Quando l’Italia si scoprì di destra

Il 27 marzo del 1994 non è solo il giorno di storiche elezioni politiche ma la data di una rivelazione: l’Italia è un Paese di destra. Ancor oggi, dopo 30 anni, è un dato che non tutti hanno voglia di riconoscere. Per una parte dell’intellighenzia rimane un fatto traumatico, una verità da esorcizzare, nascondere, mistificare in vario modo.

Parliamo ovviamente di intellighenzia di sinistra, intesa nella più ampia accezione del termine, quindi comprendente intellettuali, giornalisti, personaggi dello spettacolo e, ovviamente, politici. Per tutti costoro, il rifiutarsi di riconoscere questa realtà scomoda rappresenta un esiziale errore politico, perché impedisce a Elly Schlein e compagni di costruire quel solido sistema di alleanze (soprattutto economico-sociali) che possa alimentare la speranza del Pd di tornare, un giorno, al governo. E di entrarvi dalla porta principale. Non da quella secondaria di qualche governo tecnico o di “emergenza”, che dir si voglia.
Se oggi la segretaria piddina non riesce ad allestire un competitivo cartello elettorale tra le opposizioni, neanche per esprimere il candidato presidente in una delle più piccole, demograficamente parlando, Regioni italiane (la Basilicata), è perché, tra le altre cose, è espressione di un mondo che ancora non s’è ripreso dal trauma di 30 anni fa. Questa sorta di fuga dalla realtà del Paese produce quel mix di ideologismo e snobismo che condanna la sinistra più intransigente e radicale a una condizione di minorità politica. E di depressione esistenziale.

Qual è allora la lezione del 27 marzo di 30 anni fa che, non solo la sinistra, ma la stessa destra non dovrebbero mai dimenticare? Questa lezione è che, sotto la scorza delle ideologie più o meno alla moda, la natura vera degli italiani è quella di gente che bada al sodo e che non baratta la propria sicurezza, la propria prosperità, la propria identità con fumosi programmi di rivoluzione morale e culturale, tutta roba che metta in crisi le certezze della vita: in famiglia, sul lavoro, nella società. Non sono, gli italiani, come i loro “cugini” francesi, il popolo più ideologico che ci sia. Mai gli italiani si sognerebbero, ad esempio, di ammettere il “diritto” di aborto nella costituzione.

Si riduce a questo, alla fine, l’essere popolo di “destra”? Diciamo, più precisamente, che la destra rappresenta un passaggio ulteriore, quello che di solito compie quella parte della popolazione che decide di assumere una precisa identità politica. Di certo i caratteri sopra descritti appartengono al tipico popolo “conservatore”, quello che guarda con cautela alle novità e che ammette cambiamenti alla sola condizione che non sconvolgano la propria esistenza.

Questa natura “conservatrice” della gente italiana è sempre stata guardata con grande sospetto dalle élite intellettuali e politiche, che per decenni hanno coltivato il mito di un popolo che non c’era. E cioè un popolo animato da fervente “patriottismo costituzionale”, con tutti i suoi corollari antifascisti e progressisti.
A questo punto, due domande sorgono spontanee: 1) dove s’era “nascosto” nei quasi 50 anni precedenti questo popolo di “destra”?; 2) perché salì in superficie proprio nella travagliata stagione politica di 30 anni fa?
Rispondendo alla prima domanda, potremmo dire che quel popolo era solo in minima parte rappresentato (almeno nella prima fase della vita repubblicana) dal Msi, dal Partito monarchico e dal Partito liberale, confluendo per il resto (e in massa) nella Democrazia cristiana. Il problema è che la cultura politica del “partito dei cattolici”, una cultura innervata da un moderato progressismo, rappresentava assai parzialmente i sentimenti e i valori di questa gente.
Di qui una lunga fase di ambiguità e “insincerità”, come scrive lo storico Paolo Macry nel bel libro “La destra italiana – Da Guglielmo Giannini a Giorgia Meloni”: «…Certo è che un fenomeno salta agli occhi, se si ripercorre la storia repubblicana, e sembra attraversarla tutta intera, sia pure in forme volta a volta diverse: l’inganno politico. Un rapporto ingannevole tra questo Paese -tra un Paese di destra, o non di sinistra- e la dimensione politica della Repubblica. Fu nelle fasi germinali della democrazia italiana, nel dopoguerra, e poi nel corso della Prima repubblica che le destre politiche ebbero a malapena diritto di cittadinanza, non seppero o non furono abilitate a incidere sulle dinamiche parlamentari, conquistarono spazi di governo molto limitati, rimasero sempre elettoralmente marginali».
Il 27 marzo del 1994 questo Paese di destra reclama con prepotenza la sua piena cittadinanza politica e il suo diritto di governare. Perché accadde? Al netto di Tangentopoli e della fine della guerra fredda – e qui veniamo al secondo quesito -, l’equilibrio politico della Prima repubblica non aveva più senso, non rappresentava più gli interessi della parte più dinamica della nostra società. L’Italia si scopriva ostacolata da una serie di “lacci e lacciuoli” (come si diceva tra gli anni Ottanta e Novanta ispirandosi al titolo di un libro di Guido Carli ) e chiedeva libertà di impresa e di azione. Un “nuovo” popolo era nel frattempo cresciuto, nel corso del caotico sviluppo dei due decenni precedenti, il famoso “popolo delle partite Iva”.

È un dato interessante perché ci dice che, alle ragioni storiche e culturali, si aggiunge negli anni Novanta un ulteriore fattore di vicinanza tra la società italiana e la destra politica: il declino della grande impresa e l’avanzata di una grande area di piccole e medie aziende con tutta la rete pulviscolare del lavoro autonomo e delle microimprese a conduzione familiare, tutto un mondo umano e sociale che avverte insofferenza per il peso della pressione fiscale e per la vischiosità della palude burocratica. È un mondo -vale la pena di aggiungere – che si sente penalizzato dal sistema bancario e finanziario e che guarda con sospetto alle grandi centrali sindacali, così come queste si configuravano ancora all’inizio degli anni Novanta. La destra politica che nasce o si trasforma in quel periodo (da Alleanza nazionale a Forza Italia e alla Lega) trova in questo mondo in ebollizione il suo “blocco sociale” di riferimento.
Vale la pena avvertire che questo popolo di “destra” non cancella certo quello di “sinistra”, che rimane comunque consistente e ben strutturato. Ma certo questa Italia politica emergente diventa trainante. E tale rimarrà anche negli anni a venire.

A questo punto dobbiamo affrontare un’ulteriore e decisiva domanda: perché, se l’Italia è un Paese di “destra”, il centrodestra non ha sempre vinto le elezioni e, nel corso di questi 30 anni, non è mai riuscito a essere riconfermato al governo dopo una legislatura? Parliamo delle elezioni del 1996, poi di quelle del 2006, del sostanziale pareggio di quelle del 2013 e infine della parcellizzazione elettorale del 2018. In tutte queste occasioni, la coalizione di centrodestra s’è fatta soffiare la maggioranza dagli avversari.

La risposta è, come sempre si dice in questi casi, “complessa”. Emerge innanzi tutto la sopravvivenza, nella società italiana e nelle istituzioni, delle aree di dominio create nel tempo dalla sinistra (dalla magistratura ai poteri burocratici e a quelli finanziario-mediatici). Non c’è dubbio però che la destra stessa ci abbia messo parecchio del suo per complicarsi la vita. Parliamo in particolare della conflittualità insita nell’alleanza di centrodestra per effetto dello spiccato leaderismo dei soggetti politici che la componevano. Pensiamo soltanto allo scontro tra la personalità di Berlusconi e quella di Fini, scontro a lungo rimasto in potenza e poi esploso in modo clamoroso (e devastante) nel 2010.

Ma, se dovessimo individuare un limite di fondo nell’azione del centrodestra di questi trent’anni, sicuramente lo individueremmo nella non completa capacità di ascolto da parte dei vertici politici del “loro” popolo. Il riformismo promesso è stato attuato in parte, o non è stato attuato affatto: da quello istituzionale (promosso, nella XIV legislatura, con scarsa convinzione e in ritardo) a quello fiscale.

C’è da dire che i governi di centrodestra non potevano strutturalmente mobilitare tutte le risorse finanziarie che sarebbero state necessarie per promuovere in profondità un’azione realmente riformatrice. E ciò soprattutto a causa dei forti vincoli europei di bilancio, vincoli non sempre in linea con i principi ispiratori dell’Unione europea, perché ispirati dagli ideologismi (e dagli interessi) dei governi del Nord Europa.

