Salvatore Sfrecola

P.A. Semplificare necesse est

Semplificare, semplificare, semplificare. Deve essere l’impegno del Governo per venire incontro alle esigenze delle persone e delle imprese costrette da adempimenti, numerosi e defatiganti, quando chiedono alle pubbliche amministrazioni l’autorizzazione ad intraprendere. Qualche anno fa una ricerca della Confederazione Nazionale dell’artigianato e della piccola e media impresa indicò in ben 73 gli adempimenti, da esperire presso 26 enti diversi, e un costo di 13 mila euro, per aprire una gelateria. Ed è solo un esempio. Che non tiene conto del tempo che è un costo per i privati e per le amministrazioni. Un costo che grava sull’economia del Paese. Giorgia Meloni nel suo discorso di presentazione del programma di governo ha detto che è sua intenzione non disturbare chi vuole fare.
Non solo. È scandaloso il ritardo col quale le amministrazioni pagano i fornitori di beni e servizi ai quali, nel frattempo, il fisco non ha fatto sconti e neppure i fornitori di materie prime e di semilavorati necessari per le nostre industrie manifatturiere. Accelerare, dunque, i pagamenti delle amministrazioni è urgente, come ridurre il numero delle stazioni appaltanti, abbreviare i tempi delle valutazioni ambientali, un intervento che dovrà essere accompagnato da una adeguata provvista di funzionari che possano assicurare la necessaria celerità delle istruttorie.
Queste riforme non hanno costi, anzi assicurano risparmi. Eppure finora non si è messo mano alla riforma. Il motivo va ricercato anche in una realtà che spesso sfugge ad una valutazione superficiale dell’esigenza. Insieme alla semplificazione delle procedure, e funzionale ad essa, deve essere condotta una ricognizione delle attribuzioni. Perché se più amministrazioni intervengono in un procedimento è evidente che i tempi si allungano, ognuna vuol dire la sua, spesso con valutazione di aspetti giuridici o di merito che confliggono. Una riforma della amministrazione nel senso indicato fu alla base del primo governo del Conte di Cavour che nel 1852, nell’assumere la responsabilità di Presidente del Consiglio, si rese immediatamente conto che se non avesse razionalizzato l’organizzazione dei ministeri non avrebbe potuto perseguire gli obiettivi politici che aveva posto a base del suo programma di governo.
Occorre, dunque, modernizzare l’amministrazione pubblica. E questo sta nelle linee programmatiche del Governo Meloni. Anche la scelta dei titolari dei vari dicasteri, dall’economia al commercio alla scuola, solo per fare qualche esempio, dimostra la consapevolezza di questa riforma attesa da tempo e mai affrontata con visione globale dei problemi che si pongono, ripeto ai cittadini, alle imprese e alle stesse pubbliche amministrazioni che in qualche modo soffrono per l’immagine negativa che sanno essere percepita dalla comunità di coloro che sono impegnati nelle attività produttive.
“Modernizzare il Paese significa innanzitutto disporre di una pubblica amministrazione efficiente, digitalizzata, sburocratizzata, veramente al servizio dei cittadini” si legge in uno dei tanti documenti redatti dai governi degli anni passati. Ma di bei propositi i cittadini non sanno che farne. Vogliono semplificazioni, sblocco delle opere pubbliche attraverso una regolamentazione degli appalti che non renda difficile e incerta la gestione degli affidamenti, in modo che sia ridotto il contenzioso dinanzi al giudice amministrativo che rallenta la realizzazione delle opere. Che servono a questo Paese che ha estremo bisogno di infrastrutture viarie, ferroviarie, portuali, aeroportuali, acquedottistiche e di manutenzione, perché mai più un Ponte Morandi crolli perché non si è monitorato lo stato della struttura che, abbiamo appreso poi, era tragicamente deteriorata.
Infrastrutture necessarie per assicurare un omogeneo sviluppo dell’economia del Paese, perché le merci e le persone possano agevolmente trasferirsi da un luogo ad un altro secondo l’esigenza dei commerci e del turismo, del quale non sempre è percepita l’importanza nell’economia italiana. Turismo che non coinvolge soltanto musei, aree archeologiche, ristoranti e alberghi, ma alimenta un indotto straordinario in un Paese che produce preziose espressioni di un antico artigianato, che, insieme ai prodotti dell’enogastronomia, fa dei turisti dei messaggeri del made in Italy che trasferiscono nei paesi di provenienza colà incentivando l’esportazione.
C’è molto da fare. Finora la classe politica ha omesso. Molte parole, pochi fatti. Per dare nuovo impulso alla macchina dello Stato è anche necessario restituire ai pubblici dipendenti che, come leggiamo nell’art. 98 della Costituzione “sono al servizio esclusivo della Nazione”, l’orgoglio che un tempo era proprio di chi rivestiva incarichi pubblici. Serve la selezione dei migliori che vanno, altresì, motivati anche attraverso la riorganizzazione dei metodi di lavoro. Occorre restituire dignità alla dirigenza in molti settori inflazionata.
Si è detto spesso che queste riforme necessarie non rendono alla politica perché richiedono tempo per essere attuate e producono risultati sul medio-lungo periodo. Dissento. Vi è un arco temporale di breve periodo che fa percepire immediatamente al cittadino che è in atto un cambiamento, che è quello che desiderava. E la politica accrescerà, da un lato la capacità di realizzare l’indirizzo politico, dall’altra di aumentare i consensi nell’opinione pubblica.
Provare per credere.

