SE L’ITALIA “MOLLA” LA CINA

Il governo conservatore italiano, guidato da Giorgia Meloni deve affrontare una decisione chiave: deve decidere se rinnovare o meno il memorandum d’intesa di Roma con la Cina in merito alla Belt and Road Initiative.

Il memorandum è stato firmato per la prima volta nel 2019 dall’allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte, che ha guidato quello che è stato probabilmente il governo più filo-cinese dai tempi di Marco Polo. Il secondo governo di coalizione di Conte è stato sostenuto principalmente dal filocinese Movimento Cinque Stelle e dal Partito Democratico.

L’accordo prometteva legami e investimenti più stretti per costruire il commercio tra Oriente e Occidente. Certamente ha dato credibilità a Pechino in Occidente, ma ha prodotto qualcosa per l’Italia? Ora la Meloni deve decidere se la Belt and Road Initiative serva gli interessi italiani. Il suo governo conservatore sembra profondamente scettico. L’accordo non ha fruttato molto all’Italia. Inoltre, l’attuale governo italiano sembra molto meno bendisposto nei confronti di Pechino.

Durante la scorsa campagna elettorale, la Meloni ha espresso sostegno a Taiwan, irritando l’ambasciata cinese. Da allora, il suo governo ha anche sostenuto fermamente Kiev contro la brutale aggressione di Mosca, inviando armi all’Ucraina e rafforzando i legami con la Polonia, non la risposta che Pechino voleva. Inoltre, la Meloni ha recentemente fatto visita al primo ministro indiano Narendra Modi e firmato accordi nel settore della difesa. Il potenziale per la cooperazione italo-indiana è forte. Questo infastidisce a non finire Pechino, dal momento che Nuova Delhi è un suo rivale strategico.

Diciamocelo. Italia e Cina sono diventate una coppia geopolitica alienata. È tempo di abbandonare la finzione di una partnership strategica. La Meloni dovrebbe stracciare il memorandum d’intesa. La sicurezza nazionale è un altro motivo per non rilanciare l’accordo. La Cina si sta infiltrando nei porti italiani. Emergono già rischi significativi per il porto di Taranto con progetti futuri da parte del Ferretti Group, controllato dalla compagnia statale cinese Weichai. Pechino vuole utilizzare questa struttura per aumentare l’influenza cinese nel bacino del Mediterraneo. Ciò alla fine metterebbe sotto pressione la presenza e l’influenza della NATO nel proprio cortile. Di recente il fondatore del filocinese Movimento 5 Stelle Beppe Grillo, ha esortato i legislatori del suo partito a favorire gli investimenti cinesi nel porto. Questo sostegno da parte dell’opposizione politica deve rendere gli investimenti cinesi ancora meno allettanti per il governo.

La decisione della Meloni avrà risvolti anche fuori dall’Italia. L’attuale governo italiano è un laboratorio per una potenziale alleanza tra due delle principali fazioni conservatrici del Parlamento europeo: il PPE e l’ECR. Ci sono le elezioni previste per il 2024. Un forte blocco filo-USA potrebbe emarginare il Partito socialista europeo, da sempre più filorusso e filocinese. La Meloni, che è presidente dell’ECR, è il cuore di questo progetto politico ribelle. Non rinnovando l’accordo cinese, può rafforzare ulteriormente la sua credibilità a Washington ed essere vista a Bruxelles come una forza da non sottovalutare.

Dopo le ridicole dichiarazioni filocinesi del presidente francese Emmanuel Macron a Pechino, una forte posizione anticinese da parte dell’Italia rafforzerebbe la leadership di Roma.

Se la Meloni respinge Pechino, Pechino esprimerà sicuramente il suo disappunto. Pertanto, gli amici dell’Italia, in particolare gli Stati Uniti e l’India, devono intensificare e dimostrare un forte sostegno.

Geopolitica a parte, ciò di cui la Meloni ha più bisogno è una reale crescita economica, in particolare nella parte meridionale del Paese. Ci sono molti progetti potenziali lì – alternative concrete alla Belt and Road Initiative – abbastanza per fare del Sud Italia l’hub della crescita nel Mediterraneo orientale. Roma, Washington e altri partner, inclusa l’India, dovrebbero lavorare insieme per portare a compimento questi progetti. Questo è il vero vantaggio del mettere Pechino nello specchietto retrovisore.

 

Questo articolo è apparso su 19Foryfive il 21 aprile 2023

Legge Europea e Case Green

Oggi giorno non si fa altro che parlare di Green al punto che, i più maliziosi, ironicamente lo definiscono “effetto Greta”. Ed è così che l’Europa partorisce una Legge che impone ai proprietari di casa di fare dei lavori per il contenimento energetico per migliorare le performance degli edifici rendendoli più ecosostenibili evitando un maggior consumo di energia, che poi sarebbero quelli in classe G (in Italia sono circa 1,8 milioni di immobili ad uso residenziale su 12 milioni in totale “fonte ISTAT”).

Ma in buona sostanza, cosa prevede questa nuova Legge? Ridurre del 55 % entro il 2030 le emissioni rispetto ai dati del 1990 per poi arrivare al 100 % di zero emissioni entro il 2050. Dunque, tutti i nuovi edifici dovranno essere a zero emissioni entro il 2028 e quelli esistenti dovranno diventare classe E entro Gennaio del 2030 e classe D entro il 2033.

