Questo saggio di Mario Ciampi, Segretario generale della Fondazione Farefuturo, è stato pubblicato nell’introduzione al Rapporto sull’Interesse Nazionale “Italia 20.20″ della Fondazione Farefuturo.
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Il concetto di «interesse nazionale» reca con sé, da sempre, una certa dose di complessità semantica.
Non è un caso che sia stato sostituito nel corso della storia da altre formule come «interesse dello Stato», «interesse collettivo» o «interesse generale». Formule meno impegnative che prescindono dall’esistenza di una nazione intesa come «comunità di destino», come un soggetto dotato di una sua organicità che si esprime nel tempo e nello spazio.
Non è facile concepire un interesse della nazione italiana partendo da culture refrattarie a visioni organiche oppure da atteggiamenti più o meno espliciti che si richiamano a quell’inveterato senso del «particulare» che coinvolge interessi individuali, di gruppi o di territori, e che da noi è sovente più forte della legge di gravità. E che rischia di acuirsi per il combinato disposto della formazione di una élite sempre meno sensibile al vincolo
di lealtà nazionale, per necessità o per ideologia, e della stessa recessione economica che l’emergenza Covid-19 ha inasprito in modo quasi esiziale innescando spinte ancora più centrifughe nell’affannosa ricerca di capitale
di rischio.
Il presente «Rapporto» della Fondazione Farefuturo muove da queste preoccupazioni e coinvolge nell’analisi autorevoli personalità che, per il ruolo che ricoprono nella cultura, nelle istituzioni o nell’economia del Paese, possono guardare da punti di osservazione privilegiati alle dinamiche dell’interesse nazionale italiano e della sua crisi, partendo da differenti competenze e visioni del mondo.
Il volume che ne è scaturito contiene pertanto già all’origine due scelte di fondo, che rispondono alla nostra definizione di «interesse nazionale»: la prima riguarda la titolarità di questo tema, che non può essere circoscritto a singoli ambienti culturali, ma deve diffondersi trasversalmente fino a permeare i gangli vitali della nazione; la seconda concerne invece l’oggetto dell’indagine, che include le questioni più classiche del nostro posizionamento nel contesto delle relazioni internazionali, insieme a quelle più endogene e di politica domestica, che costituiscono la precondizione delle altre. Nel solco di questa impostazione, alla politica interna sono dedicati i primi tre capitoli: «Come migliorare lo stato di salute della nazione», «Rilanciare lo Stato, le istituzioni, la funzione pubblica» e «Centralità della programmazione economica». Sulla politica internazionale e sulla sicurezza dell’Italia nel mondo, si concentrano invece gli ultimi tre capitoli: «Italia soggetto globale», «La Patria in Europa» e «La tutela dei nuovi confini».
L’interesse nazionale ha quindi due dimensioni che si influenzano reciprocamente, una interna e l’altra esterna.
È evidente ad esempio che la proiezione dell’Italia non sia indipendente da come avremo affrontato e risolto il dualismo nord-sud, e che questo almeno in parte dipenda da come i governi che si susseguono orientano la loro politica estera o le relazioni commerciali. Così, la natalità influenzerà la politica energetica, e il costo dell’energia avrà riflessi sul benessere delle famiglie. Senza considerare il peso che lo sviluppo della ricerca possa avere sulla sicurezza nazionale o sul soft power dell’Italia nel mondo.
Per motivi storici, nel nostro Paese è mancata una riflessione aperta sull’interesse nazionale. Spesso lo si ritiene un sottoprodotto del nazionalismo e come tale viene relegato ai margini del dibattito pubblico o riservato a una piccola schiera di addetti ai lavori. Gli stessi governi faticano a indirizzare il proprio operato all’interesse nazionale, preferendo logiche di più immediato consenso popolare. Raramente si interpreta la Patria come un patrimonio morale e materiale ricevuto in gestione dagli antenati e che si è chiamati pro tempore a far crescere, in funzione delle nuove generazioni.
Sembra tuttavia prospettarsi un’inversione di questa tendenza, sotto la spinta di fatti e cambiamenti epocali davanti ai quali sarebbe difficile non reagire sulla base dell’interesse nazionale. Il multilateralismo è in declino e le alleanze non sono più sostitutive, come lo sono state in passato, della nostra politica internazionale. La stessa Unione europea è sempre di più un campo dove si mettono alla prova e si misurano gli interessi dei singoli Stati. Non a caso da più parti si invoca un suo processo di riforma.
Insomma, l’interesse nazionale è tornato prepotentemente sulla scena. E l’Italia deve svegliarsi dal sonno dogmatico in cui è caduta. Forse per troppo tempo abbiamo demandato ad altri livelli sovranazionali la soluzione dei nostri problemi, o comunque le decisioni più strategiche, in attesa che si trovasse una linea comune. Non è infrequente trovarsi soli nei momenti difficili davanti a fenomeni che richiederebbero una cooperazione più pronta ed efficace.
