Redazione

Hong Kong è la nuova Berlino Ovest

Come Berlino negli anni ’70, Hong Kong è diventata frontiera che divide il mondo libero dall’autoritarismo cinese. Non possiamo abbandonarla. Non possiamo abbandonare Joshua Wong e gli altri ragazzi finiti in carcere per la libertà. Il commento di Adolfo Urso, senatore di Fratelli d’Italia e vicepresidente del Copasir

Hong Kong oggi è come Berlino negli anni Sessanta. È li che si scommette il destino del mondo, il nostro futuro di libertà. Perché Hong Kong come Berlino è la cartina di tornasole di quello che sarà il nostro destino se la Cina dovesse dispiegare la sua supremazia nel mondo.
Se la Cina dovesse conculcare, come purtroppo sta facendo, le libertà e le prerogative di Hong Kong, sancite da accordi internazionali, vuol dire che conculcherà anche le nostre ove avesse la possibilità di farlo. Ed oggi sappiamo che tende a farlo come dimostrano le vicende di questi anni, di questi mesi. E come dimostra in modo drammatico l’evoluzione della situazione a Hong Kong: la repressione delle manifestazioni, l’espulsione di parlamentari dissidenti, cioè democratici, dalla Assemblea legislativa, la nuova e liberticida legge sulla sicurezza nazionale.
La postura della Cina con Xi Jinping è profondamente cambiata, rispetto al recente passato – quando tutti noi la consideravano come un grande promettente mercato e sicuramente un partner importante e millenario con cui crescere insieme; è profondamente cambiata, come dimostra la corsa al riarmo, la realizzazione di portaerei e sommergibili, le rivendicazioni territoriali e marittime, le ripetute minacce a Taipei, la costruzione di basi militari lungo la via della Seta, come a Gibuti, la politica del debito e degli appalti lungo il corridoio commerciale, gli investimenti in tecnologia dual use e nella costruzione della supremazia del 5G e della intelligenza artificiale, persino la politica sanitaria e le menzogne sulla pandemia, così come la corsa all’accaparramento delle materie prime e la penetrazione negli organismi internazionali.

Tutto sembra rispondere alla volontà di dominio consacrata anche in importanti modifiche costituzionali e legislative, di fatto espansioniste e imperialiste. Per questo, anche per questo, la “battaglia” di Joshua Wong e degli altri giovanissimi combattenti per la libertà, è eroica e va da noi sostenuta sino in fondo in ogni consesso istituzionale e in ogni ambito. Joshua combatte da quando aveva solo 13 anni, è stato arrestato più volte in sette anni, ha svegliato la sua generazione con la protesta degli “ombrelli”, sembrava che potesse “scuotere” anche la Cina, sino a quando il Covid non ha consentito di estendere il controllo totalitario in ogni ambito sociale. Ora dovrà scontare almeno 13 mesi di carcere ma la sua mite immensa forza d’animo non è stata piegata dalla minaccia delle sbarre.

Noi dobbiamo fargli capire che il mondo gli è vicino anche dentro quelle mura, perché lui lotta anche per noi e soprattutto per i nostri figli. Solo se il mondo prende coscienza della posta in palio sarà davvero possibile tutelare le libertà dei giovani di Hong Kong oggi, così da tutelare le nostre libertà domani.

Dobbiamo presentare mozioni in ogni assemblea a partire da quelle parlamentari, senza distinzione di parte, per impegnare il governo a porre la questione di Hong Kong e la libertà dei giovani arrestati e le prerogative sancite dai trattati internazionali come tema prioritario nei nostri rapporti diplomatici, nel contempo  dobbiamo scuotere l’opinione pubblica perché solo la manifesta solidarietà del mondo nei confronti dei giovani incarcerati può convincere le autorità cinesi che la politica imperialista non produce frutti perché allarma tutti.

L’unica cosa di cui Pechino ha davvero timore è l’opinione pubblica mondiale, proprio perché in Cina non esiste e non può esistere una opinione pubblica.

Noi siamo convinti che con la Cina, con il popolo e con il governo cinese si possa e si debba operare senza pregiudizi di alcun tipo ma anche senza alcuna sudditanza. Per questo speriamo che il mondo alzi oggi la voce a sostegno di Joshua Wong e degli  altri combattenti per la libertà  perché domani potrebbe essere troppo tardi. Hong Kong è come Berlino, siamo tutti cittadini di Hong Kong!

*Adolfo Urso, presidente Fondazione Farefuturo

Fonte Formiche.net

Maradona, l’ultimo samurai

Se ne è andato il 25 novembre, come Mishima. E come lui a suo modo fu un Samurai. Aveva il mito di Fidel e sul braccio tatuato el Che. Eppure era uno di noi Diego: l’orgoglio di chi non si è arreso, il sangue dei vinti nelle sue vene.

Quel 22 giugno dell’86 la mano de Dios umiliò l’Inghilterra, fu il riscatto sia pure per un istante dei popoli sottomessi alla forza di chi ha vinto e che vuole continuare a governare il mondo. Non fu solo una partita di calcio quella giocata all’Azteca ai quarti di finale del mundial in Messico. Fu il grido di vendetta delle centinaia di morti dell’incrociatore General Belgrano mandato picco pochi anni prima dai siluri sganciati da un sottomarino nucleare britannico inviato alle porte dell’Argentina a ribadire che le Falkland non possono essere Malvinas e che non è consentito sfidare l’impero. La mano de Dios quel giorno rifulse come la rabbia di di un popolo,  come l’eco del sogno di Evita,  l’illusione di riscatto dei poveri, il canto del sangue  che contro l’oro fa la storia.

Diego era uno scugnizzo nato di Argentina. Gli scugnizzi di Napoli o delle favelas di tutto il mondo hanno la stessa faccia, quella dei bronzi ottocenteschi di Vincenzo Gemito. Belli e maledetti. Lui basso, tarchiatello, eppure una magia, un sogno tra gli altari e la polvere.

Dietro il tocco magico di quello scugnizzo un popolo intero si incantò. Dal San Paolo ai vicoli senza sole con lui smarrì l’amarezza di una vita avara e dell’ingiustizia che opprime. Fu tammurriata  e tango da Forcella ai quartieri spagnoli, dalla Duchesca , al Vomero, a Posillipo.

Due campionati in vetta non segnarono solo un risultato di calcio. Furono lo schiaffo alla Juventus abbonata agli scudetti, alle squadre blasonate abituate a vincere sempre. Diego, lui diventato ricco e coi diamanti all’orecchio, fu comunque uno sberleffo in faccia alla ricchezza, Fu la contraddizione del vivere, l’inferno fuori e dentro ognuno di noi. Fu come un’illusione nascosta che ti fa ritrovare la voglia di vivere e di lottare quando nel profondo dell’animo senti che è buio anche a mezzogiorno, quando gli altri hanno ragione e tu hai sempre torto, quando le anime belle sono corrette e tu sempre dalla parte sbagliata.

Una vita sbagliata anche la sua. La gloria e l’abisso. La vita di un ribelle che uccide se stesso, e il suicidio che grida la voglia di identità. Come Mishima, l’ultimo Samurai.

*Angelo Belmonte, giornalista parlamentare

 

Indennizzi, non ristori. Le imprese venete con Urso

“Indennizzi, non ristori. Serve sostegno allo sviluppo e non pioggia di bonus”. Questo l’appello delle imprese del Veneto emerso durante il webmeeting svoltosi lunedì sera per iniziativa del Dipartimento Impresa e Attività produttive di Fratelli d’Italia guidato da Adolfo Urso e a cui hanno partecipato i parlamentari nazionali e regionali del partito e centinaia di imprenditori e rappresentati delle categorie produttive del Veneto e decine di amministratori locali.

“Una grande prova di forza e di unità di una vera squadra di governo in piena sintonia con chi lavora e produce”, ha detto Urso.
Grande attenzione sul tema: “Come sostenere il sistema produttivo. Le proposte di Fratelli d’Italia per migliorare il “decreto ristoro e la legge di Bilancio”. Con i rappresentanti delle imprese che hanno portato le loro esigenze e le ipotesi di modifiche legislative per salvare una situazione che rischia di pregiudicare gli assetti sociali e produttivi del Paese.

Sono intervenuti, tra gli altri, con il responsabile nazionale del Dipartimento, sen. Adolfo Urso, il Coordinatore regionale Luca De Carlo, il capogruppo regionale Raffaele Speranzon, l’assessore Elena Donazzan, i parlamentari Ciro Maschio e Cristina Carretta, i consiglieri regionali, Daniele Polato, Tommaso Razzolini, Enoch Soranzo. Hanno partecipato i rappresentanti del sistema produttivo e degli enti locali del Veneto, artigiani, commercianti, agricoltori, imprenditori, professionisti e albergatori.

Un confronto utile per ascoltare le categorie produttive e concordare le misure necessarie per il sistema economico e sociale del Veneto in Regione e nel Parlamento nazionale. Tra gli altri: Renato Della Bella, presidente Confimi Industria Veneto – Marco Michielli, vicepresidente Federalberghi e presidente Federalberghi Veneto – Marco Maggia, vicepresidente Federterme – Vincenzo Marinese, presidente Confindustria Venezia-Rovigo – Maurizio Danese, presidente Fiera di Verona e Aefi – Lino Ricchiuti, viceresponsabile Dipartimento Impresa – Giuliano Dal Magro, vicepresidente regionale FIAIP e delegato regionale settore turistico – Paolo Arena, presidente Aeroporto di Verona – Sergio Moset, Confartigianato Veneto – Stefano Lecca, imprenditore – Giancarlo Mazzi, manager spettacolo. Hanno collaborato Giada Bevacqua, responsabile ufficio legislativo Fratelli d’Italia al Senato e Alessandro D’Antoni, ufficio studi Fratelli d’Italia al Senato, con la regia di Matteo Gelmetti, vicepresidente Veronafiere e Tommaso Tommasi.

 

Video del Forum

GEOPOLITICA E COMMERCIO ESTERO

In occasione della presentazione del terzo Rapporto AWOS presentato giovedì 15 ottobre ore 12 presso la Sala Caduti di Nassirya del Senato, pubblichiamo la prefazione del Senatore Adolfo Urso.

Le sanzioni internazionali, le restrizioni commerciali, le guerre doganali sono ormai divenute realtà emergenti nel commercio estero. Tutti i giorni nelle cronache degli affari internazionali si trovano sempre più esempi della loro crescente rilevanza, nel bene e nel male. Su base ormai quotidiana si minacciano sanzioni, si discutono nuovi regimi sanzionatori, si rinnovano quelli in corso, si bloccano conti correnti, si listano persone fisiche, imprese e navi; si impedisce l’export di certe tecnologie o si pongono dazi per motivi politici.

Non con la stessa frequenza con cui sono messe, ma le restrizioni economiche vengono anche tolte o ammorbidite; si delistano entità, si tolgono Paesi dai regimi sanzionatori, si fanno accordi internazionali che pongono le basi per la rimozione delle barriere. Il Sudan è da poco uscito dalle sanzioni internazionali, gli Emirati Arabi Uniti hanno tolto l’embargo ai prodotti israeliani mentre il presidente Trump sta corteggiando il presidente Nord Coreano per giungere ad un accordo che potrebbe sbloccare quello che è il regime sanzionatorio più esteso del mondo.

Non solo gli Usa, ma anche l’Unione Europea hanno ormai identificato le sanzioni, le numerose forme di export control e gli screening degli investimenti in entrata come uno degli strumenti indispensabili nelle relazioni internazionali di un mondo sempre più post-globale. Basta seguire le riunioni del Consiglio degli Affari Esteri dell’Unione Europea che si tengono a Bruxelles per vedere ormai che le sanzioni sono divenute il principale, se non l’unico, strumento di politica estera e di sicurezza dell’UE.

Purtroppo non tutti i regimi sanzionatori e di controllo sono giusti o necessari. Lo è quello che colpisce il regime di Maduro in Venezuela. Altri, come quello verso la Russia, appaiono essere superati e non più in grado di raggiungere gli obiettivi originali. In mezzo a questi due estremi ve ne sono tanti altri. L’Unione Europea ha in vigore ben 37 regimi sanzionatori, grandi e piccoli. Poi vi sono quelli americani che a volte, come nel caso di Cuba ed in quello dell’Iran, possono colpire aziende europee anche extraterritorialmente.

La domanda fondamentale a questo punto diventa: cosa può fare un Paese come l’Italia per far si che l’interesse nazionale non venga danneggiato dai regimi sanzionatori e dalle altre restrizioni, vincoli e controlli agli scambi economici internazionali? Purtroppo i governi italiani non sempre sono riusciti a conciliare l’adesione ai regimi sanzionatori con la tutela degli interessi economici italiani e con la sicurezza economica del nostro Paese. Il risultato è che abbiamo spesso visto danneggiati i nostri esportatori ed abbiamo assistito ad indebolimento del nostro sistema produttivo su mercati internazionali. L’Iran e la Russia sono due casi esemplari, da questo punto di vista. Due mercati chiave per l’internazionalizzazione delle nostre imprese dove l’Italia ha perso quote di mercato proporzionalmente più ampie di quelle perdute da altri Stati europei o altri Paesi concorrenti. Per l’effetto delle sanzioni o l’Europa ha perduto quote di mercato importanti mentre i nostri avversari commerciali finivano per avvantaggiarsi delle limitazioni alle nostre esportazioni. La Cina, ad esempio, ma anche l’India o la Turchia sono Paesi che hanno beneficiato delle sanzioni varate dall’Occidente.

Per l’Italia esiste poi un altro problema da prendere in considerazione, ossia la struttura dell’impresa italiana, per lo più di minore dimensione di quella di altri paesi nostri concorrenti. Ciò comporta inevitabilmente maggiori difficoltà e costi nella gestione del rischio Paese, nel monitorare e nell’adattarsi alle norme sanzionatorie internazionali.

Il mondo delle sanzioni e delle restrizioni al commercio internazionale non rappresenta dunque solo una sfida per il rispetto delle norme internazionali, ma anche per la competitività globale dell’Italia.  I Paesi che sanno produrre sanzioni, sanno negoziare quali sono le merci e le imprese da includere e quelle da lasciare fuori; che sanno ricercare ed ottenere le giuste eccezioni nella costruzione dei regimi sanzionatori, possono ridurre il danno o addirittura sfruttare le restrizioni per aumentare le proprie quote di mercato.

Per fare questo lavoro, per nuotare anche contro la corrente di una crescente pressione sanzionatoria  servono aziende di grandi dimensioni produttive e finanziarie; ma soprattutto serve che lo Stato sia molto vicino alle imprese, soprattutto le medio-piccole, proteggendole dalle distorsioni che l’applicazione indiscriminata dei sistemi restrittivi del commercio estero può produrre.

