Redazione

Il Governo che verrà

Non sappiamo ancora come sarà il governo guidato da Giorgia Meloni. L’approccio scelto della presidente “in pectore” fin della notte del trionfo elettorale lascia ben sperare: la soddisfazione enorme temperata da un sobrio realismo; la gioia per un traguardo storico condizionata dal momento assai complicato che l’Italia sta vivendo; l’emozione di essere la prima donna a ricoprire quel ruolo di responsabilità unita alla consapevolezza che mai nessuno le farà sconti o mostrerà benevolenza in caso di errori o passi falsi.

Sappiamo, però, che nei due rami del nuovo Parlamento che va ad insediarsi, vi sarà una maggioranza piuttosto ampia che solo una volontà suicida potrebbe indebolire o vanificare. Una maggioranza così ha un duplice dovere da assolvere: non solo accompagnare l’azione del governo che ne sarà l’espressione, ma anche mettere in campo una macchina riformatrice che faccia di questa legislatura un traghetto verso un assetto istituzionale moderno, efficiente e condiviso. Per questo, con una prova di buona volontà più larga del perimetro di maggioranza, si potrebbe mettere al lavoro una Commissione bicamerale con mandato costituente, dandole forza, autorevolezza e tempi adeguati per concludere positivamente il lavoro entro il quinquennio.

Torna alla mente la riflessione che ci regalò Pinuccio Tatarella, convinto che il 65/70 per cento degli italiani non si riconosca nelle posizioni e nei partiti della sinistra. Per questo, spiegava, compito primario di chi guida la maggioranza, oltre al dialogo con tutte le opposizioni, è quello di spingersi nella ricerca di intese proficue fino ai confini di quel 65/70 per cento. I risultati elettorali hanno ribadito la validità di quella riflessione, considerando di sinistra (secondo le rispettive definizioni) il Partito democratico, i suoi alleati minori e il Movimento 5 Stelle di Giuseppe Conte. In sostanza, applicare quel “teorema” agli equilibri stabiliti dagli elettori il 25 settembre, comporterebbe due conseguenze: stabilire un accordo forte nel centrodestra e attivare canali di confronto soprattutto con il centro di Calenda e Renzi. Proprio da quel “polo” sono stati lanciati segnali precisi, da cogliere e rilanciare, non per mescolare i ruoli, ma perché il processo riformatore possa coinvolgere la maggior parte delle forze parlamentari. Un’altra “lezione” tatarelliana torna di grande attualità: la necessità di portare a sintesi unitaria la spinta verso il presidenzialismo (verificando la soluzione che incontri maggiori adesioni: francese, americana, sindaco d’Italia) e quella verso una forma di federalismo, che non è più – come ai tempi della Lega di Bossi – un cavallo di battaglia divisivo, talvolta portato sul terreno utopistico e provocatorio della “secessione padana”, ma è esigenza viva e molto sentita di autonomia.

Il governo Meloni saprà modulare relazioni costruttive con l’Ue, a condizione che il rispetto sia reciproco e non si pretenda la sottoscrizione di decisioni che intacchino e limitino le potenzialità di ripresa e di rilancio del nostro paese. Una cosa dovrà esere chiarita: non si saranno limitazioni di diritti (individuali o di minoranze) ma non potranno essere sanciti né legittimati ulteriori abusi, confusioni, equiparazioni. Varrà per le unioni tra coppie dello stesso sesso non omologabili al matrimonio; varrà per l’aborto, scelta consapevole e legittima nello spirito della legge 194 da quarant’anni in vigore ma mai integralmente applicata. E non potrà rientrare nella categoria dei diritti da soddisfare la pratica immorale dell’utero in affitto, che mortifica la dignità della donna e merita di essere bandita – quale reato universale – da ogni contesto civile.  Con la ben nota lucidità il cardinle Ruini ha commentato le elezioni indicando nella crisi demografica un’emergenza che il nuovo governo avrà il dovere di affrontare e di contrastare. Non solo a parole, ma con una politica fatta di provvedimenti concreti, mirati, che aiutino, incoraggino, siano premianti per quelle coppie che – nonostante tutto – scelgono coraggiosamente di costruire una famiglia e di mettere al mondo dei bambini.

Non sappiamo ancora molto del nuovo governo. Ma di una cosa si può esser certi. Sarà un esecutivo composto da ministri competenti, uniti da una visione condivisa delle scelte da compiere. E, soprattutto, sarà un governo a guida fortemente politica, capace di indicare un orizzonte e di intraprendere, per raggiungerlo, la strada migliore.

Mons.Suetta: con Giorgia Meloni ha vinto l’umanesimo cristiano

Intervista di Mauro Mazza

 

Il vescovo di Ventimiglia-Sanremo, mons.Antonio Suetta, è noto per la poderosa azione pastorale nella sua diocesi e per il suo parlar chiaro. Nella città del Festival della canzone, mons.Suetta non ha esitato a criticare duramente talune esbizioni e ostentazioni di pessimo gusto e, spesso, al limite della blasfemia. Al vescovo Suetta, che talvolta è intervenuto anche sulle scelte della politica italiana, Charta Minuta ha rivolto alcune domande sull’esito delle elezioni.

 

– Il voto del 25 settembre sembra disegnare una nuova e diversa Italia. Ci sono vincitori e vinti. Gli elettori hanno compiuto una scelta chiara che potrebbe preludere a una stagione di stabilità. Cosa è lecito attendersi dal nuovo governo, tra emergenze da affrontare e un futuro da scrivere, speriamo oltre la/le crisi?

 

– Innanzitutto appunto un governo stabile, che possa guidare il Paese nelle complicate e pericolose situazioni critiche di questo tempo: l’uscita dalla pandemia, i rischi della guerra incombente con i suoi contraccolpi sull’economia e la tenuta sociale, l’inflazione e la recessione. Il nuovo assetto politico ha poi la grande e grave responsabilità di attuare il PNRR favorendo lo sviluppo, la giustizia, la pace sociale, l’ammodernamento dello Stato quanto a infrastrutture e rilancio dell’industria, l’occupazione e riformando la macchina della burocrazia e dell’amministrazione della giustizia quali presupposti indispensabili per quanto ho appena richiamato.

 

– Dal punto di vista di un Vescovo, come valuta la figura politica e le scelte (quelle annunciate e quelle compiute finora) di Giorgia Meloni? E come spiega un Pastore la grande affermazione del partito Fratelli d’Italia?

 

– Ciò che attira il mio interesse e suscita in me fiducia non riguarda tanto le molteplici questioni di corrente e concreta amministrazione, naturalmente legate alle regole dei vari ambiti operativi, alle situazioni contingenti, alle connessioni internazionali e a scelte/situazioni ereditate. Non è neppure mia competenza trattare tali aspetti. Sono invece soddisfatto che il voto popolare abbia fatto emergere una sensibilità caratterizzante il nostro popolo e la nostra storia, segnati da una tradizione di umanesimo cristiano e dunque incompatibile con le esasperazioni espresse dalla cultura di sinistra. Essa ha sempre più disertato le vere questioni e necessità della gente per promuovere, anche con una certa violenza politica e propagandistica, pericolosissime ideologie, che, pur nascondendosi elegantemente dietro la difesa di presunti diritti umani, in realtà risultano profondamente disumane e foriere di forte negatività e cattivi frutti per il futuro della società. Le diverse formazioni della sinistra – anche le più moderate e magari, a loro dire, vicine al mondo cattolico – sono pericolosamente inficiate da quella dittatura del relativismo etico, di cui parla Benedetto XVI, che oggi dilaga attraverso il cosiddetto “politicamente corretto” e che costituisce  purtroppo il criterio prevalente, talvolta esclusivo, delle grandi istituzioni di riferimento come il parlamento europeo.