UN’AMMINISTRAZIONE DA RIFORMARE. LEZIONI DALL’EMERGENZA CORONAVIRUS

Questo saggio di Salvatore Sfrecola, è stato pubblicato nel Rapporto Nazionale “Italia 20.20” della Fondazione Farefuturo

In questo Paese, nel quale i cittadini sono chiamati assai spesso alle urne per assicurare la rappresentanza popolare nelle assemblee legislative delle istituzioni territoriali, lo Stato, le regioni, i comuni, vincere le elezioni, come ripeto da tempo, può essere relativamente facile, difficile è governare, come dimostra la ricorrente, mancata realizzazione di parti significative dei programmi di governo. Le ragioni vanno ricercate essenzialmente nella inadeguatezza dell’indirizzo politico delineato da una classe politica estremamente modesta che, tra l’altro, non tiene conto della capacità delle strutture amministrative di dare attuazione alle politiche pubbliche. Che è, in ogni caso, responsabilità della politica che detta le regole legislative e amministrative. Infatti, l’amministrazione pubblica italiana, che pure si avvale in ogni settore di riconosciute eccellenze professionali, è, complessivamente considerata, assolutamente inadeguata rispetto al ruolo che dovrebbe svolgere.

L’organizzazione dei ministeri, la normativa sostanziale da applicare, quella procedimentale, la professionalità degli addetti, esigono una profonda revisione. L’esperienza insegna, infatti, che i programmi governativi spesso sono frustrati da normative confuse, delle quali al momento dell’approvazione non sono stati evidentemente simulati gli effetti. Il Parlamento, inoltre, sovente ricorre a leggi di delegazione, spesso generiche («in bianco»), con l’effetto che i provvedimenti di attuazione, i decreti legislativi, tardano ad essere emanati, come dimostra il decreto «milleproroghe», di anno in anno sempre più corposo. Non di rado il giudizio sulla legittimità di quelle norme, spesso scritte male, finisce dinanzi ai tribunali amministrativi o alla Consulta. Ad esempio, il mancato rispetto della delega è vizio di costituzionalità.

Le responsabilità di questa situazione sono diffuse e risalenti nel tempo ma progressivamente aggravate, come dimostra la vicenda attuale dell’epidemia da coronavirus, con incertezze nella individuazione delle attribuzioni e delle competenze tra Stato e regioni, a seguito della riforma del Titolo V della Costituzione, decisa dalle sinistre nel 2001 con una maggioranza di tre voti, e, a cascata, nell’adozione dei provvedimenti necessari per far fronte all’emergenza. Responsabilità della classe politica, innanzitutto, nella quale sempre più spesso mancano competenze ed esperienze, com’è sotto gli occhi di tutti. Ma anche dei sindacati del pubblico impiego, promotori di ripetute istanze di slittamento verso l’alto di fasce di dipendenti attuato con riconoscimento di «mansioni superiori» quasi mai effettivamente esercitate, ma benignamente «attestate» dai capi degli uffici. Una politica del pubblico impiego che, quanto alla dirigenza, si è basata sulla moltiplicazione dei posti di funzione che ha fatto perdere di vista il senso della funzionalità delle strutture amministrative, quanto a competenze e numero degli addetti, e della stessa responsabilità dei dirigenti. Il loro numero è enormemente cresciuto nel tempo, con l’effetto di parcellizzazione degli apparati con soddisfazione dell’antica aspirazione dei detentori del potere politico al divide et impera, una regola dagli effetti perversi in presenza di una classe di governo estremamente modesta. Ministri che si sentono autorevoli di fronte ad un dirigente dimezzato, che loro hanno nominato e da loro attende la conferma.

