SEQUESTRO MORO: QUALE VERITA’?

Tanti nella nostra storia repubblicana sono i misteri irrisolti, senza alcuna verità certa e senza che ci sia stata una ricerca puntuale sui fatti e sui motivi che portarono alle stagioni di sangue.
Il mistero più oscuro è quello legato alla vicenda del sequestro Moro. A renderla costantemente attuale concorre non solo il calendario, che ripropone ogni anno – tra il 16 marzo e il 9 maggio – riflessioni e dibattiti sul terrorismo, ma anche pomeliche legate alle tragedie vissute allora dal nostro Paese. Basti pensare alla recente scomparsa dell’ex terrorista Barbara Balzerani e a un messaggio social di una professoressa che ha espresso dolore e condivisione personale per quella rivoluzione perseguita dal terrorismo comunista con attentati, morti e violenze.

Tornando al caso-Moro, nonostante si siano succeduti tanti processi giudiziari, tante commissioni parlamentari d’inchiesta, tanti speciali tv – più recente quello di Report (in tale trasmissione furono raccontati nuovi particolari) – la storia si arricchisce di sempre nuovi caputoli. “Lo Stato – ha rivelato Report – venne a sapere dell’omicidio Moro alcune ore prime della telefonata da parte di un brigatista della presenza all’interno del bagagliaio di una Renault rossa targata Roma N56786 del corpo del presidente Aldo Moro; si accende il cicalino e dal cicalino la voce. Due messaggi, il primo: la macchina rossa eccetera….poi il secondo dopo qualche momento… la nota personalità, linguaggio burocratico del Ministero degli Interni, per personalità si tratta eccetera….a quel punto mi dice (Cossiga ministro degli Interni del quarto governo Andreotti) e io dico fai bene e ci abbracciamo”. Così ha raccontato il socialista Claudio Signorile (poi ministro dei Trasporti del governo Craxi). E’ tuttora avvolto dal mistero il tempismo del ritrovamento del corpo dell’onorevole Moro (in via Caetani, una traversa di via delle Botteghe Oscure, sede del Partito comunista italiano a poca distanza dalla sede della Democrazia Cristiana in via del Gesù) quando di lì a poco si doveva tenere la Direzione del Partito democristiano che aveva come punto all’ordine del giorno (proposto dal presidente del Senato Amintore Fanfani) l’apertura di una qualche trattativa con le Br per salvare la vita al presidente Moro.

Aldo Moro è stata la personalità che più di ogni altra ha segnato la storia repubblicana; stratega incessante, ha portato il suo partito, la Democrazia Cristiana, prima a chiudere la stagione del centrismo e aprire la stagione del centrosinistra, prima con l’alleanza parlamentare, non organica con il partito socialista (cosiddetto governo delle convergenze parallele, con presidente del Consiglio Fanfani) e poi direttamente nel governo con ministri del partito socialista, il cui vicepresidente del Consiglio fu Pietro Nenni, di cui lo stesso Moro fu presidente del Consiglio (legislatura dal 1963-1968, prima con un governo “balneare” presieduto dall’allora presidente della Camera e poi presidente della Repubblica dal 1971 al 1978, quando dovette dimettersi in anticipo rispetto alla scadenza naturale del mandato settennale, per lo scandalo Lockheed Giovanni Leone).

Dopo ben due legislature terminate anticipatamente, quelle dal 1968 al 1972 e poi quella dal 1972 al 1976), lo stratega democristiano si accorse che la Democrazia Cristiana da sola non poteva più guidare la Nazione, più che barca, una zattera in preda alle onde tempestose, non solo politiche, ma anche sociali ed economiche.
Nel febbraio 1976, Moro guidò il suo V governo della Repubblica, caduto per il venir meno dell’appoggio del partito socialista, guidato da Francesco De Martino sulla legge della tutela della stirpe (legge sull’interruzione volontaria della gravidanza), che doveva evitare il referendum abrogativo; la legge non fu approvata, doveva quindi tenersi luogo il referendum e per evitare la consultazione referendaria si procedette alla crisi del gabinetto Moro e alle elezioni anticipate.

Il presidente della Repubblica Leone, quindi, non ravvisando più nessuna maggioranza parlamentare, che potesse sostenere un nuovo governo procedette a firmare, controfirmati dallo stesso presidente del Consiglio Moro i decreti di scioglimento della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica; convocando i comizi elettorali per il rinnovo dei due rami del Parlamento della Repubblica fissati per il 20-21 Giugno 1976.

Fu una campagna elettorale molto aspra, simile a quella del 1948, quando la Nazione dovette scegliere quali forze dovessero governare la Nazione. Nel 1948 stravinse la Democrazia Cristiana, nel 1976 poteva esserci il sorpasso del partito comunista di Enrico Berlinguer, segretario dallo stile “borghese”. L’esito delle elezioni portò la Democrazia cristiana con segretario Benigno Zaccagnini al 38.7% e il partito comunista al suo massimo storico il 34.4%.
Il sorpasso non ci fu, la DC grazie ai voti di grande parte del Meridione d’Italia riuscì a rimanere primo partito italiano. Il Partito socialista ebbe un crollo elettorale molto forte (il 9.6%, minimo storico), il partito di lì a breve elesse come nuovo segretario Benedetto Craxi.

Moro fu eletto presidente del Consiglio nazionale della Democrazia Cristiana, occorreva vedere se potesse esserci una nuova fase dei rapporti con il maggior partito politico di opposizione, dopo la strategia cosiddetta dell’attenzione verso il Partito comunista dei due anni precedenti (dal 1974 al 1976).

Si trovò una sintesi, ovvero un governo retto dalla non sfiducia. Moro decise di far affidare la guida di tale governo a colui che più di ogni altro conosceva la sala macchine della nave Italia, on. Giulio Andreotti; l’unico che poteva rassicurare la parte più conservatrice della Nazione, gli Stati Uniti e i nostri alleati europei.
Dopo solo due anni il terzo governo Andreotti entrò in crisi nel gennaio 1978 gli interrogativi ai quali rispondere erano sempre gli stessi, ovvero sul ruolo che dovesse avere il partito comunista nell’eventualità di una nuova maggioranza e sull’ingresso o meno direttamente nel consiglio dei ministri, quindi un ingresso organico dei comunisti nel governo.

La Nazione era in profonda crisi istituzionale, sociale ed economica, con la violenza politica da parte dell’organizzazione terroristica denominata Brigate rosse sempre più forte e che aveva come fine quella di destabilizzare il già fragile sistema politico.
Ancora una volta lo statista democristiano riuscì in un’impresa impossibile, quella di mantenere l’unità della Dc e nel portare il partito democristiano ad un’alleanza più forte con il partito comunista, senza però la diretta partecipazione dei stessi con propri esponenti nel governo.

Moro accettò di far modificare la squadra di governo ad Andreotti con l’uscita dei ministri più discussi fuori dalla compagine; al momento della presentazione della lista dei ministri Moro impose ad Andreotti di proporre al presidente della Repubblica gli stessi nomi del governo precedente.
Il partito comunista, quando fu a conoscenza della lista dei ministri ufficiale, si riunì nel Comitato Centrale in permanenza nella sede di via delle Botteghe Oscure per decidere quale linea adottare nell’imminente dibattito alla Camera fissato per il 16 marzo 1978.

La mattina del 16 marzo una notizia sconvolse il mondo istituzionale, politico e sociale della Nazione. A via Fani furono trucidati gli uomini della scorta del presidente Moro; lo statista democristiano fu prelevato dalla Fiat 130 sulla quale viaggiava, volto prima all’università per la discussione delle Tesi di laurea di quella mattina e poi per recarsi a Montecitorio per le comunicazioni del presidente Andreotti e la successiva fiducia dello stesso governo da parte della Camera dei deputati e rapito dalle Brigate Rosse.

Furono 55 giorni di comunicati, di falsi comunicati, di depistaggi di mezze verità.
Il sequestro terminò con la tragica fine dello statista democristiano, il corpo dello statista fu ritrovato nella Renault rossa, crivellato di colpi in via Caetani, la mattina del 9 maggio 1978, una traversa di via delle Botteghe Oscure e di via del Gesù sede del partito democristiano del noto statista.

Quale verità?

Innanzitutto occorre andare indietro con la mente e di ripartire, nell’incessante ricerca della verità, dai giorni antecedenti al sequestro ovvero all’opera strategica, politica dello statista. Qual era la vera strategia del presidente democristiano, veramente voleva portare il partito comunista nel governo con propri esponenti o voleva far in modo che la DC arricchisse il proprio patrimonio politico aprendosi di più alla società, ai nuovi ceti sociali che avanzavano e che reclamavano un più ampio spazio politico e sociale?

La verità è sempre illuminante e per fare piena luce sul sequestro e l’omicidio Moro occorre liberarsi da inutili strumentalizzazioni, illuminando la storia nei termini in cui si consumò quella tragedia in un clima politico-culturale che non vedeva affatto isolate le frange terroristiche rispetto a certi ambienti della sinistra (tutt’altro che minuscoli) che consideravano quei compagni delle avanguardie – ardimentose, coraggiose o disperate – della loro stessa famiglia. (E si potrebbe, quindi, riflettere sull’eredità pericolosa tuttora in circolo, di cui quel tweet dell’insegnante universitaria rappresenta una spia, voce dal se fuggita ma profondamente e pericolosamente sincera).

L’ombra di Aldo Moro aleggia sempre sulla nostra Nazione e solo la verità potrebbe portare la nostra Nazione a chiudere con il passato violento e ricominciare quella navigazione a vele spiegate verso mete più avanzate.

Navalny, in morte di un eroe

Aleksej  Anatolevich Navalny è morto da eroe. Nella Siberia estrema, laddove neppure i lupi latrano e la temperatura scende a quaranta gradi sotto zero. Si è spento durante l’ora d’aria, il 16 febbraio, accasciandosi sul suolo ghiacciato; vani sono stati i tentativi di rianimarlo, sia nel carcere che lo ospitava e trentasette minuti dopo in ospedale dove è arrivato con una flebo infilata nel braccio. L’hanno ucciso, con il veleno tempo fa, con le insopportabili condizioni nelle quali lo avevano ridotto,  con il freddo polare della sua piccola cella di 3 metri per 2. Un omicidio programmato. Come tanti altri, a cominciare  da quello della giornalista Anna Politovskaja.

In un primo tempo aveva trovato un rifugio sicuro in Germania, ma non se la sentiva di stare lontano dalla sua Russia per quanto dominata da una gang di assassini guidata da un uomo che ritiene di essere uno statista, invece è un vecchio manutengolo del KGB in pensione, sia pure dorata, il cui divertimento è assassinare popoli come i georgiani, i ceceni, gli ucraini; appropriarsi di Donbass e Crimea; sorvegliare i dissidenti, perfino quelli vicini al suo entourage.

Navalny si era scelto Vladimir Putin come competitore. Perché aveva scorto nel capo del Cremlino il satrapo che non si arrestava contro niente e nessuno pur di tenere in scacco il suo stesso popolo e minacciare quelli vicini che finge di trattare come “amici”.

“Questo regime e Vladimir Putin hanno personalmente la responsabilità di tutte le cose terribili che hanno fatto al nostro Paese, alla mia famiglia e a mio marito”. Così Yulia, la moglie di Navalny. E quante altre mogli potrebbero dire lo stesso?

Navalny era un nazionalista, un tradizionalista, un patriota che non poteva vivere lontano dalla sua terra dove era tornato sapendo che la vita sarebbe stata dura e breve.

Di questi oppositori al mondo ve ne sono pochi, ma quando emergono sanno farsi riconoscere nella maniera più clamorosa: con la morte eroica. Ed il mondo, per quanto distratto, dovrebbe considerarli come avanguardie della libertà e nemici della tirannia.

