Redazione

Destra di ieri e destra di oggi

La destra italiana in questi ultimi mesi è stata sotto stretta osservazione per verificare quanto di fascista e quanto della tradizione missina siano ancora presenti in Fratelli d’Italia.
Il gioco del paragone tra periodi storici diversi è facile quanto pericoloso: ci permette di avere poche, talvolta fallaci, ma sempre rassicuranti certezze ma non ci consente di comprendere fino in fondo entità diverse e in genere non rapportabili perché situate in periodi diversi.
Il sillogismo è semplice: Fratelli d’Italia nasce da Alleanza nazionale, la quale nasce dal Msi, il quale, infine, nasce dal fascismo. Ergo, Fratelli d’Italia nasce dal fascismo. Lo stesso discorso lo si potrebbe fare per altri schieramenti: una parte dell’attuale Pd è figlio del Pds, il quale a sua volta è figlio del Pci: Franceschini è dunque uguale a Bordiga e a Togliatti?
Le famiglie politiche esistono ma esiste anche il tempo; la durata delle famiglie politiche nella storia dipende dal loro grado di adattabilità alle situazioni, con forti modifiche alla tattica, alla strategia, all’ideologia. Chi l’avrebbe detto, cinquant’anni fa, a Scelba e a Togliatti, che i rispettivi nipoti sarebbero stati nel medesimo partito? e chi l’avrebbe detto a Secchia, nel 1949, che 73 anni dopo le durissime polemiche comuniste contro il Patto Atlantico, i suoi nipotini del Pd sarebbero diventati i più accaniti difensori dell’alleanza con gli Usa?
Questa è la storia e questi sono i conti che la storia presenta periodicamente alla ideologia.

Intanto chiariamo una cosa: in Italia l’ultimo governo di centro-destra è stato quello di Berlusconi, il quale seppe dare in vent’anni voce a un’Italia moderata che c’era ma che non aveva mai avuto una cittadinanza politica. Prima di lui, c’erano stati altri due governi che possiamo definite di centro destra: il quindicennio della destra storica di cavouriana memoria, conclusosi con il governo Minghetti nel 1876 e quello di Salandra del 1914.
Si potrebbe obiettare che c’erano stati anche il fascismo e, tutto sommato, la Dc a rappresentare i moderati e la destra. È vero. Tuttavia, il fascismo era nei fatti di destra (fascismo regime) e nelle prospettive di sinistra (fascismo movimento) e la sua eredità fu rappresentata più dal fascismo movimento che dal fascismo regime.
La Dc, al contrario, era nei fatti propensa a un accordo con la sinistra mentre le sue parole d’ordine erano sicuramente funzionali a rassicurare la sua base elettorale, in maggioranza moderata.
In effetti, il fascismo e la Dc furono due movimenti sintetici, cioè di sintesi, interclassisti e destinati a un pubblico ideologicamente vario. Riuscirono a rappresentare speranze talvolta contraddittorie ma sempre reali. In un mondo nel quale, da sempre, le differenze ideologiche si basavano soprattutto su esigenze di classe, il fascismo e la Dc, in maniera del tutto diversa, il primo con la dittatura, la seconda nell’ambito di uno stato democratico, riuscirono a rappresentare categorie sociali diverse e, attraverso quelle, realizzare un processo di modernizzazione, al di là delle ideologie cui si riferivano.
Questa notazione costituisce la prima grossa differenza fra il fascismo e la destra di oggi, la quale non mi pare abbia alcuna ambizione di rappresentare il “tutto”, un’ambizione che oggi, a differenza del passato, potrebbe realizzarsi solo in termini di controllo tecnologico.
Altri elementi vanno segnalati per chiarire il rapporto di Fratelli d’Italia con il passato.
Se il fascismo aveva sostanziali pulsioni rivoluzionarie (pensiamo alla polemica con la borghesia o all’idea di una guerra rivoluzionaria contro le “demoplutocrazie giudaico massoniche”), la destra di oggi è atlantica, anche più del Msi, che ci mise alcuni anni per accettare, non sempre entusiasticamente, l’alleanza con i vincitori occidentali della seconda guerra mondiale.
Il fascismo era stato responsabile delle leggi razziali e la destra oggi considera aberrante ogni discriminazione razzista. Ancora: il fascismo era figlio delle avanguardie del primo Novecento ed era figlio della guerra, anzi di essa fu il prodotto più significativo: dalla guerra aveva attinto linguaggio e metodi (la divisa, la “battaglia del grano”, ecc.). L’attuale destra è figlia di oltre settant’anni di pace, con i relativi valori ormai sedimentati, in un’ottica internazionale dalla quale non si può più prescindere.
Certo, l’attuale destra ha il senso dello Stato, ma non quello di marca fascista (un partito che si identifica con lo Stato), quanto piuttosto quello della destra storica, che voleva le ferrovie statali quando la sinistra vi si opponeva, per la quale lo Stato era una comunità in regime di libertà politica.

E veniamo al Msi.
Al primo congresso (1948) emerse la linea del “Non rinnegare e non restaurare”, una formula comoda che permetteva alla base del partito, fortemente condizionata dal ricordo vivo del fascismo, di rinunciare a ogni ipotesi restauratrice. Che il Msi sia stato erede del fascismo è ormai assodato. Tuttavia, la moderna storiografia sul Msi ha messo l’accento sul fatto che per mezzo secolo (dal 1946 al 1994) questo partito non venne mai meno – neppure nei momenti più critici – all’accettazione del metodo democratico e del pluralismo politico, sia nella proposta politica, sia nelle dinamiche interne, che erano molto più democratiche rispetto a quelle che si riscontrano oggi in tutte le forze politiche.
Ciò che rimase per molto tempo, fu il richiamo nostalgico al fascismo: nel 1976, a trent’anni della nascita del partito, un suo importante esponente, Ernesto De Marzio, documentò il lungo viaggio dei fascisti nella e verso la democrazia, alla quale erano approdati con convinzione nonostante l’esperienza della dittatura.
Così, la nostalgia, con il passare degli anni e con il maturare delle vicende politiche, non si rivolse più alle strutture politiche del regime quanto al “vissuto” del fascismo, che continuava a rappresentare il senso dell’impegno politico dei protagonisti e della loro giovinezza. Una nostalgia che diventava semplicemente ricordo.
Tutto questo nella destra italiana di oggi non esiste più. Il fascismo è ormai consegnato alla storia e così il Msi, del quale, dall’inizio di questo secolo, finalmente la storiografia si sta occupando, anche attraverso la disponibilità di archivi e di documentazione che ha permesso agli studiosi di dedicarsi a quello che un tempo era tabù, e cioè la storia della destra e del neofascismo. Anche questo ha contribuito a fare uscire questo mondo dal mito per entrare nella storia, riducendo drasticamente il tasso di nostalgia.
Significativa la questione delle leggi razziali, sulla quale giova ritornare: la maggioranza del Msi aveva vigorosamente preso le distanze dalla legislazione fascista del 1938 ma una parte del Msi, gli “spiritualisti” legati all’insegnamento di Evola, mantenne una posizione per lo meno ambigua sul tema. Anche su questo tema il percorso si è compiuto e oggi Fratelli d’Italia è assolutamente e totalmente d’accordo nel condannare non soltanto la legislazione razziale fascista ma anche l’intero impianto dittatoriale del fascismo.
Ma vi sono altre caratteristiche della destra odierna che vanno sottolineate. In primo luogo, è da segnalare la forte attenzione al contesto internazionale. La svolta internazionale in senso conservatore che ha consentito a Giorgia Meloni di presiedere il Partito conservatore europeo è molto significativa e non è un caso che non sia sottolineata a dovere nella stampa radical, perché costituisce da sola il segno della diversità dal passato.
Il Msi già alla fine degli anni Quaranta aveva preso posizione favorevole sull’Europa (quando ancora il Pci ne era nettamente contrario), ma si trattava di un’Europa ancora comprensibilmente legata al ricordo della seconda guerra mondiale. Gli incontri di Malmö e di Roma dei primi anni Cinquanta avvenivano con le forze eredi degli sconfitti del ’45. Nel 1978, alla vigilia delle prime elezioni europee, Almirante costituì l’Eurodestra, con Fuerza Nueva, il partito di Fraga Iribarne, già ministro di Franco, con il Parti des Forces Nouvelles di Tixier-Vignancour, collaboratore di Pétain a Vichy, e con l’Epen, il movimento vicino ai colonnelli greci. Nelle successive elezioni europee (1984), il Msi aderì al gruppo di Jean Marie Le Pen che aveva ottenuto un lusinghiero risultato. L’alleanza con il mondo conservatore britannico è cosa evidentemente molto diversa e costituisce un inizio ormai stabilizzato, non una continuazione, di un percorso assolutamente innovativo rispetto alla tradizione missina.
Un‘altra importante differenza con il recente passato è di natura psicologico-politica: l’assenza di quel mito della “riserva indiana” che, assente nel fascismo, ha caratterizzato per molto tempo il Msi. In particolare, ci si riferisce a quella estrema prudenza nello stabilire rapporti con l’esterno per evitare il rischio di compromettere la propria identità. Il fenomeno, tipico dei “vinti”, fu periodicamente presente in tutta la storia missina: si pensi alla difesa del “fascismo movimento” da parte di Almirante nel dialogo con Pannella nel 1982 e al rifiuto di intese con Craxi qualche anno più tardi.
Valide o meno che fossero le ragioni di quei “no”, esse rappresentavano il timore di commistioni, di perdere cioè la purezza ideale delle origini. Altra conseguenza del mito della “riserva indiana” è il volere fare tutto da soli, la convinzione di essere i soli degni di risolvere la crisi italiana. Il Msi di Almirante lo era, orgogliosamente; quello di Michelini e di De Marsanich credeva invece nelle alleanze. Fratelli d’Italia è nato in un’alleanza, il centro-destra, e quindi è “nato plurale” e cioè consapevole che, come si conviene in democrazia, la politica è la risultante di diverse posizioni e la ricerca del compromesso ne è il sale. L’alternativa è tra politica e testimonianza.
La politica è compromesso e bisogna però saperlo fare, ricordava recentemente Marcello Veneziani.
Se il Msi, dopo avere tentato per un po’di fare politica, decise di dedicarsi esclusivamente alla testimonianza, la destra odierna ritengo che voglia, anzi debba, fare politica.
D’altra parte, non era mai successo, nella storia dei 76 anni di Repubblica, che un partito di destra che non nasconde le proprie origini missine, giunga a rischiare di diventare il primo o il secondo partito in termini di voti. Anche con la coalizione berlusconiana del centrodestra, Alleanza nazionale ebbe risultati notevoli ma sempre inferiori al partito del Cavaliere. Ora la situazione si è rovesciata. Fratelli d’Italia è il primo partito del centrodestra e forse il primo d’Italia.
In queste condizioni corre l’obbligo di governare, non di fare testimonianza.
Ma questo porta a un’ultima considerazione. Alla luce dei risultati, si può ipotizzare la presenza di alcuni milioni di cittadini che votano un partito perché fascista o neofascista? dopo quasi ottant’anni? e dopo altrettanti nei quali la comunicazione di massa ha presentato il fascismo unicamente come violenza, incultura, razzismo, prevaricazione dei ceti più deboli?
Allora, negli anni Quaranta e Cinquanta, contro il Msi scattava la delegittimazione in quanto fascista. Aveva un senso. Oggi una delegittimazione della destra parlamentare per la difesa della democrazia non ha molto senso, visto che esiste un’ampia legislazione a tutela della democraticità e del pluralismo dello Stato. Se ci sono problemi la si applichi. Altrimenti si torna alla fumosa strategia delle tre autorizzazioni a procedere contro Almirante che non approdarono mai a un tribunale della Repubblica finché la quarta arrivò in Tribunale quando il presunto imputato era già defunto.