Per questa ragione interpreto il successo del partito Fratelli d’Italia e della sua coalizione politica non principalmente come l’esito di un voto di protesta o della logica dell’alternanza, ma piuttosto come un risveglio – lo spero davvero – di autentica civiltà politica, capace di riscoprire e rivitalizzare la formidabile tradizione del nostro popolo e di promuovere, specialmente nella famiglia e nella scuola, una sempre più necessaria capacità discrezionale circa i valori autentici su cui fondare la vita dell’uomo e la società.

 

– Le generalizzazioni andrebbero evitate. Ma, a volte, si ha l’impressione che da parte cattolica – pastori, media, movimenti – non vi sia sempre equità di giudizio. Sembra che nei confronti della destra (non solo quella italiana) non vi sia un atteggiamento sereno, nonostante posizioni in sintonia con il Magistero e con il diritto naturale. Per dirla tutta, è come se si guardasse con più benevolenza alle forze decisamente laiciste.

 

– È vero, purtroppo questa è l’impressione e – credo – talvolta la verità. Ritengo che dipenda principalmente da due fattori: una sostanziale mancanza di conoscenza e formazione circa la dottrina cristiana e la storia, soprattutto nella ricerca delle premesse filosofiche e ideologiche che ne determinano il corso; anche una sorta di “timidezza” di fronte alla pervasività di modelli assolutamente antitetici alla visione cristiana fa propendere per una via di malinteso dialogo e di ammiccante tolleranza, che, alla fine, produce pericolose contaminazioni nello sforzo abbastanza inutile di restare sulla scena. In effetti i risultati di una siffatta strategia mostrano sempre quanto sia vera l’affermazione evangelica che “se il sale perde il suo sapore a  null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dalla gente” (cfr. Mt 5, 13): il mondo con la sua logica plaude ad approcci del genere fintanto che ne può trarre vantaggi o fintanto che non disturba il suo corso per poi trascurare o combattere il messaggio cristiano quando lo trova incompatibile o di intralcio. Il criterio “nel mondo, ma non del mondo” rimane sempre illuminante e conveniente. Credo che la tradizione cattolica debba ritrovare e mostrare la propria originalità, luminosa e sempre attuale, superando una sorta di complesso di inferiorità rispetto alle pretese della narrazione pervasiva della sinistra di possedere l’esclusiva della cultura, del progresso e dell’etica.

   

– Cosa ci si può attendere da una politica (divenuta maggioranza parlamentare) sul terreno delicatissimo al confine con l’etica?

 

– Sempre tenendo presente che la politica è l’arte del bene possibile, mi auguro che, nella complessa gestione delle molteplici istanze istituzionali e sociali, una rinnovata azione politica promuova e permetta lo sviluppo dei fondamenti della nostra civiltà italiana ed europea impedendo la deriva della resa incondizionata ai non-principi” del relativismo.

In “Svolta per l’Europa? Chiesa e modernità nell’Europa dei rivolgimenti” J. Ratzinger scrive così: Chi può nascondersi che il relativismo, al quale noi tutti oggi siamo esposti, produca una crescente inclinazione al nichilismo? L’interrogativo si fa così stringente: con quali contenuti possiamo colmare il vuoto spirituale, creatosi con il fallimento dell’esperimento marxista? Su quali fondamenta spirituali possiamo costruire un comune futuro, in cui Est e Ovest si leghino in una nuova (esperienza di) unità, ma anche Nord e Sud trovino un cammino comune?

 

– Di fronte all’egemonia del “pensiero unico” che domina in Europa, esistono ancora margini e concrete possibilità di correzione, di ravvedimento? Oggi, se un governo nazionale assume posizioni difformi viene redarguito e condannato da Bruxelles…

 

Teologicamente risponderei che assolutamente si, perché il bene e la verità hanno un’intrinseca diffusività ed un’autentica consistenza di valore, che, a differenza del male e dell’errore, apparentemente vincenti per la dinamica violenta con cui tentano di imporsi, pazientemente mettono radici nel cuore dell’uomo per poi fruttificare clamorosamente. Aggiungo poi che l’unione fa la forza… ed oggi, qua e là, si notano parecchie e felici crepe nella disinvolta ostentazione del “pensiero unico”, che si candiderebbe a governare il mondo.

 

– Ferma restando la distinzione tra politica e religione, la Chiesa non potrebbe fare di più e meglio in quella terra di missione che è diventata l’Europa? A volte paiono prevalere timori e timidezze. Oppure si scelgono questioni distinte e distanti dai princìpi che papa Ratzinger chiama “non negoziabili”.

 

– La Chiesa è chiamata ad annunciare il Vangelo di Gesù con la parola e la testimonianza, promovendo il vero bene, terreno e soprettutto eterno, nella vita degli uomini e denunciando ogni deragliamento sul piano della dottrina e della condotta: questo è il suo compito. La Chiesa non si pone nel mondo come una delle tante istituzioni o agenzie, ma offre, quale madre, maestra e compagna solidale di viaggio, i suoi tesori più preziosi, che sono la divina rivelazione, i sacramenti, la preghiera, la santità e la carità dei suoi figli. La Chiesa sa che la sua battaglia “non è contro la carne e il sangue, ma contro i Principati e le Potenze, contro i dominatori di questo mondo tenebroso, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti” (cfr Ef, 12) e pertanto sa che non può combatterla semplicemente con espedienti mondani. Sempre nella stessa lettera agli Efesini l’apostolo Paolo chiede per se ciò che oggi anch’io domando per il mio ministero di Vescovo e imploro per la Chiesa: “E pregate anche per me, affinché, quando apro la bocca, mi sia data la parola, per far conoscere con franchezza il mistero del Vangelo, per il quale sono ambasciatore in catene, e affinché io possa annunciarlo con quel coraggio con il quale devo parlare” (6, 19).

Sicurezza e Mediterraneo, una questione cruciale

Le conclusioni del Forum di Roma

L’intensa due giorni di lavori (Roma, 11- 13 ottobre) con la partecipazione di autorevoli studiosi e parlamentari d’oltre oceano, europei , medio-orientali e africani ha fornito ulteriore conferma della proficua collaborazione in atto ormai da quasi due anni tra la nostra Fondazione, l’“International Repubblican Institute “( prestigiosa “think -tank“ statunitense vicina ma non organica al Partito Repubblicano) e il Comitato Atlantico italiano.

