Il 20 e 21 settembre – tranne sorprese dell’ultimo momento – si voterà anche per il referendum sulla legge di revisione costituzionale degli articoli 56, 57 e 59 della costituzione, con la quale si è ridotto il numero dei parlamentari da 630 a 400 per la Camera dei Deputati e da 315 a 200 per il Senato della Repubblica (e determinato in 5 il numero dei senatori a vita indipendentemente dall’alternarsi dei Presidenti della Repubblica).
Per quanto mi riguarda, voterò No, pur comprendendo forse alcune motivazioni di alcuni commentatori e colleghi favorevoli al Sì. Voterò convintamente contro la legge, pur sapendo che sarò in minoranza, perché non si tratta, a mio avviso, di una vera legge di revisione costituzionale e nemmeno di una sorta di ‘sbrego’ alla costituzione, come Gianfranco Miglio auspicava al fine di rendere l’Italia uno Stato federale. Non è una vera legge di revisione costituzionale perché a me pare sostanzialmente il risultato di un gioco fatto sulle regole supreme per ragioni che con la costituzione e la sua forma di governo non hanno nulla a che fare. Le costituzioni moderne sono o dovrebbero essere la forma simbolica comune entro la quale condurre la lotta politica delle idee e degli interessi e quindi dovrebbero sottrarsi alla volontà sempre presente di piegare il testo a questo o a quell’interesse di parte. Tanto più quando, come in questo caso, la ‘ratio’ della norma non è intrinseca alla funzionalità e alla logica della costituzione nel suo insieme, ma del tutto esterna ad essa: indipendentemente dal fatto che in altre logiche e in altri contesti si sia pensato in passato (e si potrebbe pensare anche oggi) di ridurre il numero dei parlamentari per rendere più funzionale la rappresentanza in uno con tutta un’altra serie di modifiche pregiudiziali e conseguenziali (a partire dal superamento del bicameralismo perfetto e paritario), in questo caso la causa è dichiaratamente un’altra: il risparmio economico (tutti ricordiamo i deputati grillini giocare con forbici e maxi-assegni), dunque una motivazione del tutto estranea alla logica delle costituzioni moderne.
Ora, se anche ci si fermasse a questo tipo di ragionamento, i dubbi sulla validità della riforma ci sarebbero già tutti: perché ridurre il numero dei parlamentari con un risparmio ridicolo nel momento in cui si sprecano, oggi, in sussidi improduttivi e per di più tutti a debito 100 miliardi di euro? Se veramente si fosse voluto realizzare un qualche risparmio la via era lineare: portare da subito gli stipendi degli attuali parlamentari al livello dei deputati della ricchissima e parsimoniosa e non indebitata Germania: 9780,28 euro lordi al mese, cioè quanto guadagna un giudice della Corte costituzionale federale di Karlsruhe (di euro i giudici della nostra Consulta ne guadagnano circa 30.000 al mese e questo spiega i comportamenti di tanti costituzionalisti nostrani). Non sono bravo in matematica, ma provate a moltiplicare un risparmio di circa 5000 euro al mese per 915 per 12 e poi per 5 (e se volete per 4, gli anni effettivi di questa legislatura e poi a seguire), aggiungete anche le spese milionarie per tenere il referendum e vi renderete conto che qui non abbiamo a che fare con una “legge di revisione costituzionale”, ma con la peggiore propaganda pseudo-politica, indirizzata a solleticare i risentimenti e la rabbia della gente, già di suo abituata a far pensare gli altri al proprio posto.
Del resto, che i grillini siano appunto i seguaci di un buffone spiega tutto: dall’abolizione della povertà proclamata di notte da un balcone allo scambio del Venezuela col Cile o alla collocazione di Matera nelle Puglie. Si può essere contro l’euro, ma non sapere poi – come è accaduto a un’esponente dei 5 stelle in televisione – se si voterebbe a favore o contro un eventuale referendum sul tema è il massimo non so se dell’ignavia o dell’arroganza tipica dell’ignoranza. Si possono taroccare i propri curricula senza vergognarsene come non ci si preoccupa di sfilare sui tappeti rossi dei Consigli europei in compagnia del proprio ‘portavoce’, facendo confondere gli osservatori: sono forse due i primi ministri dell’Italia? Tutto è possibile quando manca il senso dello Stato e l’obiettivo è sfasciare per un tornaconto oscuro, semmai combattendo la diffusione del virus e il declino economico comprando, sempre a debito, monopattini fabbricati in Cina e banchi con le rotelle per giocarci a macchine da scontro (sicuri che qualcuno non ci guadagna?).