A motivo di ciò, ho trattato l’annosa questione all’interno dei Gruppi di discussione “Agenti di Affari in Mediazione a confronto” presenti nei social di Facebook e Linkedin per conoscere il punto di vista degli operatori della mediazione d’italia riguardo le eventuali ricadute che detta Legge potrebbe provocare nel mercato nostrano. Dai vari dibattiti avuti, purtroppo, ciò che è emerso a maggioranza è una notevole preoccupazione, sia pur partendo dal presupposto che nessuna persona di buon senso è contraria a voler contribuire a migliorare l’ecosistema per preservare la vita quale certamente connessa al miglioramento climatico ed ambientale del pianeta. Questo però, a patto che non diventi motivo di ulteriore nocumento della nostra economia ovvero l’ennesimo maggior danno a carico degli italiani che, qual ora non si adeguassero ad una tale imposizione, molto probabilmente vedrebbero vanificare i sacrifici di un’intera vita con la probabile svalutazione economica del valore della propria casa essendo il bene rifugio per eccellenza.  Fanno infatti ricordare i mediatori che la maggior parte degli italiani, a differenza degli altri cittadini degli stati membri, sono proprietari della casa in cui vivono e questo fa la sostanziale differenza tra noi e loro. E dunque, più il dibattito ha preso forma e più le domande sono state ridondanti alle quali necessitano risposte certe, come ad esempio: chi dovrà pagare in concreto l’adeguamento per migliorare la classe energetica degli immobili esistenti? Ci sarà uno specifico bonus dedicato o sgravio fiscale per far ciò? Si potranno vendere le case prive di miglioramento energetico oppure no? Se si, a quali condizioni? Se no, come si dovrebbe fare? E ancora, di quanto si allungheranno i tempi di alienazione di un immobile non adeguato? E di quanto aumenteranno i prezzi ad €/Mq di quelle case alla quali sono state apportate le migliorie? E di quanto perderanno valore gli immobili non adeguati? E infine, come si comporteranno le Banche nel concedere i mutui per l’acquisto di una casa alle quali non sono state apportate migliorie? Tutte domande inquietanti queste, le quali il Legislatore certamente si starà già ponendo così che non appena sarà tenuto a sedersi ai tavoli Europei per discutere della Legge in questione ben saprà far valere le ragioni degli italiani, se non altro perché la casa in Italia resta, e sempre resterà, il bene materiale più prezioso e che, a motivo di ciò, deve necessariamente essere preservato da ogni eventuale qualsiasi potenziale forma di danneggiamento, sia pur involontario ovvio, prevenendo ovverosia evitando eventuali possibili speculazioni selvagge da parte dei tanti sciacalli sempre in agguato con l’intenzione di depredare gli italiani. A buon intenditor, poche parole…

Protezione nazionale e Cyber Security

Nel corso degli anni Novanta del XXI secolo lo Stato procedette, sotto le spinte normative e sotto le esigenze stringenti  di bilancio pubblico (sotto controllo il deficit pubblico, l’indebitamento e a un  sistema improntato alla  concorrenza) dettate dalle Istituzioni della Unione Europea, a una graduale uscita dagli asset di economia pubblica, che caratterizzò il ruolo dello Stato nell’economia a partire dalla crisi del 1929 fino agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso.

Lo Stato però nell’uscire dagli asset di economia pubblica dettò delle misure di controllo del mercato e delle proprietà nuove delle imprese pubbliche: la golden share, questa misura poteva essere attivata durante il processo di privatizzazione, per monitorare eventuali scelte che possano nuocere alla società (in particolare società ex monopolista, Telecom e altre società di particolare rilievo strategico).

Questo istituto ha mostrato tutta la sua inadeguatezza nella salvaguardia dell’interesse nazionale, soprattutto nel caso di cessione e di acquisto di società straniere, anche perché tale istituto non trovava applicazione nel caso in cui  lo Stato era completamente uscito dal capitale sociale.

Per tutelare l’interesse nazionale e le nostre imprese strategiche, fu approvato il Decreto legge n.21/2012 che introdusse nella normativa nazionale il golden power,  tale strumento era rivolto ad imprese che operavano nei settori strategici trasporti, comunicazioni, sicurezza nazionale, energia e difesa. Nel 2017 si procedette ad una riforma dell’istituto (specifiche condizioni all’acquisto di determinate imprese e allargamento della tutela a settori assicurativo, bancario, alimentare) a causa dell’inadeguatezza nel fronteggiare la salvaguardia delle imprese strategiche (le società bersaglio) nell’economia nazionale  soggette a istinti predatori da parte di società straniere (europee e extraeuropee in particolare cinesi). Tale riforma aveva intenzione di proteggere e di evitare che le imprese strategiche del paese potessero finire in mani straniere con grave pregiudizio agli interessi  essenziali dello Stato, pericolo per la sicurezza o per l’ordine pubblico; l’acquirente aveva nonché  l’obbligo di tutela degli interessi nazionali.  Durante la pandemia da Sars Covid 2019, i perimetri di applicazione del golden power  furono allargati per la tutela delle aziende strategiche. L’unica volta in cui fu applicato questo istituto fu nel  2021, quando il governo Draghi bloccò, ponendo il veto sull’acquisizione da parte della società cinese Shenzen Investment  Holding di una società lombarda di semiconduttori Lpe.

L’applicazione di questo istituto introdotto  nel nostro ordinamento nel  2012 è però irto di ostacoli (come dimostrano le tante riforme approvate) e occorrerebbe una seria riforma che tuteli in maniera più incisiva le nostre società strategiche.

