Redazione

Adornato: “Non va sprecata questa seconda occasione”

Ferdinando Adornato, lei è stato ed è uno dei più impegnati sostenitori del bipolarismo, se non addirittura dell’approdo bipartitico del sistema italiano. A trent’anni dalla prima storica vittoria del centrodestra, come giudica lo stato di salute della democrazia italiana? E a che punto siamo nel viaggio verso una moderna democrazia dell’alternanza?

Una magnifica illusione e ripetute amarissime delusioni hanno accompagnato gli ultimi decenni della nostra storia. Ed é forse giunto il momento di analizzarli senza veli sugli occhi. Ricordo com’era festosa l’Italia del 14 aprile 1993, quando quasi ventinove milioni di sì (l’82,7% dei votanti) cancellarono la legge elettorale del Senato, scegliendo il sistema maggioritario. Si trattava di un’Italia profondamente cambiata. I baby-boomers avevano messo su famiglia. Le antiche gerarchie sociali erano saltate. Nuove professioni e nuove arti si erano insediate nella comunità produttiva. I media cominciavano a dominare l’agenda pubblica. Gli stili di vita si ispiravano a nuove fantasie, individuali e di massa. La politica, invece…

La politica invece…

Sempre lì, immobile e immutabile. Lungo tutto il corso degli Ottanta avevamo sperato che potesse autoriformarsi. Eppure fece più in fretta l’Unione Sovietica a lasciare la scena del pianeta che l’Italia a voltare pagina. Alla fine era crollato il comunismo. La Nuova Storia aveva fatto ingresso in tutte le case rendendo patetici i vecchi arredamenti. Il tavolo “Camelot” alla Kennedy, l’angolo fumoir alla Castro, persino il poster di  Dustin con Mrs. Robinson: tutto da buttare. La nuova colonna sonora partiva dalle corde di Bruce Spreengsteen, “Born to run”: nati per correre. Gli italiani smaniavano di partecipare alla corsa ma si sentivano intrappolati dalla politica. Breznev non c’era più, ma noi avevamo ancora Andreotti. Perciò l’Italia era festosa in quei giorni di primavera del 1993. Sentiva che niente sarebbe più stato come prima. C’ero anch’io nel comitato referendario. Ho contribuito attivamente a quella caotica “primavera italiana” che ha aperto l’era della Seconda Repubblica. Perciò, con crescente amarezza, da tempo mi chiedo: sognavamo di andare a Washington, a Parigi, a Londra, a Berlino. Perché invece abitiamo ancora gli incubi del Castello di Kafka? E’ inutile far finta di niente e comportarsi come l’”asin bigio” di Carducci che rosicchia tranquillo il suo cardo, senza capire che dopo quella primavera è tornato un freddo inverno politico. Basti pensare che per ben due volte in appena un decennio l’Italia ha dovuto far ricorso a governi tecnici, affidarsi prima a Monti e poi a Draghi, a causa della rediviva impotenza del proprio sistema politico.

Era forse sbagliato il sogno bipolare?

Personalmente, ero e resto bipolarista. Anzi, come lei ha ricordato, bipartitista. Sogno ancora di vivere in un Paese nel quale si confrontino due, al massimo tre soggetti politici affidabili. E resto convinto che prima o poi questo sogno si possa realizzare. Però: essere bipolaristi non significa essere ciechi negando l’evidenza che in Italia è stato messo in piedi un sistema lontano anni luce da un vero bipolarismo occidentale.

E’ così drastico il suo giudizio?