Assistiamo così ad una prassi che di politico non ha nulla: è un gioco che si svolge per amore del gioco: non importa se la terra sia rotonda, perché forse è piatta. Ora, finché si tratta dei terrapiattisti, l’affare ha molto di folcloristico e tutto sommato non è la cosa più pericolosa. Un po’ diversamente stanno le cose quando si comincia a giocare non più solo con i soldi degli italiani (se agli italiani piace essere indebitati nei secoli sono fatti loro) o con l’occupazione dei palazzi del potere pubblico, ma con le regole e soprattutto con quel senso dello Stato che in realtà coincide proprio con lo Stato, dal momento che lo Stato altro non è che il senso dello Stato. Si dirà che sto esagerando. Ridurre il numero dei parlamentari significa davvero tutto questo? Ovviamente non è il dato in sé, che pure ha delle conseguenze negative cui accennerò alla fine, che può produrre questo risultato. Ciò che è profondamente negativo è l’ideologia perversa che sottende la legge di riforma, è il fatto che si possa giocare impunemente con la costituzione. Perché se la ratio non è quella economica resta solo il balordo ghiribizzo di far credere alla gente di fare qualcosa che in realtà non ha alcun significato. Questa non è una revisione costituzionale, ma uno sfregio gratuito fatto alla costituzione della Repubblica italiana, la quale, fino a quando sarà tale, dovrebbe essere sentita come la costituzione di tutti gli italiani.
In verità, questo sfregio è anche l’esito di un altro sfregio tentato e andato a male. Alludo alla cosiddetta riforma costituzionale di Renzi e Boschi. Se i grillini sfregiano la costituzione con risultati problematici, Renzi faceva lo stesso, sia pure con maggior sapienza: faceva poggiare la costituzione (che dovrebbe essere la legge superiore) su una legge ordinaria (la legge elettorale) e di fatto metteva tutto in mano al Presidente del Consiglio, dal quale sarebbe dipeso il futuro del paese nei successivi 50 anni (come dire che Renzi e Boschi diventavano il re e la regina d’Italia: cfr. A. Carrino, Anamorfosi costituzionale. Per la critica di una riforma postuma ed oscura, in Lo Stato, 2016/1). Del resto, se non avessimo avuto Renzi Presidente del Consiglio, non avremmo avuto un governo dei grillini: come disse lo stesso Renzi a una scolaresca: “se Presidente del Consiglio sono diventato io, lo può diventare chiunque”. Diciamo che fu buon profeta.
Perché si tratta di uno sfregio e basta? Perché una costituzione non è un insieme di proposizioni normative messe una dopo l’altra, ma costituisce un corpus organico di norme che sono il risultato di una decisione politica (cfr. A. Carrino, La costituzione come decisione. Contro i giusmoralisti, Milano, Mimesis, 2019). La costituzione è la forma che il potere politico sovrano si dà nel momento in cui si costituisce come Stato. Arriviamo così al discrimine politico, ideale e culturale che impone la scelta a favore del No. Se si pensa che le costituzioni siano il ‘prius’ rispetto allo Stato, che le costituzioni ‘creino’ gli Stati e le nazioni e che il diritto astratto debba prevalere sulla concretezza politica e storica, si può anche votare Sì, perché in questo caso si ricade nell’ideologia giusmoralista per la quale ciò che conta non è la storia né la decisione politica, ma solo l’astratto diritto soggettivo, che prevale sul collettivo. Da un certo punto di vista quel personale politico di sinistra che si sta convertendo al No dovrebbe prima fare autocritica su molti aspetti della loro propaganda. Ma la questione più dirimente sta nel fatto che se si ritiene che una nazione sia il prodotto di una legge, che si può fare a meno delle “dure repliche della storia”, del primato dei doveri sui diritti, allora si può ritenere anche che una costituzione ha senso solo nella misura in cui sia funzionale ad un determinato progetto di interessi particolari di una particolare lobby. Il progetto può essere buono o cattivo, ma presuppone sempre il primato del soggettivo sull’oggettivo, del privato sul pubblico, dell’interesse di una parte sull’interesse pubblico.
