Mario Ciampi

Il declino è reversibile

Questo saggio di Mario Ciampi, Segretario generale della Fondazione Farefuturo, è stato pubblicato nell’introduzione al Rapporto sull’Interesse Nazionale “Italia 20.20″ della Fondazione Farefuturo.
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Il concetto di «interesse nazionale» reca con sé, da sempre, una certa dose di complessità semantica.
Non è un caso che sia stato sostituito nel corso della storia da altre formule come «interesse dello Stato», «interesse collettivo» o «interesse generale». Formule meno impegnative che prescindono dall’esistenza di una nazione intesa come «comunità di destino», come un soggetto dotato di una sua organicità che si esprime nel tempo e nello spazio.
Non è facile concepire un interesse della nazione italiana partendo da culture refrattarie a visioni organiche oppure da atteggiamenti più o meno espliciti che si richiamano a quell’inveterato senso del «particulare» che coinvolge interessi individuali, di gruppi o di territori, e che da noi è sovente più forte della legge di gravità. E che rischia di acuirsi per il combinato disposto della formazione di una élite sempre meno sensibile al vincolo
di lealtà nazionale, per necessità o per ideologia, e della stessa recessione economica che l’emergenza Covid-19 ha inasprito in modo quasi esiziale innescando spinte ancora più centrifughe nell’affannosa ricerca di capitale
di rischio.
Il presente «Rapporto» della Fondazione Farefuturo muove da queste preoccupazioni e coinvolge nell’analisi autorevoli personalità che, per il ruolo che ricoprono nella cultura, nelle istituzioni o nell’economia del Paese, possono guardare da punti di osservazione privilegiati alle dinamiche dell’interesse nazionale italiano e della sua crisi, partendo da differenti competenze e visioni del mondo.
Il volume che ne è scaturito contiene pertanto già all’origine due scelte di fondo, che rispondono alla nostra definizione di «interesse nazionale»: la prima riguarda la titolarità di questo tema, che non può essere circoscritto a singoli ambienti culturali, ma deve diffondersi trasversalmente fino a permeare i gangli vitali della nazione; la seconda concerne invece l’oggetto dell’indagine, che include le questioni più classiche del nostro posizionamento nel contesto delle relazioni internazionali, insieme a quelle più endogene e di politica domestica, che costituiscono la precondizione delle altre. Nel solco di questa impostazione, alla politica interna sono dedicati i primi tre capitoli: «Come migliorare lo stato di salute della nazione», «Rilanciare lo Stato, le istituzioni, la funzione pubblica» e «Centralità della programmazione economica». Sulla politica internazionale e sulla sicurezza dell’Italia nel mondo, si concentrano invece gli ultimi tre capitoli: «Italia soggetto globale», «La Patria in Europa» e «La tutela dei nuovi confini».
L’interesse nazionale ha quindi due dimensioni che si influenzano reciprocamente, una interna e l’altra esterna.
È evidente ad esempio che la proiezione dell’Italia non sia indipendente da come avremo affrontato e risolto il dualismo nord-sud, e che questo almeno in parte dipenda da come i governi che si susseguono orientano la loro politica estera o le relazioni commerciali. Così, la natalità influenzerà la politica energetica, e il costo dell’energia avrà riflessi sul benessere delle famiglie. Senza considerare il peso che lo sviluppo della ricerca possa avere sulla sicurezza nazionale o sul soft power dell’Italia nel mondo.
Per motivi storici, nel nostro Paese è mancata una riflessione aperta sull’interesse nazionale. Spesso lo si ritiene un sottoprodotto del nazionalismo e come tale viene relegato ai margini del dibattito pubblico o riservato a una piccola schiera di addetti ai lavori. Gli stessi governi faticano a indirizzare il proprio operato all’interesse nazionale, preferendo logiche di più immediato consenso popolare. Raramente si interpreta la Patria come un patrimonio morale e materiale ricevuto in gestione dagli antenati e che si è chiamati pro tempore a far crescere, in funzione delle nuove generazioni.
Sembra tuttavia prospettarsi un’inversione di questa tendenza, sotto la spinta di fatti e cambiamenti epocali davanti ai quali sarebbe difficile non reagire sulla base dell’interesse nazionale. Il multilateralismo è in declino e le alleanze non sono più sostitutive, come lo sono state in passato, della nostra politica internazionale. La stessa Unione europea è sempre di più un campo dove si mettono alla prova e si misurano gli interessi dei singoli Stati. Non a caso da più parti si invoca un suo processo di riforma.
Insomma, l’interesse nazionale è tornato prepotentemente sulla scena. E l’Italia deve svegliarsi dal sonno dogmatico in cui è caduta. Forse per troppo tempo abbiamo demandato ad altri livelli sovranazionali la soluzione dei nostri problemi, o comunque le decisioni più strategiche, in attesa che si trovasse una linea comune. Non è infrequente trovarsi soli nei momenti difficili davanti a fenomeni che richiederebbero una cooperazione più pronta ed efficace.