Il governo dovrebbe muoversi  sul lato della normativa sostanziale e delle disposizioni processuali, introducendo l’istituto della protezione nazionale introducendolo nella Costituzione all’art. 41 della Costituzione: “Quando sul mercato interno società estere vogliano acquisire imprese strategiche devono trascorrere 120 giorni dalla notifica di acquisto al Ministero delle Imprese al Ministero dell’Economia e finanze e alla presidenza del Consiglio dei Ministri e  non vige il silenzio assenso,  tale da,  in maniera preventiva evitare la cessione di asset strategici per l’economia nazionale  istituzione di un comitato interministeriale di politica industriale che valuti l’applicazione di questo istituto coerente con il quadro europeo degli Aiuti di Stato); è ammesso il ricorso ex art. 700 cpc  (provvedimenti di urgenza) presso il giudice ordinario  da chiunque abbia interesse.

Questo istituto della protezione nazionale ha l’obiettivo di tutelare l’economia nazionale in una fase delicata dovuta a scenari internazionali sempre più delicati e insicuri soprattutto sotto il lato della cyber security, robotica e start up innovative meritevoli di tutela da parte della comunità nazionale.

L’europa dei conservatori tedeschi non è europeista

A proposito dell’articolo di Marco Gervasoni “Quella minaccia all’identità e alla democrazia” in cui viene affrontato il tema del ruolo della Germania in Europa faccio alcune brevi considerazioni, precedute da alcune puntualizzazioni preliminari. La maggioranza delle forze politiche tedesche non è allineata su posizioni europeiste, se si intende per europeismo l’ideologia che ha caratterizzato fin dall’inizio il processo di integrazione europeo. In realtà, il rapporto fra la Germania e l’Unione Europea è un’eredità di Konrad Adenauer e potremmo dire risale alla concezione che Bismarck aveva della politica estera tedesca: per evitare una guerra, occorre ancorare la Germania all’Europa. Questa impostazione ha caratterizzato la vita politica della Germania Occidentale dopo il 1945, con alcune significative differenze al proprio interno. Se prendiamo per esempio la figura del leader bavarese Franz Josef Strauss, egli aveva una concezione di Europa delle Patrie, che lo accomunava a De Gaulle. Identità e idea di nazione sono quindi ancora forti nella Germania contemporanea, a dispetto della difficile eredità del nazionalsocialismo. Non solo nella CSU ma anche nella CDU, l’idea di Europa è radicata e non potrebbe essere altrimenti: il rischio sarebbe il ritorno al Sonderweg, tema caro non solo al nazionalsocialismo ma anche al governo comunista della DDR, con tutto ciò che questo comporta. Ma l’Europa dei conservatori tedeschi non è quella degli europeisti: l’interessante figura di Markus Söder, presidente del governo della Baviera, esponente di punta della CSU e probabile candidato alla carica di Cancelliere. è espressione delle forze conservatrici presenti nella CSU e nella CDU. Per loro l’Europa ha motivo di esistere solo se riesce a rappresentare e tutelare gli interessi dei territori e delle identità. Un’Europa delle Nazioni, parafrasando il pensiero di San Giovanni Paolo II: egli ha riflettuto a lungo sui problemi delle identità e delle tradizioni nazionali, sottolineando come la costruzione dell’Europa non debba annullare le identità nazionali (Esortazione Apostolica Ecclesia in Europa, paragrafo 4) e come ciò sia una ricchezza per l’Europa. La conoscenza della storia e della cultura delle nazioni che sono entrati a far parte dell’Unione Europea consente di costruire (anche se faticosamente) un humus civile comune (Esortazione Apostolica Ecclesia in Europa, paragrafo 110).
Markus Söder è molto popolare in Germania: ha fermato il Covid 19 senza chiudere tutto, soprattutto l’economia della Baviera non ha conosciuto il crollo del resto dell’Europa. E’ vero anche che in Germania i poteri dei Länder in materia sanitaria sono superiori a quelli delle regioni italiane, ma non tutti i Länder hanno agito bene come la Baviera. In realtà è il sistema politico tedesco che funziona molto meglio di quello italiano e prende decisioni molto più rapide. Facciamo un esempio. Attualmente i parlamentari nel Bundestag sono 709: 598 fissati dalla Legge Fondamentale (con 299 collegi) e 109 sono i mandati supplementari, che variano sulla base delle maggioranze conquistate dai partiti nei singoli collegi e che si vanno ad aggiungere ai seggi che vengono ripartiti su base proporzionale fra tutte le forze politiche che hanno superato la clausola di sbarramento del 5%. Su iniziativa della CDU e della CSU nel mese di giugno è partito il dibattito parlamentare sulla riforma elettorale: i seggi fissati dalla Legge Fondamentale diventeranno 560 e di conseguenza i collegi diventeranno 280. I mandati supplementari non potranno essere più di 7: avremo in tutto 567 deputati, invece degli attuali 709. Una riduzione di ben 142 seggi, fatta senza polemiche inutili, senza referendum, senza gli psicodrammi italiani che hanno fatto perdere tanti anni. Il problema quindi non è di opporsi ad un’Europa a guida tedesca (anche perché il contesto europeo non può essere messo in discussione), ma di comprendere che se le forze conservatrici e identitarie italiane vogliono arrivare al governo in Italia devono guardare alle forze conservatrici tedesche e tessere con loro una rete di alleanze con le forze conservatrici europee, lasciando da parte la AFD, che avversa in maniera convinta Markus Söder. I popolari austriaci sono con Söder, polacchi e ungheresi li seguono su questa strada. Quello che dobbiamo e possiamo fare è modificare il contesto europeo: una strada secondo me decisiva può essere quella che accomuna democrazia e sovranità nazionale dei popoli.