Perseguitato a lungo, arrestato, detenuto, esiliato, costretto ad abbandonare la sua Patria, sia all’estero che in Russia Navalny ha fatto sempre sentire la sua voce attraverso il blog che animava dal quale le denunce di corruzioni e crimini addebitati alla cricca del Cremlino erano all’ordine del giorno.

Il compromesso non faceva per lui. A lui era destinata la tetra e gelida prigione  di Kharp, nella Siberia del Nord, probabilmente ucciso da un ictus provocato da un’embolia arteriosa, come hanno scritto i giornali. Ma c’é anche chi dice che sia stato ucciso a sangue freddo: notizie che fuoriescono, in maniera contraddittoria,  dalla colonia penale IK-3 a tutti nota   come «Lupo polare» dove Navalny era arrivato a Natale da un luogo non certo più ameno.

Avrebbe potuto fare sue le parole di Anna Politkovskaja:  “Ma, alla fine, che cosa avrei combinato? Ho scritto ciò di cui sono stata testimone. E basta. Sorvolo espressamente sulle altre “gioie“ della strada che mi sono scelta. Il veleno nel tè. Gli arresti. Le lettere minatorie. Le minacce via Internet e le telefonate in cui mi avvertono che mi faranno fuori. Quisquilie. L’importante è avere l’opportunità di fare qualcosa di necessario. Descrivere la vita, parlare con chi ogni giorno viene a cercarmi in redazione e che non saprebbe a chi altri rivolgersi. Dalle autorità ricevono solo porte in faccia: per l’ideologia al potere le loro disgrazie non esistono, di conseguenza neanche la storia delle loro sventure può trovare spazio sulle pagine dei giornali”.

La Politkovskaja, animatrice di  “Novaja Gazeta”, assassinata nel 2006 dai gangster del   Cremlino, come Novalny si batteva contro la corruzione degli oligarchi e la soppressione della libertà. Ora il nuovo eroe ha raggiunto la coraggiosa giornalista. Putin ha fatto spallucce sia in questa che in quella occasione. Il mondo libero dovrebbe mettere in fila i crimini orchestrati dal satrapo di Mosca e non avere titubanze nello schierarsi contro di lui considerando i pericoli che incombono sui confini orientali dell’Europa.

Noi occidentali non possiamo perdere la partita decisiva nella contesa tra il mondo schiavizzato e quello libero. Bisogna scegliere dove e con chi stare. Questa volta nel nome di Aleksei Navalny.

 

MACERIE, ERRORI E QUALCHE LEZIONE

A un anno dall’inizio dell’ “operazione militare speciale “ che, nelle intenzioni di Vladimir Putin, avrebbe dovuto fare in pochi giorni dell’Ucraina nel migliore dei casi uno Stato vassallo (non dissimile dalla Bielorussia dell’autocrate  Lukashenko) gli obiettivi del Cremlino appaiono lungi dall’essere raggiunti. E questo  grazie, in primis, alla straordinaria capacità di resistenza di cui hanno dato e stanno dando prova le forze armate e l’intero popolo ucraino così come la sua dirigenza.

Risultato ammirevole – pur se da consolidare  e nulla è al momento, purtroppo, scontato anche alla luce della profonda riorganizzazione delle proprie linee nelle quali Mosca è impegnata- reso possibile anche dal compatto e doveroso sostegno dell’Occidente “globale” alle ragioni di Kiev, sia a livello politico che in termini  di assistenza militare  logistica e , “last but not least” .., di “intelligence”.

Resta difficile, se non impossibile, formulare previsioni sull’esito del conflitto in una situazione che , sul terreno,  resta di sostanziale stallo  e, a livello diplomatico, tale da non giustificare ottimismo circa le possibilità di avvio più o meno a breve di trattative  tra Mosca e Kiev per una soluzione negoziata.   Troppo distanti – o, meglio ancora, incompatibili – continuando ad apparire le posizioni delle due parti.

Con un Putin ben consapevole del fatto che la mancanza di risultati tali da poter essere presentati   alla sua cerchia come una chiara vittoria ( o qualcosa di molto simile ad essa) segnerebbe, con ogni probabilità, la fine del suo più che ventennale regime; e con una dirigenza ucraina comprensibilmente non disposta a desistere, almeno allo stato, dall’opera avviata di faticosa riconquista  di parte dei territori perduti e a far accettare alla propria opinione pubblica il  fatto che il “diritto della forza” (quella utilizzata dal 2014 a oggi da Mosca nei confronti dell’Ucraina) può, in certi casi , far premio sulla “forza del diritto”.

La maggioranza degli analisti  concorda nel ritenere che la presente fase di guerra di attrito sia destinata a durare almeno sino all’inizio della primavera: allorquando cioè, si sostiene, Mosca deciderà con ogni probabilità di lanciare una pesante controffensiva (che, secondo altri, potrebbe però aver luogo anche prima).

Controffensiva  che potrebbe assumere ad esempio  i caratteri di una nuova massiccia operazione di sfondamento in direzione di Kiev ( con linee d’attacco che potrebbero partire da  più direttrici per esempio a nord , dalla Bielorussia di Lukashenko,  o a sud dalla Transnistria da tempo sotto il controllo di Mosca)  a poco più di un anno da quella, fortunatamente fallita, messa in atto all’inizio del conflitto.

Altri ritengono invece più  verosimile  – ma è opinione minoritaria – che saranno  invece  le forze ucraine – rinfrancate dalle prossime  forniture di carri armati di ultima generazione da parte occidentale- a lanciare prima ancora una nuova offensiva per impedire al Cremlino di riorganizzare compiutamente le proprie forze .

Tutto questo, viene fatto notare,   in un ottica di tentata riconquista da parte di Kiev delle aree del  Donbass  occupate da Mosca se non, addirittura, della  stessa Crimea vera e propria “linea rossa” per Putin .

Con tutti gli interrogativi da porsi circa la risposta russa a un’eventuale offensiva ucraina in direzione della Crimea;  e col rischio, evocato  nelle scorse settimane  da vari analisti e dallo stesso Stoltenberg , che si possa arrivare prima o poi a un devastante confronto diretto tra la NATO e la Russia . E tuttavia, ferma restando la difficoltà di anticipare gli eventi tante essendo le variabili in gioco, è forse già possibile trarre  dall’anno da poco conclusosi alcune lezioni  di carattere geopolitico lasciando agli esperti di soffermarsi, in altro contesto, su quelle di carattere  militare (meritevoli, credo, di trattazione ad hoc).

 

Riflessioni e lezioni

La prima conclusione che mi sento di trarre è che, grazie a Dio,  anche gli autocrati sbagliano.

Grave è stato infatti l’iniziale errore di Putin – obnubilato, forse, anche dalle certezze di inevitabile affermazione della “ Russia eterna” su un Occidente corrotto e in declino veicolate da ideologi quali Alexander Dugin e dallo stesso Patriarca Kirill- di considerare l’Ucraina una “non-nazione  e un “non – popolo”  desiderosi  soltanto di rientrare al più presto nel grembo della “Grande Madre – Russia”.

E’ errore di valutazione a oggi pagato da Mosca a caro prezzo in termini tra l’altro di giovani vite sacrificate ,anche se la tradizionale passività e consuetudine di obbedienza al potente di turno del popolo russo ha sinora ( ma non è detto che le cose non possano, prima o poi, cambiare ) tenuto il Cremlino al riparo da rivolte – od operazioni di palazzo- in grado  di mettere a repentaglio la stessa tenuta del regime.

La seconda conclusione mi sembra essere quella della progressiva affermazione, in quest’anno di cruento scontro col potente vicino, di una identità ucraina in termini molto più netti di quanto mai prima avvenuto e di un ancoraggio di Kiev all’occidente euro-atlantico certo non previsto dal Cremlino  né a esso gradito. Il contrario, dunque, di quanto Putin sin era prefisso lanciando nel febbraio dello scorso anno la sua sciagurata aggressione.

La terza conclusione è  rappresentata dalla non scontata compattezza sin qui mostrata dall’ Occidente  nel suo complesso ( comprensivo, dunque, anche dei partner ad esempio dell’area dell’Indo-Pacifico, Giappone in primis) a fronte del cinico ricorso alla forza da parte della Russia putiniana, in violazione di tutti i principi sanciti dalla Carta delle Nazioni Unite e dall’OSCE.

E’ elemento importante ancor più in una fase in cui il confronto tra le società liberal-democratiche e le potenze autocratiche (Russia e Repubblica Popolare cinese in primis ma anche Iran e Corea del Nord per non  citarne che alcune) è più vivo che mai, e appare destinato a durare . Quando parlo di coesione dell’asse euro-atlantico mi riferisco naturalmente anche alla seconda giovinezza che l’aggressione di Mosca all’Ucraina e, più in generale, il riaffacciarsi della minaccia russa in Europa ha conferito a una NATO data nel 2019 praticamente per morta dal Presidente Macron .

Un’Alleanza Atlantica che si conferma invece più vitale che mai ( e ancor più lo sarà dopo l’ingresso auspicabilmente a breve di Svezia e Finlandia , Erdogan permettendo..) e vero pilastro della nostra sicurezza; ferma restando, naturalmente, la necessità del miglior raccordo possibile con una difesa europea ancora in fase embrionale chiamata comunque, nella visione Italiana e non solo,  a operare in spirito di complementarietà e certo non di concorrenza con la NATO.

Se vi è un rischio in tale ritrovata vitalità dell’alleanza è che le tensioni legate al conflitto in Ucraina la rendano sempre più un organismo per così dire a “trazione nordica” (Regno Unito, Danimarca , Polonia, Paesi baltici in primis) con una progressiva attenuazione dell’attenzione da riservare alle sfide provenienti dal fronte sud.

E’ eventualità evidentemente per il nostro Paese da scongiurare. Sotto tale profilo un ruolo decisivo potrà essere svolto dal nostro  governo con un  Presidente del Consiglio  e un Ministro degli Esteri e della Difesa rispettati e dalle impeccabili credenziali atlantiche  ma, al tempo stesso, ben consapevoli del rilievo che lo scacchiere balcanico, mediterraneo e africano riveste (e rivestirà ancora a lungo) per gli equilibri mondiali e per la sicurezza stessa del nostro Continente.

La quarta lezione che mi sembra scaturire da questo primo anno di guerra ai nostri confini orientali  (così come dall’ emergere  dell’asse Mosca- Pechino nonostante la perdurante indisponibilità della dirigenza della Repubblica Popolare a fare propri tutti gli argomenti e le richieste di Putin) è che per l’Europa, e per il nostro Paese, il conflitto  in atto – al di là della sua dimensione puramente militare – ha posto in luce i rischi insiti in una eccessiva dipendenza da soggetti esterni a noi avversi, sia per le forniture di carattere energetico (Russia) e / o tecnologico (Cina) che per lo sviluppo delle nostre economie.

In sostanzase è vero che l’Unione europea – in sintonia con l’alleato americano  e grazie a una capacità di risposta, per esempio sul versante sanzioni,  per molti versi sorprendente date le diverse sensibilità nazionali sul tema dei rapporti con Mosca- è stata tempestiva e unita nel condannare l’invasione  russa e nel sostenere l’Ucraina aggredita  è altrettanto vero che la crisi ucraina la ha anche costretta a fare i conti con alcune debolezze strutturali.