Anche per contribuire al rilancio di un multilateralismo possibile, all’Italia serve un recupero del suo rango internazionale. E questo si ottiene se le classi dirigenti del Paese sapranno condividere un disegno unitario, allineando gli interessi privati a quelli pubblici, con un’attenzione non occasionale, strutturata e organica, che passi per la formazione e il consolidamento di un’amministrazione più coesa e sempre più competente nella prevenzione delle minacce alla sicurezza nazionale, economica, tecnologica e sanitaria, ma anche nella classificazione e promozione dell’interesse nazionale, fino al sostegno attivo dei nostri operatori economici nella competizione globale. Si tratta di imitare l’esempio dei paesi che già da tempo hanno sperimentato questo nuovo modello di politica industriale. La nuova normativa sul golden power è solo l’inizio di un necessario processo di adeguamento della macchina statuale alle nuove minacce globali. Dato il livello qualitativo delle minacce e la conseguente evoluzione dell’insicurezza collettiva, nel dibattito scientifico si parla ormai di una sostituzione dello Stato di diritto con un «Security State», che impatterebbe negativamente sulle libertà fondamentali stabilizzando legislazioni emergenziali e stati d’eccezione in una riedizione aggiornata del principio romano salus publica suprema lex.
Va detto che l’individuazione dell’interesse nazionale non è sempre scontata. Il rischio è che si utilizzi questa formula in maniera astratta o ideologica. Talvolta non è facile stabilire le priorità se non si hanno sofisticati strumenti di selezione rispondenti ad una logica di tipo strategico. Ancora più complesso è il controllo democratico su queste priorità, nella pressoché totale assenza di adeguati strumenti costituzionali e di un’opinione pubblica avvertita sui singoli dossier. Nelle conclusioni del nostro «Rapporto» si trovano proposte anche in questa direzione.
Con riguardo alla Costituzione e in generale all’ordinamento repubblicano ridisegnato nel 2001 con la riforma del Titolo V, si aggiunge una difficoltà non del tutto risolvibile senza una nuova fase costituente. È vero che il primato dell’interesse nazionale non è mai stato espunto dall’ordinamento e viene ancora garantito dal nuovo art. 120 della Costituzione, comma 2, che stabilisce in alcuni casi il potere sostitutivo del governo centrale in relazione a organi delle regioni e degli enti locali. Ma l’unità politica ottenuta con il nuovo art. 114, che pone lo Stato come ente costitutivo inter pares con gli altri livelli istituzionali, certamente non agevola la definizione e il presidio di un interesse nazionale inteso in senso propositivo oltre che difensivo. Questo obiettivo non è raggiungibile e forse neppure ammissibile con una forma di stato che oscilla continuamente tra un policentrismo ormai costituzionalizzato e l’esigenza di un neo-unitarismo spinto dalla crisi economica e dalle sfide globali.
Una volta risolti i nostri dilemmi ordinamentali, avremmo comunque ancora da scegliere il modello di riferimento per l’individuazione dei fattori che definiscono l’interesse nazionale. Tra quelli che si trovano nella letteratura politologica, il modello realista di Morgenthau, ad esempio, è un inno alla politica di potenza e piega tutti i criteri alla realpolitik. Ciascuna nazione deve elaborare un modello sulla base della sua geografia politica, della sua storia e della missione con cui intende stare nel mondo. Per l’Italia, questa missione non può essere slegata dal suo «primato estetico», che tra gli altri Gioberti aveva giustamente evidenziato scrivendo il suo elogio della nazione italiana. E retroagiscono sul senso più profondo dell’interesse italiano, questioni di identità culturale della comunità nazionale, che anche all’epoca del non expedit non vietavano agli esponenti del movimento cattolico di rivendicare gli «interessi religiosi e sociali della Patria che Dio ci ha dato».
È cruciale inoltre, quando si deve definire l’interesse nazionale, avere una chiara coscienza dei limiti endogeni e dei vincoli esogeni che il Paese si dà o subisce. Tra i limiti, è importante stabilire quali sono gli strumenti di cui il Paese vuole dotarsi e in quali contesti vuole esprimersi più direttamente. Con una precisazione essenziale per comprendere la fase storica che stiamo vivendo: con la redistribuzione della potenza economica sullo scacchiere mondiale e l’esplosione di nuove forme di capitalismo predatorio o di competitività più aggressive tra le economie nazionali, non sarà più possibile difendere la ricchezza prodotta e il risparmio dagli italiani con tutti i fattori di debolezza e vulnerabilità che il nostro «sistema Paese» ha accumulato nel corso degli ultimi decenni. Tra questi: l’eccesso di regolamentazione, l’alto costo dell’energia, l’eccessivo prelievo fiscale, la carenza di infrastrutture in molte aree del Paese, il peso della criminalità organizzata, le incertezze dell’assetto istituzionale, lo scarso collegamento tra la formazione superiore e il sistema produttivo.
Fatte queste premesse, non possiamo tuttavia arrenderci al «declinismo», come se tutto fosse ineluttabile.
E neppure al «declinismo felice» indotto da una certa mentalità ideologica che vuole una progressiva deindustrializzazione della Penisola.
L’Italia ha dentro di sé tutti gli elementi per un riscatto pieno e duraturo. Per la qualità che sa esprimere e per la capacità di adattamento che è in condizione di sviluppare. Partiamo dalle consolanti certezze che abbiamo:
la reazione positiva della nostra industria e delle nostre esportazioni alla crisi degli ultimi anni, il rispetto che abbiamo conquIstato nelle operazioni internazionali e nel dialogo multilaterale, il fascino dello stile di vita italiano.
Il declino è ancora reversibile purché le classi dirigenti italiane, non nuove alle influenze e alle seduzioni del tornaconto individuale, riscoprano un sano patriottismo e una coesione ideale. Nel momento più difficile, può
germinare una nuova Italia.