Ecco, è forse qui la grande “mission” del centrodestra tornato al governo con Giorgia Meloni. Accanto alla riforma costituzionale, a quella della giustizia e a quella fiscale che l’attuale esecutivo s’è giustamente impegnato a realizzare, dovrebbe emergere quella che un numero crescente di osservatori indica, oggi, come la riforma che ci cambierebbe la vita: la revisione dei trattati europei, per ridare respiro alla nostra economia e alla nostra società. È un’impresa certo impegnativa e dalla realizzazione niente affatto scontata. Ma oggi ci sono le opportunità per attuarla, per effetto dell’attuale debolezza franco-tedesca, cioè dei Paesi-guida dell’Ue.
La nostra premier ha tutte le capacità per portare a termine questa cruciale operazione. Se Giorgia Meloni e la destra italiana riuscissero a mettere la loro firma, insieme agli altri governanti Ue, a una riforma dell’Unione capace di risollevare le sorti dei popoli europei, è certo che entrerebbero nella storia. E, ad avvantaggiarsene, sarebbe la stessa sinistra, che riceverebbe la spinta giusta per smetterla di giocare al “declino”. Suo e dell’Italia.

La Chiesa di Bergoglio tra divisioni e tormenti

Il 2023 è stato un annus horribilis per Francesco: il ritorno dell’incubo abusi con la vicenda dell’ex gesuita Marko Rupnik, lo strappo con i greco-cattolici ucraini e con il governo di Kiev per le parole di elogio alla “grande madre Russia”, lo scarso successo del Sinodo sulla sinodalità, la discussa condanna del cardinale Angelo Becciu, infine il via libera alle benedizioni delle coppie di fatto e arcobaleno che ha portato intere conferenze episcopali a ribellarsi. Inoltre, non sono mancati i problemi di salute per un Pontefice che lo scorso 17 dicembre ha spento le ottantasette candeline e di cui, a breve, ricorrerà l’undicesimo anno dall’elezione.

Il nuovo anno si è aperto forse peggio di come si era concluso il precedente: il gran rifiuto della Chiesa d’Africa di applicare le benedizioni non liturgiche delle coppie omosessuali imposte dal dicastero per la dottrina della fede nella Dichiarazione “Fiducia supplicans” ha segnato la clamorosa sconfessione del cardinale Víctor Manuel Fernández, l’uomo chiamato la scorsa estate come prefetto nel ruolo che nel ventennio wojtyliano fu di Joseph Ratzinger, La morte di Benedetto XVI, nell’ultimo giorno del 2022, sembra aver suggerito al círculo di stretti collaboratori del Papa argentino un’accelerazione che ha reso il 2023 uno degli anni più traumatici per la storia della Chiesa contemporanea.

Lo si è visto dalle epurazioni dei prelati meno in sintonia con la linea dell’attuale pontificato: prima è toccato a monsignor Georg Gänswein, storico segretario di Ratzinger rispedito senza incarico nella diocesi originaria di Friburgo, poi a monsignor Joseph Edward Strickland, vescovo conservatore statunitense rimosso d’imperio dalla guida della diocesi di Tyler a soli 65 anni, e ancora al cardinale Raymond Leo Burke, privato addirittura del sostentamento mensile e del canone agevolato per l’appartamento romano. A far penare Francesco, però, non c’è solo l’Occidente e l’Africa: in India, ad esempio, si trova a dover affrontare una gravissima frattura per questioni liturgiche all’interno dell’antica Chiesa siro-malabarese.

La pubblicazione di “Fiducia supplicans”, dopo che non senza difficoltà si era riusciti ad evitare di far finire la questione delle benedizioni arcobaleno nella relazione finale del Sinodo sulla sinodalità dello scorso ottobre, rischia di svuotare d’importanza l’ultima sessione sinodale attesa a Roma per ottobre prossimo.

In realtà, sulla tenuta dell’unità della Chiesa incombono due altri temi caldi: ordinazione femminile ed abolizione del celibato obbligatorio. Le risposte del Papa ai Dubia inviati da cinque cardinali la scorsa estate fanno capire che la porta di Santa Marta non è del tutto chiusa alla prima opzione che può essere, secondo il parere papale, oggetto di studio a differenza di quanto aveva stabilito San Giovanni Paolo II nella “Ordinatio Sacerdotalis”.

Anche sul celibato sacerdotale qualcosa si muove nella Chiesa come dimostra la recente dichiarazione di un prelato di peso in Curia, l’arcivescovo di Malta monsignor Charles Scicluna che è segretario aggiunto del dicastero per la dottrina della fede. Da sempre considerato un moderato, Scicluna è stato uno dei candidati a prendere la guida dell’ex Sant’Uffizio dopo il pensionamento del cardinale Luis Francisco Ladaria Ferrer. Francesco, però, gli ha preferito il teologo amico, l’ultra-progressista argentino Víctor Manuel Fernández che si è già messo in evidenza per “Fiducia supplicans” e per il clamore del suo vecchio libro “La Pasión Mística” con contenuti da bollino rosso. In ogni caso, monsignor Scicluna ha preso posizione sull’abolizione dell’obbligo di celibato in un’intervista a Times of Malta nella quale ha detto che è arrivato il tempo per “discutere seriamente la questione” e “prendere decisioni in merito”.

“Perché dovremmo perdere un giovane che sarebbe stato un ottimo sacerdote solo perché voleva sposarsi?”, si è chiesto l’arcivescovo maltese, facendo capire la sua preferenza. Non sembrano dichiarazioni casuali dal momento che vengono pronunciate da un prelato in Curia dal 1995 e che dal 2002 ricopre ruoli di grande responsabilità all’interno del dicastero per la dottrina della fede: è consapevole che il vento sta cambiando anche su questo e che il 2024 potrebbe essere l’anno dei preti sposati?

 

Caivano, non solo

L’Italia delle emergenze e delle necessità passa anche attraverso la riqualificazione delle sue periferie. Negli ultimi trent’anni si è creata una forte spaccatura tra il centro delle città e l’interland urbano. I motivi che hanno determinato questo isolamento sono molteplici, principalmente dettati da scelte politiche concentrate nello sviluppo massiccio dei centri storici. Mancanza di politiche sociali inclusive, assenza di servizi pubblici essenziali, criminalità, droga, dispersione scolastica, riqualificazione e ammodernamento di strutture diventate fatiscenti hanno determinato uno stato di disagio e di emarginazione della popolazione sfociate in ghettizzazione e disuguaglianze crescenti.

Ciò che è accaduto a Caivano è la rappresentazione naturale di un territorio abbandonato dove i clan si sono impadroniti degli spazi pubblici, dove la presenza delle forze dell’ordine è inesistente e dove la politica è minacciata quotidianamente nelle scelte da intraprendere. Il complesso fu costruito con i fondi messi a disposizione dopo il terremoto del 1980, con una serie di palazzoni attaccati l’uno all’altro. Con il tempo i clan ne hanno fatto la piazza di spaccio più grande d’Europa. Diversi i casi di violenza accaduti in questo parco il più noto la morte di Fortuna Loffredo nel 2014.

La presenza della Premier Giorgia Meloni, per esprimere solidarietà ai genitori delle vittime degli abusi infami, deve rappresentare un momento di svolta verso il ripristino della legalità e socialità di un territorio degradato e nelle mani della criminalità. La bonifica urbana, la presenza delle forze dell’ordine costante, scuole aperte nel pomeriggio, incremento degli insegnanti e degli assistenti sociali, possono e devono rappresentare strumenti di cambiamento e di speranza per la parte sana della popolazione che cerca solo di vivere una vita dignitosa ed in pace dove crescere i propri figli. La rigenerazione urbana ha certo bisogno del coinvolgimento delle comunità perché non esiste recupero che non associ pratiche cooperative cosi come è accaduto nei progetti del Nord Europa dove i cittadini hanno avuto spazi importanti nel ridefinirli, smontarli e ricostruirli.

Ciò che è accaduto a Caivano deve essere un impegno per il governo Meloni e un obiettivo verso tutte le periferie d’Italia affinchè, anche con le risorse del pnrr, la riqualificazione degli spazi pubblici, interventi di manutenzione degli edifici, ripensare gli spazi urbani e sociali, possano trasformare il degrado e l’abbandono in presenza di arte, cultura, turismo, integrazione.

Come l’Europa può affrontare la disinformazione

La prosecuzione delle ostilità in Ucraina da parte della Russia è destinata ad esporre per lungo tempo l’Unione Europea all’incessante attività di disinformazione di Mosca. Questo genere di minacce asimmetriche sono anche le uniche praticabili, insieme agli attacchi hacker, da un paese prostrato dalla guerra ed economicamente allo stremo. Oltre a richiedere risorse inferiori rispetto ad altre attività destabilizzanti infatti, sfruttano una profonda conoscena della materia che risale ai tempi dell’Unione Sovietica e che è stata sapientemente adattata dalle agenzie russe per operare nelle piattaforme digitali.