In molti casi l’Italia appare purtroppo non aver tratto alcun giovamento ma danni economici dai principali regimi sanzionatori cui il nostro Paese ha aderito, spesso senza poter adeguatamente intervenire nei momenti in cui sono preparati e costruiti gli stessi regimi sanzionatori. Anche per questo, sarebbe necessario che l’Italia fosse più assertiva in seno all’Unione Europea in quelle fasi in cui sono costruiti gli impianti delle sanzioni, anche indirizzando l’Unione europea a valutare meglio le conseguenze economiche di una politica delle sanzioni prolungata nel tempo e a realizzare una politica più  stringente nel campo degli  accordi laterali preferenziali con particolare attenzione ai mercati per noi più promettenti. Le sanzioni hanno senso se sono dirette, condivise e applicate da tutti, di breve durata ed effettivamente efficaci. Quando si prolungano nel tempo, senza raggiungere gli obiettivi, diventano controproducenti per chi li applica e anche per le popolazioni che li subiscono.

Se le sanzioni sono un male necessario, dobbiamo però prendere atto che esistono sanzioni accettabili per il sistema produttivo, sanzioni neutre e sanzioni pessime. Ogni Paese fortemente legato al commercio internazionale deve dunque dotarsi di una politica delle sanzioni, che consente di pilotare gli esiti sanzionatori in maniera compatibile o meno sfavorevole possibile agli interessi economici e nazionali. Questa capacità di governo delle sanzioni è oggi divenuta una vera necessità per la sicurezza economica nazionale. Il progetto AWOS – A World of Sanctions e i rapporti annuali su geopolitica e commercio estero che questo think tank realizza rappresentano ormai da molti anni in Italia un importante punto di dibattito per lo studio e l’analisi delle sanzioni e dell’export control.

*Adolfo Urso, vicepresidente Copasir

 

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IL GRANDE MEDIO ORIENTE È ANCHE IN ITALIA

Questo saggio di Gabriele Checchia, ambasciatore, già rappresentante permanente d’Italia presso la Nato, è stato pubblicato nel Rapporto Nazionale “Italia 20.20” della Fondazione Farefuturo.

A chi gli chiedeva valutazioni sulle crisi ai suoi tempi in atto nello scacchiere mediterraneo, il compianto Fernand Braudel era solito rispondere: «…quando mi si parla di Mediterraneo, ho bisogno di pensare la totalità». Il grande storico francese intendeva in tal modo porre in luce come una lettura delle dinamiche mediterranee disancorata dalla dimensione geo-politica ben più ampia all’interno della quale il Mediterraneo in senso stretto si colloca (dall’Africa sub-sahariana oggi tornata prepotentemente di attualità con la pressione esercitata dai flussi migratori verso l’Europa, all’area del Golfo la cui rilevanza strategica è sin troppo evidente…) rischi di rivelarsi di scarsa utilità per chi voglia avvalersene ai fini della messa a punto di strategie di natura politico/diplomatica/securitaria. Ecco perché soprattutto da parte statunitense – sostanzialmente a partire dalla seconda metà degli anni ’80 del secolo scorso – si è ritenuto opportuno affiancare, se non in molti casi sostituire, al concetto di Mediterraneo allargato quello di «Grande Medio Oriente».

Se le due formulazioni coincidono in generale sulla direzione dell’«allargamento» verso zone tradizionalmente considerate propaggini naturali del bacino mediterraneo, esse si differenziano per la prospettiva con la quale guardano alle aree in questione. Nel Mediterraneo allargato il baricentro è da individuare nel bacino mediterraneo mentre Golfo Persico e Caucaso ne costituiscono la turbolenta periferia; nella formula del «Grande Medio Oriente» è il bacino mediterraneo a giocare un ruolo secondario poiché il centro del sistema è spostato più a est, nella Penisola arabica e nel Golfo Persico con tendenza a proiettarsi verso l’ancora più lontano scacchiere indo-pacifico.

Di tale interrelazione tra le due aree prova evidente è fornita proprio in queste settimane dalle complesse dinamiche e reazioni di vario segno innescate nell’insieme dello scacchiere dalla eliminazione da parte statunitense, lo scorso 3 gennaio, del generale Qassem Suleimani, di fatto il numero due del regime iraniano (nonché la figura più vicina alla Guida Suprema, l’ayatollah Khamenei). Eliminazione che – pur se notoriamente avvenuta in risposta alle gravi provocazioni e attacchi da parte di Teheran nei confronti degli interessi statunitensi e occidentali nella regione – ha colto di sorpresa anche molte capitali «alleate» (tra cui la nostra) aprendo questioni non secondarie: ad esempio in termini di livello auspicabile (doveroso?) di concertazione per il futuro tra Washinton e gli «alleati» in particolare in aree – come quella del «Mediterraneo allargato/ 187 Grande Medio Oriente» – nelle quali contingenti di Paesi alleati sono impegnati a vario titolo sul terreno in diversi, e sovente contigui teatri, nel segno di condivisi valori e obiettivi. Basti pensare per quanto riguarda il nostro Paese, e per tornare a un tema che ho già evocato, ai circa 800 nostri militari ancora dispiegati in Afghanistan con cappello Nato seppur in missione «no combat», ai poco meno di 1000 schierati in Iraq nel quadro della coalizione anti-Daesh a titolo bilaterale o multilaterale (nonostante la sospensione in atto delle attività addestrative, sulla scia della vicenda Suleimani e delle minacciate ritorsioni da parte iraniana), agli oltre 1000 da tempo dispiegati nel Libano meridionale nel quadro della missione UNIFIL II.

Tutto ciò in un momento nel quale – a ulteriore conferma della particolare complessità della presente congiuntura missione – poco più a «ovest» gli interventi su fronti opposti di Turchia e Russia in Libia (solo in parte – e non si sa per quanto tempo… – riassorbiti dalle decisioni adottate in occasione della Conferenza di Berlino dello scorso gennaio) stanno evidenziando come siano in gioco in quell’area interessi di straordinario rilievo: vale a dire non solo le grandi commesse legate al petrolio e al gas ma anche, se non soprattutto, la individuazione di chi – sullo sfondo del «disimpegno» statunitense da quel teatro – sarà chiamato a esercitare l’egemonia sul bacino mediterraneo. E perciò stesso, maggiore capacità di influenza, se non di vero e proprio condizionamento, sulle economie che vi si affacciano (Italia in primis).

Su uno sfondo di tale problematicità, fluidità e rilevanza, il nostro Paese per la sua collocazione geografica – ma anche per sua identità e storia di Nazione da sempre refrattaria a visioni manichee delle relazioni tra Stati e culture – è inevitabilmente (naturaliter, direbbe Tertulliano) chiamato a svolgere un ruolo di «fulcro» o quantomeno di catalizzatore degli sforzi in atto, o da avviare, per una «stabilizzazione sostenibile» dello scacchiere. Vocazione legittimata altresì – mi sembra doveroso osservare – da un ulteriore fattore tutt’altro che secondario: vale a dire dal prestigio maturato in questi ultimi decenni anche a livello internazionale dalle nostre Forze Armate impegnate in missioni della più varia natura (da quelle Ue a quelle onusiane a quelle in ambito Nato) nei più diversi teatri, con senso del dovere, professionalità e risultati oggetto di unanime apprezzamento.

In altri termini, credo spetti all’Italia far valere al meglio il proprio tradizionale ruolo di «media potenza regionale» consapevole, certo, dei propri limiti (è questo un segno di maturità specie se raffrontato al velleitarismo di altri importanti attori europei…) ma anche delle proprie potenzialità: a cominciare da quella di credibile (ben più di altri, a condizione di sapere come muoversi…) «facilitatore» di dialogo tra interlocutori con agende sovente divergenti ma per così dire obbligati – salvo voler davvero mettere a repentaglio la pace 188 e la sicurezza nella Regione – a ricercare modalità di coesistenza foss’anche nel segno di un minimo comun denominatore al ribasso. Penso, ad esempio, alla preziosa azione di ricucitura che il nostro Paese (e la nostra diplomazia) potrebbero svolgere, ove del caso, per scongiurare un non impossibile emergere di difficoltà nelle relazioni tra la Nato e l’Unione Europea qualora la Turchia a guida AKP decidesse, per qualsivoglia motivo, di far venir meno il necessario «consensus» in ambito atlantico sulla opportunità di andare avanti nel percorso da tempo avviato di accresciuta collaborazione tra le due Organizzazioni. O, ancora, al contributo che da parte italiana si potrebbe fornire, ove ciò fosse auspicato da parte statunitense, alla ricerca di un «modus vivendi» tra gli Stati Uniti e un Iran a guida Khamenei nella ancor più difficile fase apertasi con l’uscita di scena di Qassem Suleimani e le successive ritorsioni della Repubblica islamica attraverso le milizie ad essa fedeli in Iraq, in primis Kataib Hezbollah. Mi concentrerò dunque proprio su quella estensione a est e a sud-est del Mediterraneo che configura, nella accezione comune, il «Grande Medio Oriente». Cercherò di evidenziare taluni versanti che ritengo di prioritario rilievo per la tutela dal nostro interesse nazionale, lasciando ad altri l’analisi nel dettaglio di crisi in atto a ovest di tale scacchiere: come quella in Libia, di perdurante gravità, e con rilevanti implicazioni per il nostro Paese.

Da un punto di vista di ordine generale non vi è dubbio che nostro precipuo interesse, anche in termini di contenimento della minaccia terroristica, sia proprio la ricerca di quella «stabilità sostenibile» che ho sopra evocato. Il progressivo emergere di una regione mediterranea, nel senso più ampio del termine, sicura e stabile è infatti indispensabile sia per l’Italia che per l’Europa nel suo complesso della quale il nostro Paese costituisce, per così dire, la frontiera avanzata.

È sfida complessa ma da raccogliere per almeno due ordini di motivi: il primo, cui ho già fatto cenno, connesso alle implicazioni che la maggiore o minore stabilità e affermazione di una buona governance nell’area (seppure con le specificità dettate dai singoli e assai diversificati contesti socioculturali) riveste sotto il profilo della nostra sicurezza; il secondo, legato alla nuova rilevanza strategica che la Regione in parola è in questi anni venuta acquisendo.

Oltre che per le sue implicazioni di sicurezza, l’odierno Mediterraneo allargato e la sua propaggine rappresentata dal Grande Medio Oriente è infatti venuto guadagnando, da qualche anno a questa parte, crescente rilievo anche come «piattaforma di connessione globale»: il raddoppio del canale di Suez, le ricadute dell’allargamento di quello di Panama, le recenti scoperte energetiche nelle sue acque orientali (il c.d. «Levantine basin») e l’ambizioso progetto – dalle implicazioni non necessariamente rassicuranti… – di «Via della Seta» spregiudicatamente 189 portato avanti dall’attuale dirigenza cinese, fanno infatti del Mediterraneo allargato/Grande Medio Oriente uno snodo cruciale sul piano infrastrutturale, dei trasporti e delle reti logistiche.

Se questi sono dunque alcuni dei versanti suscettibili di beneficiare di un contributo del nostro Paese in un’ottica di stabilità regionale è doveroso porsi anche il quesito di quali siano i settori da curare in via prioritaria ai fini della tutela del nostro «interesse nazionale» in senso stretto, nonché quello degli strumenti e/o delle «policies» più idonee al perseguimento di tale obiettivo. Tre mi sembrano i terreni cui rivolgere speciale attenzione. Il primo è quello relativo, appunto, alla sicurezza nell’accezione più ampia del termine: dal ritorno, dunque, di accettabili condizioni di stabilità e governance condivisa in Siria (e per certi versi in Iraq dove continuano gli scontri tra le milizie sciite pro-iraniane e le forze statunitensi colà presenti in funzione anti-Daesh) al contrasto al terrorismo che proprio nell’area in parola trova da tempo una delle principali fonti di reclutamento. Sarà pertanto essenziale che il nostro Paese continui a figurare tra i principali provider di sicurezza nella Regione attraverso gli strumenti già in atto (e altri che dovessero essere in prospettiva posti in essere a livello internazionale): dal nostro tradizionale contributo di primo piano alla missione UNIFIL II nel Libano meridionale; all’Iraq, dove – in aggiunta al nostro significativo ruolo di co-presidenza del Gruppo di lavoro per il contrasto al finanziamento del Daesh – figuriamo tra i principali contributori di truppe alla «coalizione anti-Daesh», oltre che in prima linea nell’addestramento delle forze di sicurezza e polizia irachene (nonostante la recente sospensione, per i noti motivi, di tali attività di formazione che c’è da augurarsi possano al più presto riprendere).

Sotto tale profilo appare dunque condivisibile la proposta avanzata dal ministro Di Maio di una riunione a Roma – in tempi per quanto possibile ravvicinati e non appena superata la drammatica pandemia del corona virus – per un punto della situazione, e uno scambio di vedute su come ulteriormente procedere, tra i ministri degli Esteri degli 84 Paesi membri della coalizione: coalizione la cui area di interesse andrebbe però, ad avviso italiano, estesa alla turbolenta regione del Sahel. Sempre in relazione alla regione del Sahel, dalla quale continua a provenire buona parte dei flussi migratori che investono il nostro Paese e l’Europa, sarà indispensabile per l’Italia continuare a battersi a Bruxelles, e in ogni appropriata istanza, per una sostanziale modifica delle regole sull’asilo europeo (in sostanza per modificare in senso per noi meno penalizzante il Regolamento di Dublino), nonché per dare impulso ai rimpatri assistiti. In sostanza nostro obiettivo – non facile da raggiungere ma da perseguire con determinazione – deve essere quello 190 di fare sì che l’Europa cominci a muoversi in materia di asilo in base a risorse e norme chiare ed equilibrate oltre che con interventi rapidi ed efficaci.

Basterebbe, a comprovare l’urgenza di una nostra forte azione in Europa volta a far sì che il tema del contenimento dell’immigrazione illegale figuri tra le priorità della nuova Commissione – oltre che del Consiglio e dell’Europarlamento – la situazione drammatica che continua a registrarsi al confine tra Turchia e Grecia e l’esito sinora interlocutorio (a essere ottimisti) dei contatti ad alto livello in corso tra l’Unione europea e la Turchia per la ricerca di una soluzione concordata al problema. Da una angolazione più generale, un segnale indubbiamente incoraggiante – frutto anche delle sollecitazioni in tal senso che sta da tempo rivolgendo alla Commissione Europea il nostro Paese – appare l’indicazione di una prossima proposta della stessa Commissione per un superamento del Regolamento di Dublino fornita dal commissario agli Affari Interni, Ylva Johansson, in occasione di una sua recente visita d Atene per valutare da vicino la difficile situazione in quel Paese.

Tornando al dramma siriano sarà per noi indispensabile continuare a fornire sostegno ai processi politici rivolti a individuare soluzioni «non militari» alle diverse crisi in atto nell’area promuovendo – sempre di concerto con i nostri partner e alleati a cominciare dagli Stati Uniti – un «dialogo inclusivo» e la ownership degli attori locali: come nel caso del conflitto siriano (sempre avendo come «stella polare» la Ris. 2254 del Consiglio di Sicurezza del dicembre 2015) e di quello yemenita. Un ruolo all’altezza delle nostre potenzialità per la soluzione della crisi siriana così come la prosecuzione delle importanti iniziative da noi già avviate a supporto dei rifugiati nei Paesi limitrofi ci potrà/dovrà tra l’altro consentire di essere adeguatamente posizionati allorché decollerà – ciò che prima o poi non potrà non avvenire – la ricostruzione di quel martoriato Paese. In termini di valore aggiunto arrecato dal nostro Paese all’ individuazione di una soluzione politico- diplomatica alla crisi siriana, da noi da sempre caldeggiata, va certamente registrata in positivo la riunione a Roma nei mesi scorsi, su iniziativa della Farnesina, tra il Rappresentante Speciale delle Nazioni Unite per la Siria e gli Inviati Speciali dei Paesi dell’Unione Europea coinvolti nel «dossier» (Italia, Belgio, Germania, Danimarca, Francia, Paesi Bassi, Svezia e Regno Unito oltre al Servizio Europeo di Azione Esterna e al Segretario della Santa Sede per i rapporti con gli Stati, Monsignor Gallagher).