Debolezza certo note, almeno in parte,  ancor prima dell’inizio dell’aggressione ma emerse in tutta la loro evidenza grazie alle lezioni della guerra . E che hanno stimolato un dibattito in seno alla UE ancora in corso potenzialmente capace di portare frutti auspicabilmente anche a breve. In conclusone, le dinamiche innescate dalla brutale aggressione russa all’Ucraina  hanno reso evidente: l’urgenza di rivedere la strategia energetica della UE con l’obiettivo – cui la Presidente Meloni e il nostro governo stanno egregiamente  lavorando – di ridurre la dipendenza dalle fonti fossili importare dalla Russia sino alla loro eliminazione; di rafforzare la resilienza e l’autonomia di alcuni settori essenziali dell’economia europea realizzando capacità produttive autonome per taluni materiali e tecnologie critiche riducendo la dipendenza dall’estero; di accelerare il processo di rafforzamento delle capacità UE nel campo della sicurezza e della difesa nonostante le persistenti differenze di vedute in materia tra una Germania a guida Scholz che sempre più pare intenzionata a far riferimento agli Stati Uniti  per le forniture sensibili (vedasi il caso del recente acquisto degli F35 a scapito della scelta europea) e una Francia a guida Macron che dell’autonomia strategica europea intende continuare a farsi prioritaria interprete ed espressione .

Su tale ultimo versante, quello cioè legato alle tematiche della difesa, è poi un fatto che l’aggressione russa all’Ucraina ha riportato il ricorso alla forza bruta quale strumento di promozione degli interessi nazionali al centro dei rapporti tra Stati in un’ Europa che credeva di avere definitivamente lasciato dietro di sé tali orrori.

 

Il ruolo dell’Italia

Nell’eventualità di nuovi conflitti di potenza sul nostro continente o in aree di suo diretto interesse, è dunque essenziale per l’Europa e per il nostro Paese tornare, con tutte le necessarie capacità, a un modello di difesa in grado di tenere testa anche a possibili minacce convenzionali e di esercitare al meglio il tradizionale ruolo di deterrenza (mancato purtroppo prima dell’ avvio dell’aggressione russa all’Ucraina, con le conseguenze che conosciamo).

Un brusco risveglio che deve indurci a ripensare i concetti di difesa e di industria della difesa così come consolidatisi, nella percezione della nostra Europa, dalla fine della guerra fredda a oggi.

Anche in questo caso il nostro Presidente del Consiglio e i competenti Ministri , data la loro credibilità sia sul versante atlantico che su quello europeo e l’equilibrio che da sempre caratterizza la posizione Italiana sul versante del rapporto NATO – UE , hanno tutte le carte in regola per svolgere un ruolo di riavvicinamento tra le sensibilità di Parigi e Berlino .

La quinta riflessione è che la guerra mossa dal Cremlino all’Ucraina sta ogni giorno di più rendendo palese come non sia ormai più sostenibile per le liberal-democrazie un processo di globalizzazione che non implichi anche, per gli attori coinvolti, una convergenza intorno a valori comuni.

Dal punto di vista operativo  ne deriva , come corollario, l’opportunità / necessità di  mantenere o riportare all’interno di un perimetri di paesi amici o alleati ( il  cosiddetto “ friend-sharing”) la capacità di sviluppare tecnologie particolarmente complesse a cominciare da quelle indispensabili per la “resilienza” delle nostre infrastrutture critiche .

La sesta lezione è che la guerra in Ucraina ha comunque fatto emergere un “Sud globale” non disponibile  a fare necessariamente  proprie le posizioni occidentali e i modelli di democrazia  praticati dall’Occidente. Nel segno, va rilevato, di una nuova solidarietà tra Paesi che si contrappongono alle democrazie occidentali cui essi rimproverano errori pregressi e incapacità di comprendere i reali problemi di quella parte del mondo: prova ne sia ad esempio    l’elevato numero di astensioni registratosi lo scorso 12 ottobre in sede di voto alle Nazioni Unite sulla Risoluzione di condanna delle “annessioni illegali”   da parte russa delle quattro regioni ucraine di Donetsk, Luhansk, Kerson e Zaporizhzia.

Né è irrilevante che tra gli astenuti in quell’occasione si contassero  ben 19 Paesi africani (così come è interessante notare notare la presenza sempre tra gli astenuti di Cina e India e della “strana coppia” formata , per l’occasione, da India e Pakistan). Il “Sud globale” rifiuta in sostanza, ormai,  di schierarsi automaticamente a fianco  dell’Occidente anche se ciò non cancella il fatto  che , nel caso dell’Ucraina, si è davvero in presenza di una sfida sfacciata alla Carta delle Nazioni Unite e di portata mondiale .

Nel corso del 2023 bisognerà pertanto essere più convincenti nei confronti di tali Paesi attraverso tutti gli strumenti a nostra disposizione . Bene ha fatto dunque la Presidente Meloni a lanciare nei mesi scorsi a Bruxelles , e a riprenderla in occasione della sua recente e fruttuosa  missione ad Algeri, l’idea di una nuovo piano di sviluppo per l’Africa con fondi europei ( il cosiddetto “Piano Mattei”) in un’ottica appunto di “cooperazione non predatoria”. Progetto ad ampio raggio con l’Italia in prima linea le cui positive ricadute possono andare, per i motivi di cui sopra ,  ben al di là di quelle  pur importanti legate a un’ azione comune di contrasto all’immigrazione illegale.

Se queste sono dunque le principali “lezioni” che mi sembrano scaturire dal conflitto in atto resterà indispensabile per l’asse euro-atlantico riservare ogni attenzione , come grazie a Dio sinora avvenuto, a evitare che lo scontro tra Mosca e Kiev possa poco a poco degenerare come sopra accennato in un conflitto tra la Russia e la NATO e a cogliere ogni possibile ( al momento purtroppo inesistente ) opportunità negoziale .

Il tutto naturalmente senza venir meno , da un lato, al nostro dovere morale di aiutare l’Ucraina a difendersi con ogni mezzo possibile (nell’esercizio di quel diritto all’auto-difesa sancito dall’art.51 della Carta delle Nazioni Unite) , pur nella consapevolezza  delle difficoltà implicite nelle ulteriori  scelte che i nostri Paesi  saranno  chiamati a compiere a fronte delle richieste ucraine di sistemi d’arma sempre più avanzati; dall’altro,  a quel raccordo intenso e costante in ambito atlantico che ha consentito, ad esempio, di progressivamente superare  le iniziali resistenze di Berlino alla fornitura di carri Leopard all’Ucraina aggredita.

La visita a Kiev della Presidente Meloni  – oltre a confermare il fatto che il nostro Paese si colloca ormai saldamente  nel gruppo di testa dell’alleanza occidentale a sostegno dell’Ucraina (ruolo che non potrà che uscire rafforzato dalla nostra promessa fornitura, di concerto con la Francia,  del sistema di difesa anti-aerea SAMP-T) consente al nostro Presidente del Consiglio di conseguire almeno due ulteriori traguardi.

Il primo:  quello di ribadire, al più alto livello, il   nostro concreto appoggio  all’ eroica resistenza del popolo ucraino; il secondo: quello di acquisire direttamente dal Presidente Zelenski aggiornate percezioni sui possibili sviluppi diplomatici e sul terreno nelle settimane a venire.

Elementi entrambi importanti – ancor più in una fase, come l’attuale,  così  fluida e per molti versi critica del conflitto – che potranno essere dalla stessa Giorgia Meloni   valorizzati  e condividisi  con i propri interlocutori  sia  sul versante  europeo che su quello atlantico  (a cominciare naturalmente dal Presidente Biden).

Tutto questo, mi piace rilevare,  nel segno di un’ Italia nuovamente consapevole del proprio ruolo e delle proprie potenzialità nonché ritrovata, e ascoltata,  protagonista delle scelte che l’Occidente è chiamato a compiere .

LA CHIAVE DI VOLTA SI CHIAMA CRIMEA

La guerra in Ucraina compie un anno. Ormai è un conflitto condotto secondo il tragico canovaccio del logoramento, lungo la linea di contatto che dal basso Dnepr attraversa tutta l’area sudorientale fino al bacino del Donec, un’importante zona carbonifera.

Munizioni e sistemi d’arma vanno gli uni ad esaurirsi e gli altri a logorarsi, mentre Mosca immette, a quanto pare, forze fresche volte a intensificare le operazioni e guadagnare posizioni più vantaggiose prima che l’occidente riesca a inviare nel teatro delle operazioni i propri armamenti a favore delle truppe ucraine.

Ma la tanto ventilata offensiva russa probabilmente deve ancora prendere il via. Fonti di intelligence occidentali parlano della fine di questo mese.

Su questo punto occorre aggiungere qualche breve considerazione. Ammesso che Abrams e Leopard 2 arrivino a Kiev (sempre che siano Leopard 2 e non Leopard 1 nella versione A5, come pare sia almeno per ora), è difficile convincersi che possano essere immessi in combattimento in tempi brevi. Perché per formare equipaggi per carri di questa generazione non basterebbero probabilmente sei o sette mesi. Inoltre, abbiamo anche sentito la richiesta del presidente ucraino di avere degli F-16. Un’ulteriore richiesta, rinnovata in ambito europeo in queste ore, che dovrebbe far riflettere, per il semplice fatto che non si forma un pilota su un velivolo di questo genere in poche settimane. A meno che gli ucraini non siano già stati addestrati su quei mezzi corazzati e su quei velivoli. Il che porta a chiedersi se questa tragedia non sia stata di fatto preparata da tempo. Un’ipotesi da non scartare, secondo la tesi (da me già argomentata nel volume Ucraina-Russia, Guerra, Diritto e interesse nazionale, 2022) che vedrebbe questo come un inevitabile conflitto diciamo “di passaggio”, sulla via di un qualcosa molto più importante per Washington: il confronto con la Cina.

Ovviamente non siamo in grado di conoscere se le condizioni addestrative del personale ucraino siano all’altezza di utilizzare quei mezzi occidentali in pochissimo tempo. Così come, del resto, sappiamo ben poco di quello che accade sul terreno, contrariamente a quanto vari “cantori e presunti esperti di geopolitica” si avvicendano sugli schermi e sui giornali a raccontare dettagli con tale disinvoltura da far credere che abbiano letto di persona i documenti operativi di entrambe le controparti. Le informazioni che giungono sono probabilmente inquinate da mezze verità o da vere e proprie falsità, perché non si può non prendere in considerazione la necessità che le varie opinioni pubbliche, mi riferisco a quello occidentale in questa circostanza, come sicuramente accade in senso contrario per i russi, vengano sommerse dai rispettivi governi da narrazioni volte a convincerle della bontà e anche della giustezza delle scelte fatte o che saranno prese. È nell’ordine delle cose di questo mondo.

Una guerra di logoramento è una guerra di nervi. Ed è tendenzialmente molto lunga. Non è normalmente la prima scelta strategica, ma una necessità che gli eventi impongono. Già nel VII secolo a.C., Sun Tzu raccomandava che il primo obiettivo in guerra dovesse essere la vittoria e non lunghe campagne. Quindi un forzato ripiego a cui assoggettarsi. Tuttavia, non può essere esclusa che si sia trattato di una scelta strategica, anche se poco probabile. Con l’obiettivo di snervare, distruggere per sottomettere, secondo una delle due categorie del politologo Jacques Sémelin.

Tuttavia, vincere una lunga guerra richiede capacità e volumi in termini di mobilitazione nonché un flusso di materiali e di rifornimenti che superino quanto possa fare l’avversario. Quando tutto ciò che si mette in campo, sottraendolo necessariamente al vivere civile, dimostra all’avversario quale dispendio di risorse comporterebbe il fare altrettanto, solo allora si può sperare nella pace. Un insegnamento di Machiavelli. Fino a quando il fronte interno regge.

