Nicola Boscolo Pecchie

UN NUOVO PATTO SOCIALE PER IL LAVORO CHE CAMBIA

La fine del ‘900, del secolo della piena occupazione; l’avvento vorticoso della tecnologia e dei social che hanno dato una nuova dimensione all’ io, all’essere; la pandemia che ha accelerato ogni processo; hanno messo l’uomo, la società e le sue rappresentanze davanti ad un nuovo concetto di lavoro.
Perciò un governo che avesse l’obiettivo di difendere il lavoro, di garantirlo, di dargli una nuova dignità ed una “dimensione etica” non può non tenere conto che le garanzie e le misure dovranno indirizzarsi sia verso il vecchio sia verso l’attuale concetto di lavoro e verso ciò che è in mutazione ed in parte si è già affermato: un nuovo mercato del lavoro.
Il vecchio mercato del lavoro porta con sé le sue problematiche strutturali: la distruzione di posti lavoro con grande velocità e quindi la precarietà del “posto”, la polarizzazione tra altre e basse qualifiche, l’inestricabile mismatch tra domanda e offerta di lavoro.
Le misure di contrasto sono sorrette dal Jobs Act del 2015 ed abbondantemente finanziate dalla misura 5 del PNRR.
Il nuovo mercato del lavoro porta con sé approcci sociologici e comportamentali che mettono in discussione il termine stesso di “posto” di lavoro, in ossequio ad un atteggiamento più dinamico della società, più un “ruolo” che un “posto” statico, più il soddisfacimento di aspettative economiche e di vita che un contratto a tempo indeterminato che addirittura puo’ intimorire i più giovani nel suo essere “per sempre”.
I nuovi concetti devono fare conto con la nuova fluidità sociale, con le nuove esigenze di conciliazione tra vita e lavoro e con un’atomizzazione dell’individuo sempre più marcata, forse più nel male che nel bene, ma è un dato di fatto ineludibile.
Un governo che ha in rampa di lancio i nuovi decreti sul lavoro, simbolicamente approvati il 1 maggio, deve avere la capacità di osare, andando oltre la contingenza delle pur necessarie determinazioni economiche.
Un governo che guarda ad una dimensione etica e sociale del lavoro, volto a dare una nuova dignità al lavoro, deve fare entrare nella propria agenda l’affronto delle problematiche ataviche del mondo del lavoro nel contesto del mutamento dello stesso, sebbene non abbia ancora preso una traiettoria definita.
Lo stesso “Statuto dei Lavoratori” dovrà aprirsi ad uno “Statuto dei nuovi Lavori” gemmati dalle tecnologie, se non vuole essere una conquista allo stato di enunciato.
Ci sono dunque le questioni storiche del cuneo fiscale, della sicurezza sul lavoro, del gap scuola/lavoro, delle differenze geografiche e di genere. Ma non possiamo agire col martello pneumatico sull’acqua finendo per non incorrere sulla fluidità delle attuali dinamiche.
Vanno coniugate le misure contingenti dei nuovi decreti con nuove visioni.
Le nuove misure previste dai nuovi decreti sul contenimento del cuneo fiscale,  sul reddito di cittadinanza, sulle nuove causali del tempo determinato, sulla conciliazione, sulla situazione familiare, sui NEET devono confrontarsi con il fattore di “C” di competenze e col fattore “T” di territorio.
Una nuova visione deve valorizzare di più le “Competenze” che servono al mondo produttivo e che possono soddisfarlo indipendente dall’età e perfino dalla capacità di lavoro residuale, recuperando per questa strada anche la disabilità, se essa non limita le attesa del datore di lavoro, valorizzando in tale maniera il servizio del collocamento mirato offerto dai Centri per l’Impiego.
Va valorizzato ciò che sai fare più di ciò che hai fatto, più delle tue esperienze e da qui va ridotto il mismatch.
Ciò che sai fare va immesso ovviamente nel tuo contesto lavorativo di riferimento, incrociando il fattore “Competenze” col fattore “Territorio”.
Se la società scappa perché corre più in fretta delle riforme del mercato del lavoro mondiale, non la può fermare nemmeno con uno Stato etico e sovrano: la società va stimolata, incentivata, orientata, con strumenti più taylor made sul lavoratore che sul datore, sintonizzando di volta in volta l’una e l’altra parte affinché si incontrino.
La sommatoria di questo approccio e di queste visioni dovrebbe porre fine alle visioni stereotipate del mercato del lavoro del tipo che un contratto a tempo indeterminato ed un posto fisso sono sempre la risposta migliore, ponendo fine alla visione stereotipata che i giovani non vogliono lavorare, agli stereotipi sul gender gap, sui “divanisti” del RdC che non spiegano da soli il fenomeno.
Intervenire sul mercato del lavoro deve mettere d’accordo terapia intensiva e riabilitazione, abolendo gli stereotipi, adeguando le categorie del mercato del lavoro per specificare che dentro a chi non lavora non c’è solo la disoccupazione, ma c’è tutto un mondo di scoraggiati e di attese, di disorientamento e di nuove competenze in cerca di nuove applicazioni.
Una nuova complessità che può tuttavia ancorarsi ancora all’art. 4 Costituzione: “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”.