Si è trattato di un ulteriore esempio della nostra tradizionale vocazione a operare come un ponte «discreto» (ma non per questo meno efficace…) tra l’Europa e lo scacchiere mediterraneo nel suo complesso. È linea sobria ma pro-attiva alla quale ritengo indispensabile che il nostro Paese continui a ispirarsi – indipendentemente da chi sia di volta in volta al governo – trattandosi di una delle 191 carte migliori tra quelle a nostra disposizione per far valere in positivo la «specificità» italiana nella presente fase della storia mondiale: fase nella quale le ruvide logiche della riemersa geo-politica e competizione dura tra Stati rendono ancor più importante il ruolo di «attori» (come il nostro Paese) da sempre noti e apprezzati per la loro capacità di interlocuzione a 360 gradi. Secondo le stime della Banca Mondiale gli investimenti che si renderanno necessari per consentire il ritorno della Siria a condizioni più o meno normali anche sotto il profilo delle infrastrutture (fermo restando che si tratterà di una Siria comunque diversa, anche per la ben più marcata presenza e capacità di influenza di Mosca di fatto già in atto) si collocheranno in una forchetta compresa tra i 300 e i 400 miliardi di dollari Usa. Ne deriverà, va da sé, la possibilità di importanti ritorni anche per le nostre imprese molte delle quali da anni presenti e altamente apprezzate nella regione. Da ultimo, dovrà proseguire la nostra azione a Bruxelles, da tempo avviata, perché sia l’Unione europea che la Nato – in quest’ultimo caso anche attraverso una adeguata valorizzazione dell’«hub per il sud» presso il JFC di Napoli dall’Italia fortemente voluto – assegnino la dovuta priorità allo scacchiere mediterraneo nell’accezione più ampia del termine.

In ambito Ue, sarà invece essenziale continuare a vigilare affinché – anche attraverso vincoli di natura giuridica come il c.d. ring-fencing – i fondi previsti dalla Commissione per il «Vicinato meridionale» non siano deviati verso altre regioni del mondo. Quanto all’Iran – altro attore che resta ineludibile, ci piaccia o meno, nella Regione – è mia opinione che sia ormai irrealistico, dopo il ritiro americano dall’intesa «5 più 1» sul nucleare e le più recenti decisioni della dirigenza iraniana sulla scia della vicenda Suleimani, immaginare un mantenimento in vita – magari con qualche marginale ritocco – dell’ accordo del 2015. Credo sia invece nostro precipuo interesse prendere atto del suo venir meno, di fatto se non di diritto, e lavorare di concerto con i nostri principali alleati – a cominciare proprio dagli Stati Uniti – alla individuazione di formule innovative che, da un lato, facciano salvo l’obiettivo di impedire alla Repubblica Islamica di dotarsi dell’arma atomica; dall’altro, incentivino Teheran a comportamenti più responsabili e, auspicabilmente, alla sottoscrizione di un nuovo accordo migliorativo di quello del luglio 2015.

Va detto che, sotto tale profilo, la netta affermazione del fronte dei «conservatori» in occasione delle elezioni parlamentari tenutesi in quel Paese lo scorso 21 febbraio non rappresenta un segnale che induce a ben sperare quanto alle possibilità di ripristino, per lo meno nel breve/medio periodo, di un dialogo costruttivo con quella dirigenza. Sarà poi non meno importante continuare ad adoperarsi – ciò che la nostra diplomazia sta già attivamente facendo – per pervenire a un ancoraggio del nostro Paese a quel nucleo ristretto di «partner» europei (Francia, 192 Regno Unito e Germania: il cosiddetto formato «E3») che tanta parte ebbe a suo tempo nel raggiungimento dell’intesa con Teheran sul «Joint Comprehensive Plan of Action» (JCPOA).

È formato che – al di là degli infruttuosi tentativi di salvare l’accordo dopo il ritiro statunitense e del mancato decollo dello strumento INSTEX quale contrappeso alla reintroduzione delle sanzioni da parte di Washington – appare, almeno a oggi, destinato comunque a permanere quale prioritario foro di coordinamento per la definizione delle policies europee nei confronti dell’Iran. Il secondo terreno per noi cruciale, in termini di tutela dell’interesse nazionale nell’area del «Grande Medio Oriente», è quello degli approvvigionamenti energetici, larga parte dei quali proviene proprio dallo scacchiere in parola. In tale prospettiva da parte italiana particolare attenzione dovrà essere a mio avviso rivolta ai seguenti aspetti: in primo luogo – tenendo presente che il gas rappresenta per il nostro Paese la principale fonte energetica ancor più nella prospettiva di una completa «decarbonizzazione» – al mantenimento dei migliori rapporti possibili con ciascuno dei Paesi attraverso cui corre il c.d. «Corridoio Meridionale del Gas» la cui entrata in funzione è prevista per l’ottobre 2020: dall’Azerbaijan (attualmente il nostro principale fornitore) a Georgia, Turchia, Grecia e Albania dalla quale il «corridoio» approderà in Puglia grazie alla «Trans Adriatic Pipeline». In tale contesto sarà importante – pur senza rinunziare a far valere ogni qualvolta necessario i nostri principii e, se del caso, le nostre ragioni… – fare il possibile per mantenere le migliori relazioni possibili con una Turchia che mira anch’essa ad affermarsi come «hub» regionale per le infrastrutture del gas ma che potrebbe avere comunque interesse a cooperare con noi, al di là del segnale non incoraggiante per l’Italia e per la nostra Eni rappresentato dall’intesa conclusa lo scorso 28 novembre tra Ankara e Tripoli per la delimitazione delle rispettive zone economiche esclusive (ZEE). Una Turchia assertiva che resta per giunta – e resterà a lungo, indipendentemente da chi ne sia di volta in volta in volta alla guida – nostro primario «partner» commerciale e industriale oltre che attore geo-politico pro-attivo e ineludibile (come anche gli eventi di queste settimane dimostrano) sia nello scacchiere del «Mediterraneo allargato» che in quello, ancor più vasto, del «Grande Medio Oriente». Non minore attenzione andrà riservata alla qualità delle relazioni con i Paesi dai quali verranno convogliati verso l’Europa, via Italia, i flussi di gas naturale provenienti dal recentemente scoperto «Bacino del Levante» (Cipro, Israele, Libano ed Egitto).

I nostri tradizionalmente buoni se non eccellenti rapporti con ciascuno di essi – a cominciare dallo Stato ebraico – rappresentano naturalmente un atout non secondario rafforzato, nel caso del Libano, dalla gratitudine che quella dirigenza e opinione pubblica nutrono nei nostri confronti per il ruolo di primo piano storicamente svolto dall’Italia nel quadro della missione UNIFIL (della 193 quale un nostro ufficiale, seppur sotto il «cappello» onusiano, ricopre attualmente il comando). Per il nostro Paese si tratterà tra l’altro di giocare al meglio le carte che ci derivano dalle nostre buone relazioni con tutti gli attori coinvolti per evitare che il citato accordo tra Ankara e Tripoli in tema di delimitazione delle rispettive ZEE comporti ricadute negative per il futuro del gasdotto Eastmed (progettato da Israele, Cipro e Grecia e da noi appoggiato): gasdotto che dovrebbe in teoria, alla luce dei citati sviluppi, sottostare al nullaosta di Ankara per poter approdare sulle coste greche e poi italiane. Sarà infine essenziale – come rilevato tra i primi dall’Ambasciatore Terzi in un sua riflessione sul tema di alcuni mesi orsono – contribuire a vigilare affinché sia preservata la libertà di navigazione in arterie cruciali ai fini del nostro approvvigionamento in petrolio e in «gas naturale liquefatto» (GLN): a cominciare dallo Stretto di Hormuz, vero e proprio «collo di bottiglia» marittimo dal quale transita tra l’altro circa il 40% del greggio mondiale, tenendo presente che il nostro Paese acquista dal piccolo ma influente Qatar poco meno dell’80% del nostro fabbisogno complessivo in GLN.

Va dunque valutata positivamente la decisione di principio di recente adottata dal nostro Paese di prendere parte, con altri partner europei, alla missione di pattugliamento condiviso dello Stretto in parola, nel quadro della «coalizione di volenterosi» tra europei che, proprio con tale obiettivo, ha di recente visto la luce su iniziative francese. Il terzo e ultimo versante da presidiare e consolidare è quello di natura economica e di collaborazione industriale con i Paesi del «Mediterraneo allargato/Grande Medio Oriente»: mi limiterò a ricordare due dati: il primo è che, dopo l’Europa, il bacino del Mediterraneo (nel quale si concentra il 20% del traffico marittimo mondiale) costituisce la prima zona di penetrazione diretta delle nostre imprese; il secondo, è che – nello strategico e per molti versi trainante settore della difesa – la sola area del Golfo ha assorbito tra il 2016-2018 circa il 50% delle nostre esportazioni di armamenti. Si tratterà, in sostanza, di continuare ad adoperarsi – anche attraverso un dialogo costante con i Paesi costieri dell’Oceano Indiano interessati alle prospettive offerte dalla «blue economy» – per rilanciare e rendere irreversibile la vitalità del Mediterraneo come piattaforma di connettività economica, energetica e infrastrutturale tra Europa, Asia e Africa.

Traguardo arduo ma non impossibile, ove sorretto da una adeguata volontà politica a supporto delle nostre «eccellenze» imprenditoriali. Volontà politica di sostegno che dovrà manifestarsi con ancor più vigore – anche facendo ricorsi a strumenti innovativi e da definire – non appena sarà possibile trarre conclusioni attendibili sul prezzo che anche l’Italia inevitabilmente pagherà in termini di perdita di punti di Pil a seguito della crisi innescata a livello mondiale anche sul terreno economico/finanziario dalla pandemia, ancora in atto, del «coronavirus». Tale azione ad ampio raggio richiede 194 però, perché possa essere coronata da successo, la consapevolezza di un elemento fondamentale: e cioè del fatto che – col ritorno della «realpolitik» e del primato della geo-politica rispetto alla logica delle «appartenenze» tipico del periodo della guerra fredda – è (e resterà credo a lungo indispensabile) sapersi muovere sulla scena internazionale, come Italia e come «sistema-Paese», con quella spregiudicatezza e determinazione delle quali da sempre danno prova sulla scena internazionale altri attori a noi geograficamente e culturalmente vicini, Francia in primis. Prova ne sia, a titolo di esempio, l’approccio di quella dirigenza al «dossier» libico o, ancora, la ricerca di un rapporto comunque privilegiato con la Federazione Russa (sotto tale ultimo profilo lo stesso può dirsi della Germania), attore ormai imprescindibile nella ridefinizione in atto degli equilibri medio-orientali.

È politica, quella sopra evocata, che dovrà naturalmente essere condotta senza venire meno al rispetto dei nostri obblighi «atlantici» ed europei come, ripeto, stanno da tempo mostrando di sapere fare – in ambito europeo – Francia e Germania. D’altra parte un solido rapporto con gli Stati Uniti – indipendentemente da chi sieda di volta in volta alla Casa Bianca – è e resterà per noi imprescindibile, non solo sotto il profilo della sicurezza, ma anche quale sponda essenziale per contenere in ambito europeo le riaffioranti velleità del direttorio franco-tedesco. Senza contare l’importanza che un solido rapporto con gli Stati Uniti continuerà a rivestire per il nostro Paese quale importante fattore di «traino tecnologico» ancor più in una fase, come quella attuale, nella quale la competizione tra le imprese europee di eccellenza nel campo delle alte tecnologie sta diventando sempre più serrata e con un esito sovente legato proprio alla individuazione di un adeguato «partner» sul versante statunitense.

Ed è proprio con un richiamo al contesto europeo che mi piace concludere riprendendo la considerazione svolta di recente da un nostro acuto osservatore, da sempre attento e sensibile al tema dell’interesse nazionale: quella cioè secondo la quale il primo mattone della politica estera europea resta, almeno a oggi, l’azione nazionale. Ciò che presuppone che ciascun Stato-membro «si sia già posto propri obiettivi strategici e vi abbia dedicato risorse…». In sostanza, se vorremo davvero perseguire anche in ambito europeo il nostro «interesse nazionale», non potremo – al di là dell’impegno per un salto di qualità che potrà essere posto dagli alti rappresentanti per la politica estera e di sicurezza comune di volta in volta in carica – astenerci dal considerare l’Unione Europea per quello che ancora è: vale dire un livello «supplementare» delle politiche estere e di sicurezza nazionali e non già un loro sostituto

*Gabriele Checchia, ambasciatore, già rappresentante permanente d’Italia presso la Nato

La Margherita referendaria

“Noi siamo la coerenza che non è stata mai tradita… “ Nel solco della coerenza, della serietà delle sue scelte politiche Giorgia Meloni conferma il sì al referendum per il taglio dei parlamentari.
Avrei comunque votato sì se me lo avessero chiesto ieri o l’altro ieri. Per quella naturale avversione alla casta dei politicanti e per quella voglia di riformare, di liberarsi da quella gabbia di regole vecchie di settant’anni che imprigionano questa Italia che ha voglia di risorgere. Taglio del numero dei parlamentari, poi subito al voto per rinnovare questo parlamento delegittimato , e avanti con l’elezione diretta del Capo dello Stato. Erano le idee forti che davano forza ad un sì convinto. Ieri o l’altro ieri. Sì, sì, sì… ma perché mi esce sempre più flebile mentre passano i giorni, ma perché sento salire prepotente dall’anima questa voglia di gridare no, no, no.
Puro esercizio dialettico perché prevedo un’ondata schiacciante di sì sull’onda di un’opinione pubblica da tempo giustamente schifata dalla politica dei giochini parlamentari, dalle acrobazie per evitare le elezioni politiche per non perdere la poltrona e i soldi.
Sarà perció certamente un sì. E il giorno dopo ancora una volta sarà premiata dalla soddisfazione la vincente scelta di Giorgia Meloni.
Ma a vincere veramente con il sì saranno i cinquestelle e Zingaretti , Conte e il suo governo rafforzato. Tutti i Casalino d’Italia. Il rinnovo fel parlamento delegittimato? Pura illusione. Questi non molleranno l’osso. L’elezione diretta del Capo dello Stato? E chi la farebbe questa riforma, un parlamento dove grillini e Pd sono maggioranza. Se vince il sì Giorgia sarà pure coerentemente soddisfatta, ma a vincere davvero sarà la sinistra.
Se vince il no i giochini sono finiti. Il governo finirà a gambe all’aria. E si aprirà uno spiraglio per le elezioni anticipate.
Ma il no è il contrario di ciò che indica Fratelli d’Italia, sarà dunque una sconfitta referendaria. E chi se ne frega. Ci sarà invece da festeggiare la vittoria della destra in almeno sei regioni. Ed è questo che conta.
E intanto continuo a sfogliare la margherita: sì, no, sì, no. Ma com’è che i petali del sì mi si sono tutti appassiti?