Quella minaccia all’identità e alla democrazia

Con questo articolo sulla rinnovata egemonia tedesca nella UE, Marco Gervasoni inizia la sua collaborazione a Chartaminuta e a Farefuturo, di cui sarà parte del Comitato Scientifico.

Grazie
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A Bruxelles giorni fa non è accaduto niente di rivoluzionario. Non c’è stato nessun “momento hamiltoniano”, cioè l’inizio della creazione degli Stati uniti d’Europa e neppure si sono gettate le basi per un debito comune condiviso. Anzi, noi che sosteniamo l’Europa delle nazioni, abbiamo assistito a processi di ritorno all’indietro, come direbbero gli europeisti, verso la dimensione nazionale: lo scontro dei quattro giorni è stato conflitto di nazioni e il recovery Fund ha seppellito per lungo tempo anche i progetti di esercito comune .
La Ue si è dimostrata quello che è: un insieme di contratti tra nazioni egemonizzate da una sola, la Germania, con la Francia in un ruolo subalterno. Un grande spazio economico commerciale che deve servire prima di tutto gli interessi di Berlino. Per questo chi pensava che alla fine non si sarebbe giunti a un accordo si illudeva sulla natura dellaUe ,che deflagherà solo quando non sarà più utile alla Germania.
Ciò detto, sarebbe tuttavia miope non rendersi conto che qualcosa di nuovo è accaduto. E che, di fronte al pericolo concreto di crollo, la Germania ha modificato i propri paradigmi economico-finanziari. Non ha abbandonato l’austerità fiscale , l’ha tuttavia rivista trovando il modo per obbligare alcuni paesi, a cominciare dal nostro, allo scambio soldi contro riforme alla tedesca, per dirla brevemente.
Questo rende a nostro avviso necessario innovare la critica nei confronti della Ue. Le forze cosiddette sovraniste, tutte in diversa misura euroscettiche o eurocritiche, sono cresciute nella stagione dell’austerità post 2008, della Grecia e della Brexit. In quella fase l’ostilità alla Ue era dovuta soprattutto alla sua scarsa generosità, al suo essere arcigna e matrigna. Era cioè una critica quasi esclusivamente fondata su argomentazioni economiche.
Ebbene, questa stagione si può considerare finita con la pandemia. È vero che i fondi arriveranno tra molto tempo ma agli elettori e ai cittadini non si potrà continuare a raccontare di un’Europa non solidale, perché questo messaggio, che noi sappiamo essere discutibile, è comunque penetrato.
Ma allora via il sovranismo, cioè il nazional conservatorismo, e tutti di nuovo europeisti , e quindi tutti nel Ppe? Niente affatto. Per i sovranisti, cioè i nazional conservatori, la Ue rimane un’aggregazione sbagliata e pericolosa perché spinge al superamento dello spazio nazionale a favore di gerarchie tecno-burocratiche transnazionali. Quindi la nostra critica dovrà insistere più spesso sulla scarsa o nulla democraticità dellaUe. La democrazia può esistere solo nello spazio della nazione. Niente nazione, niente democrazia.
E poi la nostra opposizione alla Ue dovrà essere maggiormente identitaria su un piano culturale. La Ue è un progetto economico ma anche culturale: è l’apoteosi di quello globalista, che intende livellare tutte le nazioni e tutti i popoli. La Ue e soprattutto i suoi organi giuridici, come le corti, puntano a indebolire le identità nazionali, erodono le tradizioni, vogliono impedire che gli “europei” di oggi si sentano parte di una eredità religiosa e storica comune: vogliono spezzare il legame tra i vivi e i morti che, come scriveva Edmund Burke, rende possibile l’esistenza di una società.
So benissimo che le critica politica e identitaria alla Ue non sono mancate negli ultimi anni ma a tenere il proscenio è sempre stata la rivendicazione economica. Se invece ora denunceremo nella Ue soprattutto una minaccia per la democrazia e per l’identità, saremo sicuri di non essere smentiti. Dalla Ue potranno forse arrivare soldi, ma mai potrà giungere sovranità.