E quindi c’è il soldato, l’uomo sul terreno. La violenza, propria della natura dell’uomo, caratterizza lo scontro tra due compagini, portando all’estrema conseguenza del divenire “vera” la guerra “reale”, nella distinzione che ne faceva Clausewitz. Guerra vera che tende sempre più a sfuggire ai legacci delle leggi internazionali coinvolgendo l’ambito civile. È inevitabile. Non esiste una guerra pulita, non è mai esistita e non esisterà. Non ci si illuda in questo. Tantomeno in una guerra di logoramento. Non è solo la lotta di un uomo contro il suo antagonista. Nello scontro tra due parti, il combattimento non è altro che un incidente. Lo ha scritto Blasco Ibanez (I quattro cavalieri dell’Apocalisse, 1995)  che la parte pesante, quella che annienta, ed è ciò che può abbrutire, è tutto ciò che, riprendendo il suo racconto, comporta i sacrifici che precedono il combattimento stesso: le marce interminabili, i rigori della temperatura, e che faccia caldo o freddo non fa differenza, le notti all’aperto, smuovere la terra, aprire trincee, caricare carri, patire la fame e spesso non riuscire a soddisfare i più elementari bisogni fisiologici.

Noi parliamo continuamente di innovazione, di intelligenza artificiale, di guerra moderna, di satelliti, di comunicazioni criptate, insomma di tutto ciò che riguarda un mondo digitale che anche in guerra presumiamo di portarci dietro dalla prosperità e dalla facilità della vita civile, dimenticando che invece quando si va in trincea il mondo ritorna ad essere analogico. Semplicemente, crudamente e crudelmente. E il soldato deve essere addestrato ad affrontare questa realtà. Ma l’addestramento costa e non basta mai, nel fisico e nella mente.

Ci libereremo della guerra? Chissà. Di certo l’uomo non si è mai rassegnato: da un lato ha sempre tentato di limitare e regolamentare questa violenza, con norme e leggi, e dall’altro persino di esorcizzarla sottolineandone gli effetti benefici per la società e la solidità di una nazione.

Come la guerra, la ricerca della pace è un lungo processo, un lungo ed estenuante braccio di ferro. Anche la diplomazia vive quindi il suo logoramento. Non ci si improvvisa in questo. L’analisi geopolitica conduce alla formulazione di una strategia anche nella ricerca di un compromesso. Pur tuttavia, una volta delineata e attuata, non è detto che funzioni. C’è sempre una dose di incertezza e magari un azzardo.

E in questo probabilmente risiede la strategia americana per chiudere, forse, la partita. Aiutare l’Ucraina in termini finanziari e di equipaggiamenti per alzare l’asticella della resistenza alla lotta: perché Kiev non perda ma anche perché Mosca non vinca.

Appare un paradosso. Ma lo è se non lo si confronta con lo scopo strategico di Washington che consiste nel fare in modo che la Russia si debiliti, non tanto da mortificarne l’orgoglio ma quanto basta per “dividerla” da Pechino. Perché, come detto, il vero confronto è più in là, nel Pacifico. Un percorso che però nasconde insidie. Un azzardo strategico, come detto.

In poche parole, far comprendere a Mosca che il suo controllo sulla Crimea è messo a rischio, consentendo a Kiev di considerare seriamente di potersela riprendere con la forza, non è detto che possa portare a una chiusura “convenzionale” del conflitto. Almeno sulla carta, questo sarebbe il filo conduttore, una minaccia credibile in questo senso dovrebbe indurre Putin a sedersi a un tavolo di negoziazione. Potrebbe.

La Crimea, infatti, è probabilmente la chiave di tutto. Sempre che Kiev abbia serie intenzioni di considerarla oggetto di contrattazione. Altrimenti, l’affare si complica. Del resto, i successi ucraini sul campo nell’ultima  parte dello scorso anno hanno galvanizzato e forse illuso Zelensky, tanto che in più di un’occasione si è pronunciato nella ferma volontà di riprendersi la penisola. Pertanto, le eventuali sue assicurazioni a Washington di voler trattare sulla Crimea in cambio di maggiori aiuti militari dovrebbero mettere in allarme la Casa Bianca sulla sua trasparenza. Troppo ingenuo dare per garantito che mantenga quanto promesso.

Sempre che sia davvero il presidente americano a condurre la politica americana in questa crisi. Ma la mano americana è fondamentale. L’Unione Europea non ha né titolo né tantomeno forza. Tanta energia certamente, lo si vede da quanto parlano, promettono, applaudono, minacciano e viaggiano. Purtroppo, l’energia è cosa ben diversa dalla forza.

A Pechino poi, tutto sommato, va bene che la guerra continui. Quindi, non ci si illuda di fare tanto affidamento in una sua intermediazione, al di là di pronunciamenti di facciata. E poi, alla luce delle mire cinesi, in questo complicato puzzle, perché a Washington non tornerebbe utile che Mosca riconoscesse un domani il suo apporto nel raggiungere un accordo favorevole a Mosca sulla Crimea?

Torniamo ora a quell’azzardo di cui sopra. Perché mai? Presto detto. Intanto, aiutare “troppo” Kiev potrebbe seriamente abbassare le già fragili speranze di condurre negoziazioni che producano un risultato accettato da entrambi i contendenti. Quindi, se non la pace, conseguire un qualcosa che almeno in un primo tempo le assomigli, per poi progredire. Di conseguenza, al contrario, un sostegno “disinvolto”, di quelli sostenuti dallo slogan “Mosca deve perdere” oppure “Kiev deve vincere”, potrebbe condurre a un confronto nucleare.

L’umanità ha esperienza dell’utilizzo di gas tossici dopo la Seconda guerra mondiale, negli anni Ottanta, per esempio, in Iraq. Probabilmente anche in Siria molto più recentemente. Al contrario, le ultime armi nucleari impiegate in un conflitto sono quelle del 1945 contro il Giappone. La teoria della deterrenza ha bloccato i vari “Stranamore”, per la paura della risposta. Quindi c’era un freno a colpire per primi dato che negli anni dei blocchi la contrapposizione era anche nucleare. Qualcuno, come il politologo Kenneth Waltz credeva che persino la proliferazione avrebbe scongiurato il verificarsi di grandi guerre, perché il rischio sarebbe stato eccessivo. E, in effetti, dopo il 1945, i conflitti si sono sviluppi a un livello molto più circoscritto.

Il nucleare, quindi, ci avrebbe salvati da un’ulteriore grande guerra. Ma ora?

Mosca si riserva il diritto di ricorrere all’ordigno nucleare quando “l’esistenza dello stato è messa in pericolo”. E la Crimea è considerata parte dello stato, che noi in occidente o tutto il resto del mondo lo riteniamo un abuso, illegale o persino moralmente deplorevole. Il problema è che Putin ha il potere di schiacciare il bottone rosso, nessun altro, né tantomeno il diritto internazionale.

Quello che Putin ha in testa adesso, così come quello che aveva in testa prima di scatenare questa tragedia, quindi i suoi reali obiettivi politico-strategici, passati e presenti, noi non li conosciamo. Possiamo solo supporli, magari un domani qualcuno potrà persino vantarsi di averli azzeccati.

Ma nei fatti del mondo, soprattutto nei conflitti, è arduo prevedere. E guai a farlo prendendo partito quasi fosse una partita di calcio oppure sulla base di considerazioni di ordine etico che tendono a far perdere di vista la significativa differenza tra giustificazione e motivazione di un accadimento. Con il risultato sgradevole che, purtroppo, oggi risulta difficile discutere pacatamente su quali siano state le cause di questa guerra o sull’eventuale pretesto utilizzato per scatenarla senza essere assimilato a un collaborazionista.

Allo stesso modo, le comode semplificazioni da bar e da talk show conducono troppo spesso alla facile conclusione di affibbiare la colpa a uno solo dei contendenti. Il che è comunque plausibile. Tuttavia, la storia ha tempi lunghi e prima di distinguere con un taglio netto, e obiettivo, il bene dal male, è necessario avere precisa cognizione di tutti i fattori in gioco. Il “motivo” dei fatti non può essere individuato sulla base dell’emozione del momento. Questa può generare una visione fatalista, persino mistica, oppure inquinata dalla morale empirica, quella della nostra vita quotidiana, impedendo di cogliere l’inevitabile meccanismo “causa-effetto”. Una guerra, invece, può avere un’infinità di cause.

Come ci ricorda Paolo Pagani nel commentare Tolstoj (Citofonare Hegel, 2002) “mai credere alle frettolose e semplicistiche spiegazioni di chi declama dogmaticamente torti e ragioni”.

Pertanto, dovesse Putin avvertire la reale possibilità che Kiev stia seriamente minacciando la “sua sovranità” sulla Crimea, potrebbe molto probabilmente ordinare un pur limitato attacco nucleare sulle forze ucraine. Sempre che un attacco nucleare, ancorché condotto con armi tattiche, possa mai essere ritenuto limitato. Con lo scopo di terrorizzare non solo la componente militare ucraina, non solo gli ucraini stessi ma anche il mondo intero che verrebbe gettato nel vortice del panico per l’imminente Armageddon nucleare. E’ il “costo psichico” del terrore nucleare valutato qualche decennio fa dallo psichiatra Robert Lifton, secondo il quale Hiroshima e Nagasaki non erano soltanto eventi storici in sé, ma anche di ordine psicologico, in quanto la vita sotto la minaccia dell’annientamento nucleare metterebbe in questione tutti i rapporti umani.

A quel punto, si assisterebbe a una spiralizzazione del nucleare, una distruttiva escalation, oppure il mondo finirebbe ad accettare l’inevitabilità della preminenza russa sugli ucraini, con conseguente completa e pericolosa delegittimazione di ogni esistente regime di controllo armamenti, di non proliferazione e dell’ordine mondiale come lo conosciamo.

Superato il taboo dell’atomica, infatti, la corsa a diventare una potenza nucleare diverrebbe inarrestabile da più parti nel mondo e, peggio, forse anche il suo utilizzo non solleverebbe più tanti problemi di coscienza. Le bombe sul Giappone in quel tempo le aveva solo l’America e servirono per chiudere presto e con una vittoria quella guerra. Quella, o quelle eventuali, di Putin lo sarebbero per evitare una sconfitta e, secondo il già menzionato Jacques Sémelin, cambiare il paradigma dal distruggere per sottomettere al distruggere per sradicare, cioè l’annientamento. Una grossa differenza, in un mondo in cui di armi di questo genere non ce ne sono poche. Con soli nove paesi che nell’insieme ne posseggono diecimila, con la rabbia generale che generebbe un tale nuova situazione nell’occidente “perdente” e con tanti altri che riterrebbero utile risolvere allo stesso modo le proprie anche piccole controversie con i rivali. Conseguenze terribili e ben più pericolose e degenerative del semplice isolamento globale cui si condannerebbe Mosca.

Questo è un azzardo reale.

La Crimea ha un valore ben differente rispetto ai quattro territori del Donbass che Putin in maniera provocatoria ha annesso con decreto. Putin sa perfettamente che il controllo di quelle zone, seppure occupate o rioccupate dalle sue forze in una prossima probabile controffensiva, sarebbe estremamente turbolento, insicuro e tremendamente dispendioso, laddove non si arrivasse a un’immediata fine del conflitto.