Fermare la nuova diaspora dei giovani

Questo saggio della nostra redazione è stato pubblicato nel Rapporto Nazionale “Italia 20.20” della Fondazione Farefuturo.
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La grande recessione 2008-2015 ha riaperto la strada dell’emigrazione italiana. Erano più di trent’anni che le porte verso l’estero sembravano essersi richiuse per i nostri lavoratori. Il fenomeno ha destato, da un paio di anni, interesse e clamore, ha generato disagio, imbarazzo. Nulla è stato fatto. Forse trattenuti da una sorda consapevolezza che le parole, spesso, non corrispondano ai pensieri, ai veri sentimenti: chi può, chi ha le risorse, se ne va; in tanti, tra i giovani, desiderano trovare altrove un percorso, un progetto di vita. Troppo poco lavoro, concorsi troppo difficili, percorsi impervi per stipendi modesti.
La nuova diaspora è stata denominata, giornalisticamente, la «fuga dei cervelli». Una formula superficiale, forse fuorviante. Ma di vero, qualcosa c’è. L’Istat segnala che nell’aggregato cumulato 2009-2018 di 816 mila cancellazioni anagrafiche (che come si vedrà non corrispondono affatto agli effettivi espatriati), ben 182 mila sono laureati, una quota ben superiore alla composizione media della nostra popolazione. Di vero c’è una composizione a maggioranza giovanile; una quota femminile molto maggiore che in passato; una provenienza ben distribuita geograficamente, con la Lombardia in testa, seguita da Veneto, Sicilia, Piemonte, Lazio. Rispetto ai primi anni del nuovo secolo – periodo 1999-2008 – sono raddoppiate le cancellazioni anagrafiche (il cumulato era di 428 mila) e sono diminuiti i rimpatri da 380 a 333 mila. La serie storica dell’ultimo decennio ci fa vedere un fenomeno che inizia in sordina nel 2009 (cancellazioni dall’anagrafe 65 mila circa, di cui 39 mila cittadini italiani), nel 2011 si sale a 82,4 mila (di cui 50 mila italiani); nel 2012 si superano per la prima volta i 100 mila (106.210), con un balzo nel 2013 si giunge a 125,7 mila (di cui 82 mila italiani), e poi 136 mila nel 2014, 147 mila nel 2015 (con gli italiani che salgono oltre i 100 mila); 157 mila nel 2016, 155 mila nel 2017 e di nuovo 157 mila nel 2018, con una quota di italiani di 116,7 mila.
Si è usata la definizione tecnica di «cancellazioni anagrafiche» coniata dall’Istat, perché basta dare un’occhiata ai numeri delle registrazioni all’AIRE (Anagrafe degli italiani residenti all’estero), pubblicate dal Ministero dell’Interno, per rendersi conto che il fenomeno della nuova emigrazione ha dimensioni ben maggiori. Se nel 2003, l’AIRE segnalava una diaspora di cittadini italiani registrati poco superiore a 3 milioni, negli anni successivi si assiste a una crescita molto rapida che in quindici anni supera i due milioni (3,6 milioni nel 2007; 4,1 nel 2011; 4,5 nel 2014; 4,8 nel 2016; 4,9 nel 2017, 5,1 nel 2018).
Il professor Enrico Pugliese, nel suo illuminante saggio di maggio 2018, intitolato «Quelli che se ne vanno. La nuova emigrazione italiana» ha attinto ad indagini sulla sanità britannica e lo Statistisches Bundesamt per evidenziare un significativo disallineamento dei dati. In Germania – nei cinque anni dal 2012 al 2016 – risultano nuove iscrizioni di cittadini italiani (essenziali per iscrizione all’università, tessera sanitaria, abbonamenti nei trasporti) per un totale di 274.284 unità, contro le 60.700 cancellazioni registrate dall’Istat verso la Germania. Quasi cinque volte tanto! Allo stesso modo, nella meta preferita dagli italiani, e cioè il Regno Unito, risultano in entrata (dai dati del servizio sanitario) 158.400 persone rispetto alle 39.278 della banca dati Istat. Anche per la Svizzera, Enrico Pugliese cita stime che ipotizzano un numero di nuovi emigranti italiani circa doppio rispetto a quello registrato.
L’incongruenza è spiegabile su base comportamentale. Molti espatriati infatti, non decidono subito di spostare all’estero la propria residenza; preferiscono sperimentare in loco la situazione del mercato del lavoro; magari studiano e dunque non decidono subito di abbandonare il «campo base». Gran parte degli espatriati è dunque, almeno in una prima fase, reversibile, soprattutto perché si muovono prevalentemente all’interno dell’Unione europea. In ogni caso, la dimensione quantitativa del fenomeno, e quindi la sua rilevanza, è ben superiore ai dati ufficiali. Certamente più del doppio. Gli emigrati sono per oltre il 50% giovani, in gran parte donne, per un 30% laureati, vengono da tutte le regioni ma in primo luogo da Lombardia, Veneto Lazio, Piemonte e Sicilia. Anche i diplomati sono rappresentati in percentuali superiori alla media nazionale. La quota meno qualificata cerca lavori nel settore della ristorazione e turismo. È sempre più significativo il settore sanitario (infermieri, tecnici, ma anche medici). Esiste una componente di popolazione anziana che cerca una residenza in luoghi con clima favorevole e basso costo della vita, modesta tassazione (Marocco, Portogallo, Tunisia). In riduzione la «sun migration» verso il nostro Paese, con nuovi fenomeni di ricongiungimento da parte di anziani da Sud verso i figli e nipoti emigrati al Nord, a causa di paesi spopolati e senza servizi per anziani.
Lo studio dei meccanismi sociali di questa nuova emigrazione è solo allo stadio iniziale. Maria Luisa Stazio ha tentato un primo approfondimento motivazionale sugli emigrati a Berlino. Il venir meno delle antiche catene migratorie e delle comunità regionali già insediate all’estero rende più difficile l’aggregazione dei nuovi emigrati. L’emigrazione italiana del dopoguerra ha vissuto varie fasi e diversi modelli (quello contrattuale in Germania e Svizzera senza una vera prospettiva di assimilazione; quello repubblicano in Francia); la vecchia emigrazione aveva una prevalenza operaia, partiva da una situazione di eccesso di manodopera e di intensa crescita demografica nelle aree di origine. Si sostanziava in un forte contributo finanziario in forma di rimesse; trainava la scolarizzazione e la qualità del capitale umano delle terre di origine; generava turismo di ritorno; fu anche fenomeno di arricchimento sociale. L’attuale migrazione non sembra generare flussi visibili di rimesse. Anzi, si segnalano flussi di rimesse al contrario, dal Mezzogiorno al centro Nord e al Nord Europa in caso di giovani che studiano, ma anche di lavoratori in fase di inserimento. Questo fenomeno va ad aggravare la situazione demografica già gravemente recessiva. Le previsioni Istat al 2065 fanno pensare che si tratti di un esodo strutturale, che si stabilizzerà su un flusso di emigrazione annuale di circa 130 mila unità.
Se il sistema nazionale riuscisse a trattenere con occasioni di lavoro adeguate queste risorse umane, già verrebbe annullata la previsione di riduzione di 6,5 milioni di residenti al 2065. Esiste una prima fase di emigrazione che non è stabile, ma connessa per esempio al conseguimento di titoli di studio di alto valore all’estero. Si potrebbe tentare di incidere su questo specifico segmento, indirizzando offerte e bandi mirati. Per far questo, lo sforzo attualmente dispiegato dal sistema nazionale appare largamente insufficiente. Prima di tutto, servono più borse di studio. Si tratta di una grave disapplicazione del dettato costituzionale. Ma si tratta di raggiungere in tempi rapidi dimensioni adeguate al fenomeno, ovvero alcune migliaia di borse di studio ogni anno per finanziare iscrizioni a titoli post-doc, ma anche per titoli tecnici e professionalizzati (ITS per esempio). Sarebbe opportuno richiedere alle fondazioni ex bancarie un impegno massivo e prioritario, coordinato tra di loro, per aumentare il volume di attività in questa direzione. Sarebbe necessario ripensare la programmazione dei programmi per il diritto allo studio delle Regioni in funzione più mirata ai bisogni degli studenti, in modalità immediatamente monetizzabili (meno edilizia e più borse di studio). Sono certamente da prendere a modello bandi per borse di studio con meccanismo contrattuale di rientro in Patria. Le Regioni a maggiore percentuale di espatri dovrebbero utilizzare le loro agenzie per programmi permanenti per assistere con servizi e assistenza lavoratori e studenti trasferiti all’estero, per garantire loro un contatto con il luogo di origine. Il momento di contatto della fornitura del servizio dovrebbe avvenire al momento della cancellazione anagrafica e dovrebbe essere seguita da un flusso di informazioni, offerte di assistenza, servizi linguistici, monitoraggio dell’esperienza concreta dell’espatriato da parte di operatori specializzati.

Non giocate con le Istituzioni

Il 20 e 21 settembre – tranne sorprese dell’ultimo momento – si voterà anche per il referendum sulla legge di revisione costituzionale degli articoli 56, 57 e 59 della costituzione, con la quale si è ridotto il numero dei parlamentari da 630 a 400 per la Camera dei Deputati e da 315 a 200 per il Senato della Repubblica (e determinato in 5 il numero dei senatori a vita indipendentemente dall’alternarsi dei Presidenti della Repubblica).
Per quanto mi riguarda, voterò No, pur comprendendo forse alcune motivazioni di alcuni commentatori e colleghi favorevoli al Sì. Voterò convintamente contro la legge, pur sapendo che sarò in minoranza, perché non si tratta, a mio avviso, di una vera legge di revisione costituzionale e nemmeno di una sorta di ‘sbrego’ alla costituzione, come Gianfranco Miglio auspicava al fine di rendere l’Italia uno Stato federale. Non è una vera legge di revisione costituzionale perché a me pare sostanzialmente il risultato di un gioco fatto sulle regole supreme per ragioni che con la costituzione e la sua forma di governo non hanno nulla a che fare. Le costituzioni moderne sono o dovrebbero essere la forma simbolica comune entro la quale condurre la lotta politica delle idee e degli interessi e quindi dovrebbero sottrarsi alla volontà sempre presente di piegare il testo a questo o a quell’interesse di parte. Tanto più quando, come in questo caso, la ‘ratio’ della norma non è intrinseca alla funzionalità e alla logica della costituzione nel suo insieme, ma del tutto esterna ad essa: indipendentemente dal fatto che in altre logiche e in altri contesti si sia pensato in passato (e si potrebbe pensare anche oggi) di ridurre il numero dei parlamentari per rendere più funzionale la rappresentanza in uno con tutta un’altra serie di modifiche pregiudiziali e conseguenziali (a partire dal superamento del bicameralismo perfetto e paritario), in questo caso la causa è dichiaratamente un’altra: il risparmio economico (tutti ricordiamo i deputati grillini giocare con forbici e maxi-assegni), dunque una motivazione del tutto estranea alla logica delle costituzioni moderne.
Ora, se anche ci si fermasse a questo tipo di ragionamento, i dubbi sulla validità della riforma ci sarebbero già tutti: perché ridurre il numero dei parlamentari con un risparmio ridicolo nel momento in cui si sprecano, oggi, in sussidi improduttivi e per di più tutti a debito 100 miliardi di euro? Se veramente si fosse voluto realizzare un qualche risparmio la via era lineare: portare da subito gli stipendi degli attuali parlamentari al livello dei deputati della ricchissima e parsimoniosa e non indebitata Germania: 9780,28 euro lordi al mese, cioè quanto guadagna un giudice della Corte costituzionale federale di Karlsruhe (di euro i giudici della nostra Consulta ne guadagnano circa 30.000 al mese e questo spiega i comportamenti di tanti costituzionalisti nostrani). Non sono bravo in matematica, ma provate a moltiplicare un risparmio di circa 5000 euro al mese per 915 per 12 e poi per 5 (e se volete per 4, gli anni effettivi di questa legislatura e poi a seguire), aggiungete anche le spese milionarie per tenere il referendum e vi renderete conto che qui non abbiamo a che fare con una “legge di revisione costituzionale”, ma con la peggiore propaganda pseudo-politica, indirizzata a solleticare i risentimenti e la rabbia della gente, già di suo abituata a far pensare gli altri al proprio posto.
Del resto, che i grillini siano appunto i seguaci di un buffone spiega tutto: dall’abolizione della povertà proclamata di notte da un balcone allo scambio del Venezuela col Cile o alla collocazione di Matera nelle Puglie. Si può essere contro l’euro, ma non sapere poi – come è accaduto a un’esponente dei 5 stelle in televisione – se si voterebbe a favore o contro un eventuale referendum sul tema è il massimo non so se dell’ignavia o dell’arroganza tipica dell’ignoranza. Si possono taroccare i propri curricula senza vergognarsene come non ci si preoccupa di sfilare sui tappeti rossi dei Consigli europei in compagnia del proprio ‘portavoce’, facendo confondere gli osservatori: sono forse due i primi ministri dell’Italia? Tutto è possibile quando manca il senso dello Stato e l’obiettivo è sfasciare per un tornaconto oscuro, semmai combattendo la diffusione del virus e il declino economico comprando, sempre a debito, monopattini fabbricati in Cina e banchi con le rotelle per giocarci a macchine da scontro (sicuri che qualcuno non ci guadagna?).
Assistiamo così ad una prassi che di politico non ha nulla: è un gioco che si svolge per amore del gioco: non importa se la terra sia rotonda, perché forse è piatta. Ora, finché si tratta dei terrapiattisti, l’affare ha molto di folcloristico e tutto sommato non è la cosa più pericolosa. Un po’ diversamente stanno le cose quando si comincia a giocare non più solo con i soldi degli italiani (se agli italiani piace essere indebitati nei secoli sono fatti loro) o con l’occupazione dei palazzi del potere pubblico, ma con le regole e soprattutto con quel senso dello Stato che in realtà coincide proprio con lo Stato, dal momento che lo Stato altro non è che il senso dello Stato. Si dirà che sto esagerando. Ridurre il numero dei parlamentari significa davvero tutto questo? Ovviamente non è il dato in sé, che pure ha delle conseguenze negative cui accennerò alla fine, che può produrre questo risultato. Ciò che è profondamente negativo è l’ideologia perversa che sottende la legge di riforma, è il fatto che si possa giocare impunemente con la costituzione. Perché se la ratio non è quella economica resta solo il balordo ghiribizzo di far credere alla gente di fare qualcosa che in realtà non ha alcun significato. Questa non è una revisione costituzionale, ma uno sfregio gratuito fatto alla costituzione della Repubblica italiana, la quale, fino a quando sarà tale, dovrebbe essere sentita come la costituzione di tutti gli italiani.
In verità, questo sfregio è anche l’esito di un altro sfregio tentato e andato a male. Alludo alla cosiddetta riforma costituzionale di Renzi e Boschi. Se i grillini sfregiano la costituzione con risultati problematici, Renzi faceva lo stesso, sia pure con maggior sapienza: faceva poggiare la costituzione (che dovrebbe essere la legge superiore) su una legge ordinaria (la legge elettorale) e di fatto metteva tutto in mano al Presidente del Consiglio, dal quale sarebbe dipeso il futuro del paese nei successivi 50 anni (come dire che Renzi e Boschi diventavano il re e la regina d’Italia: cfr. A. Carrino, Anamorfosi costituzionale. Per la critica di una riforma postuma ed oscura, in Lo Stato, 2016/1). Del resto, se non avessimo avuto Renzi Presidente del Consiglio, non avremmo avuto un governo dei grillini: come disse lo stesso Renzi a una scolaresca: “se Presidente del Consiglio sono diventato io, lo può diventare chiunque”. Diciamo che fu buon profeta.
Perché si tratta di uno sfregio e basta? Perché una costituzione non è un insieme di proposizioni normative messe una dopo l’altra, ma costituisce un corpus organico di norme che sono il risultato di una decisione politica (cfr. A. Carrino, La costituzione come decisione. Contro i giusmoralisti, Milano, Mimesis, 2019). La costituzione è la forma che il potere politico sovrano si dà nel momento in cui si costituisce come Stato. Arriviamo così al discrimine politico, ideale e culturale che impone la scelta a favore del No. Se si pensa che le costituzioni siano il ‘prius’ rispetto allo Stato, che le costituzioni ‘creino’ gli Stati e le nazioni e che il diritto astratto debba prevalere sulla concretezza politica e storica, si può anche votare Sì, perché in questo caso si ricade nell’ideologia giusmoralista per la quale ciò che conta non è la storia né la decisione politica, ma solo l’astratto diritto soggettivo, che prevale sul collettivo. Da un certo punto di vista quel personale politico di sinistra che si sta convertendo al No dovrebbe prima fare autocritica su molti aspetti della loro propaganda. Ma la questione più dirimente sta nel fatto che se si ritiene che una nazione sia il prodotto di una legge, che si può fare a meno delle “dure repliche della storia”, del primato dei doveri sui diritti, allora si può ritenere anche che una costituzione ha senso solo nella misura in cui sia funzionale ad un determinato progetto di interessi particolari di una particolare lobby. Il progetto può essere buono o cattivo, ma presuppone sempre il primato del soggettivo sull’oggettivo, del privato sul pubblico, dell’interesse di una parte sull’interesse pubblico.
Così stanno le cose con questo gioco sul numero dei parlamentari. Intendiamoci: non sto attribuendo ai grillini una qualità culturale che non hanno, ignorando essi il concetto stesso di cultura. Non ne sto facendo i rappresentanti di quel “patriottismo costituzionale” alla Jürgen Habermas che andava di moda qualche anno fa, quando anche in Germania si pensava che lo Stato fosse morto e che si fosse passati dalla dottrina dello Stato alla “sociologia della costituzione” (sto citando il titolo di un saggio di un mio amico della Humboldt di Berlino: Hasso Hofmann, Dalla dottrina dello Stato alla sociologia della costituzione, in La libertà nello Stato moderno, Napoli, Guida, 2010). I grillini giocano perché “non sanno quello che fanno”, tanto che solo qualche anno fa erano loro stessi contrari alla riduzione del numero dei parlamentari e domani potrebbero dire che è necessario tornare ad avere 1000 parlamentari. Si tratta di un gioco per il gioco senza razionalità e coerenza: hanno proposto 600 parlamentari come avrebbero potuto chiedere di dividere l’Italia in 100 regioni e 50 province (invertendo le priorità territoriali). Perché 600 e non 500?
Pare che all’epoca dello Stato libero di Fiume Gabriele D’Annunzio avesse mandato Alceste De Ambris da Hans Kelsen, allora noto per avere da poco contributo alla redazione della costituzione della prima repubblica austriaca, del 1920. Il Comandante voleva che Kelsen scrivesse una costituzione per Fiume e il giurista austriaco, un po’ sorpreso, rispose: «come la vuole, bell’e fatta o su misura?». Kelsen non avrebbe mai immaginato, nonostante l’ironia, che cent’anni dopo le costituzioni si sarebbero potute fare addirittura “à la carte”: un po’ di questo, un po’ di quello, togliendo questo, aggiungendo quest’altro, semmai qui un po’ più di pepe e lì meno sale. A dire il vero, nemmeno oggi, in altri paesi, si riesce a immaginare una ‘fattura’ del genere. Da questo punto di vista, l’Italia è all’avanguardia nella trasformazione della politica e del diritto in costruzioni buone per un circo equestre.