I dilemmi dello stato di sicurezza

L’insicurezza è tornata prepotentemente nelle democrazie occidentali, che però devono ancora svegliarsi dal lungo letargo dell’apparente vittoria del diritto sulla forza. Una miscela di paure diffonde un senso di precarietà e di apprensione per il futuro che è reso ancora più pervasivo dai toni parossistici utilizzati dal mercato dell’insicurezza. Di questo mercato può far parte anche il capitale politico, che è sempre più pronto a investire la sua liquidità nelle opportunità offerte dalla paura. Per alcuni interpreti come Giorgio Agamben, lo Stato contemporaneo si è ormai trasformato in uno “Stato di sicurezza” costruito sull’emergenza perenne. In questo nuovo modello statuale, l’insicurezza sarebbe pertanto indotta o comunque utilizzata per trasmettere il messaggio che, in nome della sicurezza e del controllo, si possa rinunciare ad alcune libertà fondamentali. Questa interpretazione contiene delle verità, ma anche delle semplificazioni tardo-moderne. Capita spesso che i difensori di questa tesi tendano talvolta a sottovalutare il livello della minaccia o del rischio, che si tratti di terrorismo o di epidemie, presi dal nobile intento di scongiurare l’implosione dello Stato di diritto sotto la montante pressione della cultura securitaria.