La cifra per comprendere lo sforzo messo in atto da Mosca e il suo impatto sui paesi occidentali, è rappresentata dal rapporto costi-benefici estremamente favorevole, basato sull’uso massiccio dei grandi social network. In assenza di disposizioni specifiche per la disinformazione, il rischio è che i processi di autoregolazione si concentrino solo sul temi affini al mare magnum del politicamente corretto. Di conseguenza, una minaccia asimmetrica come quella russa verrebbe ignorata o peggio inquadrata sotto categorie diverse, lasciando gli utenti finali in balia di contenuti fuorvianti e ingannevoli.

Acconsentire a soluzioni alternative, che permettono alla disinformazione di russa di circolare in libertà, arrivando ad inquinare il nostro universo informativo, è una pura follia. Altrettanto ipocrita è invece fare affidamento sulla sola consapevolezza degli utenti, notoriamente assente, nella distinzione delle notizie false.

Il dibattito non ruota infatti sulla correttezza o meno della dottrina del “free speech”, rapportata al pluralismo delle idee tipico di una società complessa come quella contemporanea. Nel caso Russo siamo di fronte ad uno sforzo massiccio e deliberato, che accompagna quello bellico e mira a destabilizzare l’opinione pubblica occidentale, minando la fiducia nelle istituzioni democratiche, a vantaggio di una guerra di aggressione perpetratata ai danni dell’Ucraina.

Questo genere di attività spiccatamente asimmetriche non consentono una risposta adeguata da parte dei paesi interessati. La Russia infatti ha accentuato negli ultimi anni la sua postura autoritaria, esercitando un controllo diretto sull’intera sfera mediatica a cui è dedicato un intero apparato repressivo. Al contrario Mosca ha potuto usare piattaforme digitali sviluppate negli Stati Uniti per diffondere nella più totale impunità i propri contenuti, che è chiaro vadano oltre la semplice propaganda politica altrimenti permesssa.

Durante la pandemia è stata alimentata in modo surretizio e ingannevole la sfiducia di vaste fasce della popolazione verso i vaccini per il Covid19, sostenendo sia l’efficacia superiore di preparati come Sputnik, che la pericolosità degli stessi farmaci. In alcuni paesi come Bulgaria e Romania, nei quali le istituzioni faticano a riscuotere consenso, l’inquinamento mediatico è stato tale che milioni di cittadini sono stati portati a non vaccinarsi, con conseguenze sul piano sanitario catastrofiche. Se siamo dinanzi ad un nuovo paradosso della tolleranza, il concetto può essere sintetizzato così: la difesa della libertà di espressione e di opinione alla base delle democrazie occidentali, rischia di porsi come una paradossale debolezza nell’era delle piattaforme digitali.

Oggi i tradizionali pilastri su cui si reggono le nostre istituzioni, sono minacciati sia da un uso a dir poco disinvolto di tecnologie concepite in paesi autoritari, come la Cina, che dalla massiccia diffusione di fake news, destinate a condizionare i processi democratici e le stesse forze politiche. Ancor di più quelle che incautamente stringono rapporti con alleati purtroppo solo “apparenti”.

Non siamo però privi di difese: lo strumento di cui l’Unione Europea si è dotata per regolare le piattaforme come Facebook e Twitter, il Digital Services Act (DSA), è stato concepito prima dell’aggressione all’Ucraina. Il testo finale, non ancora pubblicato, è frutto di un paziente lavoro di mediazione e non deve soprendere dunque il carattere compromissorio. Le soluzioni a cui perviene tuttavia, sono in grado fin da subito di affrontare la minaccia dell’infodemia, imponendo precisi obblighi di condotta alle piattaforme digitali: in primis queste saranno tenute ad essere più trasparenti nei processi interni, con precise responsabilità nelle modalità di rimozione dei contenuti illeciti, compresa dunque la filiera della disinformazione. Gli obblighi rimarranno comunque di natura preventiva o volontaria e sono privi della “specialità” richiesta da una situazione di crisi come quella in Ucraina, ma vanno nella giusta direzione e non è escluso che la Commissione Europea riesca ad ottenere nuovi poteri.

Anche l’approccio scelto dal Regno Unito nella lotta alla disinformazione è degno di nota. Originariamente infatti Londra prevedeva che un’autorità dedicata fosse dotata di poteri sufficienti per esercitare vere e proprie ingerenze nella gestione delle piattaforme, sindacando direttamente le scelte di rimozione dei contenuti illeciti. Questa decisione, duramente osteggiata per i rischi che avrebbe comportato alla libertà di espressione, è stata abbandonata e il nuovo Online safety Bill si concentrerà, non tanto sui processi interni dei social network, ma sul potenziale danno che può provocare ciascun contenuto, indipendentemente dalla sua illiceità. Ciò si traduce in un’analisi individuale e meticolosa delle attività degli utenti, che richiderà ingenti risorse economiche per assicurare un controllo effettivo sulla disinformazione, i cui confini sono labili e difficili da distinguere con l’uso dei soli algoritmi.

Altro capitolo degno di nota è quello dell’editoria e della televisione, che diffondono anch’esse un notevole flusso di disinformazione. In questo caso però è l’Italia a fare eccezione: siamo l’unico tra gli Stati fondatori dell’Unione in cui è concepibile ospitare, nelle reti più importanti e in prima serata, opinionisti direttamente legati agli apparati di sicurezza russi, se non addirittura lo stesso Ministro degli Esteri senza contraddittorio.  L’anomalia italiana apre interrogativi inquietanti perché va oltre il mezzo punto di share conteso per la raccolta pubblicitaria dai conduttori. Individuati come anello debole dell’Europa, da diversi mesi siamo avvolti da un cordone infodemico in nome di una mai chiarita affinità con Mosca, che mette nel mirino il sostegno all’Ucraina del Governo e che dovrebbe propiziare un allontanamento dalle posizioni occidentali. Questa ambiguità di fondo è ormai assimilata anche dal pubblico, che non si sorprende neppure dei bizzarri piani di pace presentati con istinto velleitario da leader che sostengono la maggioranza.

Il doppio livello in cui opera la disinformazione Russa, sia nella società che ai vertici della politica, è un indice di grande debolezza, che si riscontra solo nei paesi in via di sviluppo con istituzioni facilmente condizionabili. Non basta dunque regolare le piattaforme o le modalità di selezione degli ospiti televisivi, se è la stessa politica a veicolare con irresponsabilità messaggi fuorvianti.

Oggi più che mai centrosinistra e centrodestra devono avviare un percorso di rinnovamento delle rispettive classi dirigenti, che elimini gli spazi di ambiguità esistenti con la Russia. Il voto del 2023 sarà uno spartiacque della futura collocazione dell’Italia in Europa e il contesto internazionale non permette indecisioni o tentennamenti. Solo chi respingerà con risolutezza le interferenze di Mosca potrà pensare di far parte a pieno titolo dell’area di governo e guidare il Paese in una nuova fase per l’Occidene, dove non troverà spazio la doppiezza figlia di una “dottrina del ricatto” a cui abbiamo tristemente scelto di sottostare in passato.

*Giovanni Maria Chessa, Comitato scientifico Farefuturo

La Televisione nella “nuova” comunicazione di massa

La televisione in questi ultimi venti anni ha pagato a caro prezzo la concorrenza mediale sempre più agguerrita tra canali televisivi tematici e non ultima con la cosiddetta “radiovisione”, un prezzo ancora più salato se mettiamo in conto la accanita concorrenza del web all’interno del quale i social e i blog hanno fatto la vera parte del leone. La comunicazione si è profondamente modificata negli strumenti e nello stesso tempo in questa battaglia mediale gli strumenti più tradizionali utilizzati dalle Aziende Radiotelevisive si sono proiettate sempre più verso una comunicazione emozionale. Il campo delle emozioni è oggi il terreno più propizio ma, nella rincorsa alle emozioni per carpire i pubblici, la televisione ha abbassato notevolmente la qualità dei palinsesti compromettendo giocoforza la stessa qualità dei messaggi. Per arrivare a comprendere meglio il fenomeno occorre fare una parentesi sul web ed in particolare sui social network.

