Si vota per l’Europa, per il rinnovo del parlamento di Bruxelles e Strasburgo. Si vota perché l’Europa che scaturirà dal voto dei cittadini dei 27 paesi somigli a una Unione reale, responsabile e forte, capace di assumere posizioni nette, di armonizzare i singoli paesi con compromessi “alti”, che dia al mondo la certezza di avere di fronte un soggetto politico ambzioso e consapevole delle sfide che incombono e delle risposte che sarà doveroso dare.
Ma queste elezioni sono molto importanti anche per l’Italia. È un voto di “medio termine” che peserà sulla seconda parte della legislatura, sulle scelte che saranno compiute, sulla tenuta del governo, sul grado di consenso delle opposizioni, finora irrimediabilmente divise e (quasi sempre) sconfitte.
Una riflessione è d’obbligo. Anzi, due. La prima: molte mosse dei politici non sono dettate dalle prospettive europee, ma dalla paura matta che queste elezioni siano una sconfitta. La seconda: le percentuali che punteggiano questa nota non sono frutto di fantasia ma rispecchiano sogni e incubi di ciascun partito, linee che dividono la vittoria dalla sconfitta.
26 per cento. È l’obiettivo che si pone Giorgia Meloni. Per molti osservatori si tratta di una stima molto/troppo prudente – ché l’effetto “vota Giorgia” potrebbe ottenere un più importante riscontro – ma sarebbe certamente di conforto per il governo ribadire l’altissimo consenso del settembre ’22. Detta diversamente: una conferma di quei voti darebbe al governo una prospettiva di legislatura, quale che sia il consenso per tutte le atre forze politiche. Chi si azzarderebbe a far cadere il governo, col rischio di nuove elezioni e di un plebiscito per la stessa Meloni?
10 per cento. Per la Lega (meglio: per Salvini) è l’ambizione più alta, al di sotto della doppia cifra il leader leghista dovrebbe pensare seriamente a difendere la sua segreteria.
Dice 10 ma pensa a un 8 per cento Forza Italia. È la soglia indicata da Tajani. Sotto quella percentuale sarebbero dolori, il resto del cammino sarebbe costellato da riaccese polemiche. Tornerebbero a galla i pessimisti che dicevano nei mesi scorsi: senza Berlusconi per il partito non c’è futuro. Per ora prevalgono gli ottimisti, che sognano un sorpasso ai danni della Lega. Non resta che attendere.
20 per cento. Sarebbe meno di quanto ottenuto alle politiche dal Pd di Enrico Letta. Ma sarebbe la soglia di sopravvivenza per Elly Schlein. Difficile dare l’assalto alla sua segreteria senza una sconfitta più netta. Una cosa è certa. La linea del Pd-Elly non è mutata: i cosiddeti diritti individuali sono al primo posto, non c’è spazio per chi la pensa diversamente. Che il Pd non sia un partito per cattolici è scontato. Molti sono stati costretti all’abbandono, la candidatura dell’iper-pacifista Tarquinio è più una foglia di fico che non una possibile convivenza nello stesso partito di Zan (quello dell’omonimo ddl e dei Pride …) e dei sopravvissuti a Dc, Ppi e Margherita.
18 per cento. Vorrebbe aggangiare quella soglia il M5S. E sogna di sorpassare il Pd, con Giuseppe Conte possibile leader della potenziale coalizione alternativa al centrodestra. È uno scenario improbabile, non impossibile. Nei discorsi a porte chiuse che si fanno le prospettive sono altre: un ulteriore triennio di scontri tra Pd e Cinque Stelle, nessun accordo vero e duraturo. E, sullo sfondo, Giorgia Meloni che continuerebbe a governare senza troppi disturbi.
4 per cento. Si sopravvive (al di sopra) si muore (al di sotto). Quella percentuale toglie il sonno a Renzi e Bonino, alleati senza troppo entusiasmo. Resta defilato Calenda, forse già rassegnato a restare fuori dal parlamento di Strasburgo. Il duo Fratoianni-Bonelli punta quasi esclusivamente sull’effetto della candidatura Salis, anche se il trasferimento della signora agli arresti domiciliari in Ungheria potrebbe aver spento gli ardori di un voto “ad personam”, per la libetrtà di una detenuta.