Giuseppe Parlato

Europeismo e Atlantismo per una visione Italiana

Identificare quelli che dovrebbero essere oggi i tratti qualificanti della postura italiana in Europa ( in altri termini quale visione debba sottendere il nostro “ stare in Europa”) è esercizio che non può prescindere da alcune considerazioni basate sulla constatazione di dinamiche in atto:

1) la prima, mi sembra, è quella di una necessaria consapevolezza del fatto che – come la cronaca anche di questi ultimi mesi si incarica di dimostrarci – tutti gli Stati europei (a cominciare da Germania, Francia e Paesi Bassi) antepongono ormai gli interessi strategici e politici nazionali a quelli dell’Unione Europea in quanto tale : in una sorta di sovranismo di fatto sovente ammantato di retorica europeista;

2) la seconda risiede nella correlata necessità di prendere atto degli importanti ostacoli che continuano a rendere difficilmente percorribile, se non proprio impraticabile, la strada verso gli Stati Uniti d’Europa: in sostanza verso quell’”Europa di tipo federale” che il Trattato di Roma si limitava saggiamente a prefigurare senza fissare scadenze. E’ dato di fatto – del quale ci si può ovviamente rammaricare, ma questo poco cambia nella sostanza – che ha trovato la più compiuta espressione nel rigetto nel 2005 , da parte del popolo francese e olandese, della così faticosamente negoziata Costituzione europea;
3) la terza considerazione è quella del successo, per contro, della integrazione economica e dei mercati: via dalla quale chi scrive ritiene auspicabile non recedere pur potendosi (e anzi dovendosi) rinegoziare per quanto possibile alcuni degli aspetti che regolano la moneta unica e il Patto di stabilità , ovviamente lavorando per tempo alle necessarie “alleanze”;
4) la quarta e ultima constatazione è quella della necessità di avviare quanto prima in ambito UE – magari proprio su iniziativa italiana e se del caso attraverso un trattato “ad hoc”- un percorso di progressiva separazione delle istituzioni comunitarie cui gli Stati hanno ceduto – forse al di là del dovuto – sovranità sul terreno economico da un nuovo assetto politico-costituzionale non più a 27 ma di pochi Stati geo-politicamente omogenei. E proprio per tale motivo in grado di insieme elaborare e mettere in atto strategie politiche di lungo termine in una prospettiva di Europa “media potenza” quanto meno su scala regionale (Balcani, Mediterraneo, Medio-Oriente, continente africano).

Il tutto in una prospettiva di “Europa confederale” , rispettosa delle identità nazionali (una sorta di “ Europa delle Patrie” di matrice gollista, rivisitata e adattata ai tempi) e basata su valori condivisi che consentano al nostro Continente di ritrovare, infine, quella “identità e missione per l’Europa“ auspicata dal papa emerito Benedetto XVI.

Deficit politico
Nel perseguimento di quest’ultimo obiettivo certo di medio/lungo periodo l’Italia – anche nella sua veste di paese fondatore dell’Unione Europea – ha il diritto/dovere di svolgere un ruolo di primo piano, in paritario raccordo con altri Stati fondatori e / o di prima fascia ( Germania, Francia, Olanda, Polonia, Spagna per non citarne che alcuni). Temo infatti che, in assenza di uno sviluppo di tale natura, il nostro Continente (portatore di una cultura millenaria della quale sembra a volte provare vergogna, come testimoniato dalla incomprensibile rinuncia alla menzione delle nostre “radici cristiane” nel Preambolo della mai decollata Costituzione europea, nonostante proprio in queste ultime già nel 1924 Paul Valéry identificasse uno dei tratti qualificanti dell’identità europea) si condannerà, ancor più di quanto non stia già avvenendo, all’irrilevanza . Il “deficit” di cui soffre l’Europa è infatti essenzialmente politico.
E’ carenza grave alla quale va posto rimedio e che un futuro Esecutivo italiano di matrice moderata, popolare e conservatrice dovrebbe porre tra le sue priorità. Riservando la dovuta attenzione anche al contrasto, da parte di un’Europa maggiormente coesa pur se numericamente ridotta, dei tratti più disumanizzanti dei processi di globalizzazione in atto. Nel segno della difesa della dignità della persona in quanto tale, in opposizione a quanti ritengono (e, come sappiamo, si tratta di lobby trasversali e potenti) che tutto, ma proprio tutto, debba essere subordinato alla logica del profitto.
Lo scenario che ho sopra evocato di una possibile ulteriore perdita di peso del nostro continente sulla scena mondiale appare ancor più difficile da accettare in una fase “epocale” della vita internazionale come quella che stiamo vivendo sull’onda di una pluralità di fattori. Fattori che vanno dal solco che si è aperto tra l’Europa e la Federazione Russa alla luce della brutale aggressione di quest’ultima all’ Ucraina (crisi relativamente alla quale l’Unione Europea si è peraltro sinora ben comportata mai facendo mancare il proprio appoggio alla coraggioso e martoriato popolo ucraino e alla sua dirigenza); delle perdurante tensioni nell’Indo-Pacifico anche, ma non solo, con riferimento alle minacce cinesi alla democrazia taiwanese nonché, last but not least, della diffusa instabilità che sta attraversando il continente africano con correlata forte probabilità di nuove massicce ondate migratorie verso i Paesi europei del versante meridionale, a cominciare dal nostro.
Tutte sfide impossibili da affrontare con efficacia da parte di un’Unione Europea a 27, obbligata dai Trattati vigenti a operare sulla base dell’unanimità in aree di cruciale rilevanza in termini geo-politici (come quelle della politica estera e della difesa) e nella quale, per riprendere una felice formula del Professor Tremonti, a partire dal Trattato di Maastricht è il mercato il vero “dominus “ della vita dei suoi cittadini. Nonostante, va detto, gli apprezzabili sforzi posti in essere dalla Commissione a guida von der Leyen per pervenire a un’Europa maggiormente “politica”: da ultimo attraverso l’adozione lo scorso marzo, da parte del Consiglio europeo, della Bussola Strategica (Strategic Compass) con correlate decisioni sul terreno della istituenda difesa europea.