Anche per contribuire al rilancio di un multilateralismo possibile, all’Italia serve un recupero del suo rango internazionale. E questo si ottiene se le classi dirigenti del Paese sapranno condividere un disegno unitario, allineando gli interessi privati a quelli pubblici, con un’attenzione non occasionale, strutturata e organica, che passi per la formazione e il consolidamento di un’amministrazione più coesa e sempre più competente nella prevenzione delle minacce alla sicurezza nazionale, economica, tecnologica e sanitaria, ma anche nella classificazione e promozione dell’interesse nazionale, fino al sostegno attivo dei nostri operatori economici nella competizione globale. Si tratta di imitare l’esempio dei paesi che già da tempo hanno sperimentato questo nuovo modello di politica industriale. La nuova normativa sul golden power è solo l’inizio di un necessario processo di adeguamento della macchina statuale alle nuove minacce globali. Dato il livello qualitativo delle minacce e la conseguente evoluzione dell’insicurezza collettiva, nel dibattito scientifico si parla ormai di una sostituzione dello Stato di diritto con un «Security State», che impatterebbe negativamente sulle libertà fondamentali stabilizzando legislazioni emergenziali e stati d’eccezione in una riedizione aggiornata del principio romano salus publica suprema lex.
Va detto che l’individuazione dell’interesse nazionale non è sempre scontata. Il rischio è che si utilizzi questa formula in maniera astratta o ideologica. Talvolta non è facile stabilire le priorità se non si hanno sofisticati strumenti di selezione rispondenti ad una logica di tipo strategico. Ancora più complesso è il controllo democratico su queste priorità, nella pressoché totale assenza di adeguati strumenti costituzionali e di un’opinione pubblica avvertita sui singoli dossier. Nelle conclusioni del nostro «Rapporto» si trovano proposte anche in questa direzione.
Con riguardo alla Costituzione e in generale all’ordinamento repubblicano ridisegnato nel 2001 con la riforma del Titolo V, si aggiunge una difficoltà non del tutto risolvibile senza una nuova fase costituente. È vero che il primato dell’interesse nazionale non è mai stato espunto dall’ordinamento e viene ancora garantito dal nuovo art. 120 della Costituzione, comma 2, che stabilisce in alcuni casi il potere sostitutivo del governo centrale in relazione a organi delle regioni e degli enti locali. Ma l’unità politica ottenuta con il nuovo art. 114, che pone lo Stato come ente costitutivo inter pares con gli altri livelli istituzionali, certamente non agevola la definizione e il presidio di un interesse nazionale inteso in senso propositivo oltre che difensivo. Questo obiettivo non è raggiungibile e forse neppure ammissibile con una forma di stato che oscilla continuamente tra un policentrismo ormai costituzionalizzato e l’esigenza di un neo-unitarismo spinto dalla crisi economica e dalle sfide globali.
Una volta risolti i nostri dilemmi ordinamentali, avremmo comunque ancora da scegliere il modello di riferimento per l’individuazione dei fattori che definiscono l’interesse nazionale. Tra quelli che si trovano nella letteratura politologica, il modello realista di Morgenthau, ad esempio, è un inno alla politica di potenza e piega tutti i criteri alla realpolitik. Ciascuna nazione deve elaborare un modello sulla base della sua geografia politica, della sua storia e della missione con cui intende stare nel mondo. Per l’Italia, questa missione non può essere slegata dal suo «primato estetico», che tra gli altri Gioberti aveva giustamente evidenziato scrivendo il suo elogio della nazione italiana. E retroagiscono sul senso più profondo dell’interesse italiano, questioni di identità culturale della comunità nazionale, che anche all’epoca del non expedit non vietavano agli esponenti del movimento cattolico di rivendicare gli «interessi religiosi e sociali della Patria che Dio ci ha dato».
È cruciale inoltre, quando si deve definire l’interesse nazionale, avere una chiara coscienza dei limiti endogeni e dei vincoli esogeni che il Paese si dà o subisce. Tra i limiti, è importante stabilire quali sono gli strumenti di cui il Paese vuole dotarsi e in quali contesti vuole esprimersi più direttamente. Con una precisazione essenziale per comprendere la fase storica che stiamo vivendo: con la redistribuzione della potenza economica sullo scacchiere mondiale e l’esplosione di nuove forme di capitalismo predatorio o di competitività più aggressive tra le economie nazionali, non sarà più possibile difendere la ricchezza prodotta e il risparmio dagli italiani con tutti i fattori di debolezza e vulnerabilità che il nostro «sistema Paese» ha accumulato nel corso degli ultimi decenni. Tra questi: l’eccesso di regolamentazione, l’alto costo dell’energia, l’eccessivo prelievo fiscale, la carenza di infrastrutture in molte aree del Paese, il peso della criminalità organizzata, le incertezze dell’assetto istituzionale, lo scarso collegamento tra la formazione superiore e il sistema produttivo.
Fatte queste premesse, non possiamo tuttavia arrenderci al «declinismo», come se tutto fosse ineluttabile.
E neppure al «declinismo felice» indotto da una certa mentalità ideologica che vuole una progressiva deindustrializzazione della Penisola.
L’Italia ha dentro di sé tutti gli elementi per un riscatto pieno e duraturo. Per la qualità che sa esprimere e per la capacità di adattamento che è in condizione di sviluppare. Partiamo dalle consolanti certezze che abbiamo:
la reazione positiva della nostra industria e delle nostre esportazioni alla crisi degli ultimi anni, il rispetto che abbiamo conquIstato nelle operazioni internazionali e nel dialogo multilaterale, il fascino dello stile di vita italiano.
Il declino è ancora reversibile purché le classi dirigenti italiane, non nuove alle influenze e alle seduzioni del tornaconto individuale, riscoprano un sano patriottismo e una coesione ideale. Nel momento più difficile, può
germinare una nuova Italia.