Lo dicono i fatti. Un autentico sistema bipolare assegna all’alternanza tra diversi partiti la competizione sui programmi di governo, coltivando però, ciascuno di essi –  e con orgoglio – la condivisione dei valori comuni che danno corpo alla Nazione. Abbiamo vissuto qualcosa di simile? Neanche per sogno. Fin da subito è stato chiaro che il passato restava la nostra attualità. Impedire ai comunisti, evitare che i fascisti… Un imprevedibile roll-back storico ha deriso la nostra voglia di modernità. La competizione Destra-Sinistra, invece di frequentare la nuova governance di una società complessa, è diventata solo il pretesto per consumare vendette in nome del Novecento. Tutti i luoghi irrisolti della nostra storia, l’incompiutezza del Risorgimento, l’odio sociale tra Nord e Sud, la rimozione del consenso al fascismo, quella guerra civile che era stata la Resistenza, il presunto sovversivismo dello Stato: tutto ciò che non era stato mai veramente digerito dalla politica e dalla cultura è esploso nel discorso pubblico, con afflussi di bile ideologica, restituendo l’immagine di un popolo bambino, non già di una democrazia matura. Tutto ciò si è trascinato fino ad oggi. Perciò si può dire che il bipolarismo italiano si è configurato come la forma politica di una mai conclusa guerra civile ideologica tra gli italiani. Altro che alternanza nell’ambito di valori condivisi!

Ma come si è prodotta questa infelice eterogenesi dei fini?

Torniamo con la mente ai festosi giorni della “primavera italiana”: la koinè del movimento referendario, cui ho dato il mio contributo, aveva indicato nella riforma della legge elettorale il grimaldello per schiudere la porta di una matura democrazia occidentale. Ebbene, si deve ormai riconoscere autocriticamente che nella migliore delle ipotesi si trattava di un miraggio, nella peggiore di una sciocchezza. Non c’è legge elettorale che possa, di per sé, garantire la rigenerazione della politica. L’atto di nascita della Seconda Repubblica è stato dunque segnato da un “peccato originale”. E da allora, infatti, quando le cose non andavano, mettere le mani ripetutamente sulla legge elettorale è sempre sembrata la risposta più giusta.

Quale analisi, invece, avrebbe dovuto avere il sopravvento?

Un pensiero politico all’altezza della storia avrebbe dovuto capire che la “catastrofe sistemica” della Prima Repubblica era l’esito di processi più lontani, riconducibili – come Aldo Moro aveva intuito – alla trasformazione del rapporto Stato-cittadini e partiti-società indotta dai mutamenti degli anni Sessanta. La lunga consunzione degli insediamenti politici, e la loro traumatica scomparsa, avrebbe perciò dovuto consigliare un serio lavoro di ricostruzione. In primo luogo dei fondamenti identitari della politica, spiazzati dai mutamenti dell’assetto mondiale. Di conseguenza, il ripensamento della forma partito, per renderla adeguata alle mutate caratteristiche della comunicazione e della partecipazione. In terzo luogo dei meccanismi di selezione della classe dirigente, vista l’estinzione di tutte le tradizionali sedi di formazione. C’era bisogno di un’evoluzione del pensiero politico per progettare i nuovi partiti del XXI secolo: più leggeri ma non meno radicati, più veloci ma non meno democratici. Al contrario, nulla di questo è stato neanche tentato. Il campo è stato invece conquistato dalla chirurgia estetica.  Lifting e marketing hanno imposto la strada più sbrigativa: quella del “meno-partito-possibile”, fino all’estremo del “partito liquido”. Quale che sia il giudizio sui vecchi soggetti politici nessuno (salvo Casaleggio) ha mai avuto il coraggio di teorizzare l’approdo di una democrazia senza partiti. Eppure è proprio questo il cammino che l’Italia della Seconda Repubblica ha cominciato a battere. Non a caso a dominare il discorso pubblico è stata l’antipolitica.

 

UNA CRISI CHE PARTE DA LONTANO

 