Così stanno le cose con questo gioco sul numero dei parlamentari. Intendiamoci: non sto attribuendo ai grillini una qualità culturale che non hanno, ignorando essi il concetto stesso di cultura. Non ne sto facendo i rappresentanti di quel “patriottismo costituzionale” alla Jürgen Habermas che andava di moda qualche anno fa, quando anche in Germania si pensava che lo Stato fosse morto e che si fosse passati dalla dottrina dello Stato alla “sociologia della costituzione” (sto citando il titolo di un saggio di un mio amico della Humboldt di Berlino: Hasso Hofmann, Dalla dottrina dello Stato alla sociologia della costituzione, in La libertà nello Stato moderno, Napoli, Guida, 2010). I grillini giocano perché “non sanno quello che fanno”, tanto che solo qualche anno fa erano loro stessi contrari alla riduzione del numero dei parlamentari e domani potrebbero dire che è necessario tornare ad avere 1000 parlamentari. Si tratta di un gioco per il gioco senza razionalità e coerenza: hanno proposto 600 parlamentari come avrebbero potuto chiedere di dividere l’Italia in 100 regioni e 50 province (invertendo le priorità territoriali). Perché 600 e non 500?
Pare che all’epoca dello Stato libero di Fiume Gabriele D’Annunzio avesse mandato Alceste De Ambris da Hans Kelsen, allora noto per avere da poco contributo alla redazione della costituzione della prima repubblica austriaca, del 1920. Il Comandante voleva che Kelsen scrivesse una costituzione per Fiume e il giurista austriaco, un po’ sorpreso, rispose: «come la vuole, bell’e fatta o su misura?». Kelsen non avrebbe mai immaginato, nonostante l’ironia, che cent’anni dopo le costituzioni si sarebbero potute fare addirittura “à la carte”: un po’ di questo, un po’ di quello, togliendo questo, aggiungendo quest’altro, semmai qui un po’ più di pepe e lì meno sale. A dire il vero, nemmeno oggi, in altri paesi, si riesce a immaginare una ‘fattura’ del genere. Da questo punto di vista, l’Italia è all’avanguardia nella trasformazione della politica e del diritto in costruzioni buone per un circo equestre.
II.
Ma tornando alla questione, il punto è che l’Italia è una repubblica parlamentare. Può piacere o non piacere, ma la decisione politica fondamentale che sta alla base della nostra costituzione è questa. Si tratta di una decisione politica non più legittima perché le forze politiche dominanti oggi vorrebbero una forma di governo diversa? Sarebbe meglio una repubblica presidenziale o un cancellierato? Un premierato sul modello britannico? Tutto possibile e anzi chi scrive, a onor del vero, è un critico da sempre del ‘parlamentarismo’, anche nella forma razionalizzata della nostra costituzione. Il parlamentarismo produce sin dall’inizio la sua critica, perché i parlamenti non possono governare, ma dovrebbero limitarsi a controllare l’attività di governo e a fare leggi (poche) generali e astratte. Il parlamentarismo borghese è entrato in crisi nel momento stesso in cui la rappresentanza non ha più potuto essere censitaria (all’indomani dell’unità d’Italia aveva diritto di voto circa il 2 per cento della popolazione e non a caso i deputati non venivano pagati) e lo Stato ha in poco tempo dovuto fare i conti con l’ingresso delle masse nelle istituzioni (si legga il famoso saggio di Carl Schmitt del 1924: La condizione storico-spirituale dell’odierno parlamentarismo, Torino, Giappichelli, 2002). Lo Stato è diventato Stato dei partiti e la rappresentanza parlamentare ha perso – già nell’Italia prefascista e in Germania nella Repubblica di Weimar – ogni nesso con il territorio (non a caso la Boschi, pur essendo toscana, si è fatta eleggere in Alto Adige).
Voglio dire che la crisi dei parlamenti è una crisi strutturale quando ai parlamenti si assegnano scopi che non sono propri della loro funzione. Per di più, si tratta di un processo già noto, perché quando qualcuno se la prende oggi con le “liste bloccate” nel sistema elettorale dimentica che si fece la stessa cosa negli ultimi anni di Weimar proprio per tentare (invano) di combattere le disfunzioni del parlamentarismo. E come allora, dal 1930 al 30 gennaio 1933 si andò avanti con i decreti del Reichspräsident senza che il Reichstag nulla facesse per contrastarli pur avendone la facoltà costituzionale, così oggi si va avanti – ed è molto più grave – con atti amministrativi quali i “Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri” (i famigerati DPCM, con i quali si stabilirà anche – forse, avendo già avuto il Presidente del Consiglio il placet delle Camere sullo “stato di emergenza” – che le elezioni non possono più essere svolte); tutto ciò con un parlamento complice, che sarebbe ancora più succube e complice se ridotto di numero e con le opposizioni ridotte al lumicino.