I social di maggiore impatto ed uso si sono trasformati in vere e proprie piazze virtuali nelle quali le persone dapprima si sono rapportate con egocentrismo e con buona socialità di scambio, nell’ultimo periodo invece, coincidente nei due anni pandemici, il web si è trasformato in un grande ring dove le persone, talvolta anche quelle colte, sono arrivate ad insultarsi, ad offendersi, a minacciare e spesso hanno dato lavoro alle aule giudiziarie dei tribunali, o quanto meno, nella migliore delle ipotesi, (se così si può dire) a forti penalizzazioni associative causate da espressioni a dir poco irriguardose verso terzi, compromettendo spesso la propria integrità morale o nella migliore delle ipotesi di immagine reputazionale. È qui che la televisione cerca di riprendersi il pubblico e gli ascolti, nel momento in cui i social corrono ai ripari cercando di controllare gli scontri tra le persone che cominciavano ad avere comportamenti connotati – solo per gli addetti ai lavori – di pericolo sociale.

I social network hanno preso in mano la situazione ed hanno gestito l’informazione portando giorno dopo giorno i dissidenti a depotenziare la presenza nella rete perché oggetto di azioni di blocco, di sospensione o addirittura di cancellazione dell’account. Da qui in poi le Televisioni hanno compreso che i social stavano spianando loro la strada al punto che la presenza di analisti in rete si è fatta più consistente al fine di intuire per primi quali fossero le argomentazioni più coinvolgenti ed attrattive nei social network per poi riportarle nell’etere. Pochi anni fa pensavamo che la televisione avesse toccato il suo punto più basso, si parlava di televisione e dei primi programmi trash ma, se in quel momento pensavamo di aver toccato il fondo, oggi cosa dovremmo dire? Infatti, se i programmi degeneravano nella loro qualità altrettanto si poteva dire che il pubblico ne subiva passivamente gli effetti devastanti sotto il profilo culturale. Negli ultimi tempi siamo stati subissati da una serie di programmi televisivi dove il confronto, la disputa, la lite hanno preso il sopravvento diventando un format vincente verso il quale l’utente a cui era rivolto il programma televisivo prestava e presta ancora molta attenzione. Con l’attrazione emotiva, il forte coinvolgimento psicologico sono nati i primi programmi di basso contenuto, alcuni dei quali veramente assurdi, basta pensare agli storici programmi di analisi e contestazione calcistica che nulla avevano a che vedere con lo sport, precursori di programmi attuali assimilabili alla spazzatura della comunicazione televisiva.

Oggi per effetto della pandemia le televisioni di ogni tipo e struttura sono riuscite a reinventarsi programmi nei quali gli invitati pro e contro si danno battaglia sovrastandosi sonoramente uno sull’altro mentre parlano fino a raggiungere con urla e gesti l’apoteosi della maleducazione, e questo la maggioranza delle persone inconsciamente lo apprezza – come dimostrano i dati dell’ascolto televisivo – e la minoranza lo disprezza apertamente, quindi ne parla ugualmente, conferendo involontariamente notorietà. Per chi analizza il fenomeno, tutto ciò fa comprendere che la richiesta da parte della massa è quella di farsi propinare programmi ad alto contenuto litigioso. Chi non ricorda il famoso detto, (mai come in questo caso calzante a pennello): “Parlare bene o parlare male, l’importante è parlarne”. Se poi analizziamo il programma nel dettaglio, le interruzioni, il parlare contemporaneamente sviliscono l’informazione la quale diventa spesso incomprensibile e lo spettatore non ne trae nulla di proficuo. L’ultimo periodo ne è l’esempio tangibile, infatti nel momento in cui parliamo di pandemia da virus, di vaccini si e vaccini no, Greenpass si o Greenpass no, subito emerge dai talkshow che il piano editoriale è a dir poco raccapricciante, eh sì, perché il popolo televisivo vuole questo e allora le televisioni si sono inventate i dualismi come fosse un ring e i confronti diretti tra no-vax e si-vax oppure tra si Greenpass e no Greenpass, virologi contro virologi e chi più ne ha più ne metta e così la battaglia crea disinformazione perché nel momento in cui si alza l’asticella della lite il popolo aumenta l’attenzione e guarda caso, proprio in quel momento cosa succede?

Il conduttore televisivo stoppa chi parla – specialmente se non è in linea con la redazione – mandando in onda la pubblicità. Tutto architettato in un piano editoriale di business che prevede disturbatori, sobillatori e vittime. Con questo modo di operare, notiamo quanto la manipolazione e il controllo dei messaggi da lanciare raggiungano livelli inaccettabili. Mai come in quest’ultimo anno si è potuto constatare che la televisione ha preso a pieno titolo il comando della comunicazione mediale sovrastando anche gli stessi social perché dobbiamo ricordare che i social hanno di fatto smorzato qualsiasi tentativo di esternazione dell’essere pro o contro qualsiasi tematica afferente la pandemia, il virus, il vaccino o argomenti simili. Quindi i social forti del controllo dei contenuti ad opera delle stesse piattaforme che hanno disincentivato molti utenti portandoli ad abbandonare l’agone di internet, hanno lasciato terreno libero all’informazione televisiva nonché il libero arbitrio alla disinformazione televisiva. Questo è un dato che emerge in modo eloquente e spietato, tutti noi siamo colpevoli di questa evoluzione del sistema di comunicazione che oggi trova linfa vitale nelle emozioni, quelle emozioni forti determinate dall’odio, dalla lite, dalla frustrazione, dal sentirsi liberi di offendere, cosa che ti si ritorce contro nella comunicazione bidirezionale dei social e non in quella unidirezionale televisiva che i dati confermano come fortemente apprezzata. L’informazione dovrebbe essere equilibrata dovrebbe essere come direbbero molti politologi “in stile di par condicio”, invece non lo è, si preferisce creare zizzania, creare attrito, creare beghe, creare lite, questo è il leitmotiv della televisione oggi, televisione che mette totale confusione e mette paura, tutto l’opposto del fornire una serena, corretta informazione.

È sotto gli occhi di tutti il profondo decadimento della comunicazione mediale televisiva che mette in luce la triste realtà di una società piena di contrasti autoalimentandosi come un avvoltoio solo di emozioni negative, sfruttando, come nel caso della pandemia dei nostri tempi, la paura o peggio il terrore delle persone.

*Stefano Lecca, consulente in comunicazione social e web marketing

NON RINUNCIARE AL CORNO D’AFRICA

Questo saggio di Raffaele de Lutio, ambasciatore,  è stato pubblicato nel Rapporto Nazionale “Italia 20.20” della Fondazione Farefuturo

Le scelte di politica estera di ciascun Paese rispondono in primo luogo agli interessi nazionali, contemperati da quelli dei Paesi amici ed Alleati e dai limiti imposti dai principi del Diritto internazionale riconosciuti dalla Carta delle Nazioni Unite. In quanto membro dell’Unione Europea e della Nato, gli obiettivi nazionali italiani vanno quindi inseriti nel più ampio quadro della politica europea di sicurezza e difesa e delle politiche di sicurezza Nato. Inoltre, una politica estera efficace deve essere, per quanto possibile, costante e non sottoposta all’alea del momento o agli interessi contingenti di politica interna.

Tutto ciò premesso, si osserva anche che i governi hanno avuto la tendenza a giustificare le proprie scelte di politica estera alla luce di valori trascendenti: la libertà di navigazione e commercio, l’autodeterminazione dei popoli, la salvaguardia della pace mondiale, l’ingerenza umanitaria ecc. Si tratta in parte del tentativo comprensibile di voler conciliare i propri comportamenti, magari violenti, con principi trascendenti, altre volte invece si tratta di espedienti volti a coprire la propria incapacità politica o morale ad agire come attori indipendenti. Non può stupirci che dalla fine della Seconda guerra mondiale, la politica estera italiana abbia raramente fatto ricorso al concetto di «interesse nazionale» rispetto al richiamo più o meno vago a principi di ordine superiore, quali il rifiuto della guerra, il cercare una mediazione (nella maggior parte dei casi non richiesta), la solidarietà atlantica o quella comunitaria.

Un Paese tradizionalmente diviso in campi contrapposti, come l’Italia, incontra obiettive difficoltà ad identificare il proprio interesse nazionale e, di conseguenza, le aree in cui esplicare la propria azione con la necessaria costanza. Eppure per una media potenza come l’Italia sarebbe relativamente facile mettere a punto una politica estera che salvaguardi l’interesse nazionale: frontiere meridionali ed orientali sicure, un costante approvvigionamento in materie prime e libertà di commercio. In pratica una politica mediterranea e balcanica assertiva, una forte presenza nei fori di dialogo economico/commerciale internazionali. La sostanziale emarginazione dell’Italia dai negoziati per la stabilizzazione della Libia e dal Corno d’Africa sono la conseguenza della mancata identificazione degl’interessi nazionali e della definizione di linee strategiche stabili. Basti pensare al fenomeno migratorio, la cui gestione dovrebbe rappresentare una costante della politica estera italiana, è invece stato sempre affrontato in chiave di politica interna.