Si è trattato infatti del sesto Forum congiuntamente organizzato dalle tre fondazioni a poco più di un anno dal primo, su Europa e relazioni transatlantiche dopo la pandemia e il ritiro americano dall’Afghanistan, svoltosi lo scorso anno in non casuale coincidenza col ventesimo anniversario dell’11 settembre. L’evento, iniziato con una sessione aperta al pubblico nella mattinata del 12 ottobre per poi proseguire a porte chiuse, ha preso avvio con interventi del responsabile del Dipartimento per le Relazioni Transatlantiche dell’IRI, Ian Surotchak giunto espressamente da Washington, dell’Incaricato d’affari americano presso il polo onusiano romano Rodney M. Hunter e del Presidente della nostra Fondazione,  Adolfo Urso.

Al centro delle discussioni le ricadute sull’area EMEA (Europa, Mediterraneo e Africa) dell’aggressione russa all’Ucraina analizzate nelle loro diverse dimensioni: da quella della sicurezza alimentare, a quella energetica, fino a quella migratoria. Il tutto nel segno di una ribadita comune fedeltà ai valori dell’atlantismo che ha costituito il filo conduttore di tutti i Forum sinora realizzati in partenariato dai tre organismi.

Il forte apprezzamento americano per la salda e inequivoca collocazione di Farefuturo è stato manifestato a chiare lettere dal direttore Surotchak nel suo saluto a nome dei vertici dell’IRI.

Il senatore Urso si è soffermato su tre aspetti qualificanti: 1) la sfida lanciata alle nostre democrazie nei più diversi scacchieri dalle potenze autocratiche, come la Repubblica Popolare cinese e la Russia di Putin; 2) la necessità di una risposta ferma e congiunta da parte dell’Occidente, in uno spirito di forte solidarietà e coordinamento euro-atlantico; 3) il rilievo crescente che la regione mediterranea, così come quella centro/nord africana, sta rivestendo ( e appare destinata ancora a lungo a rivestire) in tale confronto di civiltà e per il controllo delle fonti energetiche e delle materie prime, a cominciare dalle terre rare cruciali per la competitività dei nostri sistemi industriali.

Urso ha sottolineato anche come il ricatto energetico e quello alimentare esercitato dalla Russia ai danni dell’Occidente (e dell’Europa e Africa in particolare) non rappresentino che altrettanti tasselli della guerra ibrida portata avanti nei nostri confronti da Mosca ( e Pechino) anche attraverso articolate campagne di disinformazione, sia in Europa sia nel continente africano; campagne alle quali è doveroso rispondere avvalendosi di ogni appropriato strumento, anche sul terreno della contro-narrativa.

Dobbiamo pertanto investire, ha proseguito il Presidente Urso, sia in Africa sia nella sponda sud del Mediterraneo in uno spirito di “autentico partenariato” con i paesi dell’area anche sul fondamentale versante della sicurezza alimentare. Se investiremo in questo senso, ha proseguito, sconfiggeremo anche l’altra minaccia: quella delle migrazioni incontrollate. Migrazioni, ha rilevato, che creano un serio problema anche nei paesi africani, che perdono così le loro intelligenze migliori. Per tale motivo è indispensabile, ha voluto sottolineare, sviluppare d’ora in poi una “grande politica Italiana, europea e occidentale nel Mediterraneo allargato e nel continente africano”. Perché quella parte del mondo potrà raggiungere un vero benessere, fondamentale anche ai fini del contrasto al terrorismo di matrice islamista, solo in stretto raccordo con l’Occidente ciò di cui anche da parte americana, ha concluso, si è sempre più consapevoli.

Spunti di interesse sono emersi anche dalle successive sessioni a porte chiuse. Con riferimento ad esempio, nel caso della sicurezza alimentare, alla necessità per l’Occidente di adottare ai fini dell’assistenza ai paesi più fragili del continente africano un approccio multisettoriale. Essendo chiaro che la sicurezza alimentare, l’accesso a condizioni sostenibili alle fonti di energia, la salute e la governance sono dimensioni strettamente interconnesse, cosicché quando anche solo una delle stesse viene a essere fragilizzata ne derivano onde di shock su tutte le altre.

In sostanza, e per concludere, il Forum ha offerto eloquente riprova del ruolo di primo piano che la nostra Fondazione si è ritagliata, per molti versi un “unicum”, nel corso dei due ultimi anni, in Italia e non solo: quale prioritario punto di riferimento per tutti gli ambienti e organismi che abbiano a cuore, da un lato, le sorti dell’ Occidente nel confronto con gli stati autocratici; e, dall’altro , la volontà di fornire risposte concrete e credibili alle criticità che in tante aree del mondo portano acqua al mulino dell’estremismo e dell’instabilità.

*Gabriele Checchia, responsabile per le Relazioni internazionali della Fondazione Farefuturo

PROGRAMMA

The new frontline. Disegnare il futuro.

Art. La Verità

Art. La Stampa

Art. Graziosi

ADESSO PARLIAMO DI PRESIDENZIALISMO

Ora che gli italiani hanno scelto, ora che c’è una chiara maggioranza parlamentare in grado di esprimetre un governo guidato da Giorgia Meloni, ora finalmente è possibile parlare del presidenzialismo come riforma  necessaria, al di fuori delle polemiche e dei timori che avevano riempito comizi e polemiche nelle ultime settimane prima del voto.

La campagna elettorale estiva, breve e polarizzata, ha fagocitato ben presto anche la proposta di riforma costituzionale che ha per oggetto la forma di governo dell’Italia. L’ipotesi  che il centrodestra potesse ottenere i 2/3 dei seggi in Parlamento, ha consentito agli avversari politici (e a tutti coloro che si oppongono alla riforma presidenziale) di poter spingere parecchio sul pedale dell’acceleratore emotivo, trasformando di fatto la forma di governo presidenziale (o semipresidenziale) in una specie di anticamera (automatica) dell’autoritarismo.

Non sono gli Stati Uniti, o la Francia, il modello verso cui tenderebbe l’Italia, bensì la Russia di Putin o l’Ungheria di Orbàn. Ora, se la Russia è effettivamente un sistema semipresidenziale, l’Ungheria è invece una Repubblica parlamentare, come l’Italia dal 1948 a oggi. A dimostrazione che non è la forma di governo a spingere verso torsioni autoritarie, bensì il sistema politico nel suo complesso, il suo stato di salute generale (partiti e sistema della rappresentanza, sistema elettorale, forma di governo, forma di Stato, bilanciamento dei poteri e così via). E a dimostrazione che in campagna elettorale le forzature, le semplificazioni, il ragionare per immagini e simboli porti con sé molto spesso una pesante distorsione della realtà.

Che in Italia lo stato di salute della politica non sia eccellente è a tutti noto. Ed è lecito domandarsi se un capo dello Stato eletto direttamente possa costituire un’ulteriore dose di “veleno” per la nostra democrazia; se, cioè, l’uomo (o la donna) della provvidenza eletto “a furor di popolo” possa piegare i contropoteri e le altre istituzioni.

Tuttavia, è lecito anche ribaltare la domanda e chiedersi se il nostro sistema parlamentare, con capo di Stato e di governo non eletti, con coalizioni “posticce” prima del voto e maggioranze che cambiano continuamente in Parlamento dopo il voto, stia facendo bene alla nostra democrazia. Tradotto in un semplice quesito: l’elezione del capo dello Stato (o del capo di governo, come propone ad esempio Roberto D’Alimonte, con un’ipotesi che piaceva molto a Matteo Renzi) sarebbero un’apripista verso svolte autoritarie o piuttosto un ammortizzatore utile a evitare l’implosione di un parlamentarismo che non funziona più e che continua ad allontanare (questo si, pericolosamente) i cittadini dalla politica – e la politica dai cittadini, con partiti sempre più verticistici e autoreferenziali?