La Crimea è di più. È il simbolo tangibile della rinascita della potenza militare russa, dopo le guerre in Cecenia, quella in Georgia e gli interventi armati in Siria e in Libia. Senza scordarsi del suo incommensurabile valore geostrategico, quale trampolino da cui proiettare il controllo sul Mar Nero, certo in condominio con la Turchia, non c’è dubbio. Ankara è parte della NATO e alza la voce. E la sua voce ha un notevole peso nell’Alleanza. Da Erdogan, inoltre, dipendono tuttora i destini di Finlandia e Svezia nell’organizzazione. In aggiunta, Ankara appare affascinata dall’idea di farsi prezioso hub energetico grazie non solo al gas azero che la percorre attraverso il TANAP, ma soprattutto grazie a quello russo che le arriva tanto con il Blue Stream quanto con il Turk Stream, gasdotti attraverso i quali potrebbe far rientrare per altra strada il gas russo in Europa. Nei tubi, le molecole del gas non hanno bandiera. Con buona pace per gli azeri, amici dei turchi, non più tanto sicuri di riuscire a mantenere gli impegni presi con l’Unione Europea, tanto più che un po’ del loro gas lo hanno recentemente acquistato dal Turkmenistan.

Ogni strategia, dicevo, porta con sé il rischio dell’insuccesso. L’Occidente deve stare attento a valutare bene le grida di dolore che provengono costantemente da Zelensky. Le sirene ucraine, amplificate pretestuosamente da polacchi e baltici, mirano a convincerci che una vittoria su Mosca sarebbe anche legata alla sopravvivenza della nostra democrazia e che, soprattutto, essa consista nel ripristinare la completa sovranità ucraina anche sulla Crimea. Sarebbe un errore dargli ascolto e fornirgli sostegno in armamenti in grado di minacciare seriamente quella penisola o, per lo meno, di convincere Putin che la minaccia è imminente, così come io credo sia stata la minaccia di un’offensiva ucraina in grande scala contro le due repubbliche “ribelli” a provocare la reazione russa nel febbraio dello scorso anno. Assecondare Zelensky su questa linea, che lui sa sapientemente dissimulare, ci porterebbe molto probabilmente a un disastro.

Secondo quello che Robert Jerwis ci ha voluto dire, prendendo a prestito dall’economia comportamentale la teoria del prospetto e adattandola al fenomeno guerra, la naturale avversione alla sconfitta e alla perdita del potere potrebbe comportare da parte di Putin scelte estreme. Per di più, mentre possiamo ritenere molto alta la probabilità di una reazione drammatica da parte sua, noi non abbiamo alcuna idea di come noi stessi occidentali reagiremmo a un attacco nucleare russo in Ucraina. nessuno ha finora parlato chiaramente di “linee rosse”, come fece stoltamente Obama per la Siria salvo poi doverselo rimangiare. Tuttavia, le esperienze del recente passato, dalla ricerca della pistola fumante di Saddam alla gestione delle Primavere arabe con la rimozione di Gheddafi, non mi lascia avere tanta fiducia nell’equilibrio delle menti occidentali.

La Crimea non può che rimanere russa. Anche se si tratta di una soluzione che non va giù. D’altro canto, a fronte di una nuova carta costituzionale ucraina che garantisca una sorta di reale autonomia alle attuali repubbliche ribelli del Donbass, l’ingresso in Unione Europea rappresenterebbe un percorso obbligato per Kiev, ma non nella NATO, unitamente a un accordo di libero scambio tra la stessa Unione Europea e Mosca. Una piattaforma di contrattazione di questo genere potrebbe rappresentare un buon punto di partenza.

Certo, molto altro potrebbe accadere domattina che solo nella serata precedente credevamo improbabile o persino impossibile: una caduta del regime ucraino o che Putin cada dal quarto piano di un albergo, fatto questo non insolito per taluni russi. Allo stesso modo, non possiamo ancora dire che siamo in una crisi nucleare, né che ci arriveremo. Ma potremmo comunque non esserne lontani. Non per questo ci si deve dimostrare arrendevoli, ma solamente saggi e nella saggezza c’è sempre una buona dose di pragmatismo, forgiato da esperienza e cultura. Non è appeasement. Certo, è sempre necessario andare contro l’avversario e spaventarlo per costringerlo a cambiare approccio lui per primo. Ma c’è un limite. Chruščëv ricordava ai suoi collaboratori e colleghi “riempite il bicchiere nucleare fino all’orlo, ma state attenti a non versare l’ultima goccia”.

Ecco, speriamo che gli occidentali al governo sappiano come non far cadere quella dannata goccia.

Guerra, il rischio è l’assuefazione

Qualcosa vorrà pur dire se un campione del realismo politico come il quasi centenario Henry Kissinger ritenga oggi che l’ingresso dell’Ucraina nella Nato sia pressoché inevitabile. Un anno fa, all’inizio dell’invasione russa, non la pensava così. Il grande esperto (a suo tempo protagonista) di politica internazionale riteneva che la soluzione del conflitto appena scoppiato fosse la garanzia della “neutralità” di Kiev. Non bisogna “umiliare” Putin, riteneva. Allo stesso modo, un altro realista come Ian Bremmer, fondatore del think tank Eurasia Group, pensava che per far tacere i cannoni bisognasse concedere qualcosa all’autocrate di Mosca in modo da “salvargli la faccia”.

A un anno dall’inizio della guerra, i realisti tacciono o sono diventati pessimisti. Guerra di lunga durata, guerra di attrito, rischio escalation: sono queste le formule più diffuse oggi tra gli esperti di geopolitica e geostrategia. La possibilità di un cessate il fuoco e del conseguente avvio di negoziati è al momento una pia illusione, una eventualità remota, una mera ipotesi di scuola. A una pace possibile in tempi ragionevolmente brevi non crede più nessuno, neanche la colomba più convinta.

In Ucraina, sui fronti del Donbass, è sempre più l’ora dei falchi. Il conflitto sta conoscendo un incrudelimento tale da lasciare ferite profonde nei cuori sia degli ucraini sia dei russi, ferite che non basterà neanche l’avvento di una nuova generazione a far rimarginare. Putin ha impresso un’accelerazione alla guerra che non gli consente più marce indietro. Le crudeltà perpetrate contro la popolazione civile ucraina sono già materiale più che sufficiente per un deferimento del presidente russo davanti al Tribunale internazionale per crimini di guerra, possibilità puramente teorica ma che fa capire l’isolamento internazionale della Russia e l’impossibilità, al momento, che neanche una eventuale soluzione negoziata potrebbe permettere a Mosca di ristabilire la normalità delle relazioni precedenti al conflitto.

Ha avuto diverse occasioni, zar Vladimir, per fermarsi, ma non le ha sfruttate. La controffensiva ucraina di autunno, culminata con la riconquista di Kherson, sembrava preludere a un’attenuazione del conflitto. Mosca si ritira? Comincia il disimpegno? L’illusione è durata solo qualche giorno. Putin ha ripreso subito il massacro della popolazione civile lanciando una massiccia offensiva missilistica contro le città.

Quello da Kherson s’è rivelato al dunque un semplice ripiegamento tattico. Le forze russe hanno ripreso l’iniziativa nel Donbass. In queste settimane il centro nevralgico della guerra s’è spostato nella città di Bakhmut, che Zelensky definisce la “fortezza”. Dovrebbe svolgere la stessa funzione strategica che a suo tempo ha svolto Mariupol: trattenere le forze nemiche e permettere a quelle ucraine di riorganizzarsi per fare fronte all’annunciata offensiva russa.

Le sorti del conflitto sembrano infatti dipendere dall’esito del nuovo attacco che Mosca si appresta a sferrare, non si sa bene quando, ma che tutti prevedono massiccio: la Russia dovrebbe impiegare trecentomila uomini in un fronte più ristretto rispetto a un anno fa, quando ne utilizzò poco meno di duecentomila. Quella che si prospetta è un’offensiva a cuneo, nel corso della quale l’armata di Mosca non dovrebbe mostrare l’ingenuità e l’impreparazione emerse nell’attacco di un anno fa.

Va però aggiunto che, davanti a questa guerra, non dobbiamo ragionare solo in termini di masse umane di manovra, missili, carri armati, dispiegamento d’acciaio e di tutto ciò che riporta ai conflitti del secolo scorso, ma anche in termini di efficienza tecnologica, intelligence, satelliti. Non dobbiamo dimenticare che gli ucraini usano le app sul telefono per dirigere il fuoco e che i temibili droni sono guidati dall’intelligenza artificiale, tutte cose in cui le forze di Kiev possono vantare un vantaggio competitivo grazie all’appoggio occidentale.

Staremo a vedere. Ma, comunque andrà a finire, è certo che l’aggressione all’Ucraina, le atrocità commesse sulla popolazione, la ferocia inaudita mostrata da molti reparti dell’Armata, sembrano destinati a risospingere la Russia di Putin verso un mondo “alieno”. Qualcosa di simile (anzi, per certi versi, peggiore) all’immagine, pur inquietante e minacciosa, che si presentava agli occhi occidentali al tempo dell’Unione Sovietica e della guerra fredda.

L’odierna immagine della Russia richiama l’idea di un confronto ancora più profondo di quello rappresentato in passato dalla contrapposizione tra mondo libero, da una parte, e mondo comunista, dall’altra. È qualcosa di antropologico e di atavico. È come se, nell’odierno bellicismo di Mosca, ritornassero gli antichi tratti di un Oriente misterioso e indecifrabile. Europa e Asia –scrive Ernst Junger nel saggio “Il nodo di Gordio” opportunamente riproposto oggi da Adelphi – sono «due residenze, due strati della natura umana che ciascuno reca in sé». La differenza tra Oriente e Occidente «dipende dal valore che si attribuisce alla libertà». Da una parte, l’Occidente, ci sono le regole che limitano il potere, dall’altra, l’Oriente, c’è la tendenza al dispotismo. Quella che a noi occidentali appare come l’«eccezione russa», per Junger, non è per niente affatto un’eccezione: «In Russia si è sempre governato così».

E all’Oriente russo, si avvicina anche l’Oriente cinese. Con la guerra ucraina assistiamo, tra le altre cose, anche al disfacimento del capolavoro del realismo politico di Kissinger e di Nixon: l’avvicinamento della Cina di Mao all’Occidente, un evento dalla portata prima geopolitica che ideologica, perché introdusse negli anni Settanta un cuneo nella massa terrestre eurasiatica.

Oggi la massa russa pare ricongiungersi con quella cinese. Non è un caso che tutto ciò accada mentre assistiamo alla crisi della globalizzazione e alla smentita dell’idea, in voga una ventina d’anni fa, di un mondo «piatto» (come dal titolo di un celebre saggio di Thomas Friedman) per effetto della tecnologia, del libero commercio, dell’interconnessione.

La guerra in Ucraina sembra al dunque destinata a produrre effetti ben al di là dei rapporti tra Europa e Russia, rivelando (e accelerando) processi in atto da tempo su scala planetaria.

Ma, tornando alla situazione sul campo, è difficile a questo punto prevedere quale potrà esserne lo sbocco, anche perché appare decisamente arduo che gli ucraini, dopo tutte le devastazioni subite, siano disposti a sedersi a un tavolo con l’animo di chi sia disposto ad ammettere concessioni territoriali. Se Putin non può fare marcia indietro, lo stesso può dirsi di Zelensky.

A questo punto l’esito più probabile è quello della continuazione chissà per quanto tempo del conflitto, una sorta di cronicizzazione della guerra. Da una parte e dall’altra, hanno dimostrato di saperla reggere a lungo.

Per noi europei, ciò equivarrebbe all’assuefazione a questo conflitto, che pare oggi disattivato, almeno per quello che più direttamente riguarda la nostra società: l’aumento dei costi energetici. Il prezzo del gas è notevolmente diminuito rispetto ai primi mesi di guerra, allo stesso modo dal fabbisogno europeo dal metano russo, che è precipitato al 7%.