Il Corno d’Africa dovrebbe rappresentare un tassello fondamentale in questa azione politica. Si tratta dell’unica 197 regione in cui l’Italia sarebbe tuttora in grado di svolgere una politica estera autonoma, strumentale ad ulteriori azioni in altri scenari in cui operano attori che non siamo in grado di contrastare direttamente: Libia, Medio Oriente, Golfo e nei Balcani. Diviso tra l’azione spregiudicata della Turchia e quella più defilata ma altrettanto determinata dell’Arabia Saudita, l’Islam politico sta conducendo in queste aree una vasta azione di destabilizzazione e in aree di importanza fondamentale per l’Italia, in termini di approvvigionamento energetico e di sicurezza. Anche nel Corno d’Africa si ritrovano le contrapposizioni classiche della società italiana: accuse di «nostalgicismo» e la ripetizione di stereotipi privi di senso. In Italia, il dibattito sull’uso dei gas nel ‘36 e sulle repressioni coloniali sono ancora vivi, mentre in Etiopia il giudizio di condanna è ben radicato, come ovvio, ma si cerca di andare oltre, sollecitando una nuova e maggior presenza italiana come elemento centrale per una reale indipendenza politica ed economica. Pur mantenendo una forte presenza nell’area, grazie anche ad un «sistema Italia» tuttora attivo, non abbiamo mai saputo o voluto elaborare una politica conseguente per la Regione. In brevissima sintesi.

Abbiamo ancora oggi una forte conoscenza anche accademica di queste aree, l’Orientale di Napoli continua a sfornare PhD in linguistica, storia dell’arte, storia del Corno. Altrettanto fanno altre Università in campo linguistico ma anche della fisica terrestre, della geografia, della geologia e vulcanologia. Abbiamo almeno due scuole pubbliche attive, Asmara ed Addis Abeba e, almeno sulla carta, una ulteriore a Mogadiscio. Abbiamo una cooperazione allo sviluppo particolarmente presente, una forte presenza di locali italofoni (almeno tra i 50 enni) e, ancora per pochi anni, un diffuso riconoscimento del nostro ruolo e della nostra capacita di azione. Ricordo solo che in occasione della prima ed unica edizione del Premio Grinzane Cavour per l’Africa, avemmo circa 6 mila presenze e dovemmo aprire una sala di ascolto, tale fu l’affluenza di pubblico! Eppure in seno al SEAE non abbiamo mai ottenuto il posto di Rappresentante Speciale per il Corno, anche perché non lo abbiamo mai preteso, né la stampa ha mai dedicato all’area un’attenzione particolare, al di fuori della grande attualità, carestie, guerre, attentati. Si tratta di una assenza che paghiamo e, soprattutto, pagheremo in altri settori, dove abbiamo interessi economici fondamentali. Benvenuta dunque questa riflessione promossa dalla Fondazione «Farefuturo», soprattutto se svincolata per quanto possibile dall’appartenenza partitica, con l’ambizione di proporre all’opinione pubblica e al Parlamento delle possibili linee guida.

*Raffaele de Lutio, ambasciatore, già direttore centrale per i Paesi dell’Africa subsahariana, presso il Ministero degli Affari Esteri – Maeci

Sudan, la primavera dei diritti umani contro il fondamentalismo

In Sudan è finalmente sbocciata la Primavera dei diritti umani. Il lungo inverno islamista che aveva caratterizzato l’era del generale Omar Al Bashir sta infatti lasciando il posto a una nuova stagione, inaugurata dall’introduzione da parte dell’attuale governo di transizione di una serie di riforme che possono essere considerate davvero “rivoluzionarie” e di “civiltà”.
Per più di trent’anni, già prima del golpe con cui Al Bashir prese il potere nel 1989, il Sudan è rimasto stretto nella morsa del fondamentalismo dei Fratelli Musulmani, rappresentati dalla nota figura di Hassan Al Thurabi, l’ideologo e uomo politico che all’inizio degli anni ‘90 invitò Bin Laden in territorio sudanese dopo la sua dipartita dall’Arabia Saudita, offrendogli protezione e un luogo sicuro dove proseguire nell’organizzazione del jihad di Al Qaeda.
Insieme a Bin Laden, Al Thurabi intendeva forgiare un’alleanza panislamista antioccidentale che doveva avere come capisaldi Al Qaeda, sul versante sunnita, e il regime khomeinista iraniano, la versione sciita della fedele applicazione della dottrina e della prassi politico-religiosa dei Fratelli Musulmani (non è certo un caso che non si sono mai registrati attacchi terroristici qaedisti in Iran, mentre diversi esponenti dell’organizzazione che fu di Bin Laden trovarono rifugio presso i mullah e i pasdaran di Teheran in seguito all’intervento statunitense e internazionale in Afghanistan).
È solo una certa sinistra occidentale ad ostinarsi a credere che i Fratelli Musulmani siano “buoni”, moderati e che abbiano accettato “lo stato civile e democratico”, come suona e risuona la propaganda “progressista”. Ma i sudanesi sanno bene che così non è e per liberare il proprio paese da Al Bashir e dai Fratelli Musulmani, sono stati in molti, in giovane età soprattutto, a morire o a restare feriti durante le sanguinose proteste sfociate nella caduta della dittatura militare-islamista.
Con la riforma del sistema legislativo e giudiziario entrata in vigore lo scorso 11 luglio, il Sudan ha mosso dunque passi in avanti decisi e concreti verso la costruzione di uno stato democratico e moderno, di cui a beneficiare saranno in primo luogo le donne, il bersaglio preferito del fondamentalismo. Oltre ad aver gettato nella pattumiera della storia le mutilazioni genitali femminili, il governo ha abolito l’obbligo del velo, la fustigazione pubblica per chi non lo indossa e la pratica delle spose bambine (capito Silvia Romano?).
Oggetto di smantellamento è anche il sistema patriarcale che vuole le donne subordinate per legge all’autorità del “maschio” (padre, fratello, marito o altro parente che sia), mentre s’inserisce nell’avanzamento complessivo dei diritti civili anche l’abolizione della pena di morte per l’omosessualità.
A respirare una boccata d’aria nuova e pulita è inoltre la libertà religiosa. D’ora in poi, convertirsi a un’altra religione sarà possibile senza più incorrere nel reato di apostasia e nella pena di morte. I non musulmani potranno quindi festeggiare, essendo stato rimosso per loro il divieto di consumare alcolici.
L’architetto delle riforme è il ministro della giustizia, Nasreddin Abdelbar, 41enne e tra i principali leader del movimento di protesta anti-Al Bashir e anti-Fratelli Musulmani. In un intervento televisivo, Abdelbar ha dichiarato che l’obiettivo è quello di “garantire l’uguaglianza nella cittadinanza e nello stato di diritto”.
“Questi cambiamenti ‒ ha ribadito ‒ puntano a conseguire l’uguaglianza di fronte alla legge. Abbiamo cancellato gli articoli che erano stati causa di discriminazioni”. E non è finita qui, perché Abdelbar ha assicurato “al nostro popolo che le riforme andranno avanti finché non sarà abolita ogni legge che viola i diritti umani”.
Il nuovo corso intrapreso dal Sudan, tuttavia, non sarà privo di ostacoli. I provvedimenti voluti da Abdelbar hanno infatti scatenato la protesta di gruppi fondamentalisti, che sono così scesi in strada, scagliandosi con veemenza contro la “corsa al secolarismo” e inneggiando persino alla “guerra santa”. Quale “mano” li sospinge?
L’uscita di scena di Al Bashir non è piaciuta al Qatar e alla Turchia di Erdogan, che continuano instancabilmente a supportare i Fratelli Musulmani, e neppure al regime khomeinista iraniano, che rivede se stesso nelle sorti a cui è andata incontro la dittatura del generale. I grandi sponsor dell’islamismo sfrutteranno pertanto ogni occasione per boicottare il programma di riforme e riportare indietro il Sudan ai tempi in cui operava come avamposto del fondamentalismo.
La comunità internazionale saprà opporsi alle loro ingerenze, proteggendo la Primavera sudanese affinché diritti umani, democrazia e libertà fioriscano definitivamente?

