniziativa dei Tre Mari, il regalo di Natale della Meloni di aver lasciato la Cina potrebbe portare a un nuovo anno davvero felice e prospero.

Questo articolo è apparso sul Washington Times il 27 dicembre 2023

Processo penale, riforma necessaria

Con l’entrata in vigore della Carta costituzionale del 1948 il dibattito tra giuristi, accademici e politici si concentrò sulla riforma sistematica del codice di procedura penale (codice Rocco entrato in vigore nel 1930).

Il legislatore del 1930 aveva preso come modello processuale il rito inquisitorio, rito che prevedeva il cumulo delle funzioni processuali (quella inquisitoria e quella del giudizio) in capo ad un unico organo.

Questo unico organo era denominato Giudice inquisitore o accusatore, il quale ricerca, acquisisce e valuta le prove concentrando nei propri poteri sia quello di esercitare l’azione penale, sia quello di formazione della prova e sia il giudizio sulla prova stessa.

Il giudice inquisitore ha il potere di attivare il processo d’ufficio e di ricercare le prove necessarie.

In tale sistema l’imputato è presunto colpevole e non c’è spazio per la contrapposizione dialettica tra le parti; il giudice opera in segreto e decide sulla base prevalentemente di prove scritte e di verbali degli atti compiuti.

Questo codice era il larga parte contrario ai principi costituzionali delineati nella nostra Carta fondamentale.

Il passaggio dal rito inquisitorio a quello accusatorio è stato da parte del legislatore è stato rinviato fino a quando non fu approvata la riforma dell’intero corpo del codice di procedura, con l’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale (codice Vassalli, dal nome del Guardasigilli dell’epoca promulgato nel 1988 ed entrato in vigore nel 1989).

Questo codice aveva come principio ricollegabile all’art. 111 della Carta costituzionale quello del Giusto processo. Corollari del suddetto principio sono:

  • Principio del contraddittorio
  • Principio dell’oralità ed immediatezza
  • Principio di imparzialità e terzietà del giudice
  • Principio di autonomia ed indipendenza del giudice
  • Principio di parità delle parti
  • Principio di ragionevole durata del processo

Nella fase dell’applicazione di tale codice si sono riscontrate profonde lacune, inerente la corretta funzionalità delle disposizioni processuali; fino a quando il legislatore del 2022 non ha proceduto ad una profonda riforma del codice Vassalli, riforma che ha modificato la maggior parte degli articoli, senza procedere alla approvazione e poi alla promulgazione del nuovo codice di procedura, che sostituisse sistematicamente il codice Vassalli.

Tale riforma Decreto legislativo n. 150 2022 (meglio conosciuta  come Riforma Cartabia) non ha dato soluzione ai problemi di funzionalità delle disposizioni processuali (disposizioni che sono strumentali alla corretta applicazione delle disposizioni sostanziali).

Il decreto legislativo n.150 2022 ha profondi profili di incostituzionalità e la Corte Costituzionale potrebbe sanzionare parti di tale decreto legislativo nella parte in cui non prevede la concreta, attuale e puntuale espletazione delle disposizioni costituzionali di cui agli articoli 24 (diritto di difesa) e delle disposizioni costituzionali e precisamente agli articoli 101, 109 e 111 e 112 di cui al titolo IV “Della magistratura, sezione I e sezione II.

Il legislatore è più che mai obbligato a procedere ad una radicale e sistematica riforma del codice di procedura in piena aderenza ai principi costituzionali e per un corretto sistema accusatorio come delineato dalla Carta Costituzionale del 1948.

SPOILS SYSTEM, UNA RICCHEZZA PER IL PAESE

Si può dissentire da un maestro come lo stimato professore Sabino Cassese? Io mi permetto questa licenza e dissento sulle sue considerazioni in tema di spoils system.

Il ricorso allo spoils system non “tradisce merito e imparzialità”.

Al contrario, l’uso di questa pratica, nata negli Stati Uniti nella metà del diciannovesimo secolo, va nella direzione da lei pubblicamente auspicata di conferire maggiore stabilità ai governi.

In Italia 68 esecutivi nei 76 anni dalla costituzione della Repubblica hanno rappresentato  una delle principali debolezze nella considerazione che di noi hanno tutti gli altri players internazionali.

Ogni 13 mesi in media ogni nuovo ministro degli Esteri doveva presentare le sue credenziali alle cancellerie degli altri Paesi. Ogni 13 mesi un nuovo presidente del Consiglio doveva  presentarsi nei frequenti eventi internazionali iniziando da un “good morning I am…”, doveva riprendere le fila delle attività dei nostri servizi,  costruire un rapporto, diretto e per quanto possibile amicale, con i potenti della terra, e via di seguito.

Ma torniamo, professor Cassese, agli altri motivi della necessità da parte di ogni governo liberamente eletto di poter operare in linea con quello che gli elettori col proprio voto gli hanno chiesto di fare, sia pur nell’ovvio rispetto dei diritti  delle minoranze, garantito dall’impianto costituzionale.

Si fa ma non si dice, recitava una popolare canzonetta in voga negli anni trenta, ed infatti chi oggi sembra meravigliarsi, invocando quel politicamente corretto (espressione  ipocrita che faremmo bene a cancellare dal nostro vocabolario),   non ha mai esitato ad utilizzare, invocando ovvie competenze e professionalità. Ed infatti non è questo ciò di cui si parla, scegliere collaboratori incompetenti equivale sempre in un suicidio, quanto della condivisione dei criteri di fondo che sottintendono a qualunque azione che un esecutivo deve prendere.  Elemento irrinunciabile per qualunque governo è infatti la non ostilità preconcetta dei vertici delle organizzazioni che nel Paese contano a livello operativo e che in un sistema ordinato hanno il compito di mettere a terra le decisioni prese ad alto livello politico-istituzionale. Strutture ministeriali, banche, grandi aziende e gruppi industriali, specie se di elevato valore strategico, una certa stampa, che per sua natura tende  ad influenzare l’opinione pubblica, influencer e decision makers di vario tipo non possono essere trascurati, specie se la formazione di governo legittimamente eletta, come nel caso dell’Italia di oggi,  rappresenta una discontinuità con un lungo passato che inevitabilmente ha plasmato le figure apicali che aveva nominato. Tutto ciò non ha nulla a che vedere con la negazione delle libertà democratiche, ma al contrario le esalta, contribuendo allo sviluppo di una classe decisionale e manageriale anche alternativa e innovativa.

È una ricchezza del Paese.