Che piaccia o no, la politica democratica degli ultimi decenni – complici gli effetti delle rivoluzioni mediatiche e tecnologiche, la crisi della rappresentanza e la progressiva individualizzazione della società – ha assunto una potente caratteristica di “personalizzazione”. Oggi il brand politico per eccellenza agli occhi dei cittadini non è più l’ideologia, il simbolo o il programma di partito, bensì il leader, anche nelle sue caratteristiche più intime e personali, appunto. Sotto questo profilo, l’Italia presenta tratti ancora più pronunciati rispetto alle altre democrazie occidentali. Il combinato disposto della fine dello scontro ideologico e del mondo bipolare da una parte, e l’inchiesta di “mani pulite” col conseguente tracollo di un intero sistema dei partiti dall’altra, ha trasformato la politica italiana in una specie di “tabula rasa”, in anni in cui le ideologie si affievolivano, la rappresentanza entrava in crisi e le leadership si mediatizzavano ovunque in Occidente. Questo tornante della storia ha fatto sì che l’Italia diventasse ben presto la patria dei “partiti personali” – come li definì Mauro Calise nel 2000 – vale a dire partiti che nascono (e muoiono) seguendo la parabola individuale del leader-fondatore. Inutile fare l’elenco. Anche solo guardando al panorama di oggi, chiedersi cosa sarebbe Italia Viva senza Renzi, Azione senza Calenda, Impegno Civico senza Di Maio, Forza Italia senza Berlusconi, Cambiamo senza Toti o Coraggio Italia senza Brugnaro avrebbe una risposta fin troppo scontata. Se guardassimo indietro l’elenco sarebbe interminabile passando da Di Pietro, a Monti, a Fini, a Passera, ad Alfano, a Lorenzin e a tanti altri.

E anche quando i partiti non sono personali, sono ormai personalizzati. Vale a dire che possono anche sopravvivere al declino di un leader, ma sicuramente il loro andamento nei consensi è fortemente legato a quello del segretario/presidente. La Lega è sopravvissuta al declino di Bossi, ma quanto ha legato il suo andamento a quello delle leadership dello stesso Bossi prima e di Salvini poi? Il Pd è sopravvissuto alla parabola di Renzi, ma grazie a quella leadership potente e “spiccata” ha raggiunto dapprima il suo massimo e poi il suo minimo storico in una competizione nazionale, tra il 2014 e il 2018. Lo stesso Fratelli d’Italia oggi gode di un consenso molto alto, che è indubbiamente legato al gradimento e alla credibilità della sua leader. Per non parlare del Movimento 5 Stelle che ha contenuto l’emorragia e in seguito recuperato consensi, anche grazie alla nuova leadership di Giuseppe Conte, in pieno bagno di popolarità post-Covid.

Con una riforma presidenziale, questa personalizzazione e leaderizzazione rischierebbe di trasformare il Presidente in un accentratore di poteri, legittimato dal consenso popolare?

Ribadiamolo, non dipende solo dalla forma di governo, anche se – cosa che non emerge mai nel dibattito nostrano – il sistema presidenziale in realtà si basa su un bilanciamento di poteri fortissimo, proprio per compensare quelli del presidente eletto. In ogni caso, è chiaro che chi vuole guardare alla riforma presidenziale con lo sguardo rivolto a Occidente, troverà democrazie mature e in grado di evitare ogni torsione autoritaria. Chi invece vuole volgere lo sguardo a Oriente o al Sud America può trovare diversi esempi di “fallimento del presidenzialismo” – per citare un noto libro degli anni ’90, curato da Linz e Valenzuela.

Premesso che ogni riforma può essere “personalizzata”, cucita sartorialmente per cercare di limare e modellare eventuali storture o eventuali eccessi di potere, resta la questione di fondo: non è la forma di governo che incentiva e spinge verso una transizione di regime, a meno che non crei un tale sbilanciamento dei poteri da accentrare quasi tutte le decisioni-chiave in un solo organo monocratico. Piuttosto, come detto, è lo stato di salute complessivo della democrazia, la sua maturità o la sua eventuale crisi di legittimazione a dover farci temere un eventuale crack democratico. Senza una riabilitazione e rigenerazione della politica e dei partiti agli occhi dei cittadini, il malessere democratico continuerà, riducendo ancora la partecipazione elettorale e politica, incrementando la volatilità e il disorientamento e, verosimilmente, dando nuova linfa a posizioni populistiche e antipolitiche, con una spasmodica ricerca di “novità” connessa a una costante insoddisfazione.

Il primo passo allora dovrebbe essere quello di procedere a un riavvicinamento tra politica ed elettori, che ridia potere a questi ultimi e che eviti che il loro voto sia sistematicamente “dimenticato” e ribaltato dalle forze parlamentari nel formare governi e maggioranze, azzerando di fatto l’accountability di chi governa e alimentando confusione, apatia e l’immagine di una politica autoreferenziale, per nulla incisiva e “respingente” verso i cittadini. Una riforma elettorale in tal senso potrebbe – per quanto possibile in una società individualizzata e narcisistica – ravvivare anche i partiti e il loro rapporto coi territori, superando l’attuale configurazione di partiti come “fan club” di un leader e di cerchi magici che calano candidature dall’alto, paracadutandole a proprio piacimento sul territorio.

Tutto questo va fatto a prescindere dalla forma di governo.

Quest’ultima, però, torna in campo prepotentemente, anche in virtù di questi limiti e di queste storture, che non a caso hanno prodotto “teatrini” non proprio edificanti pure nelle ultime elezioni del capo dello Stato, in Parlamento. È chiaro che dare lo scettro al popolo nell’elezione del capo dello Stato, sotto questo profilo, può aiutare a far recuperare legittimità e credibilità al nostro sistema politico. E, dunque, più che prefigurare uno scivolo verso l’autoritarismo, potrebbe essere uno degli ingredienti-chiave per evitarlo. Per evitare, cioè, che un sistema parlamentare impantanato e “alieno” dal suo popolo finisca per alimentare pulsioni populistico-autoritarie, fino al rischio di mettere seriamente in pericolo l’assetto democratico.

La realtà, dunque, ci dice che è quanto mai urgente ripensare la seconda parte della Costituzione, per evitare che un parlamentarismo ormai privo di accountability, “irresponsabile” agli occhi dei cittadini anche a causa della configurazione attuale dei partiti e della legge elettorale, finisca per dare il colpo di grazia alla legittimazione popolare della nostra democrazia. Un sistema poco incisivo, con un kratos contraddittorio e incoerente e con un demos sempre più apatico e disilluso.

Il reality da campagna elettorale, invece, ci ha detto – con la sua narrazione polarizzante – che la “Costituzione più bella del mondo” non si tocca, men che meno con una riforma presidenziale (o semipresidenziale). Come se il nostro sistema politico godesse di una legittimazione smisurata e facesse segnare livelli di performance da fare invidia al mondo intero.