II.

Ma tornando alla questione, il punto è che l’Italia è una repubblica parlamentare. Può piacere o non piacere, ma la decisione politica fondamentale che sta alla base della nostra costituzione è questa. Si tratta di una decisione politica non più legittima perché le forze politiche dominanti oggi vorrebbero una forma di governo diversa? Sarebbe meglio una repubblica presidenziale o un cancellierato? Un premierato sul modello britannico? Tutto possibile e anzi chi scrive, a onor del vero, è un critico da sempre del ‘parlamentarismo’, anche nella forma razionalizzata della nostra costituzione. Il parlamentarismo produce sin dall’inizio la sua critica, perché i parlamenti non possono governare, ma dovrebbero limitarsi a controllare l’attività di governo e a fare leggi (poche) generali e astratte. Il parlamentarismo borghese è entrato in crisi nel momento stesso in cui la rappresentanza non ha più potuto essere censitaria (all’indomani dell’unità d’Italia aveva diritto di voto circa il 2 per cento della popolazione e non a caso i deputati non venivano pagati) e lo Stato ha in poco tempo dovuto fare i conti con l’ingresso delle masse nelle istituzioni (si legga il famoso saggio di Carl Schmitt del 1924: La condizione storico-spirituale dell’odierno parlamentarismo, Torino, Giappichelli, 2002). Lo Stato è diventato Stato dei partiti e la rappresentanza parlamentare ha perso – già nell’Italia prefascista e in Germania nella Repubblica di Weimar – ogni nesso con il territorio (non a caso la Boschi, pur essendo toscana, si è fatta eleggere in Alto Adige).
Voglio dire che la crisi dei parlamenti è una crisi strutturale quando ai parlamenti si assegnano scopi che non sono propri della loro funzione. Per di più, si tratta di un processo già noto, perché quando qualcuno se la prende oggi con le “liste bloccate” nel sistema elettorale dimentica che si fece la stessa cosa negli ultimi anni di Weimar proprio per tentare (invano) di combattere le disfunzioni del parlamentarismo. E come allora, dal 1930 al 30 gennaio 1933 si andò avanti con i decreti del Reichspräsident senza che il Reichstag nulla facesse per contrastarli pur avendone la facoltà costituzionale, così oggi si va avanti – ed è molto più grave – con atti amministrativi quali i “Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri” (i famigerati DPCM, con i quali si stabilirà anche – forse, avendo già avuto il Presidente del Consiglio il placet delle Camere sullo “stato di emergenza” – che le elezioni non possono più essere svolte); tutto ciò con un parlamento complice, che sarebbe ancora più succube e complice se ridotto di numero e con le opposizioni ridotte al lumicino.
Come a Weimar, così oggi la crisi del parlamentarismo non mi pare una ragione sufficiente per aggravarla senza risolvere la questione di fondo, che è quella di un governo autenticamente rappresentativo del corpo elettorale (nei limiti intrinseci ad ogni sistema ‘democratico’, dove spesso quel che conta è innanzitutto il denaro), ma limitandosi – come quei teppisti che rigano le macchine altrui – a sfregiare la rappresentanza parlamentare, rafforzando come vedremo più avanti il potere oligarchico dei partiti attuali, rischiando di aggravare tanto più, proprio per l’assenza di un disegno organico di riforma costituzionale funzionale ad una decisione politica fondamentale, l’attuale confusione e la mancanza di una rappresentatività reale tra il corpo elettorale e i deputati e senatori. Una riforma costituzionale presuppone l’accettazione dei presupposti impliciti ed espliciti della costituzione, la conformità con il suo ‘spirito’, la conseguenzialità rispetto alla decisione fondamentale. Tutto questo manca nella attuale riforma, la quale, ripeto, è in sé e per sé un mero gioco.
La nostra costituzione è la costituzione di uno Stato sociale di diritto e non a caso piaceva anche a intellettuali di tutt’altra parte (penso a Giano Accame) che ci vedevano una serie di progetti tipici di una visione nazional-sociale (persino il tanto vituperato Cnel aveva in fondo una vocazione semi-corporativa della rappresentanza). Qual è mai il nesso tra la “riduzione del numero dei parlamentari” e lo spirito di questa costituzione? Evidentemente nessuno e questo del tutto indipendentemente dal fatto che si può auspicare una nuova Assemblea costituente che riveda il patto alla luce delle trasformazioni e delle nuove esigenze maturate in questi ultimi 70 anni. Se si va a rileggere gli atti dell’Assemblea Costituente, ci si renderà conto che la base della scelta fu quella del rapporto tra elettori ed eletto: prima un deputato ogni 80.000 elettori, poi 100.000, mentre molti volevano che il rapporto non fosse fisso ma seguisse i flussi demografici. L’idea di allora, che è ancora oggi l’idea di fondo, è che debba esservi un qualche nesso in qualche modo tra chi vota e chi viene eletto, nesso che dopo Tangentopoli è andato indebolendosi sempre più, fino a fare degli eletti dei funzionari ben pagati scelti dalle segreterie dei partiti. Con la riduzione del numero e lo sbandamento ufficializzato dei meccanismi elettorali (di ogni tipo e colore, del tutto staccati dall’esigenza fondamentale della rappresentanza organica, inventati lì per lì prima delle elezioni) la riduzione del numero dei parlamenti si trasformerà nella ufficializzazione della nuova forma di governo dell’Italia a 5 stelle: la repubblica dei Dpcm.
Che l’unica motivazione apparentemente giuridica e logica possa stare esattamente nello svuotamento del parlamento e nella creazione della repubblica dei 5 stelle lo ha confermato indirettamente un costituzionalista del Partito democratico, in un articolo su Repubblica del 19 agosto scorso, a firma Stefano Ceccanti. Merita di essere commentato questo intervento perché è significativo da più punti di vista.

III.

«Il Parlamento nazionale – ha scritto Ceccanti per sostenere il Sì – non ha più l’esclusiva della produzione di norme. In Italia le Regioni hanno potere legislativo e il nostro Paese, come altri, deve adeguarsi alla crescita del rilievo normativo dell’Unione europea».
Premesso che il Partito democratico è lo stesso partito che sulle 4 votazioni necessarie per far passare la revisione costituzionale (2 per ogni Camera a distanza di 6 mesi) ha votato 3 volte contro la legge e solo l’ultima a favore, cioè dopo aver sottoscritto un accordo di governo con i 5stelle per il “Conte 2”, a conferma di una stupefacente (in)coerenza intellettuale e politica, riaffermata da Zingaretti quale ragione fondamentale del Sì, premesso ciò vorrei notare come la tesi dell’on. Ceccanti è gravemente lesiva del principio della sovranità popolare ex art. 1 Cost., che prevede che il popolo italiano, che ne è il titolare, la eserciti nella sua unità di nazione (non ha a caso i parlamentari rappresentano “la Nazione senza vincolo di mandato” ex art. 67 Cost.) tramite la potestà legislativa nel senso proprio dello Stato di diritto costituzionale introdotto dalla nostra Carta, ovvero tramite leggi generali (valide per tutti gli Italiani) e astratte (che prescindano da particolari caratteristiche di questo o quel gruppo se non per ragioni particolari o in attuazione del principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost.). La legge del Parlamento, pur essendo notoriamente in crisi probabilmente da sempre (ma questo è un altro discorso) era e resta la forma specifica di esercizio della sovranità del popolo italiano nella sua interezza.
Rispetto al principio costituzionale vigente né le leggi regionali cui si richiama Ceccanti (che come sono state introdotte nell’ordinamento così potrebbero essere espunte ove si cambiasse la pessima riforma del 2001 relativa al Titolo V della Costituzione) né il potere normativo sovranazionale dell’Unione europea (che resta legittimato da accordi internazionali tra Stati nonostante tutto ancora sovrani) possono mettere in discussione il fatto che – fino all’affermarsi di un nuovo potere costituente – il sistema costituzionale vigente è un sistema – piaccia o meno – di tipo parlamentare, sia pure, come si dice in dottrina, ‘razionalizzato’; si tratta di un sistema dove la sovranità nel significato di cui prima viene esercitata nella forma parlamentare.
È vero, come dice Ceccanti, che il Parlamento non ha più il monopolio della produzione normativa, ma non perché esistono le Regioni, quanto perché si è prodotto, contro la Costituzione vigente e grazie anche al suo partito, un vulnus alla forma parlamentare in forza di un esercizio del potere normativo in via di fatto in testa al governo e negli ultimi mesi specificamente in testa al Presidente del Consiglio, che facendo un uso estremo dei decreti-legge e persino dei decreti del Presidente del Consiglio (atti sostanzialmente amministrativi) si sono avvalsi, l’uno e l’altro, della complicità inerte di un Parlamento che nel tempo è andato sempre più perdendo qualità, senso di responsabilità, capacità di discussione autonoma ben oltre la dipendenza dalle segreterie dei partiti, che non esistendo più nella vecchia forma di entità ideologicamente legittimate sono diventati in parte dei meri gruppi di interessi privati o pseudo-pubblici (significativa la dipendenza dei 5stelle da un comico e da una società commerciale).
Rispetto a questa tragica “anamorfosi costituzionale” la risposta dovrebbe essere o la riqualificazione della costituzione vigente o una assemblea per una nuova costituzione, semmai con una forma presidenzialista. Una revisione costituzionale come quella favorita dai 5stelle e ora dal Pd è una sciagura per la dignità delle istituzioni (e quindi per un già compromesso senso dello Stato), che non dipendono certo dal risparmio di quattro soldi (perché non si è dimezzato da subito lo stipendio dei parlamentari?) nel momento stesso in cui si sprecano 100 miliardi in sussidi, ma dal rispetto delle regole. Può essere che il Parlamento sia morto, ma allora non si riduce il numero dei cadaveri viventi, ma si crea una nuova forma di produzione normativa. Meglio una nuova Costituzione che una Costituzione Frankestein, dove la rappresentanza democratica del popolo italiano diventa un optional a disposizione del potente di turno.
Ceccanti dice anche che il numero dei parlamentari è stato già in passato cambiato (in effetti l’attuale numero fu fissato nel 1963) e io potrei aggiungere che proprio il numero di 400 deputati non è in sé una novità: non lo ha ricordato nessuno, ma è proprio questo il numero stabilito dalla Legge 1019/1928, art. 1, cioè da una legge del deprecato ventennio fascista. Non che i 5 stelle sapessero cosa faceva Mussolini nel 1928 (non credo di sbagliare pensando che la gran parte di loro collocherebbe il regime fascista nell’Ottocento o durante l’Impero romano, se sapessero cosa fu l’Impero romano) e nemmeno ci interessa. Restando nella oggettività della questione proprio confrontando l’attuale riforma con quella legge di revisione del 1963 si dimostra che vi è uno strappo profondo tra il senso della costituzione nel suo complesso e questa norma individuale odierna. In quel caso, ma anche in tutte le proposte fatte alla Costituente, si trattava di stabilire un rapporto tra numero dei rappresentanti e numero degli elettori, rapporto che in questo caso non viene nemmeno preso in considerazione, essendo come detto la ‘ratio’ unicamente quella del cosiddetto costo della politica (si tratta di un risparmio dello 0,007 per cento, una presa in giro).
Le conseguenze sono però gravi se si parte dal presupposto che la crisi della politica nei sistemi democratici dipende dallo ‘scollamento’ tra paese reale e paese legale, ovvero tra gli elettori e gli eletti. La lontananza tra territorio e rappresentanza invece di essere colmata, semmai con un sistema elettorale maggioritario all’inglese, per il quale ogni circoscrizione abbia il suo proprio rappresentante, si amplia, specificamente da circa un deputato ogni 96.000 abitanti a uno ogni 151.000 per la Camera e da 1 ogni 189,000 a 1 ogni 303.000 per il Senato. Intendiamoci: in sé il rapporto dice poco, tanto che già alla Costituente non erano mancate proposte anche di un rapporto analogo per la Camera, ma la valutazione va fatta in rapporto alla situazione concreta. In questo momento una riforma del genere non solo non va nella direzione da molti auspicata di un avvicinamento tra elettore ed eletto nel senso di responsabilizzazione della popolazione alla politica superando il senso di estraneazione che si è da troppo tempo prodotto, ma di fatto lo aggrava. L’elettore non solo rischia di trovarsi ad essere rappresentato da una persona di altro territorio, con buona pace, per quanto riguarda la Lega, di ogni idea federalista, ma il nesso si indebolirebbe vieppiù aggravando la crisi della politica.
La situazione si palesa critica anche considerando la riforma della legge elettorale in discussione, definita seconda questa oramai insopportabile aggettivazione appositiva “Brescellum”, una modifica della legge in vigore estendendo il proporzionale con uno sbarramento al cinque per cento e un recupero di qualche rappresentante per “diritto di tribuna”. Si tratta di una proposta di legge che conferma, ove ce ne fosse stato bisogno, il sistema delle “liste bloccate”, che come ho detto trova una anticipazione prima che in Italia nella Germania pre-hitleriana. Tra riduzione dei rappresentanti, sistema proporzionale (che non è nemmeno quello della “prima repubblica”, che aveva una sua dignità e una sua logica che oggi nessuno ricorda più) e liste bloccate, ovvero nomina dei deputati e dei senatori nel chiuso di una stanza, il futuro di questo paese non è nemmeno quello delle repubbliche delle banane, perché con i DPCM non si fucila nessuno (in Europa, almeno), ma ci si limita a fare debiti da accollare ad altri e distribuirli in sussidi di dubbia utilità. Si badi: non intendo come qualcuno dire che ci aspetta una “dittatura”, semmai con Giuseppe Conte come “dittatore”. Siamo ovviamente nel campo dei “fatti miei”, non certo del Blut und Boden. La repubblica dei DPCM potrà indignare, ma gli effetti saranno comunque catastrofici: un governo che governa con atti amministrativi “legittimati” da un parlamento di nominati è la fine della certezza del diritto, della responsabilità politica, della decenza e del senso etico.
Da questo punto di vista il raffronto con Weimar, pur trattandosi lì di tragedia e qui di farsa, ha senso. Cito da un classico della storiografia su Weimar:

Deleterio per il consolidamento del regime parlamentare fu anche un altro punto debole del sistema proporzionale: la resezione del legame che unisce il deputato al suo collegio. Il territorio del Reich fu ripartito in 35 collegi. Un “collegio” del genere è naturalmente troppo ampio per favorire la coscienza dell’appartenenza a una medesima comunità tra gli stessi elettori, o tra essi e il deputato. Era già molto se un elettore conosceva almeno il candidato che apriva la lista alla quale egli aveva dato il suo voto; degli altri candidati che rappresentavano il suo collegio, in genere, non sapeva nulla. Egli votava una lista, ma non aveva alcuna influenza sul modo della sua costituzione, che era fissata da un ristretto numero di persone particolarmente devote al partito. Chi era loro sospetto non aveva alcuna speranza di entrare nel Reichstag, anche se godeva di larga popolarità tra gli elettori (E. Eyck, Storia della Repubblica di Weimar, Torino, Einaudi, 1966, pp. 74-5).

I termini del problema sono oggi gli stessi di 90 anni fa a Berlino. Può apparire eccessivo attribuire rischi del genere ad una legge fatta per solleticare i peggiori istinti degli elettori? In apparenza può sembrare così, ma bisogna avere il polso della situazione e di tutto ciò che da una norma può discendere e che ad un ‘laico’ può sembrare assurdo o eccessivo. Se questo referendum passa e con esso la legge elettorale in discussione, l’attuale governo avrà tutto nelle proprie mani e Conte (o chi per lui) non avrà bisogno di improbabili pose ducesche o di baffetti tinti per governare questo paese con i suoi Dpcm proclamati in televisione la sera tarda, semmai “salvo intese” con se stesso. Questo governo non cadrà prima che sia passata una nuova legge elettorale proporzionale e anzi sarà proprio interesse dell’attuale governo, una volta eletto il Capo dello Stato nel 2022, andare subito a nuove elezioni per raccogliere i frutti: 600 finti “eletti” di cui la grande maggioranza nominati da Conte, Casalino, Bonafede e Franceschini. A me pare un incubo, la peggiore antipolitica che si fa stato, ovviamente con la s minuscola.

IV.

Non voglio dire che votando No si risolve il problema dell’antipolitica, ma certamente si eviterebbe di aggravare una condizione particolarmente critica mettendo altre munizioni nelle mani di apprendisti stregoni. Di tutto in questo momento abbiamo bisogno tranne che creare nuovi e inutili problemi, specie in una fase di decadenza quale quella che stiamo attraversando. L’indirizzo generale sotteso alla riduzione dei parlamentari non va verso la centralità del parlamento (centralità che è puramente ideologica) né verso una riforma costituzionale in senso presidenzialista (come pure è stato paventato o auspicato da altri), ma semplicemente, nel contesto attuale e a costituzione materiale vigente, verso l’assoggettamento della rappresentanza parlamentare all’esecutivo. Non dunque una nuova decisione politica ma una finta democrazia parlamentare, dove la responsabilità politica verrebbe ulteriormente indebolita venendo di fatto nascosta dietro una finzione meramente formale di rispetto delle norme. Né democrazia parlamentare né democrazia presidenziale, ma un ibrido dove nessuno risponde a nessuno: non l’eletto all’elettore, non il governo al parlamento, che sarebbe solo – come nella riforma Renzi – il nominato del partito di maggioranza e dove la minoranza sarebbe ridotta a un ruolo di pura testimonianza.
Non è dunque da valutare la singola legge in sé, ma nel contesto attuale e probabile, un contesto di crisi profonda della qualità del personale politico. La riforma costituzionale non ha una sua forza intrinseca, ma si presenta anzi come una forma vuota, in attesa di essere riempita senza che il potere costituente (il popolo sovrano) nulla possa, sappia o voglia una volta entrata in vigore la nuova norma.
Ciò che mi sembra essere in gioco non è tanto la ‘democrazia’, che è sempre qualcosa di discutibile, ma la responsabilità politica, cioè la possibilità che il governante possa rispondere delle sue scelte. Un numero ridotto di rappresentanti, infatti, consente un controllo ancora più efficace della composizione parlamentare da parte delle direzioni dei partiti. La dialettica politica verrebbe ad essere ancor più gravemente compromessa, con un esito molto simile agli ultimi tre anni della Repubblica di Weimar, dove, come accade oggi in Italia, i rappresentanti venivano preliminarmente decisi dai capi dei partiti. È vero che è quello che accade già oggi, ma in tal modo si renderebbe ancora più difficile e complesso immaginare una vera possibile riforma della rappresentanza. Da questo punto di vista, appare insensato proprio il numero dei parlamentari, scelto a caso, per gioco. Nell’ottica politica che sta per concretizzarsi con la vittoria purtroppo scontata del Sì al referendum 600 parlamentari saranno anzi un numero sproporzionato: sarebbero più che sufficiente un senatore per regione, quindi 20, e 50 deputati in tutto, che avrebbero l’unico compito di approvare le deleghe al governo e ai suoi ‘comitati’ più o meno tecnici e ‘commissioni’ più o meno politiche, secondo la prassi oramai invalsa di creare strutture del genere, sostanzialmente inutili come inutili sono la gran parte dei provvedimenti del governo in carica.
Né è a dire che riducendo il numero dei parlamentari si rafforzerebbe la ‘governabilità’, perché vi sono due concetti di governabilità, uno buono e uno cattivo: nulla a che fare con la governabilità buona, che presuppone una sua legittimazione attraverso l’elezione diretta, per esempio del Capo del governo e/o del Capo dello Stato (“la Magna Charta della democrazia”, secondo Max Weber), ma tutto a che fare con la governabilità cattiva, quella priva di legittimazione e fondata su una formale legalità senza contenuti sostanziali, quella, per esempio, che fa del parlamento una succursale della piattaforma Rousseau dei 5 stelle. Un parlamento di numero ridotto, con una legittimazione dimidiata, consentirebbe ancor più un governo oligarchico di lobbies particolari i cui membri si riconoscono tra i loro in forza e virtù di specifiche co-appartenenze a gruppi chiusi. L’universalità della rappresentanza verrà ancor più irrimediabilmente violata.
Non è dunque inevitabile pensare alla centralità del parlamento o alla costituzione ‘più bella del mondo’ per capire che votare No è un gesto doveroso anche e forse proprio per chi, come il sottoscritto, auspica una Assemblea costituente che riveda o riformi il patto associativo del 1947. La democrazia è un’ideologia ma può anche essere solo una tecnica, specificamente una tecnica per la produzione dei capi e delle élites. Una tecnica complessa e delicata, che dipende da molte varianti e in particolare dal livello culturale di un popolo, ma anche l’unica tecnica possibile in condizioni non di eccezione. Questa riforma, del tutto inutile, pleonastica, demagogica e fondamentalmente truffaldina, è in sé solo il primo tassello di una riforma assai più generale della costituzione materiale, prima che della costituzione formale. Si illude chi pensa che da questa potrà venir fuori qualcosa di positivo, perché è solo un’arma messa in mano a persone irresponsabili, culturalmente e politicamente. È del resto una riforma in sé monca, che imporrà ulteriori interventi legislativi ordinari fatti dalla stessa maggioranza che ha voluto questa riforma e che quindi potranno solo essere coerenti con gli interessi di questa maggioranza. Il rischio, anzi direi la certezza, è che tutto venga deciso dalle segreterie dei partiti: paradossalmente, l’effetto è simile a quello della riforma Renzi/Boschi: anche lì si voleva ‘costruire’ un parlamento funzionale al potere in carica prima del rinnovo delle Camere.
La politica si potrà fare sempre più solo attraverso i mezzi di disinformazione di massa, perché in collegi così vasti sarà impossibile per i candidati avere un confronto con i ‘loro’ elettori. L’ufficio elettorale del deputato, al quale si rivolgeva anche per chiedere favori la “gente del posto” diventerà un ricordo storico. Tutto si farà ancor più fumoso e la lontananza tra “elettori” (espressione già ora senza senso) e politici diventerà abissale. Il palazzo (che qualcuno voleva aprire “come una scatoletta di tonno”) diventerà la torre inarrivabile da qualunque volontà popolare concreta. L’unica alternativa diventerà inevitabilmente la rivoluzione, un fenomeno assolutamente improbabile. Altro che un parlamento come gli altri: tutti gli altri parlamenti europei hanno un numero pari o anche maggiore di rappresentanti; i tedeschi addirittura li possono anche aumentare a seconda delle elezioni per rispettare la doppia scheda degli elettori tra proporzionale e maggioritario (i deputati alla Camera bassa sono attualmente 709, ai quali vanno aggiunti i membri del Bundesrat, nominati dai governi dei singoli Länder).
Ciò che questa insensata riforma impone è infatti un ripensamento della legge elettorale, ovvero la riformulazione dei collegi da parte del governo, che sarà fatta in ossequio all’interesse di parte, senza escludere la creazione di collegi predeterminati a favore di un partito e a svantaggio dell’altro. Ma le conseguenze negative sono tante: come e chi eleggerà gli organi di garanzia, per esempio i giudici della Corte costituzionale, i membri laici del Csm, il Presidente della Repubblica? Con quale rapporto tra cittadini aventi più o meno di 25 anni, essendo ancora in vigore la differenziazione attiva tra Camera e Senato? Quale forza per le Regioni rispetto al Parlamento nell’elezione del Capo dello Stato? Chi metterà in discussione il potere di un ignoto avvocato di nominare i vertici dei servizi dopo aver secretato questo e quel documento? Come verranno riformati i regolamenti parlamentari? Ovviamente, in questo caso, solo nel senso di poter dire velocemente e senza discussione “sì” a questo o a quel decreto del governo e facilitando le leggi di delega.
Ma c’è ancora un altro rischio occulto nella nuova ‘forma’ costituzionale in virtù delle distorsioni che si produrranno: il rischio è che l’alternativa a questa finora ignota forma di governo, “lo Stato dei Dpcm”, sia lo Stato dei giudici. Già con la riforma del 2001 le contraddizioni di quella riforma furono sciolte e superate da buone sentenze della Consulta; immaginiamoci ora ricorsi di costituzionalità per mancanza di rappresentatività e violazione sostanziale dell’art. 1 sulla sovranità popolare, ricorsi decisi o da una Corte che riafferma vieppiù il proprio primato sulla politica o da una Corte anch’essa di nominati. Un incubo nel paese di Gaio, Bartolo, Beccaria e, se mi è permessa una scorrettezza, anche di Alfredo Rocco.