Italia, ruolo centrale
Se questa è la tela di fondo, l’impegno prioritario per una possibile prossima maggioranza di centro-destra non potrà che essere quello di fare il possibile – sottraendosi alla trappola di chi si sta quotidianamente adoperando per trascinarla in sterili dibattiti di natura “teologica “ (del genere “europeismo versus sovranismo ”) – per assicurare al nostro paese, anche a Trattati costanti, un ruolo centrale nelle dinamiche e nei processi decisionali europei in tutti i settori di prioritario interesse nazionale.
Da quello appunto migratorio – continuando in particolare a battersi per una seria riforma del datato e per noi penalizzante “Regolamento di Dublino” – a quello energetico, con una prosecuzione dell’opera di diversificazione delle fonti e di progressiva sottrazione del nostro paese al ricatto energetico di Stati terzi; a quello della tutela di un effettivo regime di concorrenza tra imprese in primis nei settori strategici (con un’ azione determinata di difesa dei nostri “gioielli” industriali a fronte degli appetiti di altri Stati membri – o, ancora peggio, di potenze ostili come la Repubblica Popolare Cinese – facendo ricorso ogniqualvolta necessario all’utilizzo del golden power); a quello del rilancio del “principio di sussidiarietà “; a quello, infine , del contrasto al terrorismo in tutte le sue forme. Senza dimenticare l’apporto che il nostro Paese potrà /dovrà arrecare al perseguimento dell’ “autonomia strategica” europea prefigurata dal già citato Strategic Compass.
Un’autonomia strategica che dovrà, però, svilupparsi in raccordo e in spirito di complementarietà ( come sosteneva, già all’ inizio degli anni ’50 del secolo scorso , il compianto Alcide De Gasperi in sede di dibattito sulla “Comunità Europea di Difesa”) con la nostra irrinunciabile appartenenza alla comunità atlantica – e vengo così al secondo dei temi evocati nel titolo – a fronte di minacce comuni . Minacce che vanno appunto dal terrorismo ( a cominciare da quello di matrice islamista) a quelle portate all’Occidente nel suo complesso dai regimi autocratici ( Russia, Cina, Iran, Corea del Nord..) . Si tratta di sfide alle quali nessun Paese alleato, per quanto influente, può far fronte da solo.
In positivo va registrato il fatto che la coesione “atlantica” è uscita fortemente rafforzata dal vertice Nato di Madrid dello scorso giugno – svoltosi nel pieno della crisi ucraina – sia sul fondamentale terreno dei valori che della messa a punto di partenariati mirati con altre democrazie ( di area indo-pacifica e non solo ), oltre che di strumenti e tecnologie all’altezza delle sfide in atto. Un bene prezioso da non disperdere al cui consolidamento il nostro Paese, collocato nel cuore del cruciale scacchiere mediterraneo, potrà fornire ( e sta già fornendo) un contributo di primario rilievo da valorizzare, in primis con i nostri alleati statunitensi..
Concludo con una riflessione sul cruciale versante della sicurezza cibernetica e delle tecnologie innovative e dirompenti (Emerging and Disruptive Technologies/EDT” nel lessico NATO) avendo le conclusioni del citato summit di Madrid inserito il contrasto agli attacchi cyber tra gli obiettivi da perseguire in via prioritaria per l’Alleanza. Si tratta di un traguardo fondamentale – anche in termini di difesa dalla malevola crescente invasività dei regimi autocratici nel nostro spazio cibernetico e digitale – il cui raggiungimento non potrà però prescindere da un previo rafforzamento delle capacità di difesa a livello nazionale sia sul fronte del rischio cyber che di quello tecnologico.
Sotto tale profilo il recente salto di qualità nella architettura nazionale di sicurezza cibernetica (cui ha dato un significativo contributo la costituzione dell’Agenzia per la Cybersicurezza nazionale guidata dal Professor Baldoni) è un passo importante nella giusta direzione favorendo tra l’altro una sempre più dinamica interazione con i nostri alleati atlantici , a cominciare dagli Stati Uniti. Raccordo del tutto compatibile, a mio avviso, con il perseguimento di quella “autonomia strategica “ nel settore della sicurezza cibernetica – e dell’ accelerazione dello sviluppo tecnologico – da promuovere sia a livello nazionale che europeo in cooperazione con i partner e gli alleati più avanzati in materia: dai già evocati Stati Uniti al Regno Unito per non citarne che alcuni.
Presupposto per fare fronte a quest’insieme di sfide è , però, quello di un salto di qualità “culturale” nella definizione delle nostre politiche a livello nazionale e internazionale . Nella consapevolezza – che la nostra opinione pubblica e il nostro prossimo Esecutivo dovranno avere – del fatto che i prossimi anni vedranno un sempre maggiore e multiforme approfondimento dei processi di cambiamento “strutturale” derivanti dai fenomeni trasformativi legati alla rivoluzione tecnologica in atto.

di Gabriele Checchia

La strana campagna tra realtà e reality

La campagna elettorale estiva, breve e polarizzata, ha fagocitato ben presto anche la proposta di riforma costituzionale che ha per oggetto la forma di governo dell’Italia. L’ipotesi – difficile, ma non impossibile – che il centrodestra possa ottenere i 2/3 dei seggi in Parlamento, ha consentito agli avversari politici (e a tutti coloro che si oppongono alla riforma presidenziale) di poter spingere parecchio sul pedale dell’acceleratore emotivo, trasformando di fatto la forma di governo presidenziale (o semi-presidenziale) in una specie di anticamera (automatica) dell’autoritarismo.
Non sono gli Stati Uniti, o la Francia, il modello verso cui tenderebbe l’Italia, bensì la Russia di Putin o l’Ungheria di Orbàn. Ora, se la Russia è effettivamente un sistema semipresidenziale, l’Ungheria è invece una Repubblica parlamentare, come l’Italia dal 1948 a oggi. A dimostrazione che non è la forma di governo a spingere verso torsioni autoritarie, bensì il sistema politico nel suo complesso, il suo stato di salute generale (partiti e sistema della rappresentanza, sistema elettorale, forma di governo, forma di Stato, bilanciamento dei poteri e così via). E a dimostrazione che in campagna elettorale le forzature, le semplificazioni, il ragionare per immagini e simboli portino con sé, molto spesso, una pesante distorsione della realtà.
Che in Italia lo stato di salute della politica non sia eccellente è a tutti noto. Ed è lecito domandarsi se un capo dello Stato eletto direttamente possa essere un’ulteriore dose di “veleno” per la nostra democrazia; se, cioè, l’uomo (o la donna) della provvidenza eletto “a furor di popolo” possa piegare i contropoteri e le altre istituzioni.
Tuttavia, è lecito anche ribaltare la domanda e chiedersi se il nostro sistema parlamentare, con capo di Stato e di governo non eletti, con coalizioni “posticce” prima del voto e maggioranze che cambiano continuamente in Parlamento dopo il voto, stia facendo bene alla nostra democrazia.
Tradotto in una domanda: l’elezione del capo dello Stato (o del capo di governo, come propone ad esempio Roberto D’Alimonte, con un’ipotesi che piaceva molto a Matteo Renzi) farebbero da apripista verso svolte autoritarie o piuttosto un ammortizzatore utile a evitare l’implosione di un parlamentarismo che non funziona più e che continua ad allontanare (questo sì, pericolosamente) i cittadini dalla politica – e la politica dai cittadini, con partiti sempre più verticistici e autoreferenziali?
Che piaccia o no, la politica democratica degli ultimi decenni – complici gli effetti delle rivoluzioni mediatiche e tecnologiche, la crisi della rappresentanza e la progressiva individualizzazione della società – ha assunto una potente caratteristica di “personalizzazione”. Oggi il brand politico per eccellenza agli occhi dei cittadini non è più l’ideologia, il simbolo o il programma di partito, bensì il leader, anche nelle sue caratteristiche più intime e personali, appunto. Sotto questo profilo, l’Italia
presenta tratti ancora più pronunciati rispetto alle altre democrazie occidentali. Il combinato disposto della fine dello scontro ideologico e del mondo bipolare da una parte, e l’inchiesta di “mani pulite” col conseguente tracollo di un intero sistema dei partiti dall’altra, ha trasformato la politica italiana in una specie di “tabula rasa”, in anni in cui le ideologie si affievolivano, la rappresentanza entrava in crisi e le leadership si mediatizzavano ovunque in Occidente. Questo tornante della storia ha fatto sì che l’Italia diventasse ben presto la patria dei “partiti personali” – come li definì Mauro Calise nel 2000 – vale a dire partiti che nascono (e muoiono) seguendo la parabola individuale del leader-fondatore. Inutile fare l’elenco. Anche solo guardando al panorama di oggi chiedersi cosa sarebbe Italia Viva senza Renzi, Azione senza Calenda, Impegno Civico senza Di Maio, Forza Italia senza Berlusconi, Cambiamo senza Toti o Coraggio Italia senza Brugnaro avrebbe una risposta fin troppo scontata. Se guardassimo indietro l’elenco sarebbe interminabile passando da Di Pietro, a Monti, a Fini, a Passera, ad Alfano, a Lorenzin e a tanti altri.
E anche quando i partiti non sono personali, sono ormai personalizzati. Vale a dire che possono anche sopravvivere al declino di un leader, ma sicuramente il loro andamento nei consensi è fortemente legato a quello del segretario/presidente. La Lega è sopravvissuta al declino di Bossi, ma quanto ha legato il suo andamento a quello delle leadership dello stesso Bossi prima e di Salvini poi? Il Pd è sopravvissuto alla parabola di Renzi, ma grazie a quella leadership potente e “spiccata” ha raggiunto dapprima il suo massimo e poi il suo minimo storico in una competizione nazionale, tra il 2014 e il 2018. Lo stesso Fratelli d’Italia oggi gode di un consenso molto alto, che è indubbiamente legato anche al gradimento e alla credibilità della sua leader. Per non parlare del Movimento 5 Stelle che è rimasto a galla contenendo l’emorragia di consensi, proprio grazie alla nuova leadership di Giuseppe Conte, in pieno bagno di popolarità post-Covid.
Con una riforma presidenziale, questa personalizzazione e leaderizzazione rischierebbe di trasformare il Presidente in un accentratore di poteri, legittimato dal consenso popolare?
Ribadiamolo, non dipende solo dalla forma di governo, anche se – cosa che non emerge mai nel dibattito nostrano – il sistema presidenziale in realtà si basa su un bilanciamento di poteri fortissimo, proprio per compensare quelli del presidente eletto. In ogni caso, è chiaro che chi vuole guardare alla riforma presidenziale con lo sguardo rivolto a Occidente, troverà democrazie mature e in grado di evitare ogni torsione autoritaria. Chi invece vuole volgere lo sguardo a Oriente o al Sud America può trovare diversi esempi di “fallimento del presidenzialismo” – per citare un noto libro degli anni ’90, curato da Linz e Valenzuela.
Premesso che ogni riforma può essere “personalizzata”, cucita sartorialmente per cercare di limare e modellare eventuali storture o eventuali eccessi di potere, resta la questione di fondo: non è la forma di governo che incentiva e spinge verso una transizione di regime, a meno che non crei un tale sbilanciamento dei poteri da accentrare quasi tutte le decisioni-chiave in un solo organo monocratico. Piuttosto, come detto, è lo stato di salute complessivo della democrazia, la sua maturità o la sua eventuale crisi di legittimazione a dover farci temere un eventuale crack democratico. Senza una riabilitazione e rigenerazione della politica e dei partiti agli occhi dei cittadini, il malessere democratico continuerà, riducendo ancora la partecipazione elettorale e politica, incrementando la volatilità e il disorientamento e, verosimilmente, dando nuova linfa a posizioni populistiche e antipolitiche, con una spasmodica ricerca di “novità” connessa a una costante insoddisfazione.
Il primo passo allora dovrebbe essere quello di procedere a un riavvicinamento tra politica ed elettori, che ridia potere a questi ultimi e che eviti che il loro voto sia sistematicamente “dimenticato” e ribaltato dalle forze parlamentari nel formare governi e maggioranze, azzerando di fatto l’accountability di chi governa e alimentando confusione, apatia e l’immagine di una politica autoreferenziale, per nulla incisiva e “respingente” verso i cittadini. Una riforma elettorale in tal senso potrebbe – per quanto possibile in una società individualizzata e narcisistica – ravvivare anche i partiti e il loro rapporto coi territori, superando l’attuale configurazione di partiti come “fan club” di un leader e di cerchi magici che calano candidature dall’alto, paracadutandole a proprio piacimento sul territorio.
Tutto questo va fatto a prescindere dalla forma di governo.
Quest’ultima, però, torna in campo prepotentemente, anche in virtù di questi limiti e di queste storture, che non a caso hanno prodotto anche “teatrini” non proprio edificanti nelle ultime elezioni del capo dello Stato, in Parlamento. È chiaro che dare lo scettro al popolo nell’elezione del capo dello Stato, sotto questo profilo, può aiutare a far recuperare legittimità e credibilità al nostro sistema politico. E, dunque, più che prefigurare uno scivolo verso l’autoritarismo, potrebbe essere uno degli ingredienti-chiave per evitarlo. Per evitare, cioè, che un sistema parlamentare impantanato e “alieno” dal suo popolo finisca per incrementare pulsioni populistico-autoritarie, fino al rischio di mettere seriamente in pericolo l’assetto democratico.
La realtà, dunque, ci dice che è quanto mai urgente ripensare la seconda parte della Costituzione, per evitare che un parlamentarismo ormai privo di accountability, “irresponsabile” agli occhi dei cittadini anche a causa della configurazione attuale dei partiti e della legge elettorale, finisca per dare il colpo di grazia alla legittimazione popolare della nostra democrazia. Un sistema poco incisivo, con un kratos contraddittorio e incoerente e con un demos sempre più apatico e disilluso.
Il reality da campagna elettorale, invece, ci dice che la “Costituzione più bella del mondo” non si tocca, men che meno con una riforma presidenziale (o semipresidenziale). Come se il nostro sistema politico godesse di una legittimazione smisurata e facesse segnare livelli di performance da fare invidia al mondo intero.
L’auspicio è che dal 26 settembre si sotterri l’ascia di guerra, uscendo dal reality e si torni a riflettere con serenità e serietà di una riforma ritenuta necessaria (trasversalmente) da diversi decenni, al fine di evitare che la spirale di delegittimazione compia il suo corso producendo, allora sì, pericoli per la democrazia.