Sei verità sul Recovery Fund

È possibile dare un giudizio obiettivo su quanto è accaduto a Bruxelles in merito all’approvazione del cosiddetto “Next Generation EU” (o “Recovery Fund”), ovvero un piano di aiuti finanziari agli Stati facenti parte dell’Unione Europea per fare fronte alla crisi economica conseguente alla pandemia da Covid-19? Credo di sì, a condizione che si abbia uno sguardo sereno sul significato delle parole e sugli scopi reali che i singoli contraenti intendevano raggiungere.
La prima osservazione riguarda un rilevante cambiamento di pensiero su un punto: l’indebitamento da parte dell’Unione in quanto tale. Sarebbe stupido non ammettere che il Consiglio europeo ha imboccato – sia pure al momento solo una tantum – una strada nuova rispetto al passato, trattandosi in effetti di “eurobonds”, cioè di prestiti che l’Unione in quanto tale chiederà al mercato per raccogliere denari da prestare poi a quegli Stati che ne facessero richiesta. Prima verità: la politica dell’Unione europea si è per la prima volta orientata nel senso della “statualità”.
Si tratta di un cambiamento rilevante, che potrebbe modificare un dato strutturale: se fino ad oggi il trasferimento di sovranità dagli Stati nazionali all’UE faceva sì che gli Stati nazionali perdessero quote rilevanti di sovranità senza però che questa fosse “ritrovata” a livello europeo, oggi per la prima volta l’Unione, sia pure costretta da circostanze esterne, esercita una forma di sovranità di tipo statuale. Seconda verità: l’Unione ha abbandonato, almeno in questo caso, la politica della globalizzazione (l’Unione europea come strada verso un ordinamento giuridico mondiale) affermando l’idea che la politica può essere fatta non solo in nome dei diritti e del mercato, ma anche in nome degli interessi locali.
Perché ciò è accaduto? Questa è la domanda più importante, la cui risposta apre a una molteplicità di scenari. Diciamo pure che i paesi-guida, la Francia e soprattutto la Germania, si sono resi conto che alcuni Stati, ma in particolare uno, l’Italia, rischiano di entrare in una spirale di crisi capace di trascinare giù la moneta europea e quindi con essa tutti i paesi che si fondano sull’euro, in particolare proprio la Germania. La signora Merkel ha agito fondamentalmente a difesa dell’economia del proprio paese e per questo l’esito della riunione è stato positivo. La Germania doveva garantire che la Spagna e l’Italia potessero fare fronte (sia pure al momento come ipotesi) alle criticità dei prossimi mesi.
Come ha scritto Mark Schieritz sulla Zeit di questa settimana, rispondendo alla domanda che alcuni si fanno: perché i Tedeschi (ma anche Olandesi, Austriaci, Danesi) devono “pagare” per gli Italiani: «Naturalmente noi [Tedeschi] paghiamo, ma paghiamo anche per un pranzo, per una vacanza o un paio di scarpe. Chi paga riceve una compensazione (Gegenleistung) per il suo denaro. In questo caso la compensazione consiste nel fatto di assicurare i posti di lavoro in Germania se gli Italiani, grazie all’assistenza alla ricostruzione, tengono aperti i loro mercati e tornano ad acquistare più automobili tedesche. Forse addirittura quelle elettriche». Terza verità: l’accordo raggiunto è funzionale all’economia tedesca, che dipende in maniera consistente dal livello di vita degli Italiani, sia per quanto riguarda i consumi sia per quanto riguarda la produzione (le componenti dell’automotive tedesca sono al 60% italiane).
Che sia un accordo fortissimamente voluto dalla Merkel per ragioni interne, potremmo dire a difesa dell’interesse nazionale tedesco, non deve né stupire né indignare. È assolutamente giusto che la Merkel faccia i suoi interessi. C’è però un problema politico: l’Unione Europea risulta così essere, nel bene e nel male, un organismo gestito dalla Germania, alle dipendenze degli interessi tedeschi. Se l’Italia ha ottenuto qualcosa è perché il suo interesse sembrava coincidere con l’interesse della Germania. Quarta verità: l’Unione europea riconosce e garantisce l’interesse nazionale, ma specificamente solo quello tedesco.
Questo significa che i membri dell’Unione non sono sullo stesso piano e non solo per le differenze di popolazione. C’è in Europa chi comanda e chi trae vantaggi, eventuali, se è al séguito della potenza-guida. In Europa comanda la Germania, con l’accordo della Francia, e tutti gli altri devono adeguarsi ad una condizione di inferiorità, che non necessariamente implica svantaggi, ma anche vantaggi, sia pure concessi e non garantiti. In questo caso l’Italia ha avuto dei vantaggi? Quanto scritto da Schieritz nel suo editoriale su Die Zeit vale anche a rovescio: qual è stata la compensazione a carico dell’Italia? Questo è il punto. I Tedeschi danno e ricevono in cambio; noi riceviamo e cosa diamo in cambio?
I denari non si trovano per terra e nessuno te li regala. L’accordo raggiunto sul Next Generation EU consiste di due parti: denari che l’UE presta ai paesi che volessero chiederli e che vanno restituiti in trent’anni (sempre alla UE) e denari che la UE dà ai paesi che lo chiedessero entro un massimo prefissato per ogni Stato (per l’Italia 82 miliardi). Sono i cosiddetti “contributi a fondo perduto”, che in realtà non sono tali primo perché nessuno dovrebbe sprecare denari, secondo perché i denari nessuno te li regala. Questi 390 miliardi (che sono previsti per tutti, compresa la Germania, se li chiedesse) sono – dice l’accordo – racimolati sul mercato. Sono cioè prestiti che l’Unione chiede agli Arabi, ai Cinesi, al mio portiere, tutti soggetti che vogliono anche qui qualcosa in cambio, interessi adeguati e/o sicurezza nel ritorno. Sono anche questi prestiti dell’Unione, di cui fa parte anche l’Italia, la quale come prende così (Gegenleistung) deve dare in cambio, in questo caso partecipare alla restituzione di quanto l’Unione chiede in prestito. Quinta verità: se non è una “partita di giro”, in parte le somiglia. Tutto ciò che l’Italia prende deve anche restituire, direttamente e/o indirettamente, in proporzione al suo prodotto interno lordo.
È conveniente tutto ciò? L’Europa non prende soldi in prestito e li dà all’Italia senza precise condizioni, ovvero finalità. E qui la questione diventa delicata ed è opportuno leggere quanto è scritto nell’accordo (che deve poi essere approvato dai parlamenti nazionali), che prevede tutta una serie di ipotesi non proprio entusiasmanti. Per esempio, a parte la riduzione di tutta una serie di altre voci di spesa (compresa la ricerca), l’aumento del contributo dei singoli Stati nella percentuale massima dello 0,6 per cento del PIL ove la Commissione non sia riuscita a recuperare i soldi previsti sui mercati (perché va anche detto che i soldi “a fondo perduto” dipendono dal “buon cuore” degli Arabi e del mio portiere, che li devono dare). Questi soldi, una volta chiesti e trovati, vengono dati agli Stati entro il 2023, 70% entro il 2021-2022, il 30% nel 2023. Come si vede si tratta di un 30% circa all’anno. Per l’Italia circa 24 miliardi nel 2021. Diciamo che non si sciala e tutto questo indipendentemente dal famigerato patto di stabilità, per ora sospeso, ma che sicuramente sarà ripristinato a epidemia finita.
Ma questi soldi dipendono dall’approvazione dei piani. In concreto la Commissione li valuta entro due mesi dalla proposta del singolo Stato sulla base pregiudiziale che siano funzionali alla digitalizzazione dell’economia e alla sostenibilità ambientale: green and digital. Una volta approvati dalla Commissione dovranno poi essere approvati dal Consiglio. Uno Stato (in forza della clausola della “exhaustively”) può bloccare tutto per circa 5 mesi, tra pareri e decisioni, nel senso che lo Stato rischia di non prendere soldi per un periodo più o meno analogo. Il 30% delle spese deve essere coerente con il Trattato di Parigi sul clima e quindi funzionali alla riduzione di emissioni CO2. O si pulisce l’aria o niente soldi, anche se i lavoratori rischiano di morire di fame. Le politiche dovranno sottostare al rispetto della “gender equality”. Per aumentare il bilancio dell’Unione sono previste nuove tasse: sulle transazioni finanziarie, sulla plastica e sulle emissioni, sui trasporti ed altre eventuali. Olanda, Svezia, Austria e Germania daranno di meno al bilancio dell’UE e questa riduzione sarà compensata dagli altri Stati in base al loro PIL (compresa l’Italia, che quindi mette quello che l’Olanda non dà). Contemporaneamente l’Italia prenderà meno fondi per le regioni meno sviluppate (quelle del Sud) dove il numero degli abitanti è diminuito pur in presenza di un aumento della disoccupazione. Tutti i contributi saranno monitorati per evitare «frodi e irregolarità» dalle competenti istituzioni europee. Sesta verità: la Commissione con i suoi uffici interni ed esterni e poi il Consiglio controlleranno come i Paesi che avranno i prestiti spenderanno quei soldi, spesa che dovrà essere coerente con i presupposti (digitalizzazione ed economia verde, oltre che pari opportunità).
In conclusione: nessuno può dire che il Consiglio Europeo non abbia “fatto qualcosa”, ma questo qualcosa, per quanto riguarda l’Italia, è allo stato delle cose inutile. Il contributo che verrà dall’Unione arriverà troppo tardi rispetto alle urgenze e sarà complessivamente (tra avere e dare) assai meno di quanto la propaganda governativa ha ufficializzato. Ecco perché, nonostante tutta questa fittizia pioggia di miliardi “chi sa” chiede i soldi del Mes, anche se pure questi sono condizionati e tutt’altro che immediati (solo 15% al mese dopo i controlli).
La situazione per l’Italia è oggi, dopo il Consiglio Europeo di Bruxelles, assai più grave di prima, perché tutti si affidano al momento su un “aiuto esterno” che arriverà in forme limitate e gravemente condizionate, con la conseguenza che nessuno, al momento, cerca strade alternative, più efficaci e soprattutto più rapide per fare fronte all’emergenza. L’Italia ha già sprecato 100 miliardi, facendo altri 100 miliardi di debito, con un Pil a meno 12% e un debito sovrano che viaggia verso il 160%. Un paese serio se deve indebitarsi (e purtroppo allo stato è così) lo fa a ragion veduta cercando di puntare sulla crescita economica per tranquillizzare e garantire i mercati. Qualcuno allora mi dovrà spiegare perché, in una condizione così grave, mentre si balla sul Titanic che affonda inneggiando all’Europa “solidale”, nel “Decreto rilancio” si danno, per spese vaghe e generiche, 50 milioni (sempre di debiti) al Ministero guidato dall’on. Franceschini.