Ma bisogna arrendersi all’evidenza: l’emergenza covid-19 insegna che rimane ancora insuperato il principio romano salus publica suprema lex. Non si può chiedere alla politica di trascurare l’insicurezza collettiva e di rinunciare in qualche modo a neutralizzarla. È uno dei suoi compiti principali. E neppure si può chiedere alla politica di diffondere un ottimismo ingenuo quando la società vive nell’incertezza più totale. In sostanza, la politica non può essere indifferente se è investita quotidianamente da una crescente domanda di sicurezza. La questione semmai riguarda il come dovrebbe rispondere. Il punto è questo: da sempre lo stato di eccezione deve essere misurato nei modi e nei tempi. Il pericolo è che diventi un carattere del modo di governare di questa epoca. E questo passaggio sarebbe permesso dalla sostituzione più o meno tacita dello stato di eccezione con quelle che vengono definite “ragioni di sicurezza”, una vera e propria tecnologia di governo permanente.
Per l’immediato futuro, sarà sempre più frequente scegliere tra libertà e sicurezza. Per questa ragione, è molto opportuno strutturare una procedura costituzionale sullo stato di emergenza. Non tanto per la teoria della separazione dei poteri, da sempre sopravvalutata. La difesa dei diritti individuali non passa per l’indebolimento, ma per il rafforzamento del potere esecutivo, che può diventare un pericolo solo se non viene predisposta una sua completa responsabilità di fronte al popolo e ai suoi rappresentanti. Forse è il momento di recuperare la dottrina antica e medievale del potere limitato.

Detto in altri termini, il rispetto del principio di legalità nei momenti di emergenza non è scontato, ma non è neppure impossibile. Non c’è automatismo tra lo stato di eccezione e la sospensione della rule of law. Certo, si tratta di avere della legalità una definizione più estesa e più matura di quella che la intende soltanto come l’astratto e ideologico primato delle leggi. Avrebbe invece perso in partenza uno Stato che, di fronte a una minaccia, reclamasse per sé nuovi poteri. Il ricorso a poteri speciali è sempre l’anticamera scomoda di una rottura dell’ordine costituzionale e della legalità che lo sostanzia. Il caso della legislazione d’emergenza svela in definitiva l’essenza della costituzione, la natura più intima dell’ordinamento, che sarà tanto più stabile quanto più saprà contemperare le esigenze della regola con quelle dell’eccezione. E questo equilibrio non è per nulla raggiungibile con la delega agli esperti, che è bene che rimangano anonimi suggeritori dei governanti. Insomma, la democrazia securitaria o immunitaria non può passare neppure lontanamente per la spoliticizzazione e la tecnocrazia. Questo sì che può compromettere la salute dello Stato costituzionale. Tutto si può commissariare tranne la responsabilità delle decisioni politiche, del governo politicamente costituito e della sua maggioranza parlamentare, drammatica talvolta ma imprescindibile. Nè si può sospendere il controllo pieno di queste decisioni, politico anch’esso.

Il M5S e la legge ferrea dell’oligarchia

Finalmente anche il M5S è diventato un partito politico in senso classico. Nel 1911 Roberto Michels aveva elaborato la sua teoria della legge ferrea dell’oligarchia: prima o poi un partito politico diventa una struttura governata da poche persone che decidono al posto di tutti. In questa crisi di governo, abbiamo visto una nuova fase dei Cinque Stelle, forse l’ultima, con una regia verticistica fatta da pochi dirigenti, e con buona pace della democrazia diretta e del principio ‘uno vale uno’. Anche in altre occasioni questo principio era stato palesemente disatteso. Ma questa volta è ancora più eclatante, vista la posta in gioco. Ancora una volta la legge ferrea di Michels ha fatto centro.
Come corollario di questa legge, i grillini possono ora districarsi liberamente nel sistema, tra l’altro con una carica di trasformismo da partito adulto, pienamente inserito nelle logiche più mature della Repubblica. I sogni rivoluzionari sono alle spalle. Robespierre è ampiamente sostituito da Talleyrand.
Certo, la piattaforma rimane ancora il tempio della democrazia interna, ma fa da cornice alle liturgie di pochi garanti e garantiti. Riusciranno i novelli oligarchi a spiegare alla loro base non un accordo con il Pd, ma il fatto che sono diventati come gli altri? Con l’aggravante che la loro natura post-ideologica consente ai 5S di utilizzare i due forni meglio di Andreotti. Diranno che hanno stilato un nuovo contratto, questo rito della Terza Repubblica che nobilita ogni genere di ammucchiata e che fa tanto rimpiangere il bipolarismo di qualche anno fa. Almeno allora si potevano scegliere coalizioni, programmi e premier prima delle elezioni. Tra l’altro, a proposito di contratto, non può sfuggire un piccolo dettaglio di merito: Lega e M5S erano i vincitori di una tornata elettorale e, nell’impossibilità di formare un altro governo, hanno provato una convergenza di tipo contrattuale, sapendo in fondo che sarebbe durata poco.
Il contratto con le sinistre sarebbe invece una convenzione tra minoranze, come hanno sancito le ultime elezioni per il Parlamento europeo e per le amministrative. Non è la stessa cosa. E questo non sfuggirà a nessuno, almeno così ci auguriamo. In alternativa, avremo un’altra frattura tra la volontà popolare e le oligarchie. In attesa di riforme che possano tutelare la prima dalle seconde.
*Mario Ciampi, segretario generale Farefuturo