di Luigi Di Gregorio

Benvenuti nell’epoca del disordine globale

Il multilateralismo è bello, ma non funziona. La globalizzazione è bella, ma è anche schizofrenica. Il cosmopolitismo è bello, ma se lo possono permettere solo i ricchi. L’Europa è bella, ma sa essere spietata. Il multiculturalismo è bello, ma dal prossimo isolato in poi può essere l’inferno. Benvenuti nell’epoca del disordine globale.
Non ci siamo capitati da un giorno all’altro. Da più di vent’anni, diciamo dall’11 settembre 2001, non è che una sequela di bruschi risvegli: dal pantano iracheno a quello afghano, dallo scoppio della bolla speculativa del 2008 alla crisi dei debiti sovrani in Europa, dalla delusione per le “primavere arabe” ai massacri dell’Isis, dall’emergenza Covid al ritorno dell’inflazione, all’aumento delle materie prime, alla filiera globale rallentata, all’impoverimento dei già poveri. Come se non bastasse, oggi ci ritroviamo anche una guerra ai confini dell’Europa, con il conflitto Russia-Ucraina che ci costringe a dormire con un occhio chiuso e con uno aperto perché pensiamo sempre che qualcosa di brutto potrebbe capitare da un momento all’altro. E venti di guerra arrivano anche dall’Indo-Pacifico, con il risiko sino-americano nei pressi di Taiwan che contiene una sua logica profonda, anche se può sfuggire a molti. Ne parleremo più avanti.
Il problema a questo punto è provare a mettere ordine (mentale) nel caos (cognitivo) del mondo odierno. Non è una questione accademica, ma una primaria esigenza politica. Per una media potenza come l’Italia si tratta di capire qual è il suo ruolo, il suo destino, il suo posto nel mondo. Detto in altri termini, non si può pensare la politica estera senza inserirla nella giusta cornice teorica. Oggi questa cornice può essere disegnata principalmente dalla geopolitica: non è più tempo di ideologie, come durante la guerra fredda.
Intendiamoci, non che la geopolitica sia diventata necessaria soltanto dagli anni Novanta in poi. Il fatto è che prima, al tempo del bipolarismo mondiale Usa-Urss, era una sorta di scienza “esoterica”, preferendo, quasi tutti i commentatori, rappresentare la dinamica internazionale, non come il confronto geostrategico tra blocchi di potenza, ma come il conflitto ideologico tra “mondo libero” e “mondo comunista”. Una rappresentazione, certo necessaria, ma non sufficiente a spiegare tutti gli sviluppi possibili nelle varie regioni della Terra.
Sicuramente era una rappresentazione che stava stretta all’Italia, le cui esigenze geoeconomiche e geopolitiche non sempre coincidevano con la sua collocazione atlantica. Tant’è che la nostra politica estera si concedeva ampi margini di autonomia negli scacchieri che più direttamente ci interessavano (soprattutto sotto il profilo dell’approvvigionamento energetico) come quello mediterraneo. Questi spazi di manovra erano consentiti dalla rendita di posizione derivante dall’essere l’Italia cruciale terra di confine, sia dal punto di vista geopolitico (come frontiera Est-Ovest e come limes Nord-Sud) sia ideologico (da noi operava il più forte partito comunista d’Occidente).
La fine della guerra fredda ha fatto saltare questa rendita di posizione, distruggendo la cornice teorica entro la quale era pensabile (e spiegabile) la politica estera italiana.
La grande illusione di questi ultimi trent’anni è stata che le nozioni di multilateralismo, globalizzazione, Europa potessero sostituire la solida cornice a suo tempo fornita dalla Cortina di Ferro. Ma, come abbiamo osservato in premessa, questa nuova cornice si è progressivamente sfaldata di pari passo con l’avanzata dell’instabilità globale.

Realismo politico
Per l’Italia, l’opera di ricostruzione della cornice entro cui ripensare i propri interessi deve partire da due punti fermi.
Primo: adottare il criterio del realismo politico, rinunciando a inseguire il modello dell’etica suprema e conquistando la consapevolezza che l’ideale della Pace perpetua è solo il sopraffino spunto per un godibilissimo trattato di Immanuel Kant. E nulla più.
Secondo: avere coscienza che non esistono più, per il nostro Paese, rendite di posizione, ma interessi da difendere con fatica. E ciò senza naturalmente arrivare a esasperazioni nazionalistiche, ma senza nemmeno nascondersi dietro equivoci internazionalismi. Il che significa ad esempio capire che possono esistere interessi divergenti anche rispetto a Paesi alleati. Pensiamo al confronto, più o meno sottotraccia, con Turchia e Francia nel Mediterraneo. Oppure al braccio di ferro con il fronte dei “frugali” riguardo ai vincoli finanziari europei, un braccio di ferro che l’emergenza Covid ha solo attenuato, ma non risolto.
Il realismo politico ci suggerisce che sulla scena mondiale non si scontrano oggi le forze del Bene contro quelle del Male, ma niente altro che gli interessi scaturiti dalla potenza, interessi uniti a quelle frontiere sopravvissute alla globalizzazione (in quanto barriere eminentemente mentali) che Samuel Huntington chiamava “civiltà”, cioè perimetri geostorici e geospirituali divisi da “linee di faglia” che qualsiasi geostratega deve rispettare, se non vuole causare troppi guai.
Questa consapevolezza, applicata alla crisi internazionale che più oggi ci assilla, la guerra in Ucraina, ci porta alla conclusione che non si riuscirà mai a disattivare tale conflitto finché si rimane dentro lo schema dell’etica applicata alla geopolitica.
Appare assai più produttivo invece interpretare l’odierna guerra come l’espressione esasperata dell’insicurezza geopolitica russa, un carattere che a sua volta discende da una più storica insicurezza geoculturale: secondo Huntington, la Russia è un «paese in bilico» tra Occidente ed Eurasia. Di qui il fatto che l’ossessione identitaria, lo stretto legame tra religione e politica, la fobia per le invasioni da Ovest si rovesciano in una politica estera aggressiva e imperialistica. Se la Russia -osserva sempre Huntington – «diventasse un paese occidentale, la civiltà ortodossa cesserebbe di esistere». È per questo che «il crollo dell’Unione Sovietica ha riacceso tra i russi il dibattito sulla questione cruciale dei rapporti tra Russia e Occidente».
Le “linee di faglia”, come insegnava il politologo di Harvard, vanno riconosciute al fine di costruire una coesistenza possibile. In questo senso lo schema “class of civilizations” (scontro delle civiltà) serve a costruire la pace, una pace minima e precaria quanto vogliamo, ma senz’altro preferibile all’ideale della Pace perpetua, il cui perseguimento rischia di provocare grandi guai.
Per quanto invece riguarda l’altra area di instabilità che oggi ci preoccupa, l’Indo-Pacifico, vale la pena di osservare che il confronto tra la Cina di Xi Jinping e gli Usa di Joe Biden presenta i caratteri tipici dello scontro di potenze, ancor più della contrapposizione Washington-Mosca. Il colosso asiatico ha accumulato in pochi anni una tale ricchezza e una tale influenza da spostare il confronto con gli Usa, dalla mera competizione economica, alla rivalità strategica e militare.
La trappola di Tucidide
Pechino è realmente proiettata a sfidare gli Usa nella loro pulsione all’unipolarismo. È una situazione in sé pericolosa, al di là della diffusa opinione che una guerra Cina-Usa non converrebbe a nessuno. Il problema è che la logica di potenza, se lasciata a se stessa, può innescare meccanismi distruttivi. Il politologo americano Graham Allison ha elaborato in proposito lo schema della “trappola di Tucidide”, dal nome dello storico greco che narrò la guerra del Peloponneso. Neanche Atene e Sparta volevano la guerra, però alla guerra furono egualmente condotte da una perversa logica interna: l’ascesa di Atene insidiava il primato di Sparta sul mondo greco. Si arrivò al conflitto perché Sparta non voleva rinunciare alla sua supremazia e, da parte sua, Atene non voleva interrompere la sua crescita di potenza e frenare le sue ambizioni sull’intera Grecia. L’odierna Sparta, secondo Allison, sarebbe rappresentata dagli Usa. Mentre Atene sarebbe conseguentemente la Cina.
A dispetto di Tucidide, è alla fine assai probabile che le due superpotenze sfuggano alla “trappola” che porta il suo nome. Ma questo schema ci dice anche che le ragioni della contrapposizione Washington-Pechino sono profonde e strutturali e che quindi la tensione nell’Indo-Pacifico è destinata a durare ancora a lungo. E qualche esiziale “incidente” può sempre capitare.
Al dunque, come perseguire l’interesse nazionale in assenza di un vero centro di gravità permanente? Va da sé che l’Italia deve imparare a pensarsi in termini geopolitici e geoeconomici in tutta l’autonomia che può esserle consentita dal rispetto delle alleanze in cui è storicamente inserita.
Ciò significa, in termini strategici, proiettarsi con più decisione e assertività nello scacchiere mediterraneo, nella consapevolezza che nessuno (né l’Europa né la Nato) verranno a toglierci le castagne dal fuoco in alcune complicate questioni che ci riguardano direttamente. Una su tutte: la questione Libia. Il “protettorato” turco della Tripolitania e quello russo della Cirenaica mettono in discussione la nostra sicurezza in un’area per noi cruciale, il Canale di Sicilia. Né va dimenticato che il Mediterraneo sta ridiventando una zona calda a causa della guerra in Ucraina, come testimoniato dai recenti (e allarmanti) movimenti della flotta russa in un altro mare di casa, l’Adriatico.
Non mancano certo all’Italia mezzi e competenze per disegnare le giuste proiezioni geostrategiche. Però l’opinione pubblica nazionale deve fare la sua parte, cominciando a liberarsi dai comodi (e un po’ furbeschi) cosmopolitismi e pacifismi degli anni passati per assumere un abito mentale più duro e realistico, l’unico che ci può sorreggere nel tempo dell’instabilità globale.
Era bello il nuovo ordine mondiale. Il problema è che non è mai esistito.