Il futuro passa dalla demografia

In questo periodo di “stati generali” o generici, come qualcuno sostiene, di comitati tecnici, di pensieri più o meno alti, non si affronta in modo serio, organico, strutturale e radicale l’unico vero nodo che ha strettamente a che fare con il futuro di questo Paese: la questione demografica. E’ questo il tema dei temi, l’unico “driver” reale che dovrebbe condizionare e permeare tutte le scelte politiche da qui ai prossimi vent’anni almeno.
Il perché è talmente evidente che non vale la pena nemmeno di ritornarci su: senza figli non c’è continuità, senza prole non c’è futuro sotto ogni punto di vista. Affettivo, sociale, economico.
Il crollo delle nascite è l’unica vera emergenza che dovrebbe preoccupare tutti noi: nel 2019 si è raggiunto il record negativo dall’Unità d’Italia, con sole 420.170 nascite, peggiorando il dato già pessimo del 2018 quando sono nati in Italia meno di 450.000 bambini, circa la metà rispetto al 1974, anno in cui sono nato io. Questo dato è impressionante e dice tanto, se non tutto, dei problemi attuali di questo Paese. Per chi è ossessionato dai conti, e che spesso viene invitato ai vari “stati generali” o “comitati tecnici”, ciò significa che non ci saranno abbastanza lavoratori in un futuro ormai prossimo per pagare tasse, pensioni, servizi sociali etc., etc. Per chi, oltre ai conti, ha a cuore il concetto di Patria, il tema è ancora più dirimente: può esistere una terra delle madri e dei padri, la Madre Patria appunto, senza figli? La risposta è ovvia.
Ora, che questa non venga vissuta come una vera e propria emergenza dalla sinistra italiana non deve stupire affatto: nella foga di cancellare tutti i riferimenti del proprio passato, compreso il riferimento primo e cioè il proletariato, hanno eliminato dal loro orizzonte di pensiero anche la prole, che rappresentava appunto l’unica ricchezza di quella base sociale che avrebbero dovuto difendere e rappresentare.
Ma se la sinistra, che risolverebbe la questione per le vie brevi e cioè aprendo ad una massiccia e prolifica immigrazione, ha da tempo tradito e abbandonato la propria base sociale, ecco che questo tema deve essere invece preso con forza da chi ha a cuore il futuro della Nazione, non in chiave strumentale ma come visione strutturale e politica su cui incardinare ogni azione. Su questo, più che attingere ai tempi che furono, andrebbero presi a modello i Paesi più moderni e socialmente avanzati del Nord Europa, ma non solo.
I bonus “una tantum” non servono a nulla se non alla pura propaganda partitica; ciò che serve è incardinare il tutto sulla crescita demografica perché a cascata questa produce effetti in ogni ambito della società, compresa l’economia. Eppure, sulla questione, manca ancora la necessaria sensibilità e una visione di lungo periodo. Questa è l’unica vera rivoluzione che serve al nostro Paese, che significa anche inclusione, parità di genere, dignità della persona, centralità dell’essere umano, il tutto declinato concretamente.
Chi può innescare tutto questo? Io non ho risposte ma penso che un cambio di paradigma così importante, richieda una sensibilità diversa al potere. Una sensibilità femminile, materna. Una leadership che sta dando frutti nuovi e inaspettati in altri luoghi: pensiamo alla Finlandia, alla Nuova Zelanda, alla Germania. Guardiamo con interesse e attenzione al nuovo corso in rosa dell’Unione Europea e chissà che non si possa prendere spunto anche qui da noi. Qualche idea, su chi possa dare forma in Italia ad un percorso così sfidante, a destra non manca.