Famiglie e imprese possono dormire sonni tranquilli. Attenzione però, perché non è comunque salutare avere un incendio che continui a divampare ancora a lungo alle frontiere della Ue. Una scintilla impazzita potrebbe sempre produrre effetti devastanti. Per scongiurare simili, malaugurati casi, la dottrina geostrategica serve a poco. Più utili allo scopo potranno rivelarsi gli scongiuri.

UCRAINA, PESANTI CONSEGUENZE SU IMPRESE E SISTEMA ECONOMICO

Indipendente dal 1991 l’Ucraina, dapprima nell’orbita della Confederazione Stati Indipendenti formatasi dal dissolvimento dell’URSS, ha potuto lentamente uscire da una economia pianificata e di stampo sovietico.

Solo negli ultimi 15 anni si è realmente affacciata al libero mercato iniziando una graduale crescita economica interagendo in misura sempre più importante con l’economia della UE rimanendo tuttavia in rapporti commerciali consistenti con la vicina Russia nonostante  rapporti molto tesi.

Arrivando rapidamente ai tempi più recenti, gli ultimi dati disponibili sono quelli dell’anno 2020. In base ai dati forniti dal Servizio Nazionale di Statistica UKRSTAT, l’economia del paese ha registrato una diminuzione del PIL del 4%. Il dato, anche se negativo, segna una performance migliore rispetto a quanto previsto poiché’ la pandemia ha avuto effetti meno invasivi dato che il governo ha limitato al minimo le misure di lockdown.

La produzione industriale è calata del 4,5%, mentre gli investimenti, che rappresentavano appena il 18 % del PIL, sono ulteriormente diminuiti del 22% nel 2020.

L’inflazione è stata pari al 6,2%, la disoccupazione è leggermente aumentata al 9,3 %.

La moneta locale (grivna) si è svalutata del 19% rispetto al Dollaro americano (attestandosi alla fine del 2020 intorno a 28 grivne per 1 dollaro) e del 31% rispetto all’Euro.

Il debito pubblico è cresciuto, attestandosi al 63% del PIL ed il rapporto deficit/PIL risulta al 5,2%.

Il PIL  nel 2020 (dati dell’Economist Intelligence Unit) è stato pari a 150 miliardi di USD (153 miliardi di USD nel 2019), un volume che colloca il Paese in una fascia di reddito medio-basso al 58mo posto nella graduatoria mondiale (dati Banca Mondiale), al terzo posto tra i Paesi dell’Ex Unione Sovietica dopo Russia e Kazakhstan.

Per quanto riguarda il PIL pro capite, l’Ucraina si colloca solo al 150mo posto (dati Banca Mondiale). Tali statistiche non tengono del fenomeno esteso dell’economia sommersa.

La guerra ha quindi assestato un duro colpo alla già debole economia ucraina. In particolare a fine 2021 il tasso di disoccupazione è salito al 10% con una bassa partecipazione al mercato del lavoro (10% in meno della media Ocse), soprattutto delle donne (56 per cento contro il 68% degli uomini nella fascia 15-70 anni). Il 17 per cento degli occupati lavorava ancora nell’agricoltura, una persona su cinque lavorava in nero. Tutto questo in un contesto demografico caratterizzato da una popolazione sempre più vecchia e un basso tasso di fecondità.Si tenga conto che l’Ucraina è grande 2 volte l’Italia, molto più grande della Francia e, se togliamo la popolazione residente nelle grandi città (oltre 12 milioni) la maggior parte della popolazione vive in zone rurali in piccole cittadine anche molto lontane una dall’altra.La guerra ha costretto oltre un terzo della popolazione (stima 2021 a 41 milioni) a spostarsi. Circa 7 milioni di individui sono rifugiati interni, mentre altri 8 milioni circa sono rifugiati all’estero; si tratta della più grande crisi migratoria in Europa dopo la seconda guerra mondiale (dati Unhcr), con donne e bambini che rappresentano circa il 90 per cento dei rifugiati.

Di questi, 4,8 milioni sono registrati in Europa con la Temporary Protection Directive, una misura che permette loro di scegliere il paese di destinazione e lì lavorare subito (questo ha permesso una distribuzione più equilibrata dei rifugiati).

Anche le imprese si sono dovute spostare, spesso in direzione diversa da quella dei lavoratori. Studi sulle piccole e medie imprese ucraine mostrano come, a settembre 2022 e rispetto alla situazione pre-invasione, un terzo di queste avesse fermato completamente o quasi l’attività e un altro 50% avesse comunque ridotto la mole di lavoro.

Ci sono poi da considerare anche gli effetti indiretti della guerra: l’interruzione delle catene del valore, i danni infrastrutturali a luoghi di lavoro e mezzi di trasporto, i cambiamenti nella domanda di prodotti.

La manodopera era impiegata nei settori strategici del paese tra i quali quello minerario; tra le risorse naturali dell’Ucraina vi sono ferro, carbone, manganese,  gas  naturale, sale, zolfo, grafite, titantio, magnesio, caolinite, nichel, mercuriolegname e abbondanza di terre coltivabili.

Esperienze precedenti e recenti (Bosnia-Herzegovina, Georgia, Kosovo) hanno dimostrato che la guerra ha effetti negativi di lungo periodo sulla salute.

Pandemia e guerra inoltre non hanno favorito la carriera scolastica dei ragazzi ucraini, sarà quindi necessario provvedere a rapidi programmi di recupero scolastico anche se in molte parti del paese poco colpite dalla guerra si continua con l’attività didattica.

In realtà il sistema scolastico ucraino presenta molte analogie con quello europeo in genere; la scuola dell’obbligo tuttavia arriva sino ai 18 anni. Al temine del percorso oltre 80% dei ragazzi si iscrive a facoltà universitarie mentre la parte rimanente trova impiego nelle industrie come operai specializzati o generici e/o nel settore agricolo.

Una parte più ridotta di persone decide di studiare all’estero, in linea di massima la preparazione data è di  buon livello e i laureati restano nel proprio paese per lavorare pur in presenza di redditi abbastanza bassi in rapporto alla UE.

Ora sono stati distrutti milioni di posti di lavoro, che in parte non ritorneranno.

Sarà fondamentale la formazione dei lavoratori, facilitando la riallocazione verso i settori che saranno probabilmente più attivi nel post-guerra (come edilizia, ingegneria, salute, informatica).

Importante dovrà essere la partecipazione al mercato del lavoro delle donne, supportando allo stesso tempo la natalità prevenendo la diffusione della disoccupazione tra i giovani, favorendo in questo caso le scuole professionali.

Inoltre, una importante sfida sarà l’integrazione nel mercato del lavoro locale degli sfollati interni. Queste persone hanno perso quasi tutto.

I veterani di guerra saranno potenzialmente un milione al termine del conflitto.

L’evidenza suggerisce che il ritorno alla vita civile non è facile: andranno varate misure ad hoc (crediti d’imposta per chi li assume, sussidi alla formazione e altro ancora). Per garantire la sostenibilità del sistema pensionistico ucraino, non saranno praticabili pensionamenti anticipati su larga scala.

Purtroppo più la guerra si protrae, maggiore è la probabilità che i rifugiati rimangano nei paesi ospitanti dopo la fine del conflitto anche se il popolo ucraino è impaziente di poter tornare nel proprio paese a guerra finita.

Ciò nonostante, ci possono essere interazioni significative tra i rifugiati e la forza lavoro in Ucraina.

E qui dovrà intervenire l’Unione europea. Come è avvenuto in passati allargamenti dell’Unione, il processo di accesso all’Ue dell’Ucraina può stimolare un profondo miglioramento della qualità delle istituzioni del paese.

Una serie di interventi dovrà essere finanziata dalla Ue anche estendendo lo strumento Sure (temporary support to mitigate unemployment risks in an emergency). I progressi compiuti nell’attuazione di queste politiche dovranno essere costantemente monitorati. Dotare l’Ucraina di un mercato del lavoro dinamico e moderno è nell’interesse dell’intero continente.

Pochi sanno che in termini di salari e stipendi, l’Ucraina ha un divario tra l’est industriale più ricco (Donbass) e l’occidentale agricolo e più povero.

E’ dunque ancor più evidente la mira espansionistica di Mosca sulla parte del paese più ricca e florida.

L’auspicio è che la guerra termini al più presto anche se al momento la pace sembra piuttosto lontana.

(Fonti: Banca Mondiale, Ukrstat, Ocse)

QUELL’INCONTRO TRA PUTIN E MACRON

Contrariamente alla maggior parte degli articoli e delle analisi che il 24 febbraio vanno riflettendo sul primo anno del conflitto russo-ucraino, l’accesso agli archivi classificati come “difesa segreta”, tra diversi decenni, mostrerà molto probabilmente che il vero punto di svolta fu l’ultimo faccia a faccia Macron-Putin. Il 7 febbraio Macron, allora presidente di turno dell’Europa ma anche candidato alla sua stessa successione in Francia – il che lo rendeva vulnerabile – ha avuto l’opportunità di evitare che scoppiasse questo conflitto, un conflitto che da allora vive costante e successive escalation. Team impreparato? Assenza di coraggio?

È impossibile rispondere oggi a queste domande, ma la soluzione era costruita sulla base di alcune principali condizioni: sicurezza dell’Ucraina, la Crimea russa, i limiti della NATO, il transito del gas nell’Europa orientale, il rispetto degli accordi di Minsk, oltre a un possibile accordo che aveva coinvolto il Presidente ucraino.

Il 24 febbraio le truppe russe entrano in Ucraina. De Gaulle ci ha insegnato cosa pensare fin da quando, nel 1967, disse chiaramente agli israeliani che chiunque avesse iniziato le ostilità aveva torto, indipendentemente dalle ragioni addotte. Per la prima volta, nel cuore dell’Europa – se si prescinde cinicamente dalla guerra nell’ex Jugoslavia – questa Europa a cui de Gaulle associava anche la Russia, è scoppiata una tragedia. È possibile stilare un bilancio iniziale, al di là del conteggio delle vittime? E soprattutto, la natura di questa valutazione può aiutarci a rispondere alle domande che si pongono: escalation, estensione, concessioni, pace?

Fiducia tradita: il 7 dicembre 2022, Angela Merkel, in un’intervista a Die Zeit, ha confermato uno dei principali fattori scatenanti dell’invasione, invocato dal Presidente russo: il mancato rispetto degli accordi di Minsk – l’altra causa principale del conflitto è l’avvio del Nord Stream 2, non voluto dagli americani e polacchi. Secondo la Cancellieria tedesca, gli accordi di Minsk, in particolare l’articolo che prevedeva una nuova organizzazione delle regioni orientali dell’Ucraina, erano destinati a far guadagnare tempo all’Ucraina piuttosto che a porre fine immediatamente alle tensioni interne in Ucraina. Cominciava una “pre-guerra” nel 2014.

Economia: più recentemente, pubblicazioni che non possono essere sospettate di essere filorusse hanno illustrato il fallimento delle sanzioni contro la Russia: il Financial Times del 16 dicembre 2022 (“Come i tecnocrati di Putin hanno salvato l’economia”); The Economist del 29 dicembre (“Nel 2022 la Russia salvato la sua economia”), per non parlare di un rapporto del FMI Global Economy del 30 dicembre 2022 che indica come la Russia sia diventata la nona potenza mondiale. Questi articoli fungono da cassa di risonanza per il documentatissimo Backfire, libro di Agatha Demarais (direttrice dell’Economist Intelligence Unit) pubblicato nel dicembre 2022 dalla Columbia, che traccia e analizza l’impatto delle sanzioni: gli americani si sono resi conto del contraccolpo delle sanzioni che stanno imponendo e stanno orchestrando il contraccolpo verso l’Europa; nel frattempo gli Stati Uniti stanno raccogliendo tutti i benefici industriali ed economici di questo conflitto e delle loro sanzioni contro la Russia. Ad esempio, gli Stati Uniti nel 2022 sono il paese al mondo che ha aumentato maggiormente le importazioni di prodotti petroliferi dalla Russia (Silicon India, 2023 / Hindustan Times 20.01.2023), passando per l’India, paese che tra l’altro si rivela anche grande vincitore dell’attuale conflitto. Questo è ciò che Emmanuel Todd descrive nel suo libro La troisième guerre mondiale a commencé.