Pesa su tutti il debito dei Paesi del Nord

L’attuale piano di rilancio post-Covid19 della Commissione Europea prevede lo stanziamento di 500 miliardi di euro di sovvenzioni e 250 miliardi di euro di prestiti agli Stati membri. A questo piano si stanno opponendo Olanda, Danimarca ed altri paesi del Nord Europa – con la Germania che fino all’altro ieri la pensava allo stesso modo. Ma se questi paesi adempiessero al loro dovere, ovvero ai loro debiti, il piano di rilancio sarebbe forse superfluo. Vi sembra strano?
Dal contemporaneo avverarsi di due problemi: (1) pieno dispiegamento dell’indiscriminata globalizzazione degli scambi con l’ingresso della Cina nel WTO e (2) introduzione della moneta unica in Europa, i paesi che oggi si lamentano hanno accumulato enormi surplus commerciali, superando l’incredibile cifra di 5.000 miliardi di dollari, proprio nello stesso momento in cui l’Europa Latina inizia a cumulare dei deficit, mentre precedentemente la situazione era assai più equilibrata.
La questione è di grande importanza perché, in un’economia monetaria, se chi detiene moneta non la spende restituendola in cambio di merci, il circuito economico rallenta fino ad entrare in crisi, generando disoccupazione. In altre parole il risparmio, ovvero la tesaurizzazione monetaria, oltre una certa misura diviene un problema perché fa sì che chi deve vendere le proprie merci (soggetti in deficit) dipenda dalle decisioni arbitrarie di spesa di chi detiene moneta (soggetti in surplus). Detto in altre parole, la Germania è in debito verso l’Italia nella misura in cui deve acquistare merci italiane per un ammontare coerente alla vendita di merci tedesche, e l’Italia è tenuta a fornirle.
E’ facile capire il concetto pensando che, se gli scambi avvenissero sotto forma di baratto, non potrebbero esistere né surplus né deficit di moneta, perché la prestazione e la contro-prestazione sarebbero immediate. E’ solo in un’economia monetaria che questo può avvenire, ed in teoria la situazione si dovrebbe risolvere in breve tempo con il riutilizzo di quella moneta per l’acquisto di altri beni. Ma nella realtà succede che chi accumula molto alla fine non può, non vuole o non riesce a spendere tutto quanto, ed allora nasce il problema! Questo aspetto può essere visto come la riproposizione, su scala aggregata a livello di nazioni, di un più generale processo di accentramento della ricchezza tra privati – che delle nazioni sono le unità costitutive: il medesimo problema nasce infatti dalla tesaurizzazione di ingenti ricchezze private.
Era questo l’insegnamento fondamentale di Keynes nella sua Teoria Generale: quando i privati non spendono a sufficienza la moneta accumulata, allora serve che la comunità spenda verso se stessa per sopperire all’artificiale scarsità di moneta indotta dalla tesaurizzazione privata (in genere una minoranza, per ovvi motivi) che pone l’economia in una situazione di sottoccupazione forzata, simile ad un’automobile che avanza con il freno a mano tirato, i cui danni sono subiti in particolare dagli altri (in genere una maggioranza, per altrettanto ovvi motivi).
Il motivo, conscio o inconscio, per il quale i soggetti in surplus (siano individui o nazioni) vedono male questo logico rimedio di sopperire con la domanda pubblica alla tesaurizzazione privata è che l’aumento di moneta, pure a fronte di nuove merci, potrebbe creare inflazione, svalutando dunque il loro stock di risparmio accumulato. Meglio dunque un (sicuro) 5% di disoccupazione in più e salari più bassi, ma guai ad un (possibile) 2-3% di inflazione addizionale!
L’enorme surplus accumulato da Germania, Olanda, Danimarca e (in misura minore) Austria nella bonanza della globalizzazione con moneta svalutata e super competitiva (per loro), è in parte non reinvestita affatto all’estero (circa 1.200 mld di dollari al 2019) ed in parte reinvestita all’estero a vario titolo (quasi 4.000 miliardi di dollari al 2019), anche qui con contestuale presenza di una analoga posizione negativa del Sud Europa. Il problema è che gli investimenti non sono sempre produttivi, visto che spesso si può trattare di un solo passaggio di mano di beni preesistenti (immobili, azioni, aziende etc.) che non apporta nessun lavoro addizionale, dunque nessuna ricchezza addizionale nella società, pur entrando nella contabilità degli “investimenti”, oppure mera rendita finanziaria.
Ed ecco che se i paesi del Nord convertissero solo la metà del loro surplus, che prima del 2002 non esistevano, in acquisti di merci dall’Europa Latina su un periodo pluriennale, ci sarebbero 2.500 miliardi di dollari a disposizione. Altro che piano di rilancio!

Quo vadis Europa?

L’entusiasmo di questi ultimi per il Next Generatio Ue, presentato dalla Presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, al Parlamento europeo, pone ancora di più di chiedersi quale è la visione e la direzione di marcia dell’Unione europea(Ue)

Quo vadis, Europa? Dove va l’Europa? E’ doveroso chiederselo perché numerosi sondaggi – il più recente è quello dell’Istituto Affari Internazionali (IAI) e del Laboratorio di Anali Politiche e Sociali (LAPS) della Università di Siena- mostrano una disaffezione degli italiani nei confronti Ue e delle sue istituzioni. Nel sondaggio citato, circa il 70% degli intervistati (ed oltre il 60% di quelli che dicono di votare per il Partito Democratico, PD, la forza politica che più si dichiara “europeista” nel panorama politico italiano) sostengono che l’Ue non sta facendo abbastanza per agevolare l’uscita dell’Italia dalla crisi causata dal Covid- 19. Nonostante che l’Ue abbia presentato proposte nell’arco di quattro settimane (ci vollero quattro anni dopo la crisi finanziaria del 2008-2009) e che la Banca centrale europea (Bce) abbia in atto un programma speciale, di cui si avvantaggia principalmente il nostro Paese, per fornire liquidità e, quindi, calmierare il costo del debito della pubblica amministrazione. Non so se Next Generatio Ue farà mutare questi orientamenti. E’ comunque presto per dirlo perché il percorso di Next Generatio Ue è ancora lungo e tutto in salita.

Le perplessità derivano da quattro determinanti. La prima è quella che ha fatto maggior effetto sull’opinione pubblica, pure quella che meno segue le questioni europee. La crisi ha dimostrato che nonostante oltre sessanta anni di lavoro dell’Eurostat (la direzione statistica della Commissione europea) con i suoi circa mille addetti, e degli istituti statistici nazionali non c’è alcuna uniformità né nelle definizioni né nelle rilevazioni nelle statistiche sanitarie di base, essenziali per un minimo di coordinamento all’interno dell’Ue. All’interno dei singoli Stati dell’Ue, in quelli dove la gestione delle politiche sanitarie è affidata ad enti intermedi (come Regioni e Länder) sono emerse differenze nei tempi di rilevazione ma non nelle modalità e nelle definizioni. E’ sorto il sospetto che ciò non sia solo un problema della sanità ma di molti settori.