Come a Weimar, così oggi la crisi del parlamentarismo non mi pare una ragione sufficiente per aggravarla senza risolvere la questione di fondo, che è quella di un governo autenticamente rappresentativo del corpo elettorale (nei limiti intrinseci ad ogni sistema ‘democratico’, dove spesso quel che conta è innanzitutto il denaro), ma limitandosi – come quei teppisti che rigano le macchine altrui – a sfregiare la rappresentanza parlamentare, rafforzando come vedremo più avanti il potere oligarchico dei partiti attuali, rischiando di aggravare tanto più, proprio per l’assenza di un disegno organico di riforma costituzionale funzionale ad una decisione politica fondamentale, l’attuale confusione e la mancanza di una rappresentatività reale tra il corpo elettorale e i deputati e senatori. Una riforma costituzionale presuppone l’accettazione dei presupposti impliciti ed espliciti della costituzione, la conformità con il suo ‘spirito’, la conseguenzialità rispetto alla decisione fondamentale. Tutto questo manca nella attuale riforma, la quale, ripeto, è in sé e per sé un mero gioco.
La nostra costituzione è la costituzione di uno Stato sociale di diritto e non a caso piaceva anche a intellettuali di tutt’altra parte (penso a Giano Accame) che ci vedevano una serie di progetti tipici di una visione nazional-sociale (persino il tanto vituperato Cnel aveva in fondo una vocazione semi-corporativa della rappresentanza). Qual è mai il nesso tra la “riduzione del numero dei parlamentari” e lo spirito di questa costituzione? Evidentemente nessuno e questo del tutto indipendentemente dal fatto che si può auspicare una nuova Assemblea costituente che riveda il patto alla luce delle trasformazioni e delle nuove esigenze maturate in questi ultimi 70 anni. Se si va a rileggere gli atti dell’Assemblea Costituente, ci si renderà conto che la base della scelta fu quella del rapporto tra elettori ed eletto: prima un deputato ogni 80.000 elettori, poi 100.000, mentre molti volevano che il rapporto non fosse fisso ma seguisse i flussi demografici. L’idea di allora, che è ancora oggi l’idea di fondo, è che debba esservi un qualche nesso in qualche modo tra chi vota e chi viene eletto, nesso che dopo Tangentopoli è andato indebolendosi sempre più, fino a fare degli eletti dei funzionari ben pagati scelti dalle segreterie dei partiti. Con la riduzione del numero e lo sbandamento ufficializzato dei meccanismi elettorali (di ogni tipo e colore, del tutto staccati dall’esigenza fondamentale della rappresentanza organica, inventati lì per lì prima delle elezioni) la riduzione del numero dei parlamenti si trasformerà nella ufficializzazione della nuova forma di governo dell’Italia a 5 stelle: la repubblica dei Dpcm.
Che l’unica motivazione apparentemente giuridica e logica possa stare esattamente nello svuotamento del parlamento e nella creazione della repubblica dei 5 stelle lo ha confermato indirettamente un costituzionalista del Partito democratico, in un articolo su Repubblica del 19 agosto scorso, a firma Stefano Ceccanti. Merita di essere commentato questo intervento perché è significativo da più punti di vista.
III.
«Il Parlamento nazionale – ha scritto Ceccanti per sostenere il Sì – non ha più l’esclusiva della produzione di norme. In Italia le Regioni hanno potere legislativo e il nostro Paese, come altri, deve adeguarsi alla crescita del rilievo normativo dell’Unione europea».
Premesso che il Partito democratico è lo stesso partito che sulle 4 votazioni necessarie per far passare la revisione costituzionale (2 per ogni Camera a distanza di 6 mesi) ha votato 3 volte contro la legge e solo l’ultima a favore, cioè dopo aver sottoscritto un accordo di governo con i 5stelle per il “Conte 2”, a conferma di una stupefacente (in)coerenza intellettuale e politica, riaffermata da Zingaretti quale ragione fondamentale del Sì, premesso ciò vorrei notare come la tesi dell’on. Ceccanti è gravemente lesiva del principio della sovranità popolare ex art. 1 Cost., che prevede che il popolo italiano, che ne è il titolare, la eserciti nella sua unità di nazione (non ha a caso i parlamentari rappresentano “la Nazione senza vincolo di mandato” ex art. 67 Cost.) tramite la potestà legislativa nel senso proprio dello Stato di diritto costituzionale introdotto dalla nostra Carta, ovvero tramite leggi generali (valide per tutti gli Italiani) e astratte (che prescindano da particolari caratteristiche di questo o quel gruppo se non per ragioni particolari o in attuazione del principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost.). La legge del Parlamento, pur essendo notoriamente in crisi probabilmente da sempre (ma questo è un altro discorso) era e resta la forma specifica di esercizio della sovranità del popolo italiano nella sua interezza.