L’auspicio è che, a urne ormai chiuse, si sotterri l’ascia di guerra, uscendo dal reality e si torni a riflettere con serenità e serietà di una riforma ritenuta necessaria (trasversalmente) da diversi decenni, al fine di evitare che la spirale di delegittimazione compia il suo corso producendo, allora si, pericoli per la democrazia.

Più forza alla sfida culturale

Da “eretici” lettori di Antonio Gramsci non dobbiamo dimenticare, particolarmente oggi, sull’onda del risultato elettorale,   l’importanza della “battaglia delle idee”. Almeno per la parte che riguarda la  teoria del potere culturale, Gramsci offre spunti ineguagliabili  (di metodo, ovviamente), per capire non solo come si sia mossa la vecchia sinistra alla conquista del  potere culturale, potere che, in parte, continua ad essere una sorta di sua ultima ridotta, ben radicata nelle università, nella Scuola, nelle case editrici, nei mass media, nel mondo dello spettacolo, nelle diverse articolazioni culturali locali e nazionali. articolazioni culturali locali e nazionali.

Ci dice Gramsci: attenzione lo Stato non si regge solo – come voleva la vulgata marxista-leninista – su un apparato di coercizione ma anche grazie all’attività del potere culturale, all’adesione degli spiriti ad una concezione del mondo che consolida e giustifica il potere politico.

Sulla base di questa consapevolezza, il filosofo sardo teorizza la strategia dell’”egemonia culturale”, in grado di guadagnare la società a valori alternativi a quelli imperanti e di farla  vacillare sulle sue basi.

Di fronte a questa vera e propria “guerra culturale”, è evidente che non si può pensare di lasciare tutto al caso, ma vanno sviluppate le doverose contromisure. In che modo? Organizzando la cultura, là dove – usiamo la terminologia gramsciana – la “guerra culturale” è in atto. E mai come oggi, anche sull’onda del  successo elettorale del centrodestra, a guida Giorgia Meloni. Vincere sul piano dei voti è certamente importante, ma non sufficiente, laddove la sfida politica va anche sostanziata sul campo delle visioni lunghe, dei principi inalienabili, delle suggestioni  collettive, capaci di dare ulteriore forza e radicamento al risultato delle urne.

Ci si attrezzi perciò – è il nostro invito e la nostra “provocazione” – in modo metodico allo scontro culturale, si affinino , da destra, le tecniche di comunicazione, si veicolino idee piuttosto che invocare censure, si accendano emozioni e suggestioni piuttosto che lamentarsi di un potere culturale egemonizzato da sinistra, si organizzino campagne d’opinione piuttosto che subire quelle altrui. In questo senso possono essere decisive le Fondazioni (come Fare Futuro) luoghi di confronto e di elaborazione non legati alla quotidianità politica, ma fucine di progetti per un futuro che non sia scritto sull’acqua o limitato alla gestione delle emergenze.

Sia chiaro: noi non crediamo che l’egemonia culturale debba prevaricare la maggioranza politica e parlamentare. E tuttavia, proprio per evitare che quest’ultima subisca – come è già   accaduto nei decenni scorsi – l’assedio mediatico e culturale, lanciamo la provocazione e chiediamo le doverose contromisure: “leggiamo” Gramsci ed attrezziamoci di conseguenza, a cominciare dal territorio, dall’associazionismo non omologato, dagli insegnanti non allineati, dagli uomini e dalle donne culturalmente liberi, dai giovani creativi, dal movimentismo diffuso soprattutto nella “Rete”.   Diamo voce e strutture a questo mondo, diamogli strumenti ed “organizzazione”, spazi e voce. Ne va della difesa del pluralismo reale, che  non può essere solo quello politico, legittimato dal consenso delle urne.

Quindi cultura dell’appartenenza e dell’identità, ma anche cultura che sa “mettersi in gioco”, che sa misurare le proprie capacità verso una realtà in continua trasformazione, cultura che sa interpretare, ma anche innovare, evitando di svolgere una semplice opera di “testimonianza” o, nei casi migliori, impegnata in una  rilettura critica della realtà, sulla scia di una nobile tradizione anticonformista, che individuava proprio nella modernità il “vulnus” rispetto al vecchio-vero Ordine.

La vera sfida è  l’azione creativa: la capacità-possibilità non solo “denunciare” i limiti di un  mondo in trasformazione, ma anche di informarlo alle nostre idee, di “viverlo” attraverso la reinvenzione letteraria, poetica, artistica. Non parlo, per caso, di capacità-possibilità. Se infatti gli eccessi di una “lettura” troppo spesso politologica hanno determinato il primo aspetto (la capacità), le indubbie contingenze critiche non hanno certo favorito l’espandersi della presenza creativa (le possibilità).

Occorre allora cambiare il terreno di gioco. In particolare: cinema, televisione, teatro, arte, musica. cultura di massa, cultura popolare, non necessariamente dequalificata, che certamente condiziona il sentire collettivo, che “orienta” le opinioni, che può “informare”, cioè “dare forma”, ad una collettività, anche intorno a nuovi modelli identificativi o meglio ancora al recupero di un’identità profonda.

Pensiamo all’idea di Patria, insieme alla ricchezza delle culture locali, al senso del Sacro, al valore del Bello. Consideriamo  questi elementi come i fattori costitutivi della nostra Storia, quella che ci parla agli angoli dei nostri borghi, dall’alto dei mille campanili, nelle piazze, nelle feste, nei riti dell’Italia profonda. E proviamo a mettere tutto questo patrimonio in confronto dialettico con la realtà contemporanea: radicamento vs. spaesamento; pathos vs. disincanto; partecipazione vs. egoismo; comunità vs. burocrazia; sacro vs. materialismo; merito vs. egualitarismo; bellezza vs. degrado e così via. Vi troveremo più di un’ipotesi di lavoro, nel segno di un’idea di cultura “alta”, intorno alla quale avviare una profonda opera di ricostruzione nazionale.

Se la sfida politica e di governo è aperta, quella  culturale è apertissima e non meno importante. Bisogna esserne consapevoli ed agire di conseguenza, coniugando finalmente scelte contingenti e grandi prospettive d’assieme, buon governo e visioni lunghe: una partita a tutto campo insomma, nella quale il centrodestra, guidato da Giorgia Meloni, ha le carte in regola per vincere anche la sfida delle idee.

Ora L’Atlantico sarà più stretto

La sinistra irritabile nell’Unione Europea e la stampa americana hanno prontamente deplorato la vittoria schiacciante di Giorgia Meloni alle ultime elezioni italiane. Ma c’è da scommettere che il nuovo governo della coalizione di centrodestra sarà una buona notizia per le relazioni transatlantiche. Sì, è vero: abbiamo detto “centrodestra”. A parte l’isteria della sinistra, la Meloni non costituisce una minaccia per la democrazia. Potrebbe infatti formare uno dei governi più stabili della storia italiana recente. L’etichetta di “estrema destra” che viene scagliata contro la Meloni e il suo partito Fratelli d’Italia non ha basi nella realtà. Si tratta solo di una stampa americana disinformata, che ripete a pappagallo la retorica impiegata dalla sinistra italiana sonoramente sconfitta.