Quale indipendenza, dunque, per la dirigenza statale? Inoltre, lo spoil system, immaginato per inserire nei ministeri professionalità «non rinvenibili nei ruoli dell’Amministrazione» (art. 19, comma 6, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165), è stata la strada per assicurare un posto di lavoro ai portaborse dei politici o a funzionari «di area» che non erano riusciti a superare il concorso a dirigente. Con l’effetto di mortificare i funzionari vincitori di carriera che hanno visto precluse prospettive che un tempo potevano costituire una importante aspettativa professionale. Insomma, occorre una profonda riforma per governare. Come gli italiani hanno potuto verificare nell’occasione drammatica del contrasto all’epidemia da Covid-19, nell’affrontare la quale il Governo ha dimostrato assoluta incapacità di assumere rapidamente le occorrenti decisioni. È sufficiente qualche breve considerazione sui tempi della risposta all’allarme pervenuto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) il 30 gennaio 2020, con la dichiarazione dello stato di «emergenza internazionale di salute pubblica per il coronavirus» (Pheic). E qui c’è la prima falla nella organizzazione statale.

L’Italia ha un suo rappresentante nell’O.M.S. Bisognava attendere la dichiarazione ufficiale per un virus denominato n. 19, cioè scoperto nel 2019? Perché il nostro rappresentante non ha allertato il governo? O l’ha fatto e il presidente del Consiglio ed il ministro della Salute hanno sottovalutato il pericolo? Sta di fatto che il 31 gennaio il Consiglio dei Ministri dichiara, per sei mesi, «lo stato di emergenza in conseguenza del rischio sanitario connesso all’insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili», avendo evidentemente presente che la situazione di pericolo avrebbe avuto una durata almeno corrispondente. Eppure il Governo, che nel frattempo non si è preoccupato di fare una ricognizione delle occorrenze, mascherine e apparati di ventilazione polmonare, presumibilmente occorrenti, per verificarne l’esistenza nelle strutture ospedaliere o per predisporne l’acquisto, attende il 23 febbraio per adottare un provvedimento di urgenza «con forza di legge» con poche norme, al quale seguirà una serie di decreti legge mai vista prima. Mentre le disposizioni di dettaglio vengono adottate dal presidente del Consiglio con propri decreti di dubbia costituzionalità per le gravi limitazioni all’esercizio di diritti personali costituzionalmente garantiti: uno tra tutti, il diritto di circolazione. Decreti «incostituzionali», come li ha bollati Sabino Cassese, giurista insigne ed ex giudice della Corte costituzionale, che non si sa neanche chi li abbia scritti, tra comitati e task force, una pletora di oltre 450 «esperti», come se l’amministrazione pubblica non ne avesse. E non esistesse il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (Cnel), organo «di consulenza delle Camere e del Governo» (art. 99, comma 2, Cost.).

Quanto ai decreti legge, vengono convertiti dal Parlamento senza che sia possibile discutere ed emendare il testo, ricorrendo il Governo al voto di fiducia, con evidente emarginazione delle due Camere. E mentre il virus sembra aver attenuato la propria pericolosità e si guarda alla «fase due» per cercare di dare ossigeno all’economia bloccata in tutti i settori, l’incapacità dell’Amministrazione di rispondere alle esigenze del momento apre la strada ad una normativa straordinaria la quale fa intravedere, tuttavia, un nuovo, per certi versi, più grave pericolo: quello che la logica dell’emergenza (niente gare, niente controlli) estenda i suoi effetti oltre il tempo strettamente necessario per proporsi come regola per il futuro. Semplificare necesse est, naturalmente, ma… est modus in rebus. Nel segno della legalità e della trasparenza.

*Salvatore Sfrecola, Presidente Associazione Italiana Giuristi di Amministrazione, già presidente di Sezione della Corte dei Conti