Rispetto al principio costituzionale vigente né le leggi regionali cui si richiama Ceccanti (che come sono state introdotte nell’ordinamento così potrebbero essere espunte ove si cambiasse la pessima riforma del 2001 relativa al Titolo V della Costituzione) né il potere normativo sovranazionale dell’Unione europea (che resta legittimato da accordi internazionali tra Stati nonostante tutto ancora sovrani) possono mettere in discussione il fatto che – fino all’affermarsi di un nuovo potere costituente – il sistema costituzionale vigente è un sistema – piaccia o meno – di tipo parlamentare, sia pure, come si dice in dottrina, ‘razionalizzato’; si tratta di un sistema dove la sovranità nel significato di cui prima viene esercitata nella forma parlamentare.
È vero, come dice Ceccanti, che il Parlamento non ha più il monopolio della produzione normativa, ma non perché esistono le Regioni, quanto perché si è prodotto, contro la Costituzione vigente e grazie anche al suo partito, un vulnus alla forma parlamentare in forza di un esercizio del potere normativo in via di fatto in testa al governo e negli ultimi mesi specificamente in testa al Presidente del Consiglio, che facendo un uso estremo dei decreti-legge e persino dei decreti del Presidente del Consiglio (atti sostanzialmente amministrativi) si sono avvalsi, l’uno e l’altro, della complicità inerte di un Parlamento che nel tempo è andato sempre più perdendo qualità, senso di responsabilità, capacità di discussione autonoma ben oltre la dipendenza dalle segreterie dei partiti, che non esistendo più nella vecchia forma di entità ideologicamente legittimate sono diventati in parte dei meri gruppi di interessi privati o pseudo-pubblici (significativa la dipendenza dei 5stelle da un comico e da una società commerciale).
Rispetto a questa tragica “anamorfosi costituzionale” la risposta dovrebbe essere o la riqualificazione della costituzione vigente o una assemblea per una nuova costituzione, semmai con una forma presidenzialista. Una revisione costituzionale come quella favorita dai 5stelle e ora dal Pd è una sciagura per la dignità delle istituzioni (e quindi per un già compromesso senso dello Stato), che non dipendono certo dal risparmio di quattro soldi (perché non si è dimezzato da subito lo stipendio dei parlamentari?) nel momento stesso in cui si sprecano 100 miliardi in sussidi, ma dal rispetto delle regole. Può essere che il Parlamento sia morto, ma allora non si riduce il numero dei cadaveri viventi, ma si crea una nuova forma di produzione normativa. Meglio una nuova Costituzione che una Costituzione Frankestein, dove la rappresentanza democratica del popolo italiano diventa un optional a disposizione del potente di turno.
Ceccanti dice anche che il numero dei parlamentari è stato già in passato cambiato (in effetti l’attuale numero fu fissato nel 1963) e io potrei aggiungere che proprio il numero di 400 deputati non è in sé una novità: non lo ha ricordato nessuno, ma è proprio questo il numero stabilito dalla Legge 1019/1928, art. 1, cioè da una legge del deprecato ventennio fascista. Non che i 5 stelle sapessero cosa faceva Mussolini nel 1928 (non credo di sbagliare pensando che la gran parte di loro collocherebbe il regime fascista nell’Ottocento o durante l’Impero romano, se sapessero cosa fu l’Impero romano) e nemmeno ci interessa. Restando nella oggettività della questione proprio confrontando l’attuale riforma con quella legge di revisione del 1963 si dimostra che vi è uno strappo profondo tra il senso della costituzione nel suo complesso e questa norma individuale odierna. In quel caso, ma anche in tutte le proposte fatte alla Costituente, si trattava di stabilire un rapporto tra numero dei rappresentanti e numero degli elettori, rapporto che in questo caso non viene nemmeno preso in considerazione, essendo come detto la ‘ratio’ unicamente quella del cosiddetto costo della politica (si tratta di un risparmio dello 0,007 per cento, una presa in giro).