La seconda riguarda come una delle prime misure per rispondere alla pandemia sia stata l’effettiva sospensione del mercato unico – l’insieme di regole (in primo luogo quelle degli aiuti di Stato) che mettono sullo stesso piano tutte le imprese dell’Ue e consentono così una concorrenza leale e plurale. Di tale sospensione beneficia principalmente la Germania ed il tessuto produttivo tedesco. La Germania ha potuto varare un programma di rilancio di mille miliardi di euro (grazie al basso peso del debito della sua pubblica amministrazione rispetto al Pil) ed il Governo federale e quelli dei Länder potranno anche entrare nel capitale di imprese in difficoltà per periodi più o meno lunghi (come già avvenne negli anni dell’unificazione), nonché effettuare fusioni ed acquisizioni ostili nel resto dell’Ue.

La terza riguarda l’unione monetaria. La teoria economica, e studi recenti pure di economisti del Nord Europa, insegnano che, a fronte di una crisi asimmetrica (quella del Covid-19 lo è essenzialmente nei suoi effetti) senza trasferimenti di fattori di produzione (soprattutto di capitale) dai Paesi meno a quelli più colpiti, un sistema di tassi di cambio fissi od una moneta unica non reggono a lungo. In questi mesi, una crisi dell’euro è evitata dall’azione straordinaria della Bce, della cui durata e consistenza, non c’è certezza.

La quarta riguarda il diritto europeo. La Corte Suprema tedesca ha messo in dubbio – non è la prima volta ma è la più palese- che la Corte di Giustizia Europea abbia la potestà di emettere sentenze in materie che riguardano la Bce ma possono incidere, direttamente o indirettamente, sulla finanza pubblica della Repubblica Federale. In precedenza, la Polonia ha decisamente negato che la Corte di Giustizia Europa abbia preminenza sulla propria Corte suprema.

Mentre la prima di queste determinanti riguarda aspetti di funzionamento tecnico- amministrativo curabili con più stretta collaborazione tra le istituzioni europee e quelle degli Stati membri, le altre tre riguardano i pilastri stessi dell’Ue: il mercato unico, la moneta unica, il diritto europeo. Ci vuole una grande visione unitamente a riforme ed a senso di compromesso. La visione non si percepisce. E le riforme ed il senso di compromesso paiono fermarsi a livello basso.

No al nuovo ordine “frugale”

Ormai da qualche giorno sono al centro della scena europea: i “Frugali”, ovvero al secolo Austria, Olanda, Danimarca e Svezia, sono diventati un nuovo blocco in seno all’UE. Dicono come gli altri Paesi, in primis l’Italia, dovrebbero comportarsi. Cosa fare, cosa non fare, debito no, prestiti sì ma condizionati, conti sotto controllo, Stati monitorati nella spesa, riapertura dei confini a discrezione e così via.

E’ giusto che ciascuno esprima la propria posizione, all’interno del dibattito Europeo, siamo tutti Paesi democratici e il diritto di parola deve essere garantito, senza mai trascendere, con rispetto e senso della misura. Senso della misura che, sempre più spesso, viene però meno. In certi momenti si ha la sensazione che vi siano preconcetti e pregiudizi in molti commenti. E soprattutto un senso di superiorità che è decisamente fuori luogo.

Un sano bagno di realismo, umiltà e senso della misura sarebbe proprio auspicabile. Anzitutto perché molto spesso, quando parlano di noi, dovrebbero ricordarsi, i “Frugali”, che il nostro è il terzo Paese dell’Unione per contributo al bilancio comunitario, con uno stock di oltre 12 miliardi di Euro all’anno. Inoltre l’Italia versa molto di più di quanto riceva indietro dall’UE, con un saldo di circa 3 miliardi di Euro. Cioè noi versiamo molto di più di quanto riceviamo, nell’ordine di miliardi di Euro appunto.

Per intenderci, i quattro “Frugali” assieme, versano molto meno della sola Penisola nelle casse dell’UE, nell’ordine di almeno un paio di miliardi. Quindi quando parlano di noi dovrebbero avere quel rispetto che spesso non hanno e quel senso della misura che sempre più frequentemente manca loro. Ciò che è ancora più sorprendente, però, è quel silenzio assordante nel difendere le nostre istanze di fronte ai continui attacchi e sberleffi ormai quotidiani. Ma potrebbero rivolgersi con questi toni e con questi contenuti alla Francia o alla Germania? Io non penso proprio. Con noi è diverso. Perché? Perché loro hanno i conti in ordine, a quanto pare. Ma questo non può e non deve essere l’unico criterio di valutazione. Ci sono numeri molto più consistenti, in ragione delle dimensioni, che non possono non essere considerati. In seno all’UE mi sembra che la quota di contribuzione al bilancio comunitario possa e debba essere un criterio altrettanto indicativo del peso di ciascuno Stato. E qui non c’è proprio partita.

Altrettanto vero, però, è che si acquista evidentemente più credibilità se si agisce in gruppo. Lo scrivevo qualche giorno fa, sempre su Charta Minuta, che per il nostro Paese sarebbe auspicabile promuovere un fronte comune del Mediterraneo, in particolare con Spagna e Francia, indipendentemente dal colore politico contingente, per promuovere una nuova agenda Europea che esca dallo sterile rigorismo per imboccare una nuova strada di crescita, sviluppo e prosperità.