di Aldo Di Lello

Se mancano argomenti c’e’ bisogno del nemico

Le campagne elettorali, come noto, esasperano le regole già estreme della comunicazione politica: la realtà è mera rappresentazione, la verità è solo narrazione e gli annunci sostituiscono i fatti. L’avvento ultra-decennale dei new media (i social) poi, ha peggiorato le cose, al punto che quasi tutto è propaganda, o meglio, siamo e viviamo come cittadini, 24 ore su 24, dentro una campagna elettorale permanente. Una tendenza recente? Non proprio; c’è una cosa che non cambia mai: “La sindrome di Voltaire”, codice genetico della sinistra; ossia, la pretesa di incarnare religiosamente l’etica, la morale, la democrazia, la cultura, il progresso, i diritti, l’ambiente etc. Uno schema ideologico-comunicativo dogmatico, apripista di fatto del pensiero unico: da una parte il bene, dall’altra il male. E guarda caso, il male, è la destra. Da sempre. A meno che, non si trasformi nella destra che vuole, gradisce il politicamente corretto, il mainstream, ignorando, invece, il percorso di evoluzione e modernizzazione autonome che ha fatto da anni.
È un’abitudine che diventa rituale ossessione giacobina in prossimità del voto, con accelerazioni violente, specialmente quando i sondaggi e il sentiment della popolazione si orienta, come si sta orientando, numeri e dati alla mano, dopo l’esperienza “tecnica” di Draghi, verso il centro-destra, con Fdi in pole position.
Tra luglio e agosto, come per le ultime amministrative (si pensi alla campagna denigratoria di Fanpage, amplificata da Piazza Pulita), è stato riproposto il “fantasma-fascismo”, marchio di infamia che viene puntualmente evocato quando la sinistra, a corto di idee, di programmi e prospettive, ricorre alla strategia della paura, per banali logiche di ricompattamento interno.
Una paura, con sempre meno mordente, ma che ancora evidentemente
fa presa, o tenta di far presa, su un elettorato moderato, centrista, sensibile al tema.
Analizziamo ora tre focus, emblematici di questa comunicazione faziosa.
Orchestrati contro Giorgia Meloni.

GIORGIA LA CANTANTE. Su Facebook la nota artista ha brillato per ideologismo e razzismo strisciante, tra l’altro, inspiegabili e improvvisi. Forse dettati da semplici esigenze di brand personale. La verità è che il nome Giorgia non può e non deve essere monopolizzato dalla leader diFdI (si ricordi il tormentone virale proprio sul nome). Evidentemente occupa spazi ritenuti vitali per l’immagine e la carriera.
“Anche io sono Giorgia, ma non rompo i coglioni a nessuno”. Un dardo social della Giorgia cantante, negando il diritto di esistere alla Giorgia politica. Un messaggio che ne contiene un altro: le idee sostenute dalla leader di FdI “rompono i coglioni” A cosa? A chi? Al politicamente corretto, al progressismo, concepiti acriticamente come pensiero unico.
Tradotto, si nega cittadinanza a un pensiero politico diverso, condiviso da
milioni di italiani.
E’ sempre lo schema “bene-male”, “amico-nemico”, “buono-cattivo”. La risposta social della Giorgia politica non si è fatta attendere: si è posizionata in modo inclusivo, trasversale, “accogliente”, per non riprodurre al contrario, lo scontro frontale, divisivo, amico-nemico, bene-male, con una comunicazione corretta, ferma, ma non violenta, come quella della sua interlocutrice: “Trovo che la voce di Giorgia sia straordinaria (messaggio rivolto ad un pubblico vasto di utenti, fan della cantante, magari pure di destra) la ascolto volentieri da sempre, senza essere costretta a farlo, così come lei non è costretta ad ascoltarmi se non le piaccio. La democrazia funziona così. Ma su una cosa io e l’artista siamo diverse. Se a me non piacesse la sua musica o la sua voce, non avrei bisogno di insultarla”.
Rivendicazione della libertà da un lato (sottraendo la parola libertà allacontroparte), e “sindrome di Voltaire”, rispedita al mittente: è la sinistra
che censura, demonizza, emargina.

IL MASSIMALISTA DEMOCRATICO. Passiamo alla provocazione scientifica attuata con mestiere e cinismo dal conduttore di Piazza Pulita Corrado Formigli.
Un tweet che la dice lunga sulla trappola comunicativa preparata a tavolino: “Nigeriano invalido, massacrato da un italiano a Civitanova Marche. Attendiamo post indignati di Giorgia Meloni e Matteo Salvini”. Cosa nasconde tale innocente invito? Si chiama “perimetro dell’imbuto”. Ecco la regola: coinvolgere l’interlocutore, chiocciolandolo (così lo si chiama in causa e l’altro è costretto a replicare); interlocutore, non avversario, ma ovviamente nemico, con una ipocrita forma di comunicazione, mascherata da presunto invito, per metterlo all’angolo.
Un messaggio, anche qui, che ne sottintende un altro: voi di destra strumentalizzate le aggressioni, perpetrate dai migranti, perché fa comodo alla vostra demagogia populista, ma state zitti quando un italiano, un bianco, fanno altrettanto; segno di un disagio e di una difficoltà oggettiva.
Impostazione ideologica denunciata dalla Meloni (tweet di risposta): “Prima di usare la morte del povero Alika per la tua penosa propaganda, potevi almeno prima esprimere solidarietà alla famiglia. Come puoi verificare, io la mia condanna verso questo brutale omicidio, l’ho espressa
subito. Sciacallo”.
Colpito e affondato, Formigli ha tirato fuori le unghie, tradendo il vero intento della sua provocazione, svelando il gioco: “Penoso, sciacallo, così parla una leader di governo? Felice di aver contribuito con un mio tweet a farle scrivere due parole per la povera vittima”.
Primo, resta il fatto eclatante che a Formigli della povera vittima in realtà, non interessava e interessa nulla. E’ stato solo un pretesto per “snidare”
la fascista Meloni. Secondo, l’obiettivo di Formigli era come sempre, dimostrare l’impresentabilità e l’inaffidabilità di una destra non liberale che si candida a governare e non può e non deve farlo: va fermata, altrimenti finisce la libertà incarnata dalla sinistra.
A questo punto, Formigli ha vuotato il sacco. Lui che ha premeditato
tutto, nel nome della democrazia che religiosamente solo il mainstream
rappresenta, si appella alla libertà di informazione, al diritto di cronaca “esercitato dai giornalisti e tutelato dalla Costituzione confondendolo con
la propaganda dei partiti”. Quella stessa libertà di informazione, quello stesso diritto di cronaca che nega a GiorgiabMeloni.