Le conseguenze sono però gravi se si parte dal presupposto che la crisi della politica nei sistemi democratici dipende dallo ‘scollamento’ tra paese reale e paese legale, ovvero tra gli elettori e gli eletti. La lontananza tra territorio e rappresentanza invece di essere colmata, semmai con un sistema elettorale maggioritario all’inglese, per il quale ogni circoscrizione abbia il suo proprio rappresentante, si amplia, specificamente da circa un deputato ogni 96.000 abitanti a uno ogni 151.000 per la Camera e da 1 ogni 189,000 a 1 ogni 303.000 per il Senato. Intendiamoci: in sé il rapporto dice poco, tanto che già alla Costituente non erano mancate proposte anche di un rapporto analogo per la Camera, ma la valutazione va fatta in rapporto alla situazione concreta. In questo momento una riforma del genere non solo non va nella direzione da molti auspicata di un avvicinamento tra elettore ed eletto nel senso di responsabilizzazione della popolazione alla politica superando il senso di estraneazione che si è da troppo tempo prodotto, ma di fatto lo aggrava. L’elettore non solo rischia di trovarsi ad essere rappresentato da una persona di altro territorio, con buona pace, per quanto riguarda la Lega, di ogni idea federalista, ma il nesso si indebolirebbe vieppiù aggravando la crisi della politica.
La situazione si palesa critica anche considerando la riforma della legge elettorale in discussione, definita seconda questa oramai insopportabile aggettivazione appositiva “Brescellum”, una modifica della legge in vigore estendendo il proporzionale con uno sbarramento al cinque per cento e un recupero di qualche rappresentante per “diritto di tribuna”. Si tratta di una proposta di legge che conferma, ove ce ne fosse stato bisogno, il sistema delle “liste bloccate”, che come ho detto trova una anticipazione prima che in Italia nella Germania pre-hitleriana. Tra riduzione dei rappresentanti, sistema proporzionale (che non è nemmeno quello della “prima repubblica”, che aveva una sua dignità e una sua logica che oggi nessuno ricorda più) e liste bloccate, ovvero nomina dei deputati e dei senatori nel chiuso di una stanza, il futuro di questo paese non è nemmeno quello delle repubbliche delle banane, perché con i DPCM non si fucila nessuno (in Europa, almeno), ma ci si limita a fare debiti da accollare ad altri e distribuirli in sussidi di dubbia utilità. Si badi: non intendo come qualcuno dire che ci aspetta una “dittatura”, semmai con Giuseppe Conte come “dittatore”. Siamo ovviamente nel campo dei “fatti miei”, non certo del Blut und Boden. La repubblica dei DPCM potrà indignare, ma gli effetti saranno comunque catastrofici: un governo che governa con atti amministrativi “legittimati” da un parlamento di nominati è la fine della certezza del diritto, della responsabilità politica, della decenza e del senso etico.
Da questo punto di vista il raffronto con Weimar, pur trattandosi lì di tragedia e qui di farsa, ha senso. Cito da un classico della storiografia su Weimar:
Deleterio per il consolidamento del regime parlamentare fu anche un altro punto debole del sistema proporzionale: la resezione del legame che unisce il deputato al suo collegio. Il territorio del Reich fu ripartito in 35 collegi. Un “collegio” del genere è naturalmente troppo ampio per favorire la coscienza dell’appartenenza a una medesima comunità tra gli stessi elettori, o tra essi e il deputato. Era già molto se un elettore conosceva almeno il candidato che apriva la lista alla quale egli aveva dato il suo voto; degli altri candidati che rappresentavano il suo collegio, in genere, non sapeva nulla. Egli votava una lista, ma non aveva alcuna influenza sul modo della sua costituzione, che era fissata da un ristretto numero di persone particolarmente devote al partito. Chi era loro sospetto non aveva alcuna speranza di entrare nel Reichstag, anche se godeva di larga popolarità tra gli elettori (E. Eyck, Storia della Repubblica di Weimar, Torino, Einaudi, 1966, pp. 74-5).
I termini del problema sono oggi gli stessi di 90 anni fa a Berlino. Può apparire eccessivo attribuire rischi del genere ad una legge fatta per solleticare i peggiori istinti degli elettori? In apparenza può sembrare così, ma bisogna avere il polso della situazione e di tutto ciò che da una norma può discendere e che ad un ‘laico’ può sembrare assurdo o eccessivo. Se questo referendum passa e con esso la legge elettorale in discussione, l’attuale governo avrà tutto nelle proprie mani e Conte (o chi per lui) non avrà bisogno di improbabili pose ducesche o di baffetti tinti per governare questo paese con i suoi Dpcm proclamati in televisione la sera tarda, semmai “salvo intese” con se stesso. Questo governo non cadrà prima che sia passata una nuova legge elettorale proporzionale e anzi sarà proprio interesse dell’attuale governo, una volta eletto il Capo dello Stato nel 2022, andare subito a nuove elezioni per raccogliere i frutti: 600 finti “eletti” di cui la grande maggioranza nominati da Conte, Casalino, Bonafede e Franceschini. A me pare un incubo, la peggiore antipolitica che si fa stato, ovviamente con la s minuscola.