Se ritornano politica e partiti

La Costituzione Italiana è nata imperniandosi convintamente sulla forza dei partiti politici per garantire quel pluralismo che doveva essere la svolta riflessa nei confronti del fascismo. Proprio per garantire quella forza, le attese dell’alleanza antifascista – che covavano fin dai primi anni ’40 – la Carta Costituzionale talvolta tace, omette, per lasciare nell’indefinitezza dei suoi spazi grigi, un maggiore spazio di manovra ai partiti che erano i protagonisti della vita politica e civile. Ciò accade con i requisiti per ricoprire le carica di Presidente del Consiglio, per l’iter delle consultazioni, per la gestione delle crisi di governo: dei “buchi” costituzionali che nell’allora unico orizzonte proporzionalista traevano giustificazione nel protagonismo dei partiti.

Oggi con un’affluenza alle urne, nelle ultime elezioni politiche, del 63,9% – la più bassa di sempre – con punte di non voto del 60% alle ultime regionali di Lazio e Lombardia che fine dovrebbe fare un’architettura costituzionale che si regge su basi così diverse?

Come può oggi una tale delegittimazione essere coerente con dinamiche che chiudono la “filiera” del processo decisionale e legislativo? Con gruppi parlamentari spesso scissi dai partiti, con Presidenti delle Camere paradossalmente sempre più politici e meno bipartisan, con iter legis chiusi alla società esterna, con Aule che si sostituiscono all’approfondimento dei lavori in Commissione, con dibattiti spesso stravolti da maxi emendamenti ed incalzati da voti di fiducia incombenti?

Il generale dibattito sulla necessaria revisione costituzionale e sull’adeguamento ad una società di 75 anni dopo dovrà porsi queste problematiche, garantendo alla società di entrare di più nei meccanismi decisionali, pur in una crisi dei corpi intermedi a loro volta evidente. Andrà probabilmente rivalutato un lobbismo sano e professionalmente evoluto, preparato, “europeo”, in grado di incidere positivamente sulla qualità del prodotto legislativo.

Ai partiti resta il problema del consenso. In una società istantanea, senza memoria, senza passato, senza verità, senza attendibilità delle fonti, il consenso non è più tale. E’ espressione elettorale di quel preciso momento, sull’onda di quello specifico sentiment che muove numeri solo all’interno di chi continua a recarsi alle urne, senza fare i conti con chi non vota più.

Il contesto non è più quello del corpo elettorale, ma è quello della folla, i partiti non sono più assembleari, ma unipersonali, con un voto che è espressione di breve periodo, tutto emotivo e per nulla razionale ed è così che sono saliti sull’ottovolante Renzi, Salvini, Di Maio, giungendo ad un Governo Meloni figlio della stessa logica, ma che tuttavia sta riproponendo una forma partitica o, comunque, fortemente politica.

Se non c’è consenso, non c’è, tanto meno, appartenenza, resta indefinito il grado di condivisione delle idee, dei programmi e delle politiche e perciò ‘se i partiti non vogliono partire’ debbono porsi il problema del consolidamento. E’ pur vero che è cambiata la società globale e la società non la cambi; e compito della politica è saper leggere l’attualità, ma non per questo rinunciare ad un ruolo, se non di guida, almeno di stimolo a non lasciarsi polverizzare da una libertà paradossalmente omologante.

Per la Destra potrebbe essere opportuno procedere con l’approccio della semplicità, per strutturare il consenso in un vasto sentimento benevolo, facilmente divulgabile, fatto di simbolismi sani ed inclusivi, senza cadere nella canea sguaiata dei suoi detrattori, ma con “la serenità delle proprie ragioni” come diceva Giorgio Almirante o più tardi Pinuccio Tatarella quando parlava di “Partito degli italiani”. Si tratta di percepire la modernità attraverso la “trasgressione” di rimanere conservatori.

Mercato del lavoro tra sovranismo e fluidità

La spinta pro Ucraina sembra – forse già definitivamente – avere messo in crisi quella “guerra delle parole” per cui i concetti di Nazione, di sovranismo, di identità e di interesse nazionale erano il “male”, mentre tutto ciò che era globale, indistinto, unisex, transgender, senza differenza di età e di Stato era “il bene”. La crisi in atto dimostra che sovranismo significa difesa dell’Ucraina, come stato indipendente, per quanto “orbitante”, e che la globalizzazione come agente di pacificazione attraverso il profitto dei mercati sta fallendo.