Argini italiani a Russia e Cina

La sinistra è particolarmente ostile alle posizioni di Meloni sulle questioni culturali e sociali, che sono decisamente contrarie all’ideologia woke. Sono anche innervositi dal fatto che lei goda di buoni rapporti con i conservatori statunitensi e polacchi. Sul piano della politica estera, la sinistra italiana è notoriamente debole nei confronti della Cina, mentre l’estrema destra italiana è filorussa. La Meloni non si unirà a nessuno di quei campi. Cercherà invece quasi sicuramente dei legami transatlantici più forti.

Fratelli d’Italia (così come gli altri partiti della coalizione di centrodestra, Lega e Forza Italia) hanno votato a favore della fornitura di armamenti all’Ucraina e dell’ammissione di Svezia e Finlandia nella Nato. Rendere felice Putin è la loro ultima priorità. La Meloni, inoltre, ha più volte ribadito il suo sostegno alle sanzioni imposte a Mosca in risposta alla sua brutale invasione dell’Ucraina. Tra l’altro, Fratelli d’Italia mantiene solidi legami con il governo polacco, notoriamente uno dei principali oppositori di Vladimir Putin.

Cosa altrettanto importante, la coalizione di centrodestra non detiene posizioni filocinesi. La Meloni ha definito l’ingresso dell’Italia nella Belt and Road Initiative di Pechino “un grosso errore”. E il suo fermo sostegno a Taiwan ha acceso l’ira dell’Ambasciata cinese a Roma. Inoltre, con una decisione storica lo scorso anno, Giancarlo Giorgetti, attuale ministro dello Sviluppo economico italiano della Lega, ha bloccato l’acquisizione della società lombarda di microchip LPE da parte del gruppo cinese Shenzhen Investment.

Legami più solidi

Ci sono buone ragioni per credere che il nuovo governo sarà decisamente più filoamericano di quello che lo ha preceduto. Negli ultimi anni Fratelli d’Italia ha rafforzato i suoi legami con il mondo politico statunitense. Adolfo Urso, un influente senatore di Fratelli d’Italia, si è recentemente recato a Washington per incontrare parlamentari repubblicani e democratici. La stessa Meloni ha partecipato più volte alla Cpac.

Vale la pena notare che la sinistra italiana, che denuncia la Meloni e la sua coalizione come “una minaccia per le democrazie”, ha sostenuto molte cause antitetiche agli interessi occidentali e benefiche per i regimi totalitari. Per esempio, il Partito Democratico Italiano ha appoggiato il nefasto accordo sul nucleare iraniano, mentre i suoi governi hanno progressivamente spinto Roma tra le braccia di Pechino. Nel maggio 2017, l’allora presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, è stato l’unico leader del G7 a partecipare al forum Belt and Road Initiative a Pechino. Poi c’è il Movimento 5 Stelle di sinistra, che ha firmato il protocollo d’intesa sulla BRI nel 2019 e il cui fondatore, Beppe Grillo, ha compiuto almeno due visite profondamente controverse all’Ambasciata cinese tra il 2019 e il 2021. Né bisogna dimenticare che l’ambasciatore cubano in Italia è stato ricevuto nella sede del Partito Democratico lo scorso maggio. Inoltre, il Partito Democratico si è alleato con Sinistra Italiana, uno schieramento politico di estrema sinistra che ha votato contro la fornitura di armamenti a Kiev.

Washington dovrebbe cercare di collaborare maggiormente con il nuovo governo italiano di centrodestra. C’è una buona ragione per pensare che, sotto la guida della Meloni, il governo italiano sarà meno incline ad accettare i regimi autoritari e più attivo come forza per il bene.

           Questa analisi è stata originariamente pubblicata sulla rivista statunitense 19FortyFive

Spatriati all’Amatriciana

“Mille e mille spatriati emigrando a cercar lavoro”.
Ma loro no, non se ne vanno mica. No, stiamo tranquilli, resteranno con noi. Scommettiamo? Pensatori pensosi e cantanti scanzonate. Opinionisti senza opinioni e morti di fama. Guerriglieri da divano e leoni da tastiera. Nelle settimane prima del voto hanno cercato spasmodicamente il loro quarto d’ora di gloria (che, si sa, non si nega a nessuno) minacciando con tono grave che avrebbero lasciato l’Italia se gli elettori avessero confermato le indicazioni dei sondaggisti. Ogni giorno l’elenco aumentava di qualche unità. In cambio della sortita pubblica, un migliaio di like (e qualche insulto, ci sta) sui social, il giorno dopo una fotina sul giornale e qualche riga in didascalia.

Ma come, pure la Bertè? Sì, anche lei, piuttosto che al mare d’inverno forse se ne andrà al caldo in una spiaggia tropicale. Hai letto di Elodie? Sì, poverina, ha paura che il nuovo governo vieti i Gay Pride e lei non potrebbe più salire sul carro tra un L, un G, un B, un Q eccetera. E la Turci, allora? E la Pascale? Stai attento, ché tra moglie e moglie (o tra marito e marito) meglio non metterci il dito. Insomma, come tra la Ferragni e Fedez, preoccupatissimi, allarmatissimi ma inchiodati al patrio suolo. E Giorgia, allora? Quale Giorgia? Lascia stare, non ti sei perso niente. Però ho letto di Saviano. Beh, lui sì. Ha detto che lascerà l’Italia: “Vivrò per sempre all’estero, se vince la destra”. Povero, mi sa che lo attende una vita di stenti, con tutti i soldi che ha dovuto pagare dopo la condanna per plagio col suo Gomorra. Mica tanto, potrebbe vivere nell’attico che ha comprato a NYC. Non male per l’esilio. Ma vedrai che non se ne andrà. Resterà in Italia, la scorta lo accompagnerà la domenica sera da Fabio Fazio e, insieme con la Litizzetto, rappresentaranno la resistenza attiva, contro l’occupazione dell’Italia e della Rai delle forze rezzionarie al potere. A proposito di resistenza, quella cantante che si chiama Michielin, chiama tutti alla resistenza. No, sulle montagne col mitra in mano non ce la vedo proprio, a Cortina semmai, non di ferro, d’Ampezzo.