Sfatare la profezia della decadenza

Questo saggio della nostra redazione, è stato pubblicato nell’introduzione al Rapporto sull’Interesse Nazionale “Italia 20.20″ della Fondazione Farefuturo.
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L’epidemia causata da un virus sconosciuto proveniente dalla Cina ha colpito la società e l’economia italiana in modo improvviso, imprevisto, con dimensioni catastrofiche e in modo più grave rispetto ad altri paesi europei. Le misure di contenimento adottate dalle autorità italiane sono senza precedenti, hanno comportato la segregazione di quasi l’intera popolazione per un lungo periodo, oltre otto settimane, e il fermo amministrativo del 60% delle attività produttive e dell’intero sistema distributivo ad eccezione dei generi essenziali. L’intensità di questa azione di contenimento è stata superiore a quella degli altri Paesi. Non sappiamo in che ambito si potrà muovere la dimensione del dibattito e della decisione pubblica. Non c’è dubbio che l’Italia abbia rischiato, nella prima fase della catastrofe epidemica, anche una crisi finanziaria, evitata con difficoltà e non senza tentennamenti dall’intervento della Banca Centrale Europea. Ci muoviamo dunque in un terreno privo di precedenti storici, in quello che in un libro famoso l’epistemologo libanese Nassim Nicholas Taleb ha definito il «ciglio nero». I centri di ricerca economica prevedono per il 2020 un crollo del Pil per l’Italia superiore a quello del 1943, e un debito pubblico che supererà quello generato dallo sforzo bellico nel periodo 1915-1918. Le riflessioni che sono qui raccolte precedono l’inizio della epidemia in Italia, ma restano un orizzonte di riflessione valido, perché non sarà possibile uscire dal precipizio nel quale l’Italia, insieme agli altri paesi europei, è precipitata, senza saper ridefinire un impianto concettuale nitido e condiviso, nelle sue linee essenziali dell’interesse nazionale. La stessa sentenza, celebre non appena annunciata, della Corte costituzionale tedesca di Karlsruhe pone come un macigno la primazia del diritto nazionale tedesco sul diritto dell’Unione, in una modalità asimmetrica che creerà ulteriori tensioni, ma ci costringe con un impegno ancora maggiore a riflettere sulle linee strategiche per il rilancio della comunità nazionale che, come a tutti è evidente, giungeva al tragico momento della crisi catastrofica di origine sanitaria in condizioni di grande sofferenza, sociale, economica e morale.
La grande recessione del 2008-2015 aveva infatti lasciato nel nostro Paese ferite profonde, alle quali si sommeranno le ferite della presente crisi. Ma la ferita più grave è la sfiducia che ha generato, la rassegnazione al declino. Paradossalmente, la disciplina mostrata dal popolo italiano durante la segregazione per il virus potrebbe essere un punto di partenza per ritrovare slancio e determinazione.
Una strategia per l’Italia può forse essere costruita solo con l’aggregazione di energie, pensieri, volontà unite nel perseguimento di un obiettivo, l’Interesse Nazionale. Se le persone, le istituzioni, se tutti i cittadini avessero presente nel loro agire l’Interesse Nazionale, ecco che forse si potrebbe costruire un’agenda che ci riporti sul cammino della crescita economica, del benessere della nostra comunità, della voglia di costruire.
La grande recessione 2008-2015 ha distrutto il 25% della capacità produttiva del Paese, ha ridotto il Pil del 10%, ha abbassato il reddito pro capite al di sotto della media europea, ha interdetto un futuro a milioni di giovani che non sono riusciti a collocarsi nel mercato del lavoro, ha raddoppiato la povertà, ha compresso i redditi di tutti, ha avviato una fuga verso l’estero con la Nuova Emigrazione italiana (giovani e laureati, dal Sud e dal Nord), ha aumentato in modo drammatico il divario di reddito, benessere, investimenti, perfino di spesa pubblica tra Mezzogiorno e Centro Nord; ha demotivato i giovani, ne ha allontanati troppi da studio e formazione; ha ridotto le immatricolazioni all’Università; ha frenato la lettura di libri e giornali; ha ostacolato l’impiego efficiente del digitale. L’Italia era giunta alla crisi del 2008 già in grande affanno, affetta da una sindrome di bassa crescita; in piena deindustrializzazione, dopo il decennio delle privatizzazioni selvagge, della spoliazione da parte delle grandi compagnie europee e straniere, fatta di acquisizione di imprese, grandi e medie, strategiche e non, marchi storici e successi recenti, spesso per chiuderle, eliminando concorrenti, penetrando un mercato ancora ricco.
La ripresa, dopo la grande crisi, è stata debole. Oggi Germania e Francia hanno recuperato e superato di oltre il 10% il Pil del 2007. L’Italia no, è ancora al di sotto. Nel frattempo, si è ridotta anche la crescita potenziale, ovvero il tasso di crescita raggiungibile con l’impiego di tutti i fattori della produzione disponibili. Questo significa che in ogni fase di ripresa, l’Italia tende a crescere meno degli altri.
È per questo che serve la paziente costruzione di una agenda condivisa, che nasca dal confronto su un insieme di temi strategici per il nostro futuro; l’insieme di questi è il contenuto dell’Interesse Nazionale. Un concetto che può apparire antico, ma che in realtà vediamo operare febbrilmente in tutti i nostri partner, e che emerge, nella sua semplicità, proprio dall’analisi dei problemi che abbiamo di fronte a noi, tutti insieme, e che avranno di fronte a loro le prossime generazioni.
La grande crisi, la più lunga da un secolo e mezzo, ha ridotto dal 2008 al 2018 il 32,3% degli investimenti fissi lordi nel Mezzogiorno e del 15,5% nel Centro-Nord. È stato calcolato che nel periodo tra il 2006 e il 2016 siano venuti a mancare ben 130 miliardi di investimenti pubblici. Tra settore pubblico e settore privato, se gli investimenti fissi lordi fossero proseguiti al modesto ritmo dei primi cinque anni del secolo, l’economia italiana avrebbe potuto contare su 850 miliardi in più. Anche nei consumi l’Italia si è impoverita. Nel lungo periodo tra il 2008 e il 2018, il calo complessivo della spesa per consumi finali delle famiglie nel Mezzogiorno si è ridotta cumulativamente del 9,2%, nel Centro Nord è cresciuta dello 0,7% (in dieci anni!); la spesa alimentare è scesa del 14% al Sud e nelle Isole e del 9% al Centro Nord.
Non si possono tuttavia sottacere alcuni elementi strutturali di forza del sistema italiano, che gli hanno consentito di reagire, e che sono usciti ancora saldi dalla Grande Recessione 2008-2015.
Primo. Il sistema produttivo italiano ha subito un brutale processo di selezione, ma ne è emerso un nucleo forte di imprese esportatrici che hanno raggiunto importanti posizioni strategiche. L’Italia ha accresciuto proprio nel periodo della crisi la sua posizione di avanzo nella bilancia dei pagamenti, con risultati eccezionali nella componente commerciale: si è passati da un disavanzo di 8,6 miliardi nel 2007 a un avanzo di 47,4 nel 2017, e uno di poco meno di 40 miliardi nel 2018, che porta l’Italia al secondo posto in Europa dietro l’enorme surplus tedesco di 249 miliardi (depurato il dato olandese della movimentazione marittima del porto di Rotterdam). L’Italia si presenta oggi come un paese creditore verso il resto del mondo, con una posizione netta solida, che contribuisce alla crescita dell’economia mondiale. Siamo tra le formiche, non tra le cicale.
Non consumiamo risparmio altrui. Il nostro Paese, dunque, nonostante la deindustrializzazione degli anni Novanta e Duemila, nonostante lo smantellamento e l’alienazione delle grandi imprese pubbliche e private del secolo passato, nonostante la grande recessione, conserva un nucleo industriale e manifatturiero importante. Esso è situato nella macroregione Centro Nord, quella che oggi è stata colpita frontalmente dall’epidemia da Covid-19. Tuttavia, i dati delle esportazioni del periodo 2015-2018, dimostrano una certa vitalità anche di un nucleo di imprese esportatrici nel Mezzogiorno. È essenziale preservare questo nucleo imprenditoriale anche nella presente emergenza che mette a rischio l’intera dotazione produttiva.
Secondo. La ricchezza netta delle famiglie e delle imprese non finanziarie italiane – con un ammontare di 9.743 miliardi a fine 2017 – continua ad essere la più elevata d’Europa. Rappresenta un eccezionale elemento di solidità per le famiglie, e un ammortizzatore sociale di riserva, un invidiabile ancoraggio per il sistema bancario nazionale. La decennale stagnazione dei redditi, gli effetti futuri della riforma previdenziale, la dinamica demografica, sono tuttavia elementi che consigliano di concentrare importanti energie per tutelare quel fondamentale primato del risparmio italiano, che non trova oggi fonti di alimentazioni, se non nel buon andamento dei mercati finanziari. Sarebbe opportuno, infine, premettere in ogni documento di finanza pubblica, insieme ai dati obbligatori del semestre europeo, sempre la serie storica del debito globale (settore pubblico, famiglie, imprese), la posizione netta della bilancia dei pagamenti nelle sue componenti finanziarie e commerciali.
Terzo. Una finanza pubblica che, da 25 anni, realizza ogni anno un avanzo primario non può certo essere definita fuori controllo. La riduzione di quasi mezzo milione di dipendenti pubblici nel corso del decennio 2008-2018 apre la strada per una fase di rinnovamento della macchina di Stato, Regioni, Comuni, del Servizio Sanitario Nazionale che sarà un’occasione che sarebbe sciagurato perdere, che potrebbe attenuare l’esodo di giovani ormai stabilmente disposti all’emigrazione.
Quarto. Nell’ultimo triennio, dopo gli accordi sull’unione bancaria, e alcuni casi di salvataggi e interventi non brillanti anche da parte delle autorità europee, il sistema bancario nazionale ha attraversato una profonda e incisiva riorganizzazione, recuperando una posizione di solidità patrimoniale e redditività nei servizi (nel 2018 sono tornate nel complesso a esprimere un utile netto di 12,2 miliardi; con una riduzione delle sofferenze del 40,5%, scese in valore assoluto al disotto dei 90 miliardi; il patrimonio sul totale delle attività si è assestato all’11,5% rispetto al 7% del 2004).
Quinto. Il successo del turismo internazionale in Italia sembra un fenomeno strutturale sul quale servirebbe una riflessione profonda da parte della classe dirigente del Paese su come capitalizzarlo al meglio. I dati pubblicati dalla Banca d’Italia segnalano nel triennio 2016-2018 una crescita della spesa complessiva in euro da 31,2 a 36,2 miliardi, un aumento dei pernottamenti da 30,9 milioni a 34 milioni, un numero di viaggiatori che sale dai 70,3 milioni a 78,9 nel 201822. Nel solo 2018 la spesa dei viaggiatori stranieri è cresciuta del 6,5%, la bilancia dei pagamenti turistica porta un avanzo netto dello 0,9% del Pil. È vero che se la provincia di Venezia attira più viaggiatori di un paese come il Belgio, è vero anche che l’intero Mezzogiorno ha meno turisti delle isole Baleari. Tuttavia, negli ultimi anni è proprio nel Sud e nelle Isole che si stanno consolidando i risultati più interessanti. Come è noto è questo il settore che viene colpito oggi in modo più duro, con un azzeramento dei fatturati da viaggiatori internazionali, e che necessita di un intervento d’urgenza almeno biennale, per il rischio della desertificazione imprenditoriale. L’epidemia colpisce le basi stesse del turismo generando paure ben motivate e difficili da superare. In questo l’Italia si trova in una situazione simile a paesi come Francia e Spagna, molto colpiti dal Covid-19 e paesi come l’Austria, meno colpita. È necessario attuare politiche coordinate in modo da uscire insieme da questa crisi strutturale che non può essere affrontata con gli strumenti validi per gli altri settori produttivi. Tutti i Paesi turistici avvieranno nell’immediato politiche per favorire la ripresa del mercato domestico. Ma servirà ben altro, anche individuando autorità dedicate con poteri commissariali e un ripensamento generale sulla governance nel riparto di competenze tra centro ed enti territoriali.
L’errore più grave sarebbe accontentarsi di questi ancoraggi di un sistema ancora vivo. Anche perché la spaventosa eredità della Grande Recessione 2008-1015 e della debole ripresa degli anni più recenti si deve proiettare sulla sfida che il Paese ha di fronte a sé, una sfida esistenziale, che emerge dal documento pubblicato dall’Istat il 3 maggio 2018 e che ha fatto tanto discutere in termini di secular stagnation: «Il futuro demografico del Paese. Previsioni regionali della popolazione residente al 2065».
Riassumendo i termini dello scenario «mediano», ovvero quello dotato di maggiore probabilità di avverarsi, che rispetto alla popolazione attuale di circa 60,5 milioni di abitanti ipotizzano uno scenario di 59 milioni nel 2045 e di 54,1 nel 2065, con una perdita di 6,5 milioni di residenti rispetto ad oggi. La forchetta probabilistica oscilla tra un minimo di 46,4 milioni (con una riduzione quindi di 14 milioni di persone) e un massimo possibile di 62. Lo scenario «mediano» implica l’avverarsi di condizioni che, da sole, necessitano di un certo impegno di politiche pubbliche, per esempio un significativo accrescimento della fecondità femminile, un continuo flusso positivo di immigrazione, al netto dell’emigrazione italiana verso l’estero, che in ogni caso (sempre nello scenario mediano) è prevista proseguire a colpi di 130 mila persone l’anno, con una riduzione globale di popolazione di 6,6 milioni.
La ricerca Istat ha fatto discutere perché si discosta dalla precedente del 2011 che prevedeva una sostanziale stabilità della popolazione residente nel prossimo cinquantennio. Ma tra la stima del 2011 e quella del 2018 c’è di mezzo la Grande Recessione.
La grande differenza – oltre che in termini metodologici – è quella della dinamica divergente tra Centro Nord e Mezzogiorno. Nel breve termine, fino al 2025 il Centro Nord continuerebbe a manifestare un bilancio demografico positivo con un indice +1,3 per mille annuo nel Nord Ovest, Nord Est (+1,3 per mille) e Centro (+1,2 per mille), mentre il Mezzogiorno sarebbe in piena recessione demografica, con il Sud a -2,6 nati per mille residenti, e le Isole con -2,9. Nel periodo intermedio, la crescita demografica del Centro Nord rallenterebbe, restando positiva; mentre nel Mezzogiorno si aggraverebbe al -4,5 e -4,7 per mille. Nel lungo periodo, ovvero nel periodo tra il 2045 e il 2065 anche il Centro Nord entrerebbe in recessione demografica, a un tasso annuo di circa il –3 per mille, mentre il Mezzogiorno precipiterebbe in un bilancio demografico drammatico a -8,3 per mille.
Questo piano inclinato trae origine da una serie di fattori che si congiungono negativamente, ovvero da una situazione con meno donne fertili, anche se con fecondità in aumento, la graduale uscita dalla fase lavorativa dei «baby boomers», un aumento della speranza di vita di oltre 5 anni che porta a una popolazione con coorti anziane assai più numerose e più decessi, in quanto le classi anziane sono più numerose, anche se longeve. I nuovi nati tendono a scendere attorno ai 420 mila per anno (basta pensare che il picco storico è il 1922 con 1.176 mila nati e il 1964 con 1.061 mila nati), rispetto agli attuali 465 mila. I decessi sono stati, nel 2018, 633 mila e tenderebbero a salire nel 2040 a 736 mila, a 854 mila nel 2058 e a 825 mila nel 2065.
Il saldo naturale scenderebbe a -200 mila unità nel breve termine (2024) e successivamente a -300 mila nel medio (2044), e infine a -400 mila nel lungo termine (2053). Si disegna il quadro di un Mezzogiorno spopolato, con borghi e città semivuote, popolazione anziana, scarsa forza lavoro, poche persone in attività. L’età media della popolazione tenderebbe a salire da 43-44 anni a 51,5.
Le proiezioni di Eurostat 2018 sono addirittura peggiori di quelle Istat. Esse prevedono infatti una popolazione italiana al 2065 pari a circa 51 milioni, con una diminuzione di 9,5 milioni pari a -14,9%. Ma non è per questo motivo che rivestono importanza. Esse ci mettono di fronte alla realtà dei bilanci demografici degli altri Paesi e ci fanno comprendere come i nostri partner europei stiano pensando oggi a come sviluppare una strategica demografica per il proprio futuro. Infatti, le dinamiche demografiche implicano una inerzia talmente profonda che lo spostamento, anche minimo, della curva necessita di interventi decenni prima. In Italia si tende a sorridere quando si propongono previsioni al 2065. Ma il 2065 è oggi. Lo si costruisce oggi. Tra cinque-dieci anni sarà tardi.
La Repubblica francese ha impostato una articolata strategia demografica, con aspetti fiscali, ma anche di integrazione repubblicana degli stranieri, fin dal 1981. La Germania ha impostato una vera strategica demografica soltanto dopo la riunificazione, nel 1991. Oggi la Francia mostra un bilancio demografico positivo, che la porterebbe a raggiungere i 72 milioni di residenti nel 2065. Se fossero disponibili proiezioni per il decennio successivo, è facile prevedere che la situazione sarebbe quella di una popolazione doppia rispetto a quella italiana. E questo accadrebbe partendo da una popolazione uguale nel 1990! Sappiamo che la dirigenza d’oltralpe prevede che la popolazione francese superi quella tedesca entro il 2080. La Germania, infatti, presenta un bilancio stagnante e in prospettiva negativo per la sua popolazione, con una riduzione del 2,2% al 2065 (80 milioni e 965 mila residenti). La dinamica più energica in termini di popolazione è quella del Regno Unito che con una crescita del 22,6% a 81,3 milioni. La Gran Bretagna supererebbe la popolazione tedesca già nel 2065. Ancora meglio la Svezia, con una crescita del 40,9% da 10 a 14,2 milioni. Mentre nella zona della recessione demografica troviamo il Portogallo, peggio dell’Italia, con una riduzione del 19,4% e una perdita in
mezzo secolo di 2 milioni di persone; anche la Grecia ridurrebbe di 2 milioni i propri abitanti. La Spagna, che Eurostat prevede in crescita del 4,7% a circa 49 milioni, si accingerebbe in pochi anni a superare la popolazione dell’Italia.
Che ruolo geopolitico avrebbe un’Italia con una popolazione inferiore della metà a Germania, Francia e Regno Unito? Con una popolazione che viene superata dalla Spagna? Non solo il G7. Ma anche il G20 potrebbe diventare un miraggio. Ma quel che è più grave è la proiezione in termini di reddito, di Pil e di Pil pro capite di questa trappola demografica nella quale siamo già entrati. Un saggio pubblicato nella collana «Questioni di economia e finanza» della Banca d’Italia ipotizza delle proiezioni che dovrebbero essere ben presenti al decisore politico di oggi. Va premesso che questo scenario ipotizza che tutto si svolga abbastanza bene, e cioè senza grandi scossoni, con politiche invariate che producano gli effetti sperati. E cioè c’è sempre uno scenario peggiore. L’effetto meccanismo della riduzione demografica porterebbe l’Italia a subire un calo del Pil del 24,4 per cento rispetto al 2016 e del 16,2% in termini di Pil pro capite con una riduzione dello 0,4% annui. In assenza di flussi migratori la riduzione del Pil salirebbe a -50,1% e al -33,3% pro capite.
Un mercato interno che sarebbe la metà di quello di oggi come verrebbe considerato dai produttori? Quante imprese italiane reggerebbero alla «nanizzazione» del mercato domestico? La ricerca di Barbiellini Amidei, Gomellini e Piselli pubblicata dalla Banca d’Italia, nel marzo 2018, già chiaramente individuava gli strumenti di politica economica per arginare la catastrofe in atto, con le tendenze demografiche attuali. Lo studio in realtà si concentra prevalentemente sulle politiche che la ricerca economica evidenzia possibili per evitare l’effetto della tendenza demografica sulla riduzione del prodotto interno lordo e del prodotto pro capite. Tuttavia, una strategia di Interesse Nazionale, volta a far sì che l’Italia esista ancora nel futuro, non può rinunciare in partenza a cercare di correggere la curva demografica stessa con un insieme connesso di politiche fiscali, assistenziali, sociali, di servizi che – tutte insieme – convergano a quell’obiettivo. Costruire questa politica dovrebbe essere oggetto centrale della discussione.
In primo luogo, la produttività. Per correggere lo scenario base al 2065 di riduzione del Pil del 24,4% e del prodotto pro capite del 16,2, servirebbe un aumento costante per tutto il periodo di produttività dello 0,3% all’anno. Sembra poco, ma non lo è, se si considera la variazione nulla dal 2000 ad oggi. In assenza di flussi migratori di lavoratori stranieri avremmo una riduzione del Pil pro capite del 33,3%, doppia rispetto allo scenario base.
Uno scenario alternativo, e ben più positivo, potrebbe invece giungere da interventi su tre fattori compensativi nei quali l’Italia presente un considerevole gap: l’aumento della partecipazione femminile al mercato del lavoro; l’aumento della vita lavorativa; un miglioramento qualitativo di capitale umano nella forza lavoro, cioè, in parole più semplici, un aumento generalizzato del livello di studio e formazione.
La bassa partecipazione delle donne al mercato del lavoro nel Mezzogiorno (il 32,8%, ovvero oltre 30 punti in meno della media europea) è già oggi una delle ragioni fondamentali della paralisi del reddito nel Sud e del mancato recupero dei livelli di reddito pre-crisi. È alle origini anche della previsione di recessione demografica con due decadi di anticipo rispetto al Centro Nord. A livello nazionale, il divario tra la partecipazione femminile al mercato del lavoro e la media dell’Unione Europea resta inchiodata al 10 per cento nonostante un lieve miglioramento (nel corso del 2019, per la prima volta, si è superata la soglia del 50%). La ricerca Barbiellini Amidei, Gomellini, Piselli calcola che sarebbe sufficiente il raggiungimento degli obiettivi di Lisbona, con un tasso di partecipazione al lavoro del 60% delle donne, e del 70% degli uomini per ridurre il calo del Pil pro capite da -16,2 a -2,9%35. Ma il fattore più efficace per annullare la caduta del Pil causata dalla recessione demografica sarebbe un innalzamento generale dell’istruzione e della formazione della forza lavoro che condurrebbe, nella ipotesi avanzata da Barro e Lee, a una riduzione dell’impatto dovuto alla riduzione della popolazione a un Pil pro capite che si ridurrebbe nel 2065 del 3,8%. In una ipotesi più ambiziosa, di una convergenza della forza lavoro italiana ai livelli di istruzione tedeschi, il divario di prodotto verrebbe annullato in termini pro capite (+3,1%).
Tra tutte – insieme a quella della partecipazione femminile al mercato del lavoro – la questione dell’istruzione è forse il nodo centrale di una politica dell’Interesse Nazionale. Qualche miglioramento c’è, ma la velocità è insufficiente, e gli altri corrono più di noi. Nel 2005, ancora il 50,3% della popolazione tra 25 e 64 anni in Italia aveva conseguito solo un diploma di scuola media inferiore. Questo indicatore è migliorato. È sceso nel 2018 al 38,5%. Ma siamo sempre i peggiori insieme alla Spagna (40,9%) e ci confrontiamo con la Germania dove il 13,5%
(tra i residenti tra i 25 e i 64 anni) ha solo il diploma di scuola media inferiore. Abbiamo troppo pochi laureati.
Ne servono urgentemente di più. Servirebbero più diplomi terziari tecnici. Servirebbero diplomi universitari biennali. La quota di 30-34enni in possesso di un titolo di studio terziario è salito al 27,8% rispetto a una media europea superiore al 40% (44% in Francia; 48,3% nel Regno Unito; 53,5% in Irlanda). Nel 2004 esibivamo un misero 15,6%, ma il ritmo del miglioramento non ci consente di contribuire alla crescita della produttività a un livello tale da compensare i fattori negativi.
Nonostante la questione nazionale dell’istruzione sia il perno di tutti i problemi e la chiave per la loro possibile soluzione, lo sforzo collettivo, pubblico e privato, appare modesto. Le attività di formazione permanente coinvolgono una quota misera di lavoratori: l’8,1% nel 2018, contro il 19,2% dei Paesi Bassi, il 15,8% dell’Austria, il 26,8 della Danimarca. La spesa annuale per studente nell’istruzione terziaria (università e istituzioni che rilasciano diplomi post scuola secondaria) è di 11.600 dollari, contro i 15.500 della media dei paesi OCSE.
Non solo. La percentuale di contributo finanziario che si richiede alle famiglie è più alta, visto che in Italia il contributo pubblico copre solo il 63%, contro il 76% della media UE. Esiste un drammatico spreco di capitale umano che resta inattivo e si depaupera nei NEET, ma anche in quel 7% degli studenti che alla fine della scuola secondaria superiore non raggiunge il livello di competenze fondamentali in italiano, matematica e inglese (è il fenomeno della cosiddetta «dispersione implicita»). La Fondazione Agnelli segnala anche che dopo una lunga discesa, la percentuale di abbandoni scolastici è risalita dal 13,8 del 2016 al 14,5% del 201839.
Appare di tutta evidenza come emerga un interesse nazionale italiano precipuo nel perseguire quelle politiche sociali, economiche, formative che attenuino, e auspicabilmente annullino, gli effetti della recessione demografica. La proiezione Istat ed Eurostat al 2065 serve a metterci di fronte oggi alle responsabilità di oggi.
Per sfatare la terribile profezia è ancora aperta una finestra temporale. Essa coincide con questa legislatura e con la prossima.