RAZZISMO VIA ETERE. Ultimo focus, quello appalesato da Elisa Ansaldo, conduttrice del Tg2 (fatto denunciato da Daniela Santanché). La leader di Fd viene attaccata perché, da dichiarata tifosa della Roma, pare che da ragazza fosse invece laziale, cioè della squadra romana i cui sostenitori sono considerati prevalentemente di destra. Voltafaccia a copi bassamente elettoralistici? In realtà poco importa, la questione era un’altra. Infatti, la giornalista Rai ha commentato che, se anche avessed etto una bugia, beh, le sue colpe sarebbero ben altre: Così Anzaldo: “Se è peccato, non è il peggiore commesso dalla Meloni”. Sorrisi a parte, questo è un esempio di pre-giudizio, di verdetto fisso affibbiato a un avversario politico, una specie di condanna religiosa, una scomunica via etere, ancora una volta figlia della “sindrome di Voltaire”. Si può bocciare l’altro con violenza, ma anche e soprattutto con il sarcasmo, declinazione della classica superiorità morale, che appartiene ai politici, ai giornalisti, agli intellettuali di sinistra.
Ma tant’è. Solo quando la dialettica democratica, il civile confronto tra idee sullo stesso piano e con pari dignità saranno patrimonio condiviso, allora il nostro paese sarà veramente progredito e non retaggio delle mai definitivamente seppellite guerre civili, guerre fredde e indomite opposte tifoserie. L’obiettivo di rimodulare forme e contenuti della comunicazione politica, maggiormente legata, connessa ai temi, ai programmi, nella normale attualizzazione storica, è l’unica strada da percorrere nella prospettiva di una nuova pacificazione nazionale. E tale strada devono percorrere tutti, da destra a sinistra: politici, intellettuali, esponenti del mondo associativo, del lavoro, dell’impresa.

di Fabio Torriero

Cattolici, impegno e dottrina sociale

Non è vero che non esista più una “questione cattolica”. Pesa meno, la presenza in politica si è rarefatta, l’interventismo è limitato ad alcune cruciali faccende. La Chiesa di papa Bergoglio ha diradato la propria presenza, non considera l’impegno politivo – diretto o indirretto una priorità, né per i pastori né per i fedeli. Ma c’è, quella questione, perché ci sono i cattolici (cittadini/elettori) e c’è una Chiesa che, pur conoscendo una crisi profonda e grave, vigila e osserva, mantiene aspettative e orienta i fedeli, pronta a giudicare i governanti italiani prossimi venturi, che saranno scelti dagli italiani il prossimo 25 settembre.
La religione cattolica è tuttora parte integrante della cultura, della storia, della vita del nostro popolo. Eppure, anche oggi molti vorrebbero che i cattolici si limitassero ad essere buoni cittadini, buoni lavoratori e buoni padri di famiglia senza incidere da protagonisti nel mondo e nella società e, soprattutto, senza “disturbare il manovratore”, che ci sta portando sempre più verso una società atea e secolarizzata.
Le responsabilità di tale processo sono imputabili anche agli stessi cattolici, a causa di quella malattia che li affligge e che – come la definì il filosofo Augusto Del Noce – “può anche essere mortale: il senso di subalternità nei confronti di altri progetti culturali”, che negli anni del post-Concilio si fece più acuto che mai, mettendo in crisi tutto l’associazionismo cattolico e l’idea stessa di una Dottrina sociale cattolica.
Eppure, a partire dalla “Rerum Novarum” si assistette ad uno sviluppo, un approfondimento ed un rifiorire del pensiero sociale della Chiesa (senza avere la necessità di un partito cattolico e/o di cattolici) “che impose a noi, come a tutti i cattolici italiani – affermava il conte Medolago Albani al IX Congresso dei cattolici italiani tenutosi a Vicenza nel settembre del 1891 – il dovere di procedere nell’azione economica sociale in modo più energico, più ampio e sistematico” e che contribuì in tutti i paesi alla nascita di società operaie, di sindacati, di corporazioni, di cooperative, di casse rurali ed artigiane, di assicurazioni, di opere di assistenza, di legislazioni del lavoro, tentando in ogni modo di portare le classi sociali più deboli e indifese al rango di dignità e fraternità che spettava loro in collaborazione con tutti gli altri ceti sociali.
Invece – continuava Augusto Del Noce – “nel cattolicesimo progressista si diffuse negli anni ’60 e ’70 la convinzione che la Dottrina sociale della Chiesa fosse un’ideologia cattolico-conservatrice, borghese, un supporto in più del capitalismo”.
E anche tra i cattolici ci fu – ma ci sono anche ai nostri giorni – chi ritenne questa dottrina superata, tanto che la stessa Chiesa mise in sordina questo fondamentale insegnamento che nasce – come è scritto nella Istruzione della Congregazione per la Dottrina della Fede “Libertà cristiana e Liberazione” – “dall’incontro del messaggio evangelico e delle sue esigenze, che si riassumono nel comandamento supremo dell’amore di Dio e del prossimo e nella giustizia, con i problemi derivanti dalla vita della società”.
Così vi furono, da parte di questi cattolici, dei veri e propri rigetti.
In questo scenario è estremamente importante che siano presenti i cattolici fedeli al Magistero di sempre che dovrebbero sapersi muovere con intelligenza e cautela in modo da potere e sapere rilanciare la Dottrina sociale cattolica come contributo sempre originale di idee, di programmi e di sentimenti, che è espressione di un cattolicesimo attivo e non inquinato da suggestioni protestantiche e, soprattutto, non affetto da complessi di inferiorità nei confronti delle culture anticristiane, per affermare che l’unico programma politico, sociale ed economico è quello che “diverge radicalmente dal programma del collettivismo, proclamato dal marxismo e realizzato in vari Paesi del mondo…”; e “al tempo stesso differisce dal programma del capitalismo praticato dal liberalismo e dai sistemi politici, che ad esso si richiamano”, cosi come testualmente recita la “Laborem exercens” di Giovanni Paolo II.
Occorre perciò una formazione cristiana integrale all’impegno sociale e politico, i cui criteri di orientamento e di guida vanno attinti proprio dalla Dottrina sociale. In questo senso è molto significativo che Giorgia Meloni, nel suo intervento al Meeting riminese di Comunione e Liberazione abbia fatto riferimento prioprio alla Dottrina sociale, quale attualissimo e prezioso strumento per affrontare questioni cruciali del nostro tempo.
I laici cristiani, partendo da essa, che evidentemente non attiene né al settore delle scienze sociologiche né a quello delle ideologie, ma a quello della teologia morale, possono cercare di impostare correttamente i problemi contingenti e concreti che si pongono all’uomo di oggi; attraverso essa possono interpretare la realtà politica, sociale ed economica “esaminandone la conformità o la difformità con le linee dell’insegnamento del Vangelo”; in essa possono cercare di realizzare un progetto politico e sociale per il bene, la giustizia e la pace in vista e nella speranza del regno di Dio.
E al servizio del bene comune, che non è altro che “l’insieme di quelle condizioni sociali che consentono e favoriscono negli esseri umani lo sviluppo integrale della loro persona”, che dovrebbero porsi i pubblici poteri, i quali, secondo un’autentica visione cristiana della vita, dovrebbero promuovere e sviluppare gli altri due principi che regolano la vita sociale: quello della solidarietà e quello della sussidiarietà.
Virtù umana e cristiana, la solidarietà (meglio sarebbe dire: la carità) supera ogni individualismo e consente a uomini e famiglie, gruppi e comunità locali, ordini professionali ed associazioni di categoria, nazioni ed organizzazioni internazionali di partecipare per il bene comune alla gestione delle attività economiche, politiche e culturali, senza che ne venga lesa per il principio di sussidiarietà la legittima autonomia.
Una concezione della società “costituita non solo da singole persone libere, ma anche da società intermedie, che vanno integrandosi in unità superiori, a partire dalla famiglia per arrivare, attraverso le comunità locali, le associazioni professionali, le regioni e gli Stati nazionali agli organismi sopranazionali e alla società universale di tutti i popoli e nazioni”; ordinata secondo i principi di solidarietà, di sussidiarietà e di partecipazione responsabile di tutti i suoi membri, non può non riconoscersi come organica, cosi come, del resto, in ogni tempo la Chiesa l’ha definita, affermata e promossa.
Il Magistero, però, nel corso della storia non si è limitato solamente ad affermare e sostenere queste verità, ma ha fornito sempre alla comunità cristiana criteri per giudicare le singole situazioni, le strutture sociali, i comportamenti umani, le istituzioni di modo che tutto il suo sapere non fosse solamente teorico, ma anche pratico ed orientato all’azione concreta.
È evidente, d’altro canto, che pur rivendicando sempre e quando necessario il suo diritto-dovere di pronunciare giudizi morali sulle questioni politiche, sociali, economiche e culturali, la Chiesa sa bene che il passaggio tra il piano dottrinale e quello pratico presuppone mediazioni che sono di natura, appunto, politica, sociale, economica e culturale, per le quali sono prevalentemente competenti i laici, ai quali è affidato in modo particolare il compito di calare nella realtà, avvalendosi della Dottrina sociale, il messaggio evangelico.
È, dunque, un vero e proprio invito all’azione sociale concreta quello che rivolge la Chiesa ai laici cattolici, che operano in tutti i campi delle realtà temporali. Essi dovranno tener conto che anche qui la prima norma da seguire è la difesa e la salvaguardia della dignità della persona, in relazione alla quale dipenderà la conformità o la difformità dei programmi, delle decisioni, delle attività dei governi, dei partiti politici, dei sindacati, delle istituzioni, dei gruppi e delle persone.
Proprio per questo la Chiesa non offre un particolare modello di vita sociale, né è legata a nessun sistema politico ed invita perentoriamente i propri ministri a mantenersi fuori da ogni partito politico e ad evitare di dare appoggi preferenziali a questa o quella organizzazione, al fine di conservare meglio la propria libertà nell’opera di evangelizzazione della realtà politica e di evitare di creare inutili divisioni nel popolo di Dio.
Ciò non significa, però, che non incoraggi i suoi fedeli laici a prendere coscienza della propria responsabilità nella comunità politica e a vivere in maniera matura e adulta la propria fede nella dimensione politica, evitando cosi il pericolo del divorzio tra fede e vita e lavorando per soluzioni e modelli nei quali la concezione cristiana della vita si possa realizzare.
“Per loro vocazione è proprio dei laici cercare il regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio”: questa vocazione, però, deve essere aiutata e sollecitata a maturare, in modo che, diventando testimone di fede, di carità e di speranza, il cristiano intenda l’esercizio della politica come servizio all’uomo ed al bene comune sia a livello locale che nazionale ed internazionale.
Certo è molto difficile “la sintesi coerente fra l’interiore tensione verso un cristianesimo esigente e l’efficacia delle azioni sociali”.
Si tratta di aiutare tanti credenti ad approfondire il senso ultimo della partecipazione alla vita sociale e politica, in modo che si vada diffondendo sempre più non solo nell’ambito cattolico, ma anche nell’intera società la consapevolezza che siano le persone – e non le classi o lo Stato o le masse o i partiti – ad essere i soggetti attivi e responsabili della vita sociale e che perciò esse debbano avere il primato sulle strutture sociali e su qualsiasi altro tipo di organizzazione.