Antipolitica, vecchi partiti addio ma al loro posto…

Si è aperta l’epoca dei cartelli elettorali.  La stessa parola “partito”, come si ricorderà, è diventata oggetto di demonizzazione, in favore di nomi pubblicitari o botanici più o meno efficaci. L’arrembante tesi post-moderna, della “contaminazione culturale”, nata per contestare gli insediamenti ideologici della Prima Repubblica, ha disinvoltamente cancellato l’esigenza identitaria di esibire forti e radicati valori diventando, in specie a sinistra, il lasciapassare per coalizioni distoniche sia nei linguaggi che nelle visioni del mondo. In secondo luogo, il rapporto diretto tra leader e media ha finito per marginalizzare la necessità dell’organizzazione democratica dei partiti. Lentamente, ma con la forza di uno sciame sismico, l’idea del cartello elettorale, con l’inevitabile corollario del partito liquido, ha contagiato il sistema dando vita a fragili contenitori costruiti  intorno ad un’ipotesi di leader. Bipolarismo e bipartitismo, in realtà, non sono mai esistiti: in Italia ha funzionato solo il bileaderismo. Il risultato? La decadenza della qualità della rappresentanza parlamentare; la selezione delle classi dirigenti affidata a meccanismi casuali e oligarchici; l’assenza di sedi reali del dibattito politico e culturale, l’aggravarsi della crisi tra rappresentanza e territorio.

Ma anche i partiti hanno bisogno di leader…

Certo. L’esistenza di leader capaci di significative suggestioni simboliche è una necessità ineludibile per qualsiasi partito. Da noi, però, si è affermato un fenomeno assai anomalo: il leaderismo senza partiti. Di leader più o meno amati, da Pericle a Obama, sono piene le pagine della storia, dei sistemi democratici come di quelli totalitari. La domanda-chiave dell’ attuale tempo storico riguarda piuttosto il gioco di squadra, la produzione di governance attraverso la piena utilizzazione di una pluralità di competenze. Nell’era globale il target delle organizzazioni moderne, degli Stati come dei partiti, delle aziende come delle banche, non è l’esaltazione del solista, ma la messa in campo di una vincente rete di specialismi. Una classe dirigente nella quale la competenza di ciascuno valorizzi il progetto di tutti. C’è bisogno di partiti-squadra, non di partiti-leader.

 

TROPPA ATTENZIONE AI “CONTENITORI”

 

Ma non è che lei rimpiange l’era dei partiti ideologici…

Per nulla. Mi limito a constatare la circostanza che nessuno ha messo in campo alcuna ipotesi concreta su come si dovessero immaginare nuovi partiti non-ideologici. “Ci vuole un nuovo contenitore”: quante volte l’abbiamo sentito ripetere come un mantra? Contenitore: scatola, recipiente, involucro. Come dire: Dio ci guardi dai contenuti. Non è difficile comprendere il motivo di tale distorsione. Tramontate le ideologie, i grandi insediamenti politici non potevano più far conto sulle antiche certezze valoriali. L’era delle Grandi Identità era archiviata. Le antiche barricate della storia andavano oltrepassate. Cominciava l’era del Meticciato. La filosofia postmoderna era già in campo, pret-à-porter, a suggellare “il nuovo”. Quasi nessuno aveva letto Lyotard, ma i rotocalchi erano tutti molto chiari: l’indifferenza valoriale era la nuova Musa del tempo. Intendiamoci: nel supermarket di questo neoconformismo si nascondeva anche qualche verità: quella di cercare di non restare mai più succubi di ingannevoli “pensieri forti”. Ma la soluzione non poteva trovarsi nel rifugio del nichilismo soft del “pensiero debole”. Se una comunità politica dichiara di non credere più in niente, perché mai qualcuno dovrebbe credere in quella comunità politica? In tutti è prevalsa la paura che il confronto sui contenuti potesse incrinare la forza del contenitore. Così, tramontate le ideologie, sono evaporate anche le idee e i valori.

Non si può negare però che nella Seconda Repubblica l’alternanza sia stata in qualche modo garantita, Berlusconi e Prodi ne sono stati i principali alfieri…