CDP per le grandi opere e per la difesa delle imprese

La proposta intelligente fatta recentemente dall’On.le Adolfo Urso, che riprende peraltro un emendamento al Decreto Rilancio di Sestino Giacomoni, di costituire un Fondo sovrano nell’ambito della Cassa Depositi e Prestiti con la partecipazione dei risparmiatori italiani ed aperto anche alle Fondazioni bancarie risponde ad un’ineludibile esigenza oggi più che mai sentita. E questo progetto ben si sposerebbe con la missione di CDP per la realizzazione di tutte quelle opere pubbliche, necessarie per la modernizzazione del Paese e per raggiungere un livello di infrastrutture che ci avvicini a quello degli Stati europei più sviluppati.
Per raggiungere questo importante obiettivo sarà necessario affrontare e risolvere una serie di difficoltà, prime fra tutte quelle relative alla pianificazione finanziaria, tenendo conto dei vincoli posti dal patto di stabilità e della necessità di attivare lo strumento del project finance per fornire i mezzi finanziari a tale piano.
Occorrerà avere una sommaria stima del fabbisogno finanziario necessario sia per lo sviluppo del sistema infrastrutturale del Paese che tenga conto del valore del complesso delle grandi opere e delle domande di infrastrutture locali avanzate da tempo dai Comuni di grande e medio-piccole dimensioni, sia del presumibile intervento a difesa del nostro apparato industriale.
La copertura di questo ingente fabbisogno finanziario potrà avvenire con il concorso di investitori, quali lo Stato, gli Enti Locali, i Privati, le Banche, le Fondazioni e potrà essere in parte supportata dall’utilizzo di risorse europee.
La parte preponderante del finanziamento dovrà comunque essere organizzazta dallo Stato per il 60/70% dell’ammontare degli investimenti, secondo un modello europeo.
Tali risorse dovranno essere reperite attraverso strumenti di finanza straordinaria, non potendosi fare riferimento al bilancio dello Stato che è sottoposto ai vincoli derivanti dal patto di stabilità e dagli accordi di Maastricht.
Le misure attraverso le quali si può sostenere un piano strategico di questa importanza sono essenzialmente tre:
a) la trasformazione della Cassa Depositi e Prestiti in una banca di investimento dello Stato; b) la adozione di una legge che consenta ai principali operatori economici l’emissione di titoli fondiari per attività di raccolta finanziaria; c) la attrazione di finanza privata e comunitaria verso gli investimenti infrastrutturali ed il Fondo sovrano per la difesa dell’economia nazionale.
Perché la Cassa Depositi e Prestiti possa divenire lo strumento finanziario del Governo occorre realizzare una profonda ed articolata riforma, trasformandola in una vera e propria banca di investimento dello Stato.
Dotata di questa nuova missione, la Cassa Depositi avrà il prioritario ruolo di individuazione delle risorse finanziarie necessarie, al fine di impiegarle per la realizzazione delle opere proposte e delle iniziative necessarie.
b) La stessa Cassa potrà per prima fruire della necessaria legge che consenta la raccolta finanziaria attraverso l’emissione di titoli che, sulla base del sistema tedesco (“pfund brieve”) o francese (obligation foncière), consentano la cartolarizzazione del proprio portafoglio crediti.
Su questo specifico punto sarà necessario instaurare una prima importante attività di collaborazione con il sistema bancario, con le Poste, con le Fondazioni.
c) Si renderà inoltre necessario provvedere ad individuare ulteriori risorse finanziarie aggiuntive, quali quelle derivanti dai fondi UE destinati alle infrastrutture, ed a combinarle, in una attività di ingegneria finanziaria, con quelle dei privati e del sistema finanziario (BEI in primo luogo).
In tale ottica assumono particolare rilievo le risorse finanziarie delle Fondazioni, che potrebbero in parte essere indirizzate in questa direzione.
La riforma della Cassa Depositi dovrebbe essere pertanto uno dei primi passi da compiere, incidendo sull’aspetto legislativo, operativo (garantendo una forte autonomia della nuova Cassa ed assicurando un forte collegamento con i soggetti investitori a controllo pubblico quali Anas, ENEL, Ferrovie, ecc. ecc., anche mediante l’eventuale partecipazione del management della nuova Cassa ai relativi CdA) manageriale (individuando un management che abbia il profilo di un banchiere internazionale in grado di guidare la riforma).
In questo modo la nuova Cassa potrà intraprendere un percorso che la porti a raggiungere rapidamente i primi significativi risultati, quali:
assunzione di un ruolo di riferimento nella gestione finanziaria dei grandi progetti;
acquisizione e selezione di un proprio parco progetti;
costituzione di un sistema di partnership con le banche a livello locale;
definizione di partnership o di collaborazioni con i principali investitori bancari e finanziari internazionali e nazionali interessati ad investire in Italia; costituzione di un tavolo di lavoro con la UE (e la BEI in particolare), con lo Stato e le Regioni per ottimizzare l’utilizzazione dei finanziamenti comunitari.
Per il raggiungimento degli obiettivi la Cassa, avrà dunque bisogno di darsi una organizzazione che assicuri le principali funzioni di finanziamento, partecipazioni e servizi.
Per rendere più immediata la sua operatività la Cassa potrà nell’immediato servirsi di strutture specializzate, di cui in parte già dispone, da dedicare a compiti specifici e stabilire rapporti di collaborazione con varie unità tecniche costituite presso vari ministeri.
Inoltre la Cassa dovrebbe sviluppare una sostenuta attività di merchant bank destinata alla acquisizione e gestione delle partecipazioni.
In prospettiva i passi successivi dovrebbero prendere in considerazione – ma non appaia un’utopia – anche l’eventuale privatizzazione della stessa Cassa Depositi e Prestiti, dotata di una nuova identità ed orientata verso questa nuova missione.