di Riccardo Pedrizzi

MONS.PAGLIA: il bene comune per la Chiesa è la priorità

Monsignor Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la Vita, tra pochi giorni gli italiani saranno chiamati alle urne. È un passaggio delicato, tra pandemia Covid 19 e guerra in Ucraina. Il nuovo parlamento e il nuovo governo si troveranno di fronte ad una grave crisi, non solamente economica. Quali sono le aspettative della Chiesa Cattolica?
In effetti, il periodo che stiamo vivendo, non solo in Italia, ma nel mondo, è davvero difficile. Papa Francesco ci aveva avvertiti: siamo in un cambiamento d’epoca, non in un’epoca di cambiamento. Abbiamo vissuto prima la pandemia e poi la guerra in Ucraina, che non solo si aggiunge alle altre già presenti, ma sta diventando sempre più “mondiale” per le tragiche conseguenze (la fame, l’inquinamento, la corsa alle armi, alle tensioni come quella cino-taiwanese, e altro ancora). Certo, le elezioni in Italia si sarebbero potute svolgere tra alcuni mesi in un clima meno vacanziero… In ogni caso, il problema centrale, a mio avviso, ruota attorno alla mancanza di visione sul Paese che vogliamo costruire. Nel secondo dopoguerra l’avevamo, eccome. Ed era trasversale ai partiti. Questo permise la scrittura di una Costituzione frutto della dialettica tra tutti. Un giovanissimo Aldo Moro, nell’Assemblea Costituente, affermava giustamente che la democrazia presuppone “una casa comune”. Ecco, c’è bisogno di questa visione. E non spetta alla Chiesa delinearla. Ma certo ai cristiani contribuire a disegnarla.
Guardando al futuro, il presidente della CEI Zuppi invitato a esprimere un parere sull’eventualità di Giorgia Meloni premier, ha risposto che “la Chiesa non ha preclusioni verso nessuno”. Cosa si aspetta la Chiesa Cattolica nell’eventualità di una vittoria della coalizione di centro-destra?
Mi pare che la risposta del cardinale Zuppi – di cui lei riporta una frase – sia sufficientemente chiara: è ovvio che la Chiesa e, ovviamente, tutti i cittadini cattolici sono chiamati ad accogliere il responso che esce dalle urne e del conseguente governo che verrà istituito. Come è altrettanto ovvio che la Chiesa si aspetti – in verità assieme a tutti i cittadini italiani – un governo che abbia come obiettivo il bene comune del Paese. E questo a me pare comporti l’attuazione di politiche che tutelino, in modo congiunto sia la persona che la società ed anche la natura (come si afferma con vigore nella Laudato Sì). Tutelare la persona comporta l’adozione di provvedimenti volti ad assicurare il lavoro anche ai meno dotati e il rispetto congiunto sia dei valori etici che sociali con la riduzione pertanto delle scandalose diseguaglianze sociali e territoriali (penso al dualismo Nord-Sud); è altresì urgente un governo che si impegni per una più efficace transizione ecologica, oggi sempre più invocata soprattutto dalle giovani generazioni. Altre prospettive si potrebbero indicare. Ma senza alcun dubbio c’è bisogno di un governo che renda più salda l’Europa come soggetto anche “politico” in vista di una politica internazionale che aiuti la promozione di un “governo” planetario, ovviamente all’interno della indispensabile pluralità dei popoli.
I cristiani sono parte integrante del tessuto sociale italiano, però si ha l’impressione che talvolta vengano considerati come un “target” da raggiungere per conquistarne la fiducia e strumentalizzare fede e religione. Lei cosa ne pensa, si corre questo rischio?
Certo, i cristiani sono parte integrante e quindi responsabili della “casa comune” di cui sopra. Farebbero un errore i partiti a considerarli semplicemente come “target” o come una controparte. E farebbero un errore anche i cristiani se si lasciassero considerare come tali. I cristiani – con il prezioso bagaglio della sapienza del Vangelo – sono chiamati ad offrire il loro contributo di cittadini per edificare una “casa” ove la libertà, l’uguaglianza e la fraternità, siano patrimonio di tutti coloro che la abitano. Va bloccata perciò quella cultura iper-individualista che, come un virus, la sta infettando. I cristiani hanno la grave responsabilità di promuovere quel “Noi” che fa degli italiani un popolo che fermenta l’Europa e il mondo di quella “fraternità” di cui ha parlato papa Francesco.
Il sociologo Bauman ha descritto la società attuale paragonandola ad un mondo liquido, senza quei pilastri ideologici che avevano caratterizzato il secolo scorso. Parliamo di “unità” della Chiesa, che a differenza di altre religioni e confessioni è caratterizzata dal “sacerdozio” e dalla “verticalità”. Tale “edificio di Pietro”, per fare riferimento alle parole del Vangelo, può offrire un punto di riferimento e una forma di orientamento nel contesto sociale?
Alla riflessione di Bauman si può aggiungere quella di Edgard Morin che parla di un mondo complesso e conflittuale. La sfide che abbiamo davanti sono enormi. La Chiesa – è importante sottolinearlo – in quanto comunità plurale, ossia fatta di realtà diversificate ma unite da uno “spirito”, può aiutare a far crescere nel Paese la coscienza di una responsabilità verso quel “bene comune” che lega l’Italia sia all’Europa che al mondo. Ogni “Io” – quindi qualsiasi tipo di sovranismo, ogni autoreferenzialità – deve in realtà lasciare lo spazio ad una energia di solidarietà che umanizzi la globalizzazione. E la Chiesa, anzi le Chiese cristiane, hanno un compito importantissimo. Ricordo l’affermazione di un grande patriarca orientale, Atenagora, il quale diceva: “Chiese sorelle, Popoli fratelli”. E’ un programma sia per le Chiese che per i popoli .
Il ruolo e l’impegno dei laici, anche delle donne, è diventato fondamentale nelle diocesi e nelle parrocchie, faccio riferimento anche alla Dottrina sociale della Chiesa. C’è bisogno di una “morale cristiana” anche nell’operatività dei governanti?
Sì, credo che la morale cristiana sia indispensabile anche per la società contemporanea. Occorre però intendersi su cosa si intende con “morale cristiana”. Va però superata anzitutto quella prospettiva secondo cui la politica ha il compito di elaborare scelte giuridiche dedotte da una legge naturale accessibile a tutti, ma di cui i credenti (e il magistero in particolare) avrebbero il privilegio della corretta interpretazione. Ritengo invece che tra la sfera giuridica (giusto) e quella etica (buono) ci sia una relazione reciproca, che implica e trova la sua mediazione costitutiva nella cultura. Sì, la cultura! Potremmo anche dire nell’ethos condiviso, che storicamente caratterizza le forme concrete, pratiche e teoriche, della vita di un popolo. In tale orizzonte, il giuridico è una delle forme della cultura e la cultura è il primo accesso all’esperienza della vita buona (etica). In sintesi, il buono è implicato nel giusto, ma il giusto regola situazioni differenti, relative alla comune vita sociale, nella ricerca condivisa del bene comune, che è il compito della politica.
Data la sua esperienza nella Santa Sede, cito il suo incarico precedente nel Pontifico Consiglio per la Famiglia e quello attuale come Presidente della Pontificia Accademia per la Vita, ritiene che il collegamento e la collaborazione tra religiosi e laici (intellettuali, economisti, scienziati e politici) sia di fondamentale importanza per costruire il futuro?
Certamente, perché proprio nella cultura si attua la presenza e la testimonianza anche della Chiesa poiché anch’essa partecipa all’arena del dibattito pubblico, intellettuale, politico, economico e giuridico. Il contributo dei cristiani si dà all’interno delle differenti culture: né sopra, come se essi possedessero una verità data a priori; né sotto, come se i credenti fossero portatori di un’opinione, rispettabile, ma parziale, dogmatica, dunque valida solo per i fedeli. Tra credenti e non credenti si dà piuttosto una relazione di apprendimento reciproco, di mutuo contagio. Il contributo dei cristiani riguarda la testimonianza delle forme dell’umano implicate nel vangelo di Gesù. In tal senso, essi sono chiamati a rendere ragione a tutti del senso etico (universale) cui la fede cristiana consente di accedere e a vivere personalmente le loro convinzioni.
Il problema degli aiuti umanitari, del soccorso e dell’accoglienza con spirito cristiano è una questione che va gestita “politicamente” da tutte le nazioni con accordi chiari e precisi? Senza girare lo sguardo e far finta di niente o rimpallando il problema tra una nazione e l’altra?
Certamente i due temi oggi al centro dell’attenzione internazionale dovrebbero darci il coraggio – e la forza – per un cambio di passo per tutta l’umanità. Ho accennato al Covid-19 ed anche al conflitto in Ucraina: stiamo rischiando il fallimento della politica come unica risorsa sia per uno sviluppo sostenibile del pianeta, sia per una composizione pacifica e concordata dei conflitti. Serve un cambio di passo per costruire un mondo diverso, più umano e più giusto, che includa risposte anche sul tema dei profughi e in generale su tutte le tematiche che ci fanno toccare con mano la gravità delle ingiustizie. E’ indispensabile riprendere la via di un governo globale. Papa Francesco con le due encicliche, Laudato sì (sulla casa comune) e Fratelli tutti (sull’umanità che la abita), ci ha delineato la visione che dovrebbe vederci tutti, governi, chiese, religioni, intellettuali, artisti, uomini e donne, uniti nel perseguirla. È il momento di superare divisioni, rancori, rivalità, conflitti, riscoprendoci fratelle e sorelle tra di noi, cioè parte di un’unica umanità che è chiamata ad abitare e curare l’unica casa comune che abbiamo.
Il dialogo interreligioso e la formazione culturale dei diplomatici, sia religiosi che laici, devono essere considerati elementi fondamentali da sviluppare per il bene dell’umanità?
La risposta è sicuramente positiva. Sappiamo – lo vediamo ogni giorno – quanto la religione sia parte integrante dell’identità delle persone e dei popoli. Non a caso la Chiesa si è impegnata, già dagli anni Ottanta, all’incontro tra le religioni, sia per ottenere la pace, sia per sostenere i diritti di tutti alla dignità. Purtroppo, oggi accade anche il contrario: uomini di religione che strumentalizzano la fede per la violenza. Va combattuto ogni fondamentalismo per sostenere e promuovere il dialogo e l’incontro in vista del bene comune di tutti. Le religioni possono, anzi debbono svolgere il loro ruolo perché si giunga verso un “nuovo umanesimo”. In questo senso dobbiamo auspicare, come lei dice, sia la conoscenza delle religioni e delle culture, sia una nuova comprensione della spiritualità. Mi ha sempre fatto riflettere questa affermazione di Bonoheffer: “Essere cristiano non vuol dire essere religiosi ma essere uomini”: E’ il compito che papa Francesco chiede a tutti i cristiani: essere fermento di nuova umanità nel mondo.