IV.
Non voglio dire che votando No si risolve il problema dell’antipolitica, ma certamente si eviterebbe di aggravare una condizione particolarmente critica mettendo altre munizioni nelle mani di apprendisti stregoni. Di tutto in questo momento abbiamo bisogno tranne che creare nuovi e inutili problemi, specie in una fase di decadenza quale quella che stiamo attraversando. L’indirizzo generale sotteso alla riduzione dei parlamentari non va verso la centralità del parlamento (centralità che è puramente ideologica) né verso una riforma costituzionale in senso presidenzialista (come pure è stato paventato o auspicato da altri), ma semplicemente, nel contesto attuale e a costituzione materiale vigente, verso l’assoggettamento della rappresentanza parlamentare all’esecutivo. Non dunque una nuova decisione politica ma una finta democrazia parlamentare, dove la responsabilità politica verrebbe ulteriormente indebolita venendo di fatto nascosta dietro una finzione meramente formale di rispetto delle norme. Né democrazia parlamentare né democrazia presidenziale, ma un ibrido dove nessuno risponde a nessuno: non l’eletto all’elettore, non il governo al parlamento, che sarebbe solo – come nella riforma Renzi – il nominato del partito di maggioranza e dove la minoranza sarebbe ridotta a un ruolo di pura testimonianza.
Non è dunque da valutare la singola legge in sé, ma nel contesto attuale e probabile, un contesto di crisi profonda della qualità del personale politico. La riforma costituzionale non ha una sua forza intrinseca, ma si presenta anzi come una forma vuota, in attesa di essere riempita senza che il potere costituente (il popolo sovrano) nulla possa, sappia o voglia una volta entrata in vigore la nuova norma.
Ciò che mi sembra essere in gioco non è tanto la ‘democrazia’, che è sempre qualcosa di discutibile, ma la responsabilità politica, cioè la possibilità che il governante possa rispondere delle sue scelte. Un numero ridotto di rappresentanti, infatti, consente un controllo ancora più efficace della composizione parlamentare da parte delle direzioni dei partiti. La dialettica politica verrebbe ad essere ancor più gravemente compromessa, con un esito molto simile agli ultimi tre anni della Repubblica di Weimar, dove, come accade oggi in Italia, i rappresentanti venivano preliminarmente decisi dai capi dei partiti. È vero che è quello che accade già oggi, ma in tal modo si renderebbe ancora più difficile e complesso immaginare una vera possibile riforma della rappresentanza. Da questo punto di vista, appare insensato proprio il numero dei parlamentari, scelto a caso, per gioco. Nell’ottica politica che sta per concretizzarsi con la vittoria purtroppo scontata del Sì al referendum 600 parlamentari saranno anzi un numero sproporzionato: sarebbero più che sufficiente un senatore per regione, quindi 20, e 50 deputati in tutto, che avrebbero l’unico compito di approvare le deleghe al governo e ai suoi ‘comitati’ più o meno tecnici e ‘commissioni’ più o meno politiche, secondo la prassi oramai invalsa di creare strutture del genere, sostanzialmente inutili come inutili sono la gran parte dei provvedimenti del governo in carica.
Né è a dire che riducendo il numero dei parlamentari si rafforzerebbe la ‘governabilità’, perché vi sono due concetti di governabilità, uno buono e uno cattivo: nulla a che fare con la governabilità buona, che presuppone una sua legittimazione attraverso l’elezione diretta, per esempio del Capo del governo e/o del Capo dello Stato (“la Magna Charta della democrazia”, secondo Max Weber), ma tutto a che fare con la governabilità cattiva, quella priva di legittimazione e fondata su una formale legalità senza contenuti sostanziali, quella, per esempio, che fa del parlamento una succursale della piattaforma Rousseau dei 5 stelle. Un parlamento di numero ridotto, con una legittimazione dimidiata, consentirebbe ancor più un governo oligarchico di lobbies particolari i cui membri si riconoscono tra i loro in forza e virtù di specifiche co-appartenenze a gruppi chiusi. L’universalità della rappresentanza verrà ancor più irrimediabilmente violata.