Italia, Francia e Spagna, da sole, contano una popolazione di oltre 170 milioni di abitanti su 440 milioni di cittadini dell’Unione, quindi una buona fetta! Non solo, il PIL (prodotto interno lordo) aggregato di questi 3 Paesi rappresenta circa 1/3 di tutto il PIL dell’Unione. Sicuramente una massa critica di gran lunga più importante del cosiddetto blocco del Nord Europa.

L’Unione Europea è oggi a un bivio, un Paese come l’Italia, che ha fondato questa comunità e che contribuisce in modo importante alla sua sopravvivenza, anche economica, ha non solo il diritto ma il dovere di indicare una nuova strada, facendosi parte attiva nel dibattito. Non solo per chiedere quanto le spetta ma anche indicare una nuova via, assumendo un ruolo di leadership condivisa con gli altri Stati che, per dimensione e peso economico, sono oggettivamente più titolati dei “Frugali” a determinare il futuro dell’Unione stessa.

Con orgoglio, senza timore, per il futuro proprio e del continente.

Lagarde lasci a chi è competente

Occorre necessariamente essere persone di mondo per guidare un’alta istituzione europea e per essere di mondo occorre essere cittadini europei della propria nazione. Christine Lagarde, con il frasario da signorotta borghese intrisa di superiorità, si è dimostrata invece provinciale. E sia ben chiaro che si può essere provinciali anche provenendo dal IX arrondissement parigino. Si è rivelata inadeguata al ruolo di un presidente della BCE le cui parole vengono costantemente pesate da chi investe nel mercato finanziario, inadeguata a rappresentare il sentimento della parola unione che precede la parola “europea”, inadeguata a far percepire l’Europa come ciò che deve essere per uno Stato membro: rassicurante come una placenta per il proprio feto.

Nel momento in cui l’Italia, stremata per la lotta al Corona Virus, avrebbe bisogno solo di tatto e delicatezza, tutti gli attori politici italiani, nessuno escluso, hanno trovato il modo di rispondere a quel volutamente altezzoso “non siamo qui per ridurre gli spread”. E il mite Mattarella ha dovuto stendere un comunicato bagnato di stizza, le belle parole della presidente della Commissione Ursula von der Leyen sono state eclissate, il commissario Gentiloni e il presidente del Parlamento Sassoli hanno dovuto subire un’umiliazione che non meritavano, ma la cosa più grave è che il sentimento degli italiani, già provato da anni di assenza di percezione europea, ne è uscito lacerato. Lacerato. E l’Europa, al proprio interno, non può permettersi di instillare sentimenti di lacerazione.

L’Italia è il Paese che, attraverso i Trattati di Messina animati da Gaetano Martino e con l’attivismo di De Gasperi, ha contributo in primissima linea alla nascita dell’Europa. Roma è per sua natura la capitale europea nel Mediterraneo. Sarebbe dunque sbagliato dare ascolto agli istinti anti europeisti, perché la fotografia della realtà ci mostra che il limes dei singoli Stati dell’Unione è ormai scavalcato dai desideri delle persone, dalle necessità e dalle ambizioni delle aziende, dalla condivisione culturale. Dovremmo anzi essere protagonisti di un necessario rinascimento europeo, con un’agenda adeguata, per vivere il ruolo che per natura ci spetta, ma soprattutto per non essere irrilevanti dinnanzi a giganti come Cina, Russia ed U.S.A.

Come la vita, l’Europa ha le sue pecche ma è meglio averla… Così come è meglio vivere e cercare di migliorarsi e migliorare, invece che morire.

*Antonio Coppola, collaboratore Charta minuta

Mes, una minaccia, non una opportunità

Mes, perché rappresenta una minaccia e non una opportunità.

Il Meccanismo europeo di stabilità attivo da luglio 2012 è un organismo sovranazionale, al pari del FMI, con una capacità di oltre 700 miliardi di euro.

Il MES è regolato dalla legislazione internazionale e ha sede in Lussemburgo. Il fondo emette prestiti per assicurare assistenza finanziaria ai paesi in difficoltà e acquista titoli sul mercato primario. Le condizioni per accedere agli aiuti possono spaziare da un programma di correzioni macroeconomiche dei paesi che ne richiedono l’intervento. Grazie anche alla mediazione a livello continentale, l’approvazione del MES è slittata di qualche mese, dando qualche settimana in più alla maggioranza di trovare un punto d’incontro da portare poi in Europa. Per la maggior parte degli italiani, però, resta in sospeso una domanda:

Quanto inciderà l’approvazione del mes sul bilancio dello Stato Italiano e perché i suoi effetti saranno devastanti?

Ha provato a dare una risposta un documento emesso da bankitalia attraverso il quale si cerca di rispondere ad alcuni quesiti posti in essere dall’opinione pubblica, dalla politica e dalla società civile.

Prima di tutto, la Banca d’Italia spiega che il MES serve tanto all’Italia quanto a tutti gli altri stati membri dell’Unione Europea. Il suo compito è quello di attenuare i rischi connessi “con eventuali crisi di un paese dell’area Euro”. Come accaduto, ad esempio, un decennio fa con la crisi del debito sovrano greco. “La presenza del MES – si legge nella faq di Bankitalia – riduce la probabilità di un default sovrano, almeno per i paesi le cui difficoltà sono temporanee e possono essere risolte con prestiti o linee di credito. Con la riforma, che consente al MES di fungere da backstop del Fondo di risoluzione unico, il meccanismo contribuirebbe anche a contenere i rischi di contagio connessi con eventuali crisi bancarie di rilievo sistemico”.