La partecipazione dei lavoratori all’impresa

In questo periodo di grave crisi economica che sta attraversando l’Italia e di crescente disoccupazione potrebbe essere utile recuperare dallo scaffale del nostro prezioso ordinamento giuridico l’art. 46 della Costituzione repubblicana che è rimasto negli anni sostanzialmente inattuato.
La norma costituzionale – programmatica – prevede che “ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende”.
Tutte le forme di partecipazione dei lavoratori si fondano sull’idea di un interesse comune tra i lavoratori stessi e l’imprenditore alla prosperità dell’impresa comune alle due parti (secondo la sintetica ed illuminante definizione fornita dal Prof. Pietro Ichino).
Il costituente è sembrato attribuire – ma sul punto vi sono difformità di vedute – al concetto di collaborazione il significato di partecipazione attiva dei lavoratori alla gestione dell’azienda, e quindi allo sviluppo dell’azienda stessa nell’interesse dei lavoratori e del Paese.
Le resistenze alla diffusione delle forme partecipative – sia da parte del sindacato che da parte delle rappresentanze datoriali – sono state però così forti da oscurare la norma costituzionale dell’art. 46 che pure riconosce il diritto dei lavoratori a partecipare nell’impresa come un elemento caratterizzante del modello economico e sociale. L’art. 46 è rimasta, pertanto, una norma incompiuta ed inapplicata.
Nel presente grave contesto economico il coinvolgimento dei lavoratori si può rivelare utile e può essere ricercato – in primis dalle imprese – come strumento per superare le fasi di crisi, legittimando sacrifici per salvare le aziende e l’occupazione.
Inoltre, come autorevolmente segnalato dal giuslavorista ed ex ministro del lavoro prof. Tiziano Treu, “l’apertura di spazi partecipativi risponde a bisogni profondi di valorizzazione del lavoro e di autorealizzazione dei lavoratori, e introduce elementi di responsabilizzazione sociale dell’impresa e di trasparenza dei suoi comportamenti: elementi tanto più importanti nell’attuale contesto globale di forti turbolenze economiche e finanziarie”.
In estrema sintesi si può affermare che le forme e modalità di partecipazione dei lavoratori sono sostanzialmente quattro: la partecipazione agli utili (Gain or Profit Sharing), l’azionariato (Employee Ownership Schemes) e la partecipazione alla gestione attraverso l’immissione dei lavoratori nei consigli d’amministrazione (c.d. partecipazione forte) o nel coinvolgimento dei lavoratori nel processo decisionale mediante i diritti di informazione e consultazione (c.d. partecipazione debole).
La partecipazione dei lavoratori nella gestione mediante una rappresentanza nei consigli di sorveglianza delle grandi imprese, la cosiddetta cogestione (mediante un evidente processo di democratizzazione della economia), fu stabilita per la prima volta in Germania ai tempi della repubblica di Weimar (1919-1933). La cogestione venne solo a seguito della seconda guerra mondiale istituzionalizzata nel sistema tedesco, mediante una serie di fondamentali leggi federali.
In Italia le prime istanze di partecipazione operaia alla gestione dell’impresa risalgono agli anni immediatamente successivi alla prima guerra mondiale (come avvenne in FIAT nell’agosto del 1919).
Successivamente, il governo Giolitti tentò di fornire una regolamentazione di tali nuove forme ed istanze mediante il disegno di legge 8.2.1921 n. 1548, che non fu discusso in aula, in base al quale le c.d. “commissioni di controllo”, composte da lavoratori, sarebbero risultate assegnatarie di specifiche competenze di informazione e consultazione.
Il primo espresso riconoscimento dei consigli di gestione si ebbe nel Decreto sulla Socializzazione della sedicente Repubblica Sociale Italiana del 2.2.1944 n. 375 ove, nell’ambito del progetto di socializzazione delle imprese, venivano affidati ai lavoratori diversi compiti a seconda che il capitale dell’impresa fosse individuale o sociale, tra cui quelli di coadiuvare l’imprenditore nella gestione aziendale, partecipare alle assemblee dei soci con un numero di voti pari ai detentori del capitale sedendo, altresì, nel consiglio di amministrazione in numero pari ai rappresentanti del capitale; salvo il prevalere, in caso di parità, del voto del capo dell’impresa (per una analitica e puntuale ricostruzione storica dell’istituto si veda Marco Biasi, Il nodo della partecipazione dei lavoratori in Italia, 2013, EGEA. P. 10-13).
In seguito, nonostante l’abrogazione dei Decreti sulla Socializzazione della Repubblica Sociale, il Comitato di Liberazione Nazionale dell’Alta Italia scelse di non cancellare le norme aventi ad oggetto i compiti e le funzioni dei consigli di gestione, stabilendo con l’art. 2 del Decreto del CLNAI sui Consigli di Gestione del 17.4.1945 che “fino a nuovo e generale regolamento della materia con atti legislativi del Governo nazionale l’amministrazione delle aziende contemplate nei decreti sopra citati resta affidata a consigli di gestione nazionale, coi poteri previsti dai decreti medesimi per i consigli di gestione delle aziende socializzate”.
Le esperienze di Consigli di Gestione, oggetto di diverse valutazioni dalle forze politiche nel secondo immediato dopoguerra furono, già prima del dibattito in seno all’Assemblea Costituente, al centro di animate discussioni e proposte, tra le quali merita di essere menzionata la c.d. proposta Morandi presentata dal Ministro dell’Industria, il socialista Rodolfo Morandi al Consiglio dei Ministri nel dicembre del 1946.
La proposta era accompagnata da una relazione, redatta dall’accademico Massimo Severo Giannini al quale si deve anche la stesura del testo,che tratteggiava sommariamente la storia dei consimili istituti in Italia e all’estero negli ultimi decenni, richiamava le vicende dei consigli in questo dopoguerra e s’addentrava quindi nell’esposizione ragionata del disegno legislativo.
L’art. 1 stabiliva: “I consigli di gestione sono istituiti ai fini di: a) far partecipare i lavoratori all’indirizzo generale dell’impresa; b) contribuire al miglioramento tecnico ed organizzativo dell’impresa, anche per la trasformazione dei generi e dei tipi di lavorazione, e al miglioramento della vita morale e della sicurezza dei lavoratori; c) creare nelle imprese strumenti idonei per permettere ad esse di partecipare alla ricostruzione industriale e alla predisposizione delle programmazioni e dei piani di industria che venissero adottati dai competenti organi dello Stato, e per renderne effettuale e operante l’esecuzione”.
La partecipazione organica del lavoratore (nella declinazione di cogestione/codeterminazione) è diffusa anzitutto in Germania, anche se in forme e con intensità diverse, per lo più realizzate con la presenza di rappresentanti dei lavoratori che hanno uguale voce rispetto al management nel processo decisionale aziendale.
E’ evidente la difficoltà, ma non impossibilità, come dimostra l’esempio della Germania, di conciliare il modello pluralistico-conflittuale, che presuppone una permanente contrapposizione di interessi (lavoro/capitale) con il modello collaborativo della gestione partecipata, che presuppone un interesse comune.
Di fatto in Italia è prevalso il primo modello, tant’è che non sono state emanate le leggi che avrebbero dovuto stabilire i modi ed i limiti della indicata partecipazione ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro, mentre una spinta in tal senso, limitatamente però alle imprese di dimensione europea, è venuta dall’ordinamento comunitario.
Nella società europea (direttiva n. 86 dell’8 ottobre 2001) e nella società cooperativa europea (direttiva 2003/72) è previsto il coinvolgimento dei lavoratori da intendersi quale “meccanismo, ivi comprese l’informazione, la consultazione e la partecipazione, mediante il quale i rappresentanti dei lavoratori possono esercitare un’influenza sulle decisioni che devono essere adottate nell’ambito della società”.
La direttiva sul coinvolgimento dei lavoratori nella società europea è stata dal governo di centrodestra attuata con il d.lgs 188 del 2005.
Malgrado i diritti di partecipazione previsti sulla carta, l’istituto della società europea non ha ottenuto una consistente diffusione nel tessuto produttivo europeo e ciò ha comportato una limitata operatività del modello di partecipazione dei lavoratori in esso previsto.
Solo con la legge n. 350 del 2003 (art. 4, c. da 112 a 115) – voluta dal centrodestra – era stato istituito un Fondo per incentivare la partecipazione dei lavoratori ai risultati o alle scelte gestionali delle imprese.
La legge è stata dichiarata incostituzionale nel 2005 nella parte in cui non prevedeva alcuno strumento volto a garantire la leale collaborazione fra Stato e Regioni. La Corte costituzionale ha, quindi, demandando “alla discrezionalità del legislatore la predisposizione di regole che comportino il coinvolgimento regionale”.
Merita menzione un importante provvedimento della Regione Veneto che ha emanato una legge regionale, la n. 5/2010, la quale all’art. 1 stabilisce che “La Regione del Veneto promuove e sostiene la partecipazione dei lavoratori dipendenti alla proprietà, alla determinazione degli obiettivi e alla gestione delle imprese venete”.
A livello nazionale, con la c.d. “Riforma Fornero”, la legge 28 giugno 2012, n. 92 ha delegato il governo ad adottare uno o più decreti finalizzati a favorire le forme di coinvolgimento dei lavoratori nell’impresa, attivate attraverso la stipulazione di un contratto collettivo aziendale, nel rispetto di principi e criteri direttivi previsti dalla legge (art. 4 c. 62 L. 92/2012).
La delega è però rimasta inadempiuta per l’opposizione delle associazioni datoriali – convinte che ciò costituirebbe una violazione dei sani princìpi economici – e della CGIL.
Va però segnalato che il 14 gennaio del 2016 i sindacati CGIL-CISL-UIL hanno sottoscritto un importante documento al cui interno la partecipazione dei lavoratori viene addirittura collocata tra i tre pilastri dell’auspicato “moderno sistema di relazioni industriali”; va altresì posta in risalto la recentissima vicenda della fusione tra FCA e PSA con l’annuncio dell’ingresso in Cda di componenti in rappresentanza delle organizzazioni dei lavoratori.
Ora, a mio modesto avviso, la soluzione alla dilagante e crescente disoccupazione esasperata dall’emergenza sanitaria non può certo risiedere nell’assistenzialismo del reddito di cittadinanza o nel ritorno alla proprietà pubblica dei mezzi di produzione cari ai cinque stelle e alla sinistra.
Uno strumento utile, anche se certamente non risolutivo, potrebbe essere quello di dare finalmente attuazione all’art. 46 della Costituzione promuovendo forme di partecipazione dei lavoratori ai consigli di amministrazione affinché possa realmente perseguirsi e realizzarsi l’interesse comune tra i lavoratori stessi e l’imprenditore alla prosperità dell’impresa e per raggiungere una maggiore partecipazione e responsabilità dei lavoratori nella vita economica del Paese.
A tal proposito, con riguardo all’ipotesi di un intervento normativo, si possono immaginare, alternativamente, come ipotizzato da autorevole dottrina giuslavoristica, una legge che renda la partecipazione obbligatoria ovvero una normativa di sostegno o di appoggio, che preveda incentivi (fiscali ecc.) per le imprese che liberamente scelgano di adottare meccanismi o strumenti partecipativi2 ; ciò anche al fine, per usare le parole del costituente Amintore Fanfani, di riconoscere ai lavoratori “la loro intelligenza e capacità di compartecipare e decidere delle sorti dell’impresa dove prestano la loro opera”.
Vorrei concludere riportando le parole del Costituente Giorgio La Pira il quale – nel suo intervento in assemblea costituente l’11 marzo del 1947 – citando Renard osservò che “l’impresa va concepita in maniera istituzionale, non secondo la categoria del contratto di diritto privato, ma secondo, invece, quella visione finalistica per cui tutti coloro, che collaborano ad una comunità di lavoro, sono membri, sia pure con diverse funzioni, di quest’unica comunità che trascende l’interesse dei singoli”.