Prima l’unità politica, poi le autonomie

Può un ente territoriale consultare il corpo elettorale per attribuirsi una maggiore autonomia organizzativa, regolamentare e finanziaria, in ordine a materie e funzioni costituzionali? La questione, a ben vedere, riguarda la legittimità, prima ancora che la legalità costituzionale. Certo, la sua stessa proposizione segnala le incertezze in cui versa l’ordinamento repubblicano italiano, almeno a partire dalla riforma del 2001, con le contraddizioni aggravate negli ultimi anni dalla crisi globale e dal neocentralismo da essa indotto. Regionalismo compiuto e tendente al federalismo, che convive insieme alle spinte neocentraliste tese a limitare la frammentazione del potere politico: questo è il quadro che abbiamo dinanzi. Basti pensare ai vincoli di bilancio aggravati dalla crisi economica e alla risposta che lo Stato centrale deve fornire in termini di finanza pubblica. Il risultato è che uno Stato sempre più stretto nel ruolo di negoziatore degli interessi nazionali nelle sedi europee e internazionali, libera buona parte della funzione di governo a favore delle regioni e delle autonomie locali.

Il punto è che gli enti territoriali si sono trasformati molto rapidamente da enti funzionali all’indirizzo politico dello Stato a enti in grado di esprimere un indirizzo politico indipendente da quello della maggioranza politica che guida lo Stato.
Le esigenze di autonomia richiamate dall’art. 5 della Costituzione sono appunto costituzionali se sottendono quegli interessi generali che, seppure circoscritti in un ambito territoriale limitato, hanno il carattere della politicità. Il punto sta qui: la rivendicazione di più autonomia non è ipso facto rispondente agli interessi generali di una comunità che, se deve potenzialmente esprimere interessi politici, non può che essere nazionale. Le comunità territoriali esprimono sovranità e interessi politici parziali: solo lo Stato-nazione esprime interessi politici indivisi. La controprova? Prima o poi, più o meno esplicitamente, i territori che vogliono intestarsi degli interessi politici autentici sono quasi costretti a radicare queste rivendicazioni in appartenenze localistiche che si pretenderebbero autosufficienti, autarchiche in senso tecnico, e come tali originarie e fondanti. È il caso della Catalogna, per usare un esempio non italiano. In questa logica, le comunità regionali o sub-regionali verrebbero elevate al rango di popoli (o perfino di nazioni), e i loro enti territoriali si ritroverebbero nello Stato unitario solo per via pattizia, rinnovando pertanto il pactum temporaneamente e a determinate condizioni. Ora, è indubbio che un autonomismo di questo tipo trovi uno scoglio invalicabile nel principio di indivisibilità e unità della Repubblica, formulato all’art. 5 della Costituzione come condizione imprescindibile di qualsiasi decentramento e, a maggior ragione, di qualsiasi autonomia. È vero che dall’unità richiamata nell’art. 5 potrebbe derivarsi una certa elasticità rispetto all’unitarismo delle origini, ben oltre la concezione tipicamente amministrativa dell’unità politica, ma sempre entro i limiti dell’indivisibilità della Repubblica.