Non è dunque inevitabile pensare alla centralità del parlamento o alla costituzione ‘più bella del mondo’ per capire che votare No è un gesto doveroso anche e forse proprio per chi, come il sottoscritto, auspica una Assemblea costituente che riveda o riformi il patto associativo del 1947. La democrazia è un’ideologia ma può anche essere solo una tecnica, specificamente una tecnica per la produzione dei capi e delle élites. Una tecnica complessa e delicata, che dipende da molte varianti e in particolare dal livello culturale di un popolo, ma anche l’unica tecnica possibile in condizioni non di eccezione. Questa riforma, del tutto inutile, pleonastica, demagogica e fondamentalmente truffaldina, è in sé solo il primo tassello di una riforma assai più generale della costituzione materiale, prima che della costituzione formale. Si illude chi pensa che da questa potrà venir fuori qualcosa di positivo, perché è solo un’arma messa in mano a persone irresponsabili, culturalmente e politicamente. È del resto una riforma in sé monca, che imporrà ulteriori interventi legislativi ordinari fatti dalla stessa maggioranza che ha voluto questa riforma e che quindi potranno solo essere coerenti con gli interessi di questa maggioranza. Il rischio, anzi direi la certezza, è che tutto venga deciso dalle segreterie dei partiti: paradossalmente, l’effetto è simile a quello della riforma Renzi/Boschi: anche lì si voleva ‘costruire’ un parlamento funzionale al potere in carica prima del rinnovo delle Camere.
La politica si potrà fare sempre più solo attraverso i mezzi di disinformazione di massa, perché in collegi così vasti sarà impossibile per i candidati avere un confronto con i ‘loro’ elettori. L’ufficio elettorale del deputato, al quale si rivolgeva anche per chiedere favori la “gente del posto” diventerà un ricordo storico. Tutto si farà ancor più fumoso e la lontananza tra “elettori” (espressione già ora senza senso) e politici diventerà abissale. Il palazzo (che qualcuno voleva aprire “come una scatoletta di tonno”) diventerà la torre inarrivabile da qualunque volontà popolare concreta. L’unica alternativa diventerà inevitabilmente la rivoluzione, un fenomeno assolutamente improbabile. Altro che un parlamento come gli altri: tutti gli altri parlamenti europei hanno un numero pari o anche maggiore di rappresentanti; i tedeschi addirittura li possono anche aumentare a seconda delle elezioni per rispettare la doppia scheda degli elettori tra proporzionale e maggioritario (i deputati alla Camera bassa sono attualmente 709, ai quali vanno aggiunti i membri del Bundesrat, nominati dai governi dei singoli Länder).
Ciò che questa insensata riforma impone è infatti un ripensamento della legge elettorale, ovvero la riformulazione dei collegi da parte del governo, che sarà fatta in ossequio all’interesse di parte, senza escludere la creazione di collegi predeterminati a favore di un partito e a svantaggio dell’altro. Ma le conseguenze negative sono tante: come e chi eleggerà gli organi di garanzia, per esempio i giudici della Corte costituzionale, i membri laici del Csm, il Presidente della Repubblica? Con quale rapporto tra cittadini aventi più o meno di 25 anni, essendo ancora in vigore la differenziazione attiva tra Camera e Senato? Quale forza per le Regioni rispetto al Parlamento nell’elezione del Capo dello Stato? Chi metterà in discussione il potere di un ignoto avvocato di nominare i vertici dei servizi dopo aver secretato questo e quel documento? Come verranno riformati i regolamenti parlamentari? Ovviamente, in questo caso, solo nel senso di poter dire velocemente e senza discussione “sì” a questo o a quel decreto del governo e facilitando le leggi di delega.
Ma c’è ancora un altro rischio occulto nella nuova ‘forma’ costituzionale in virtù delle distorsioni che si produrranno: il rischio è che l’alternativa a questa finora ignota forma di governo, “lo Stato dei Dpcm”, sia lo Stato dei giudici. Già con la riforma del 2001 le contraddizioni di quella riforma furono sciolte e superate da buone sentenze della Consulta; immaginiamoci ora ricorsi di costituzionalità per mancanza di rappresentatività e violazione sostanziale dell’art. 1 sulla sovranità popolare, ricorsi decisi o da una Corte che riafferma vieppiù il proprio primato sulla politica o da una Corte anch’essa di nominati. Un incubo nel paese di Gaio, Bartolo, Beccaria e, se mi è permessa una scorrettezza, anche di Alfredo Rocco.