Il mercato del lavoro sembra essere il figlio minore di questo assetto, essendo per sua natura sempre più fluido e per sua gestione sempre più vetusto, a cominciare dall’Italia (tranne alcune eccezioni regionali come il Veneto e la Lombardia), tanto che sembra legittimo chiedersi se esista un mercato del lavoro da gestire o se esso segua flussi e dinamiche spontanee.

Alla fluidità del mondo corrisponde la fluidità del lavoro. Il lavoro non identifica più. Il falegname, il ciabattino, il fruttivendolo, il panettiere, l’edicolante, il barista, il rappresentante…durante gli anni della piena occupazione di fine ‘900 valevano più del tuo nome e cognome, quello eri! Uscivi da scuola con un lavoro e con quel lavoro ci andavi in pensione. Quel lavoro era il sostegno della tua vita e ti identificava: eri quello che facevi. Nella fluidità del mondo non è più così. Non conta quello che sei, ma quello che fai. Il lavoratore, il disoccupato è quello sa fare (e deve rendersene conto per meglio competere). E’ più cose assieme e nello stesso tempo, siano essere referenziate, derivate dal lavoro sommerso o da semplici interessi e passioni.

Sono le competenze e non il profilo professionale che fanno il lavoratore. E’ un processo di destrutturazione del soggetto in tante cose, tante quante sono le sue competenze formali (titoli), non formali (esperienze) ed informali (interessi) che sa mettere in pratica.

Il lavoratore non può più (e non deve) passare per la cruna dell’ago con la sua identità, ma si deve frammentare nelle cose che sa fare, per poi ricomporsi nella dimensione che fa più “matching” con ciò che è richiesto dalle aziende. Il quid non è più chi sei. Ma cosa sai fare.

I servizi pubblici hanno pertanto una sfida in più, quella di intercettare la fluidità del mondo e la frammentazione dei profili professionali, in un modo mutato, tanto che i sistemi gestionali non possono di certo più, anche solo per un aspetto terminologico, incrociare domanda ed offerta di lavoro sul “battilamiere”, sull’ “ammondatore di pesce”, sullo “stampatore alla rotativa” e non farlo invece sull’ “esperto della reti on line”, “l’esperto di e-commerce”, il “free lance”, “l’operatore del delivery”, “l’europrogettista”, il “social media manager”. Inoltre la sfida è trovare uno standard terminologico di qualificazione almeno europeo, se non mondiale, per valutare titoli di studio, formazione, esperienze di lavoro, emersione di nuove lingue regionali…

Il mercato del lavoro deve mettere al centro le competenze del lavoratore nel corso della sua vita che a loro volta mutano nello spazio e nel tempo. C’è da chiedersi se lo stesso CV, per quanto europass, sia ancora uno strumento valido, dal momento che esso risponde più al “chi sei” che al “cosa sai”. Profili social, video curriculum potrebbero essere più adatti, comprendendo soft skills altrimenti impercettibili, oltre che dimostrando la messa in pratica con una presentazione video in inglese o alla guida di un muletto.

Tutta questa spinta in avanti, modernista, va poi bilanciata per non perdere chi potrebbe restare indietro da un punto di vista del gap tecnologico, linguistico, di genere, di età, di livello di studio, di disabilità.

La fluidità del mondo incontra la fluidità del mercato del lavoro non nel loro smanioso progredire per regredire, ma per evolversi in chiave neo conservatrice e pertanto reale, con senso di responsabilità per la gente che ci sta’ dentro. La sfida è quella delle competenze che con la loro leggerezza entrano meglio dalla finestre del treno in corsa, piuttosto che aspettando il lavoro in una remota stazione di periferia con un treno in ritardo.

La crisi russo/ucraina dimostra inoltre non solo la necessità di ritarare il mondo sulle persone, sulle competenze, ma fa emergere quello che del resto era già noto: la sfida delle competenze ci deve essere anche nel contesto di un Mediterraneo di cui l’Italia si è dimenticata, lasciandolo agli appetiti della Russia e della Cina. L’economia del mare: la pesca, la nautica, il turismo nautico, la logistica, la tutela ambientale e quindi le ZES (Zone economiche speciali), le ZEE (Zone economiche speciali) come luogo dell’interesse nazionale, come meta, tra le altre, del nuovo mercato del lavoro.

Il Sovranismo inclusivo e la fluidità estensiva del mercato del lavoro possono coesistere e rafforzarsi reciprocamente.

*Nicola Boscolo Pecchie, esperto mercato del lavoro