La stessa controversa riforma del Titolo V del 2001, nonostante avesse il fine di archiviare il “culto dell’uniformità” nel pensare l’unità politica, non ha mai inteso espungere dall’ordinamento costituzionale il primato dell’interesse nazionale. Si può discutere se questo primato possa convivere con il principio della parità degli enti costitutivi della Repubblica che quella riforma introdusse con il nuovo art. 114. A ben vedere, anche se la nuova formula dell’art. 114, comma 1 pone lo Stato come ente costitutivo inter pares con gli altri livelli istituzionali, l’interesse nazionale viene garantito dal nuovo art. 120 della Costituzione, comma 2, che stabilisce il potere sostitutivo del governo centrale in relazione a organi delle Regioni, delle Città metropolitane, delle Province e dei Comuni «nel caso di mancato rispetto di norme e trattati internazionali o della normativa comunitaria oppure di pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica, ovvero quando lo richiedono la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica e in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, prescindendo dai confini territoriali dei governi locali. La legge definisce le procedure atte a garantire che i poteri sostitutivi siano esercitati nel rispetto del principio di sussidiarietà e del principio di leale collaborazione». Diventa sicuramente più ardua l’applicazione di questo essenziale strumento dello Stato sussidiario, con il relativo intervento suppletivo dello Stato, se si assegnano a una regione le 23 materie richieste ad esempio dalla Lombardia.

In definitiva, quella scaturita dalla riforma del Titolo V è una forma di Stato più complessa e a geometria variabile, che ha ormai superato di gran lunga sia lo Stato unitario che lo Stato regionale classico, in una torsione sempre più marcata verso un federalismo tendenziale. Se poi aggiungiamo la previsione dell’art. 116 della Costituzione riformata sul “regionalismo differenziato”, abbiamo un quadro ancora più problematico e incerto: una forma di stato che oscilla tra un policentrismo ormai costituzionalizzato e l’esigenza di un neo-unitarismo spinto dalla crisi economica e dagli impegni internazionali. Questa situazione non può che generare conflitti crescenti tra parti della Repubblica. Conflitti che vengono aggravati da fattori del tutto esterni al formalismo costituzionale, ma intimamente connessi all’organizzazione del potere e alla sua legittimazione democratica. Uno di questi è il neo-feudalesimo, che in Italia rischia di essere più dirompente che altrove per cause storiche di facile lettura. In generale, nelle democrazie contemporanee è diventato più arduo individuare il decisore politico di ultima istanza, cosa che è direttamente collegata alla frammentazione dei centri di potere e della stessa sovranità, un tempo prerogativa esclusiva dello Stato moderno, anche nella sua versione liberale costituzionale. Per ritrovare la stessa unità politica, è necessario ricavarla dalle molteplici interdipendenze che, sul piano della teoria costituzionale, implicano una crescita a dismisura del lato pattizio-pluralistico della costituzione a fronte di una decrescita del valore costituzionale dello Stato-persona: lo Stato policentrico tende a rifiutare forme forti e personificate di espressione e rappresentazione dell’unità politica, per certi versi ne ignora il significato.

La questione da porsi, con queste premesse, è se nel caso italiano lo Stato possa ancora continuare a esercitare la sua funzione unificante, sebbene in concorrenza con altri enti costituzionalmente equiordinati. Abbiamo fatto cenno alla clausola dell’interesse nazionale e alle modalità di intervento dello Stato formulate nell’art. 120 della Costituzione. Ma forse la chiave di volta di un sistema così articolato non sta nei meccanismi previsti dalla Carta fondamentale o nella giurisprudenza costituzionale, che spesso si è pronunciata a favore della necessità di contenere le autonomie nell’ambito dell’unità e indivisibilità della Repubblica. Il policentrismo regge se lo anima uno spirito sussidiario autentico, che favorisce l’autonomia come l’intervento suppletivo dell’ente superiore a vantaggio dell’ente inferiore, quando quest’ultimo si trova nell’impossibilità o nell’incapacità di adempiere alle funzioni che gli sono proprie. In mancanza di una concordia tra gli elementi costitutivi della Repubblica, di un idem sentire che riconduca le parti al tutto, e le appartenenze territoriali alla comune appartenenza nazionale, ogni pretesa di autonomia diventa conflittuale rispetto a quella dell’ente vicino, e potenzialmente centrifuga. Proprio i sistemi federalisti più spinti necessitano di un senso della nazione più radicato, di un’amicizia civile più fondata. In assenza di una solidarietà con la comunità nazionale e con lo Stato, un policentrismo come quello attuale potrebbe consentire frammentazioni e separatismi, soprattutto se è motivato da un’appartenenza priva di ideali regolativi superiori.