di Stefano Girotti Zirotti

Alberoni: “la priorità? Combattere l’ignoranza

“Siamo nel pieno di un conflitto a livello mondiale tra il mondo occidentale, quello che un tempo era l’Unione Sovietica e in parte il mondo asiatico”. È preoccupato Francesco Alberoni tanto più che va peggiorando la crisi di Taiwan: “C’è un problema di schieramento internazionale – dice a telefono il professore – la nostra collocazione deve essere chiara e leale. Però sapendo che bisogna guardare anche ai nostri affari, all’interesse nazionale”.
Alberoni, 93 anni a dicembre, sociologo, scrittore, accademico autore di analisi profonde sia della società che della politica.

La politica? “Una terrificante miscela di ideologia e mito, di fede ed eroismo, ma anche di cinismo, tradimento menzogna, ferocia e crudeltà” lo scrive lei, professore, nella sua autobiografia. È ancora così la politica?
No questa definizione della politica l’avevo data a poco più di vent’anni. Venivo da un’epoca che aveva attraversato la guerra mondiale, il fascismo, il nazismo, il comunismo. Oggi no. Non è così. Ci sono ideologie ma non sono quelle totalitarie del novecento. Tuttavia anche oggi sono un po’ diffidente verso tutto ciò che è ideologico.

Lei dunque professore è un po’ diffidente anche oggi. Teme che oggi in Italia ci sia un pericolo fascista paventato da una certa sinistra e da alcuni giornali alla vigilia delle elezioni?
Assolutamente no. Ci sono dei nostalgici, anche della monarchia, ma non possono avere alcuna influenza sulla politica e sulla società. La mia impressione è un’altra: la società moderna tende a indebolire la democrazia. Chi comanda sempre di più sono i grandi politici, i burocrati, gli oligarchi che non sono solo in Russia ma anche in Ucraina, in Europa, in America e pure in Italia. C’è una classe politica formata da grandi ricchi e da burocrati che ha in mano la società e fa quello che vuole. È la plutocrazia. La vecchia democrazia elettorale viene sempre più indebolita. È necessario votare come continua esperienza di rinnovamento politico. Non è un buon esempio quello di un paese dove non si vota da tanti anni.

Parliamo di innamoramento e amore, un tema al centro di molti suoi libri sul rapporto di coppia come primo elemento di movimento collettivo. Ritiene che quelle sue valutazioni siano ancora valide o vadano riviste oggi alla luce di un diverso rapporto di coppia?
No. L’innamoramento non cambia come natura. Va detto però che i giovani oggi non vogliono legami, vogliono fare esperienze. E poi c’è il fatto che chi non ha un lavoro sicuro non si sposa e non ha figli.

Di conseguenza cala in Italia la natalità mentre sale l’immigrazione incontrollata.
In Europa c’è spazio per l’immigrazione. L’ideale sarebbe un’immigrazione di persone qualificate, con competenze. La Germania per esempio ha fatto questa operazione con i profughi provenienti dalla Siria che si sono ben integrati col mondo moderno.

E per gli altri disperati che premono alle frontiere?
Meglio fare investimenti nelle loro terre. La Cina lo sta facendo”

Negli ultimi anni è stata data molta attenzione ai diritti civili. In particolare per gay e transgender. Crede che questi diritti vadano rispettati?
Darei per scontati questi diritti purché non diventino ossessioni. Siamo in un paese dove c’è libertà di opinione e quindi anche coloro che hanno una teoria transgender la seguono, chi è contrario non la segue. L’importante è non imporre agli altri le proprie ideologie: è il principio elementare del mondo liberale.

Il suo ragionamento vale anche per il diritto al fine vita?
È un problema su cui preferirei non parlare non perché non abbia delle idee, ma perché è facilissimo essere fraintesi. Voglio qui ricordare l’elogio che Dante fa a Catone, suicida per la libertà. Io ammetto il suicidio, ma non facciamone una ideologia.

Alla stagione esclusiva dei diritti forse dovrà far seguito una stagione più attenta ai doveri. Quali secondo lei dovranno essere i doveri primari della società?
Primo dovere deve essere quello della cultura, della scuola. C’è stato un eccessivo lassismo non tanto sul piano della disciplina, ma della grammatica, dell’apprendimento fin dalle elementari. Ci sono un sacco di persone adulte che non sanno di storia, di geografia, di matematica…

Crede che il lockdown per l’emergenza Covid abbia contribuito ad aggravare la crisi della scuola?
Il Covid può aver contribuito, ma la crisi era già in atto in precedenza. Era prevalso il concetto che non c’è bisogno di studiare, che tutto viene spontaneo come in un gioco, uno svago. Ma non è cosi. Ci sono cose che non sai se non le impari da piccolo. Una lingua non la impari a 40 anni. La lingua la puoi insegnare a bimbi di due o tre anni. La cultura nelle età adatte.

La figura del leader è stata al centro di molte sue riflessioni. Di che tipo di leader ha bisogno oggi l’Italia?
Vi sono tre tipi di leader. Il primo diciamo che è quello popolare, un demagogo il quale gioca sulle emozioni della folla. Diffido di gente siffatta perché quando sono al potere diventano despoti. Poi c’è una seconda figura di leader che è fondamentalmente un amministratore, ma senza fantasia politica, senza capacità inventiva. Il terzo tipo di leader è quello di amministratore ma con capacità politica ed inventiva, ma credo che ce ne siano pochi

E in Italia ce ne sono?
Non faccio nomi, ma ci sono, ci sono.

di Angelo Belmonte

Ottaviani: brigate russe in azione, oggi

Una guerra subdola, impalpabile, all’apparenza meno invasiva dell’orrore a cui stiamo assistendo in Ucraina, ma che sul lungo termine procura danni irreparabili. Un Paese, l’Italia, che per motivi storici ed economici viene percepito dai russi come particolarmente appetibile e malleabile e che adesso si trova davanti il rischio concreto di vedere il voto politico del 2023 influenzato indirettamente da Mosca. Marta Ottaviani nel suo libro Brigate Russe (edito da Ledizioni e pubblicato un mese prima lo scoppio della guerra in Ucraina) ha spiegato cosa sia la guerra non lineare e perché nessun Paese possa dirsi al sicuro.

Marta Ottaviani, come potremmo definire la guerra non lineare russa?

Riassumendo al massimo, si tratta di un insieme di misure volte a destabilizzare il nemico senza che questo se ne accorga, o lo faccia solo quando è troppo tardi. Le caratteristiche della guerra non lineare sono sostanzialmente due: la prima è che non si ferma mai, va avanti anche in apparente tempo di pace, la seconda è che è difficilissima da attribuire con esattezza in tempi rapidi, perché viene portata avanti soprattutto sulla rete, che è il campo dell’anonimato per eccellenza.

Quali sono queste misure?

Attacchi hacker, sciami di troll che hanno il compito di inquinare il dibattito pubblico, un sistema di soft power particolarmente aggressivo e, solo in alcuni casi, l’impiego di truppe non regolari. Sottolineo non regolari perché in Crimea nel 2014 sono riusciti a camuffare invasione proprio così. Ci sono voluti anni per capire quello che era successo veramente.

Perché dobbiamo interessarci alla guerra non lineare russa?

In questi mesi stiamo assistendo a una guerra di tipo convenzionale, novecentesca, scellerata, che sta trascinando in un gorgo l’Ucraina, la Russia e tutta la comunità internazionale. La guerra non lineare però è la guerra del futuro e dobbiamo davvero imparare a farci i conti perché sarà sempre più invasiva e sempre più difficile da individuare in tempi brevi.

Pensa che sia a rischio anche l’Italia?

L’Italia in questo momento è sotto un violento attacco di infowar, che non ha precedenti nel nostro Paese. Dall’analisi degli interventi degli ospiti nei talk show, l’attivismo sui social dell’Ambasciata russa e l’aumento degli account sulle varie piattaforme proprio in occasione di questa guerra mi fa pensare che ci sia una strategia precisa.

Quale?

Portare il nostro Paese dalla parte di Mosca e, se possibile, influenzare anche il voto politico del 2023, sul modello di quanto fatto negli Stati Uniti nel 2016 e in occasione del referendum sulla Brexit dello stesso anno. In Ucraina la Russia sta bombardando innocenti, con la guerra non lineare si bombardano le menti delle persone.

Come ci si difende?

In tanti modi, a partire da una corretta educazione digitale, che secondo me dovrebbe essere insegnata a scuola alle nuove generazioni per le quali i social e il metaverso diventeranno realtà con cui si confronteranno sempre di più. In secondo luogo, si parla giustamente del diritto all’informazione, ma troppo poco spesso del fatto che, nel momento un cui diffondiamo una notizia che abbiamo letto e che troviamo vera, diventiamo parte attiva. Quindi informarsi in modo corretto e approfondito, evitando fakew news, teorie complottiste o le uscite dell’opinionista improvvisato di turno, adesso è anche un dovere. E soprattutto tenere presente una cosa: per noi la libertà di informazione è un valore sacro e irrinunciabile, per la Russia di Putin un ventre molle in cui colpire. Va difesa con la censura, ma con la consapevolezza che qualcuno usa l’informazione per fare la guerra. Le parole d’ordine quindi sono approfondimento e selezione.