Ci aspettavamo il crollo militare degli ucraini e invece è stato il contrario; ci aspettavamo il crollo economico della Russia e invece è stato il contrario.
Questo dovrebbe almeno indurci a mettere in discussione le nostre analisi europee e, invece di rinchiuderci in una logica di asta alla morte, spingerci a individuare nuove soluzioni. Stiamo affrontando questo conflitto da una base di dati ereditata dal secolo scorso, da un punto di vista militare, economico e geopolitico – “il 75% del mondo non segue l’Occidente”, ci ricorda Todd. Triste esercizio di semantica, in risposta  all'”operazione speciale”, abbiamo assistito allo sviluppo di una “guerra speciale” da parte della NATO e dei paesi rappresentati: armi, denaro ma ufficialmente nessun combattente, rendendo purtroppo gli ucraini i nostri “mercenari”, che combattono e muoiono legittimamente per la loro patria.
I rischi di estensione del conflitto aumentano di giorno in giorno.
La “NATOizzazione” de facto dell’Ucraina non fa altro che spingere strategicamente i russi verso Odessa… a contrario il  fallimento porterebbe probabilmente il presidente russo al collasso e insieme a lui di tutto il paese, un prospettiva tanto descritto e auspicato dall’ex ministro degli Esteri polacco, Anna Fotyga, o più recentemente dal primo ministro polacco Morawiecki su LCI5, canale all news francese), con tutto ciò che ne consegue in termini di instabilità geopolitica – rinascita degli Stati islamici, terrorismo, guerre civili ecc… È difficile fare previsioni; i nostri analisti, che nell’ultimo anno hanno fatto tante proiezioni quanti errori, non potranno sicuramente esserci d’aiuto.

Quindi, dopo i cannoni Cesar, i carri armati Leopard o  Leclerc, e domani gli aerei, dopo domani ci sara da prepararci  a dire ai nostri figli  ad andare a combattere in Ucraina dove il sangue di sempre più giovani soldati ucraini non smette di scorrere sotto i ponti, oppure decidiamo di cercare  soluzioni dando ascolto ai numerosi appelli di Papa Francesco che trovano eco anche in Russia, ad esempio nella riflessione di Leonid Sevastianov presidente dell’Associazione dei Vecchi Credenti (nata da uno scisma nella Chiesa ortodossa nel 1666).  Ha detto Sevastianov all’ Express nel gennaio 2023: “Dov’è c’è una volontà, c’è un camino. La pace non è un’opzione, è un dovere.

Andare oltre…il reddito di cittadinanza

La legge di Bilancio per il 2023 presenta numerose novità in materia di lavoro. Sebbene i due terzi delle risorse finanziarie disponibili siano state destinate attraverso incentivi, bonus e crediti di imposta a imprese e famiglie per cercare di mitigare il più possibile l’incremento dei costi energetici dovuti soprattutto alle speculazioni economico finanziarie scaturite dal conflitto russo ucraino, l’ultima manovra si è caratterizzata attraverso una serie di scelte politiche in alcuni casi in continuità con l’esecutivo precedente e in altri nettamente in controtendenza.

La ridefinizione del reddito di cittadinanza è stato un atto politico che ha determinato una totale inversione di rotta in relazione a quanto prodotto dagli ultimi governi precedenti a guida Conte e Draghi. Una serie di restrizioni ed una regolamentazione totalmente diversa prevedono a partire dal 2023 una erogazione del reddito pari ad un massimo di sette mensilità eventualmente rinnovabile per una sola mensilità, mentre la precedente disciplina normativa riconosceva il beneficio per un periodo massimo di diciotto mesi. Naturalmente le attuali regolamentazioni prevedono specifiche tutele riguardo alcune fasce deboli, ad esempio i nuclei familiari con disabili, oppure coloro i quali indigenti hanno sessanta anni di età.

Dal 1 gennaio 2023 l’erogazione del reddito di cittadinanza nei confronti dei giovani di età compresa dai 18 ai 29 anni è imprescindibile dal pieno adempimento degli obblighi scolastici o in alternativa dall’iscrizione e soprattutto alla frequenza di percorsi di istruzione di primo livello. Pertanto tutti i beneficiari del reddito di cittadinanza a partire dall’inizio di quest’anno sono obbligati ad aderire a specifici corsi di formazione destinati all’inserimento lavorativo e alla piena inclusione sociale. Le regioni avranno l’obbligo di vigilare con il compito di trasmettere all’Anpal gli elenchi di coloro i quali risulteranno inadempienti dagli obblighi formativi. Inoltre i percettori del RdC dopo aver sottoscritto il patto per il lavoro in cui dichiarano l’immediata disponibilità lavorativa decadranno dal diritto al beneficio nel momento in cui rinunceranno alla prima offerta lavorativa. In sintesi tutta questa nuova disciplina normativa relativa all’erogazione del reddito si caratterizza per essere non più una misura meramente assistenziale, ma subordina l’erogazione del sussidio allo svolgimento di un percorso di formazione propedeutico all’inserimento lavorativo. La formazione professionale e l’alta qualificazione della potenziale forza lavoro sono elementi fondamentali per l’ingresso nel mondo del lavoro soprattutto per i giovani.

Fatte queste premesse, secondo un recente studio elaborato da Unioncamere Excelsior , molte aziende hanno difficoltà a reperire forza lavoro formata e qualificata in base alle proprie esigenze. E’ necessario pertanto intervenire nelle dinamiche del mercato del lavoro al fine di creare il giusto incontro tra domanda e offerta di lavoro. I settori in cui le imprese hanno difficoltà a reperire forza lavoro qualificata e formata sono quello dell’industria manifatturieriera, costruzioni e dei servizi in generale. La tipologia contrattuale proposta prevalentemente dalle imprese è quella del contratto a tempo determinato seguono poi i contratti a tempo indeterminato e quelli in somministrazione.

Il contratto di apprendistato sicuramente rappresenta uno degli strumenti da tenere in considerazione nel prossimo futuro al fine di colmare il gap tra domanda e offerta di lavoro. La disciplina normativa che lo caratterizza è un mix di legge statale, regolamenti regionali e disposizioni normative della contrattazione collettiva. E’ stato oggetto nel corso degli anni di continue modifiche, che non sempre hanno soddisfatto pienamente le aspettative richieste. Spesso l’attività di formazione è servita molto ai “formatori” piuttosto che ai “formati” determinando parecchio dispendio di risorse a discapito di molte comunità regionali. In alcuni casi lo svolgimento delle attività formative cosi come previsto da questa tipologia contrattuale non sono state svolte in maniera soddisfacente dagli organi preposti e le responsabilità non sono unicamente riconducibili alle imprese. Tutto ciò inevitabilmente con ricadute negative nei confronti dei giovani lavoratori. Sicuramente nel Nord Italia, il contratto di apprendistato ha funzionato, rispetto al Centro Sud in cui gran parte delle risorse che sarebbero dovute essere destinate alla formazione sono state assorbite dalla spesa sanitaria soprattutto ad opera di regioni del mezzogiorno deficitarie.

Un ruolo importante nel prossimo futuro lo avrà sicuramente l’iter parlamentare inerente l’autonomia differenziata, e i criteri normativi di regolamentazione della formazione professionale dovranno essere posti necessariamente al centro del dibattito politico. Fratelli d’Italia in questa frase cruciale dovrà essere “pronta” a fornire un contributo politico determinante a sostegno delle politiche attive del lavoro e del ruolo delle imprese nazionali. Il mondo del lavoro dall’inizio del periodo pandemico ad oggi è stato oggetto di profondi scossoni, accelerazioni e cambiamenti e chi ha governato in quel momento non ha fornito risposte adeguate. Molte decisioni politiche del recente passato sono state assunte unicamente in un ottica emergenziale.
Oggi, nonostante una situazione internazionale poco rassicurante, caratterizzata soprattutto dal conflitto russo ucraino e dai rapporti piuttosto tesi tra Stati Uniti e Cina l’ Italia deve ripartire sotto l’aspetto economico e sociale, rilanciando il ruolo dell’impresa soprattutto del settore Made in Italy e delle politiche a sostegno dell’occupazione.

Il mondo del lavoro non è unicamente il lavoro dipendente è anche lavoro autonomo spesso relegato ai margini del dibattito politico ed infine anche lavoro di gestione d’impresa (in molti casi piccole o medie imprese che rappresentano il tessuto economico più diffuso). Una trattazione a parte merita la pubblica amministrazione.
La destra italiana rispetto al passato in cui era forza minoritaria nell’interno della coalizione del centro destra al governo oggi assume un ruolo determinante ed ha l’occasione storica di rendersi protagonista attraverso l’affermazione di nuove politiche sociali e contribuire alla crescita economica dell’Italia in primis in Europa e nel Mondo.

IL TRENO DELLE RIFORME

È come la faccenda del dito e della luna. Con la differenza che, stavolta, anche indicando la luna, è impossibile distogliersi dal dito, che pretende attenzione prioritaria. Insomma, il dito è l’emergenza in  cui siamo immersi anche in questo inizio 2023. E la luna sono le cose importanti che il governo Meloni intende realizzare nell’orizzonte temporale della legislatura. Per dare un senso, lasciare un’impronta, segnare il futuro. Che fare? E come fare?

La manovra finanziaria è stata quasi interamente assorbita dalle emergenze ereditate, altrettanti macigni ad ostruire il cammino per colpa della maledetta guerra in Ucraina  che – tra poche settimane – segnerà un anno dall’aggressione russa. Se le cose non cambieranno, e non si vedono segnali perché possano cambiare, a fine marzo occorreranno altri interventi, a sostegno e ristoro di imprese e famiglie, tra bollette sempre più care, energia a prezzi proibitivi e inflazione pericolosamente (stabilmente?) a due cifre.

Eppure, la luna è là, c’è il dovere di provare a realizzare quelle ambizioni, che hanno un cuore antico e dovranno essere il cemento migliore per una coalizione politica e strategica che non può essere una semplice sommatoria dei voti conquistati. Il 2023 deve sancire la partenza del treno delle riforme. E deve farlo, sulla spinta del governo, riaffermando la centralità del Parlamento per l’intero iter del processo riformatore. Un confronto coinvolgente potrà dare buoni frutti sull’asse portante di un nuovo assetto costituzionale. Presidenzialismo, certo, da realizzare secondo le declinazioni che, nel confronto, troveranno i maggiori consensi e le più convincenti ragioni a sostegno di una riforma radicale, importante, degna di una Nazione democratica occidentale ed europea. Autonomia, certo, per realizzare una riforma nel segno della sussidiarietà, che dia maggiori poteri e responsabilità alle regioni, in un quadro unitario che non solo non allarghi il divario tra nord e sud ma, al contrario, dia alle regioni del Mezzogiorno la carica indispensabile per una definitiva liberazione dai gravami di un passato oneroso che dovrebbe essere rinnegato, abbandonato e superato definitivamente.