Il foedus tra le parti costitutive della Repubblica deve passare dal ripristino dei valori simbolici dell’unità politica. E aggiungiamo, da una riforma presidenzialista che, con l’elezione diretta del Capo dello Stato, potrebbe controbilanciare le autonomie più spinte dando più forza al patto nazionale. In un Paese come il nostro, chi ha a cuore le esigenze più autonomistiche dei territori deve trovarsi e conciliarsi con chi meglio rappresenta le istanze unitarie e simboliche della nazione. Disgiungere il momento dell’autonomismo da quello dell’unità politica introduce, in un sistema già fragile come il nostro, spinte centrifughe di difficile controllo e rivendicazioni crescenti da tutte le parti. Non si può, in sintesi, riformare così nel profondo la forma di Stato a colpi di accordi bilaterali con le singole regioni e fuori da un organico ripensamento dei rapporti centro-periferia all’interno dell’ordinamento repubblicano. Forse è arrivato il momento di un’Assemblea Costituente che riporti ordine in queste materie e decida democraticamente e saggiamente che forma dare alla nuova Italia. Così si scoprirà forse che alcune competenze devolute alle regioni sarà meglio riportarle in capo allo Stato, se riguardano gli interessi nazionali più strategici. Certo, non possiamo accettare che in prospettiva lo Stato centrale si occupi residualmente dei cittadini dei territori più svantaggiati, mentre ce ne sono altri che vengono amministrati direttamente dai capoluoghi più virtuosi o semplicemente più volenterosi.

Sulla virtuosità poi di alcune zone rispetto ad altre, ci sarebbe tanto da dire in termini di storia politica ed economica del Paese, di investimenti fatti e di costi subiti, di flussi migratori interni e di classi dirigenti. Scattare un’istantanea sugli attuali divari, non è mai un’operazione pienamente corretta. In ogni caso, rimane valida l’affermazione di Minghetti: «nessuno oserebbe di discentrare l’amministrazione a tal grado che può mettere a repentaglio l’unità politica e civile».

*Mario Ciampi, segretario generale Fondazione Farefuturo

Sovranisti, non populisti. Per il bene (ed il benessere) della Nazione

Venerdì 16 partirà la Scuola di formazione della fondazione Farefuturo. Il primo corso è dedicato alla definizione di un tema di stretta attualità, «Sovranismo vs Populismo», per noi una vera e propria “emergenza” in vista della cruciale campagna elettorale per le Europee del 2019. Per chiarire la chiave di lettura del corso e la necessità di dotare le forze politiche identitarie di un’offerta politica all’altezza della sfida epocale ci affidiamo alle riflessioni del professor Mario Ciampi, coordinatore del Corso.
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Il sovranismo e il populismo sono culture solo in apparenza sovrapponibili. Sono tante le differenze tra questi due filoni di pensiero e di azione, ma a distinguerli è soprattutto la visione che hanno sulla formazione della classe dirigente. Il populismo predica la sovrapposizione tra il popolo e le élite. Chi è chiamato a decidere deve semplicemente applicare la volontà del popolo, che si presume monolitica, empirica, generale. Per questo, il populismo non ha bisogno di una vera classe dirigente: vi è in esso la presunzione di una perfetta coincidenza tra chi comanda e chi ubbidisce, fino a prefigurare l’abolizione della rappresentanza politica e dello stesso Parlamento. Anzi, quando è davvero ispirato, pretende perfino che i rappresentanti vengano scelti per sorteggio, che chiunque possa diventare parlamentare o ministro senza passare da percorsi selettivi, pur essendo evidente a tutti che non abbiamo una società paragonabile all’antica Grecia o alla Repubblica di Venezia. Nell’attuale scenario politico europeo e forse internazionale, il populismo più rigoroso è incarnato proprio dal Movimento 5 Stelle.
Il sovranismo, su questo punto cruciale della formazione della classe dirigente, deve esprimere tutt’altro indirizzo. Certo, la sua aspirazione è quella di recuperare la centralità del popolo e della nazione contro le derive tecnocratiche del potere, ma per realizzarla non può disdegnare i meccanismi della rappresentanza e la designazione di una dirigenza politica capace e responsabile. È lo stesso bene della nazione che lo richiede. Il sovranismo dovrebbe sentire come prioritaria questa missione: mettere i migliori e i più meritevoli in condizione di servire la nazione e il suo legittimo interesse. Esso crede ancora, nonostante tutto, che la politica sia un lavoro intellettuale, un beruf, una vocazione. E anche per questo ha il senso della storia, della tradizione, dell’appartenenza. Che oppone alla subcultura dello sradicamento, ancora per poco tempo dominante su scala planetaria.
Insomma, la formazione alla politica è una funzione essenziale per l’affermazione del sovranismo, o almeno di un sovranismo corretto dal realismo della cultura conservatrice, di un sovranismo come dovrebbe essere a destra, non velleitario, non di facciata. Del resto, per rappresentare al meglio l’interesse nazionale in un mondo così complesso come quello attuale, non si può fare gli alchimisti stregoni. Bisogna saper interpretare lo scenario interno ed esterno, sapere come attuarle certe trasformazioni, come guidarle. Se il populismo può permettersi di ricavare (a parole) l’ordine dal caos, il sovranismo deve dotarsi di un criterio ordinatore, che va quindi rigorosamente pensato e applicato. A partire dalla ricerca e dalla formazione. Sarà forse meno epico, ma noi crediamo nell’epica delle piccole cose.