Poi, però, ci sono gli “anti” professionali, come Scurati – quello dei libri-mattone sul fascismo che gli storici (quelli veri) considerano un brutto esempio di copia/incolla – beh, insomma quello là, che considera la Meloni una “nuova Mussolini”. E, a dargli manforte, arriva anche Toscani, il fotografo, che insulta gli italiani per le scelte dissennate. Insomma, la democrazia fa schifo se vince la destra, è ok solo se premia la sinistra (aspetta e spera…).
È un film già visto. 1994: Se vince Berlusconi, Italia addio. Macché. Allora come ora. Sono rimasti tutti qua, anche per via del gettone di presenza ad ogni ospitata. Su RaiTre li pagano gli italiani col canone. Dalla D’Urso paga Berlusconi. Andare all’estero? Ci sta: conformisti, stupidotti, coristi del nulla. Ma mica fessi, gli spatriati all’amatriciana

25 Anni di Charta Minuta

Governare sarà difficile, in un contesto in grande trasformazione. Proprio per questo ci vorranno idee, cultura, progetti, in un confronto continuo e franco, senza infingimenti. Chartaminuta in questo nuovo inizio, sarà diretta da Mauro Mazza (che ho conosciuto e apprezzato nella redazione del Secolo d’Italia, oltre quarant’anni fa, quando muoveva i primi passi della sua brillante carriera di giornalista e direttore Rai). Nelle nostre intenzioni, la rivista sarà uno degli strumenti più efficaci e tempestivi – e, mi auguro, anche innovatori – in questa nuova, impegnativa ed esaltante stagione che attende la destra, per la prima volta chiamata dagli italiani alla massima responsdabilità nel governo della Repubblica. Di solito quando si giunge al governo si chiudono i luoghi del confronto e della elaborazione, mentre l’opposizione riprende ad elaborare. Noi no. Noi facciamo il contrario: rafforziamo i pozzi del sapere e ampliamo gli spazi di dialogo, riflessione, approfondimento, convinti che questo lavoro sia assolutamente necessario, soprattutto oggi, per chi deve condurre la nave nel mare in tempesta. Anche per questo, dopo venticinque anni ininterrotti, con questo numero monografico apriamo una nuova edizione di Chartaminuta, ancor più adeguata alla realtà della comunicazione politica e culturale. Siamo convinti che il buon governo sia frutto di buone idee e di progetti condivisi. Forza, quindi! La nostra Italia può farcela. Come sempre nella storia riesce ad esprimere il meglio di sé quando tutto sembra maledettamente complicato. E noi conservatori abbiamo appreso proprio proprio dalla storia come e cosa fare.

ADOLFO URSO

Pronti al servizio della nazione

È la prima volta della destra italiana, è la prima volta di una donna, è la prima volta con una maggioranza netta. Sono queste le indicazioni che sembrano profilarsi in vista del voto del 25 settembre e bastano a farci capire quanto importante sia la svolta che gli elettori intendono imporre, secondo tutti i sondaggi, al governo della Nazione. E questo dopo oltre un decennio in cui i governi non sono stati espressione della volontà degli elettori, ma composti in gran parte da chi le elezioni le aveva perse (nello specifico dal Partito democratico).
Una svolta è tanto più importante perché avviene in un contesto internazionale in cui l’Italia è impegnata a fronteggiare una guerra in Europa con gravi conseguenze anche sul piano economico e produttivo. Questa legislatura, in cui solo Fratelli d’Italia si è sempre collocata alla opposizione, ci ha lasciato in eredità una situazione preoccupante sul piano sociale ed economico, con migliaia di imprese che hanno chiuso i battenti, la disoccupazione in aumento e un debito pubblico crescente e ormai insostenibile. Il costo dell’energia, già cresciuto nella seconda parte dello scorso anno, è ora a livelli insostenibili, anche quale effetto della guerra in atto.
È più che mai necessario un governo che abbia piena consapevolezza degli interessi della Nazione e che sappia affermarli nel contesto europeo e internazionale, con la piena legittimità che in democrazia solo il responso delle urne può dare; un governo che abbia ben chiaro quale sia il ruolo dell’Italia nel Mediterraneo, in Europa e nel mondo, quali siano le sue alleanze naturali e la sua collocazione occidentali; un governo affidabile, coerente, determinato, coeso e consapevole; un governo che solo Giorgia Meloni può realizzare con il concorso degli alleati storici del centrodestra; un governo che sappia interpretare i bisogni della Nazione.
La sinistra, peraltro, si è divisa in tre: il Pd, sempre più arroccato, con Fratoianni, Bonelli, Bonino e Di Maio, ha perso ogni capacità di aggregazione al centro e, con il delirante assillo dei cosiddetti diritti individuali, è ormai incapace di rapportarsi non solo col mondo cattolico, ma anche col buonsenso e col diritto naturale inscritto nel cuore e nella coscienza popolari. Il quadro si completa con Calenda e Renzi e il loro vellitario polo riformista, composto in gran parte proprio da coloro che speravano in un riformismo di sinistra; e coi Cinque Stelle di Conte e Grillo arroccati nella difesa delle posizioni più assistenzialiste. Si erano ritrovati insieme nel secondo governo Conte e poi nel governo Draghi in quella che ormai gli italiani ricordano e giudicano come una alleanza di potere che si è dissolta di colpo, quando la forza delle cose – più delle volontàò dei partiti – ha stabilito che era giunto il momento di presentarsi agli elettori.
Solo il centrodestra esprime una leadership condivisa, ha un programma comune, di cose concrete e realizzabili; solo il centrodestra possiede la forza e il progetto per governare il Paese, tanto più in questa situazione che impone visione, idee chiare sulla strada da percorrere. Peraltro, è questo proprio il contesto in cui si inserisce la campagna elettorale e i problemi che il governo dovrà subito affrontare sono di tali dimensioni che necessitano di un governo in sintonia con la natura profonda del Paese, le sue esigenze e i suoi interessi.
Chi scrive ha avuto l’onore di guidare il Comitato parlamentare per la sicurezza nazionale (Copasir) in questi difficili mesi, in un contesto che ha fatto comprendere a tutti quanto importanti siano i temi della sicurezza nazionale, spesso trascurati nella agenda del Parlamento. Abbiamo agito senza pause. Nel mese di agosto dello scorso anno, a fronte della improvvida ritirata dall’Afghanistan ci siamo riuniti più volte, come azione di controllo e di stimolo. Lo stesso abbiamo fatto in questo mese di agosto per monitorare la situazione sia a fronte della evoluzione della guerra in Ucraina sia per sensibilizzare opinione pubblica e istituzioni sul rischio di ingerenze straniere nella nostra campagna elettorale.
La sicurezza nazionale è ormai, necessariamente, prioritaria nell’agenda politica. Non solo per quanto riguarda i temi della Difesa, ma anche la vita sociale e produttiva del Paese. In questocontesto si inserisce lo strumento del golden power che proprio grazie a Fratelli d’Italia ha trovato nel corso di questa legislatura una puntuale ed ampia regolamentazione. Rappresenta uno degli strumenti che il Paese ha a disposizione per proteggersi da ingressi indesiderati di capitali stranieri nella proprietà di aziende attive nei più vari settori che compongono l’articolato sistema produttivo italiano, di cui il Copasir ha più volte segnalato la vulnerabilità.
Da solo però non basta, perché è necessario ragionare in termini di sistema e cioè realizzando una politica industriale che punti a preservare e, se possibile, a rafforzare gli asset strategici del Paese.
Su questo Fratelli d’Italia e il centrodestra hanno le idee chiare, convinti che sia necessario rispondere e difendersi dalle minacce poste in essere dagli operatori stranieri; minacce che si sono amplificate e rese manifeste con lo scoppio della guerra in Ucraina.
Proprio questo drammatico evento ha rappresentato una sorte di spartiacque. Non è scontato dire che esista un prima e un dopo, rispetto all’invasione dell’Ucraina. Oggi l’Occidente deve essere sempre più consapevole del suo ruolo, quale baluardo nel mondo della libertà e dei diritti dei popoli. E in tale contesto, l’Italia deve saper cogliere la grande opportunità di assurgere al ruolo di prim’attore sul piano internazionale, quale Paese cerniera tra l’Ovest e l’Est, tra l’Europa e il Mediterraneo. Saranno queste le direttrici lungo le quali si delineeranno i destini del mondo, come peraltro dimostra la crisi energetica di questi mesi.
Il 25 settembre gli elettori saranno chiamati a scegliere e votare anche su questo. Sono certo che lo faranno individuando in Fratelli d’Italia e nel centrodestra chi saprà tutelare gli interessi fondamentali della Nazione, e chi saprà al meglio, e sino in fondo, interpretarli senza alcuna sudditanza.