Inoltre, secondo Bankitalia non ci sarebbe una ristrutturazione automatica del debito né sarebbe necessario “accedere” ai risparmi privati dei cittadini per sostenere il pagamento del debito nei confronti di credito nazionali ed esteri. Fondamentale, però, comprendere per bene il funzionamento delle tanto chiacchierate clausole CACS.

“Se un Paese decidesse di procedere alla ristrutturazione del proprio debito – si legge nel documento Bankitalia -, sarebbe sufficiente un’unica deliberazione dei possessori dei titoli pubblici al fine di modificare i termini e le condizioni di tutte le obbligazioni (single limb CACs), anziché richiedere una doppia deliberazione (una per ciascuna emissione e una per l’insieme dei titoli). Lo scopo di questa modifica è di rendere più ordinata un’eventuale ristrutturazione del debito, riducendo i costi connessi con l’incertezza sulle modalità e sui tempi della sua realizzazione, che danneggiano sia il paese debitore sia i suoi creditori”.

Al documento di bankitalia si contrappone l’appello lanciato da 32 economisti contrari all’esm. Nel documento si osserva che:

Le condizioni per i prestiti, se la riforma dovesse essere confermata nella forma attuale, sarebbero le seguenti: 1) non essere in procedura d’infrazione; 2) vantare un deficit inferiore al 3 per cento da almeno due anni; 3) avere un rapporto deficit/Pil sotto il 60%.

I parametri scelti sono tali da escludere a priori che l’Italia possa soddisfarli; ci si riferisce invece tra l’altro a un saldo di bilancio strutturale pari o superiore al valore minimo di riferimento. Il metodo di calcolo del saldo strutturale è da tempo contestato dal nostro paese, ed è oggetto di una campagna promossa da economisti di vari paesi che ne ha dimostrato l’assoluta inaffidabilità.

Se dunque l’Italia dovesse ricorrere all’Esm, sarebbe sottoposta ai giudizi sul debito e potrebbe esserle richiesto di ristrutturarlo. In questo caso subirebbero perdite non solo i possessori privati dei nostri titoli di Stato, ma soprattutto i bilanci delle banche, facendo precipitare tutto il sistema creditizio in una grave crisi.

Si dice che non ci sono automatismi che prevedano la ristrutturazione, ed è vero; ma il solo fatto che ve ne sia la possibilità costituisce agli occhi dei mercati un fattore di rischio, a fronte del quale gli investitori chiederanno interessi più elevati. Il problema non è dunque quali probabilità ci siano che l’Italia sia costretta a ristrutturare il debito: il fatto che venga rafforzata la possibilità che ciò accada è di per sé sufficiente ad aumentare il rischio-paese. Così, uno strumento che dovrebbe aumentare la capacità di affrontare le crisi può trasformarsi nel motivo scatenante di una crisi.

Inoltre il Mes è stato istituito per fungere da prestatore di ultima istanza, un ruolo che in ogni Stato è svolto dalla banca centrale, mentre alla Bce è stato vietato. Quindi la funzione del Mes andrebbe a sovrapporsi alle funzioni che in parte sono già riconosciute alla bce.

I 32 economisti concludono che “il nostro parere l’Italia non dovrebbe sottoscrivere la riforma dell’Esm. L’obiezione che in questo modo il nostro paese si troverebbe politicamente isolato è singolare: l’Italia è già politicamente isolata, altrimenti non saremmo in questa situazione”.

I compromessi sono possibili e auspicabili, ma si raggiungono quando ciascuna delle parti tiene conto delle posizioni e delle necessità delle altre, cosa che finora non è avvenuta. L’Italia avanzi delle proposte alternative su tutto il pacchetto delle riforme, dimostrando che riduzione del rischio e crescita non sono due obiettivi antitetici.

Questa teoria è stata espressa anche da autorevoli economisti del centro sinistra come Galli e Ignazio Visco. Il primo si è espresso in questi termini:

«la ristrutturazione sarebbe una calamità immensa, con distruzione di risparmio, fallimento di banche, disoccupazione, impoverimento della popolazione. Una ristrutturazione sarebbe un colpo di pistola a sangue freddo alla tempia dei risparmiatori, una sorta di bail-in di massa applicato a milioni di risparmiatori innocenti».

«Azioni o parole che possano ingenerare nei mercati anche solo il timore di una ristrutturazione o di un default vanno considerati un pericolo per l’Italia e per gli italiani. Per questo motivo noi ci preoccupiamo delle proposte di revisione del trattato Mes»

Parole simili a quelle di Visco:

«I piccoli ed incerti benefici di una ristrutturazione del debito», avrebbe detto sabato 16 novembre, «devono essere bilanciati con il rischio enorme che il semplice annuncio di una sua ristrutturazione possa innescare una spirale perversa di aspettative di default, le quali potrebbero rilevarsi autoavveranti»

Possiamo concludere che la modifica del Mes non piace a nessuno. Pur partendo da punti di vista completamente diversi tra loro i contrari all’upgrade del Fondo salva-Stati sono uniti da un punto in comune: l’Europa rischia di insabbiarsi a causa dell’ennesimo strumento monetario creato dall’eurozona.

Concordo con la linea dei sovranisti che hanno una posizione collegabile alla loro visione del mondo; ritengo, in sostanza, che riformare il Mes eroderebbe ulteriore sovranità agli Stati nazionali relegando questi ultimi in secondo piano rispetto alle istituzioni dell’Unione Europea.

*Giuseppe Della Gatta, analista finanziario