*Mario Ciampi, segretario generale Fondazione Farefuturo

Uscire dallo "stallo" con lo spirito che emerge dalla Nazione: il presidenzialismo

Ci risiamo, governo tecnico o di scopo o “neutrale”, nell’ultima versione appena coniata. La giusta condanna di una legge elettorale che non poteva non produrre questo risultato. Intanto qualcuno si gode il teatrino da dietro le quinte. E si ritorna alla consueta campagna elettorale, che non si è mai dismessa completamente, come un attrezzo che si tiene a portata di mano, pronto all’uso. Questa crisi istituzionale è piena di lezioni, per chi vuole sentirle. In primo luogo, lo scollamento tra il sistema dei partiti e la Presidenza della Repubblica. Una volta, quando davvero i governi si facevano in Parlamento, bastava un appello del Quirinale per mettere insieme partiti anche molto diversi. Era l’Italia che aveva scelto di essere proporzionale, questa è invece proporzionale a sua insaputa. O forse è proporzionale nel fisico, ma è rimasta maggioritaria nella mente. Quell’Italia aveva una classe dirigente omogenea, coesa, che si divideva certo in partiti diversi, ma si riconosceva prima ancora nella democrazia rappresentativa e in una certa idea dell’Italia. Il trasformismo era sano e benedetto, una tradizione almeno dai tempi di Depretis. Il sistema internazionale faceva il resto.

Ebbene, è cambiata la costituzione materiale. Questo non si può più negare. A nessuna personalità che non sia legittimata direttamente dal popolo si possono affidare completamente le sorti dell’Italia. Non è questione di carisma o di piglio decisionale. La crisi è più sistemica e più profonda. L’Italia ha la necessità di un momento catartico, di un’Assemblea costituente che traduca nella Carta quello che è ormai nello spirito della nazione, partendo dal presidenzialismo. Occorre riportare nell’alveo costituzionale quel fiume carsico del plebiscitarismo che altrimenti rischia di esondare con modalità più incontrollabili. Assumerlo nelle giuste dosi. Del resto, la democrazia contemporanea, ormai ovunque, non si esaurisce nella rappresentanza, non è più soltanto una democrazia dei partiti. Soprattutto non è più una serie di liturgie.

La seconda lezione di questa crisi è proprio sul sistema dei partiti. Cosa potevamo aspettarci da soggetti politici che si sono delegittimati a vicenda per l’intera legislatura passata? È difficile stringere accordi tra avversari, quasi impossibile tra nemici, tanto più se si assegna agli incendiari il compito che spetta ai pompieri. In certi casi, non basta l’Italia come denominatore comune. Tra l’altro, nell’epoca della vittoria del marketing sulla cultura politica, non ci si può permettere flessioni dell’indice del consenso: come in borsa, i sondaggi sono quotidianamente a segnalare le oscillazioni dei titoli e a orientare spasmodicamente un tweet o un’intervista. Resta il rammarico per il mancato tentativo del centrodestra: un mandato pieno dato a un esponente leghista sarebbe stato l’unico modo per esplorare la possibilità di un governo politico per il Paese. Ora la sfida è tenere unita la coalizione alle prossime elezioni politiche e dopo. Ma intanto ci deliziamo con l’insostenibile leggerezza del voto, commedia estiva rigorosamente all’italiana.

*Mario Ciampi, segretario generale Farefuturo