di ADOLFO URSO

È questa la prima volta per la destra italiana

Certo, nella storia italiana recente ci sono stati il 1994, il 2001 e il 2008, altrettante occasioni storiche di cimentarsi nel governo del paese. Con qualche variante, quella coalizione di centrodestra che gli elettori italiani chiamarono più volte alla prova più impegnativa, era stata inventata, costruita e determinata – soprattutto nel ’94 – dalla creativa genialità di Silvio Berlusconi. Forte di un grande persponale carisma, dell’esperienza imprenditoriale di successo, della popolarità quale presidente vincente nel calcio e della potente macchina mediatica a disposizione, sbaragliò il campo e portò un’inedita (e improvvisata; e un tantino sgangherata) alleanza alla guida del paese. Anche nelle due successive occasioni, l’impronta del leader fu profonda e indelebile, caratterizzante, a tratti irrefrenabile. Eppure, grazie a quella sua prorompente forza innovatrice, la destra italiana si trasformò rapidamente in destra di governo. Dall’Msi ad Alleanza nazionale e infine alla confluenza nel Pdl, ultimo atto di una stagione comunque intensa, che la destra ha vissuto da co-protagonista, ma sempre – necessariamente – uno e più passi indietro rispetto al più grande, indispensbile – egemone; e ingombrante – alleato.

Stavolta è tutto diverso, ogni cosa è mutata. È questa la prima volta, in assoluto. Perché nel 2013 è cominciata un’altra storia, sulle ceneri di Alleanza nazionale, sul rapido declino della leadership incarnata per oltre vent’anni da Gianfranco Fini. Perché Giorgia Meloni e un gruppo di dirigenti del Pdl (scontenti, a disagio, determinati a ricominciare) pensarono che fosse giunto il momento di scommettere sul futuro. E venne un Nuovo Inizio, rischioso e ma necessario. Soprattutto per tentare di riprendersi e (tornare a) rappresentare valori, idee e battaglie che altri avevano impugnato, con la disinvoltura (ma anche con l’approssimazione) del neofita che individua terreni fertili per accrescere consenso e voti, credibilità e prestigio.

La storia, poco meno di dieci anni, l’abbiamo vissuta come una splendida corsa: in salita, spesso in solitaria, ma con la determinazione che Giorgia Meloni ha saputo trasmettere all’intera clase dirigente di Fratelli d’Italia. Ha resistito alle tentazioni di prendere scorciatoie, di lasciarsi conquistare dalle sirene tentatrici del ritorno al governo. Ha scelto di attendere, ha voluto che fossero gli italiani a scegliere il momento, a cogliere l’occasone, a mettere la destra italiana nelle condizioni di scrivere la storia del futuro. L’occasione è arrivata prima e, insieme, dopo ogni previsione. Prima perché pareva praticamente scontato che il governo Draghi sarebbe arrivato a fine legislatura nonostante contrasti e lotte intestine a una maggioranza larga quanto spuria, nata per l’emergenza Covid e faticosamente sopravvissuta quasi esclusivamente per la convergenza di palesi interessi e di tacite paure. Ma è arrivata anche dopo, rispetto alle previsioni di chi immaginava l’ascesa di Draghi al Quirinale e, entro pochi mesi, la fine consensuale della legislatura.
Nel frattempo, nel corso degli ultimi mesi, tutte le indicazioni e i sondaggi settimanali confermavano la medesima tendenza, incremetando i consensi per Fratelli d’Italia e indicando una tendenza ulteriore al rialzo che – secondo taluni osservatori – potrebbe essere stata la vera (e malcelata) causa della repentina rottura e dello scioglimento delle Camere.

Insomma, ci siamo. Dalla prevalenza della Democrazia cristiana nell’aprile 1948, è la prima volta che un preciso filone culturale e politico italiano si accinge ad essere premiato da un vasto consenso elettorale. Mai è stato così per la sinistra – Pds, Ds, Pd – nella seconda Repubblica. Mai, finora, era stato così per una forza radicata nella storia italiana, con ascendenze nobili e importanti (come approfondisce splendidamente, in questo numero di Charta Minuta, lo storico Giuseppe Parlato) dalla destra storica a quella missina, che scelse di vivere e di agire dentro il sistema democratico. È una prima volta perché, dopo Alleanza nazionale, la destra può diventare forza di riferimento, trainante ed egemone, di un governo di svolta nel segno delle necessarie riforme, in un’Italia in cui ai diritti si antepongano i doveri; e gli interessi e i desideri siano preceduti da senso d’identità comunitaria e responsabilità sociale. (Della potenmzialità riformatrice della nuova legislatura si occupa Luigi Di Gregorio)
È la prima volta che una forza politica, senza bisogno d’attendere indicazioni dalla gerarchia cattolica, ingaggia battaglia contro le degenerazioni di un pensiero, tendenzialmente totalitario, che nel nome di pretesi diritti individuali calpesta la dignità della persona e ne umilia l’umanità, com’è palese nella pratica ignobile dell’utero in affitto, vero crimine da reprimere anche a livello internazionale. (Del rapporto politica/cattolici si occupano il contributo di Riccardo Pedrizzi e l’intervista con monsignor Vinzenzo Paglia, a cura di Stefano Girotti).

È la prima volta che l’Italia potrà agire e operare senza ambiguità in un contesto internazionale – tra Europa e Atlantico – che la veda co-protagonista e non più comprimaria, forte di una certa idea dell’Unione e del rapporto chiaro e stabile nell’alleanza Nato, che la guerra in Ucraina spinge a ridefìnire e rafforzare. (Della politica internazionale dell’Italia che verrà si occupano Gabriele Checchia e Aldo Di Lello)
È la prima volta che, in modo sguaiato e indegno, molti media hanno affrontato il racconto pre-elettorale con un bagaglio di faziosità menzognera indegno di un paese civile e di una democrazia matura. In fretta è stato dimenticato il principio avversari non nemici e, nella foga comiziale, è stato calpestato anche l’elementare principio di salvaguardia degli interessi nazionali, con alcuni leader politici che si sono esibiti in sguaiate interviste alla stampa estera all’insegna della democrazia in pericolo in caso di vittoria della destra. (Della pessima prova fornita da molti media, in specie televisivi, si occupa Fabio Torriero)
È la prima volta che anche in Italia una donna potrebbe assumere la massima responsabilità di guida politica. Dopo Margareth Thatcher a Londra, dopo Angela Merkel a Berlino, in contemporanea con la neo-premier britannica Liz Truss. E che da noi la svolta buona arrivi davvero, dopo anni di marchingegni parlamentari e di inciuci di palazzo, dipende solo da noi.
di Mauro Mazza