Il treno delle riforme può partire presto, ché è già tardi. Non ha costi aggiuntivi, né coperture da trovare nelle pieghe del bilancio. L’iter andrà realizzato con lo strumento parlamentare più idoneo, probabilmente una commissione bicamerale ad hoc che, sulla spinta di una maggioranza parlamentare determinata e decisa, potrebbe conoscere sorte migliore di quelle che, nei decenni, l’hanno preceduta, nonostante l’impegno di quanti furono chiamati a presiederle (Bozzi, Iotti, D’Alema). Ogni passaggio andrà comunicato agli italiani, perché nessuno si senta escluso da un  processo riformatore di portata epocale. Ferme restando le prerogative del Parlamento come luogo centrale del processo riformatore, a dargli spessore e sostanza potranno servire anche gli Appunti di Giorgia,  che il capo del governo saprà utilizzare anche per informare, aggiornare, coinvolgere gli italiani. Non sarebbe solo un modo di governo attraverso gli strumenti di comunicazione più diffusi. Sarebbe anche una forma di comunicazione assolutamente democratica. Tra i molti precedenti in questo senso, è bene ricordare quello, autorevolissimo e fortunato, che vide protagonista quasi un secolo fa il presidente americano Franklin Delano Roosvelt, che ogni sabato incontrava milioni di connazionali parlando alla radio coi suoi Dialoghi del Caminetto. Presidente amatissimo, informava gli americani sulle cose che l’amministrazione stava realizzando per superare la grave crisi del ’29. Lo faceva con un linguaggio semplice, che tutti comprendevano e apprezzavano perchè chiamava i cittadini e le famiglie a condividere responsabilità e speranze, doveri e ambizioni di quel grande paese.

L’Italia ha bisogno di riforme – assetto istituzionale, giustizia, fisco, pensioni – che quanto prima vanno avviate, incardinate, guidate lungo un percorso che dovrà concludersi entro i prossimi quattro anni, con una legge elettorale che sarà completamento coerente e, finalmente, duraturo perché coerente con la rinnovata struttura istituzionale. Anno 2023, il treno delle riforme è pronto a partire. Se non ora, quando?

PARLAMENTO DI NUOVO CENTRALE

All’inizio di ogni legislatura si ripropone il tema del ruolo del Parlamento, di cui viene rimarcata la centralità in ogni sistema democratico, quale che sia la sua forma di governo. Anche nel presente contesto la questione si è riaffacciata forse con maggiore vigore rispetto ad altre occasioni. Ciò è dovuto probabilmente a due fattori concorrenti: il primo ha a che fare con i segnali di crisi che negli ultimi anni si sono registrati con riguardo al “posto” del Parlamento nel nostro sistema costituzionale; il secondo riguarda la natura marcatamente politica che connota il governo appena insediato che potrebbe avere ricadute anche con riguardo all’attività parlamentare.

In riferimento al primo profilo, è agevole osservare che la crisi del Parlamento ha avuto negli  ultimi anni diverse epifanie correlate a cause diversificate. Il discorso potrebbe essere lungo ma ci possiamo limitare ad alcune  esemplificazioni. In primo luogo non serve nemmeno rimarcare il ruolo subalterno che il Parlamento ha avuto rispetto al governo a far data dall’inizio della pandemia. Tutte le scelte relative alla gestione del fenomeno si sono concentrate sul governo non solo nel momento in cui l’emergenza si era manifestata ma anche in un secondo tempo, quando di fatto la recrudescenza della pandemia non era solo prevedibile ma era stata prevista: anche in tale frangente il Parlamento non ha avuto un ruolo significativo nonostante il  fatto che, come la dottrina giuridica insegna, ogni fenomeno emergenziale deve per sua natura essere temporaneo: solo a questa condizione il ricorso a strumenti eccezionali è consentito. E se nel primo periodo dell’emergenza si registra un utilizzo molto discutibile dei Dpcm, solo in parte “coperti” da fonti di grado legislativo, in un secondo momento vi è stato un uso insistito dei decreti legge, di norma convertiti de plano dal Parlamento proprio in considerazione dell’emergenza in atto. La situazione di tendenziale centralità del governo si è perpetuata anche a seguito dell’insediamento del governo Draghi in relazione alla gestione del PNRR, che ha visto il Parlamento in posizione piuttosto defilata.

Al contrario ad esempio di quanto avviene in Germania ove sempre alta è l’attenzione in relazione alla vigilanza sul rispetto dei limiti di competenza da parte  degli organi dell’UE (controllo ultra vires) e sul ruolo del Bundestag (il Parlamento federale) che non può essere pretermesso quando si tratta di decisioni che hanno ricadute significative sul bilancio dello Stato: sul punto si è pronunciata la Corte costituzionale tedesca (Bundesverfassungsgericht) con la sentenza del 6 dicembre 2022. Si tratta di una decisione particolarmente attesa in quanto relativa alle misure adottate dall’UE per fronteggiare la crisi epidemica attraverso forme di  indebitamento comune. Si evocava da parte dei ricorrenti anche una violazione dell’identità costituzionale tedesca, dal momento che le nuove forme di indebitamento sovranazionale avrebbero espropriato il Parlamento federale di un controllo effettivo sulle decisioni di bilancio. La Corte non accoglie tale doglianza avendo tuttavia occasione di ribadire che il Bundestag deve in ogni caso mantenere un’influenza rilevante sia rispetto al ruolo del governo federale sia delle istituzioni europee in relazione all’implementazione del NGEU.

Anche con riguardo al rapporto con le autonomie locali, si può evidenziare che il processo di attuazione dell’autonomia differenziata ha conosciuto una lunga parentesi di stasi, nonostante le indicazioni referendarie provenienti da alcune regioni coinvolte in questo processo. Ed è proprio la procedura parlamentare che non ha fatto passi in avanti per realizzare gli obiettivi di una ulteriore devoluzione di competenze ad alcune regioni. Sul punto il governo sembra intenzionato  a rimettere in piedi il processo disciplinato dall’art. 116 Cost. in tempi rapidi, collocando al centro della scena il Parlamento, come si desume dall’intervento del ministro per i rapporti con il Parlamento Luca Ciriani in occasione del question time alla Camera del 23 novembre 2022.  Secondo il ministro, il disegno di legge di attuazione avrà un duplice obiettivo: “Disciplinare in modo armonico e omogeneo la procedura per il raggiungimento delle diverse intese in costante dialogo con il sistema delle autonomie territoriali e favorire il confronto parlamentare, in modo da evitare che le intese, una volta concluse, possano precludere un’attenta valutazione sui contenuti da parte delle Camere”.

Con riguardo ai rapporti con la Corte costituzionale si registra un altro significativo caso di inerzia del Parlamento che si auspica non si replichi in futuro. Con una tipologia decisoria per vero non esente da dubbi accade che la Corte costituzionale, dopo avere prefigurato l’illegittimità costituzionale di una certa legge, e dopo aver constatato che diverse potrebbero essere le modalità con cui porvi rimedio, rinvia la trattazione della questione di norma di un anno. In questo modo la Consulta, in  uno spirito di collaborazione con il Parlamento, lascia uno spazio di tempo al potere legislativo per intervenire al fine di sanare la situazione di incostituzionalità. Questo modus procedendi è stato sperimentato per la prima volta nel noto “caso Cappato”, ma è stato riprodotto in relazione alla questione del “carcere per i giornalisti” ed anche con riguardo al cosiddetto ergastolo “ostativo”. Il Parlamento è rimasto inerte con riguardo al caso Cappato e la Corte è intervenuta con la sentenza n. 242 del 2019; lo stesso è accaduto nel caso del “carcere per i giornalisti”, che ha dato luogo alla sentenza n. 150 del 2021. In riferimento all’ergastolo ostativo, dopo un ulteriore rinvio della data dell’udienza da parte della Corte, il governo appena insediato ha infine provveduto col decreto legge n. 162 del 31/10/2022. L’intervento ha suscitato discussioni ma in tal modo si è per lo meno evitato che per la terza volta il termine scorresse invano e fosse la Corte costituzionale a dovere procedere alla dichiarazione di illegittimità.  Se è vero che in casi consimili, ove  non sussiste una soluzione che sia, come insegnava la migliore dottrina, a “rime obbligate”, forse una pronuncia di inammissibilità sarebbe più rispettosa delle prerogative del Parlamento, è anche vero che il silenzio del Parlamento è divenuto assordante, non essendo accettabile che l’inerzia si protragga sino a determinare una sostituzione della Corte al potere legislativo pur avendo l’organo rappresentativo avuto tempo per intervenire.

Anche a livello di fonti del diritto, in riferimento all’impiego della legge come fonte primaria per eccellenza, i dati non appaiono confortanti. Nel Rapporto sulla legislazione 2019-2020 predisposto dall’Osservatorio sulla legislazione della Camera dei Deputati (La legislazione tra stato, regioni e Unione europea. Rapporto 2019-2020) emerge lo stato della legislazione nel periodo considerato. Secondo le griglie utilizzate, la produzione risulta così ripartita: 28% leggi “istituzionali”; 13% leggi qualificate come “settoriali”; il 17% intersettoriali; 28% leggi “provvedimento”; 14% leggi di cosiddetta “manutenzione” normativa (contenenti limitate modifiche di assestamento alla normativa previgente). A queste categorie si aggiungono le leggi di bilancio e quelle di ratifica  dei trattati internazionali.  La percentuale di leggi che recano disposizioni che abbiano un carattere generale, e che quindi rispondono ai requisiti classici della “legge”, appare piuttosto modesta, del 28% (nella XVII legislatura la percentuale si è arrestata addirittura al 13%).

Un governo politico

Il quadro è completato dal proliferare di fonti subordinate, fin anche di soft law (cioè di atti di cui è pure dubbia la riconducibilità alle fonti del diritto) che erodono il territorio tipicamente coperto dalla legge,  e da un utilizzo dei decreti legge che, complice anche il periodo pandemico, non ha mai conosciuto in questi anni una flessione, nonostante i paletti posti dalla Corte costituzionale che consentono alla stessa Corte, pur in casi circoscritti, di sindacare i presupposi di necessità e urgenza che devono per Costituzione assistere i decreti leggi.

In sostanza da questi brevissimi cenni si desumono elementi di criticità in relazione alla centralità del Parlamento, sia con riguardo all’assetto delle fonti del diritto, sia riguardo al rapporto con le   autonomie regionali sia infine per quanto attiene alla tutela dei diritti, la cui garanzia si fonda, in primis, sulle riserve di legge che presidiano tutte le libertà costituzionali. Se questi sono gli elementi di crisi che rendono attuale il tema della centralità del Parlamento, l’insediamento di una nuova compagine governativa dai tratti marcatamente “politici”,  sorretta da una maggioranza sicuramente più omogenea di quanto accaduto nel recente passato per altri governi della  Repubblica, porta ancora a ragionare di centralità del Parlamento, ma in un senso diverso, alla stregua appunto di un obiettivo non solo auspicabile ma anche possibile. Non a caso il Presidente della Camera, nel suo discorso di insediamento, ha osservato che “la legislatura che sta iniziando dovrà avere il compito di riaffermare il ruolo centrale del Parlamento quale luogo delle decisioni politiche: dopo la parentesi imposta dalle emergenze che hanno attraversato la scorsa legislatura […]  è necessario che il Parlamento riacquisti la consapevolezza della sua funzione costituzionale, che è, primariamente, quella della definizione delle “regole” che impegnano tutti i cittadini”. Tutto ciò non solo costituirebbe un segnale di discontinuità apprezzato in modo tendenzialmente bipartisan, ma potrebbe sanare una situazione di subalternità dell’organo che incarna la rappresentanza popolare che corre il rischio altrimenti di divenire endemica. Sul tema  aleggia ancora il monito di uno dei più grandi giuristi del secolo scorso, Hans Kelsen, secondo cui “una sottrazione alla politica della legislazione significherebbe l’autodistruzione di quest’ultima”.