Sulla carta è così. Ma in realtà il genio italiano è riuscito a trasformare persino il bipolarismo in un ennesimo “sistema chiuso”. Le reti del potere hanno cambiato l’ordine dei fattori, si sono coagulate intorno a due eserciti con due generali, ma il prodotto non è cambiato. Partiamo dall’esempio più evidente: in un normale sistema dell’alternanza il leader che perde le elezioni, di norma, non viene ricandidato alla premiership. Perciò, secondo autentica prassi bipolare, il Cavaliere non si sarebbe dovuto ripresentare alle politiche del 1996. Ma ammettiamo pure di volergli accreditare un bonus viste le comprensibili difficoltà del suo rodaggio politico. In ogni caso, non avrebbe dovuto candidarsi a quelle del 2006, dopo gli esiti non esaltanti dei suoi cinque anni a Palazzo Chigi. Macché. In realtà è sempre stato lui il candidato in tutte le elezioni. Speculare, pur se meno “robinsoniano” l’esempio di Prodi. Già nel 2006 non avrebbe dovuto essere più chiamato in causa. Dieci anni prima (sottolineo dieci!) la sua leadership si era mostrata effimera, tutt’altro che fonte di stabilità politica. In nessun altro Paese occidentale si è mai assistito a una simile, ostinata immutabilità delle leadership soprattutto dopo chiare sconfitte elettorali. Kohl e Thatcher sono stati assai longevi solo perché rivincevano le elezioni! Insomma, la parola “alternanza” non si addice a un sistema nel quale, per venti anni, governano le stesse persone pur in presenza di sconfitte elettorali. Persino il presidente degli Stati Uniti non resta in carica per più di otto anni. L’alternanza è la ratio di una democrazia che incentiva il ricambio dei governi e delle leadership, per rendere entrambi idonei a gestire i mutamenti del tempo storico. Si ricorderà come la caduta della Prima Repubblica sia stata accompagnata dalla diffusione di un imperativo categorico: facce nuove! E le facce nuove sono arrivate. Ma, per oltre vent’anni, sono rimaste  sempre le stesse! Si potrebbe dunque dire che, dal regime democristiano alla Seconda Repubblica, l’Italia è passata  dagli immutabili senza alternanza all’alternanza degli immutabili!

In sostanza, il sistema è rimasto rigido…

La Prima Repubblica esibiva un sistema rigido nelle regole perché non era possibile l’alternanza. Eppure flessibile nello schema di gioco perché la dialettica tra correnti dc e alleati – e persino il consociativismo – funzionavano come correzione, in tempo reale, del potere. Quel sistema finì per produrre un’instabilità cronica (un governo all’anno) fino a che non si rivelò inadeguato a gestire la modernità. La Seconda Repubblica, invece, ha messo in scena un sistema flessibile nelle regole perché era prevista l’alternanza. Eppure portatore di una rigidità, quasi militare, nello schema di gioco. Una volta che uno schieramento aveva conquistato il potere, non era più possibile alcuna “correzione”. Anche la Seconda Repubblica ha così finito per produrre dieci governi in quattordici anni. Non c’è dunque da stupirsi se il Paese si sia poi trovato impreparato di fronte ai recenti terremoti che hanno sconvolto l’Occidente. Il tempo della globalizzazione è segnato dalla velocità del mutamento, il nostro sistema, invece, soffre da decenni l’estrema rigidità del potere. Tant’è che, alla fine, come dicevo, è collassato, ricorrendo a ben due governi tecnici. Per di più sia Monti che Draghi non hanno goduto di una libera e convinta scelta delle parti. Sono nati “senza partiti”, perché sia il Pdl che il Pd erano riottosi a “governare insieme”. Altro che flessibilità! Tutto ciò ha determinato una sorta di “gaudioso mistero” del nostro bipolarismo. Ciascuno dei due schieramenti, ogni volta che il potere andava all’Altro, lo accusava di voler dar vita a un “regime” occupando Stato, Televisione, Editoria. La contestazione è partita a turno, sia da sinistra verso Berlusconi che da destra verso Prodi. E anche oggi verso Meloni. Ci si pensi: che sistema bipolare è quello che vive sulla reciproca accusa di voler dar vita a un “regime”? E’ una sorta di consociativismo bellico dal quale, per essere onesti, trae beneficio soprattutto la sinistra che pensa sempre di avere buon gioco nel richiamarsi ai valori “resistenziali”.

 

RITORNO ALLA POLITICA?

 

Non vede e non coltiva nessuna speranza di “ricostruzione” del sistema?

La vera domanda è se sia possibile un “ritorno della politica”, quella vera, con la P maiuscola, quella fatta di progetti e di valori. C’è da dire che molto dipende dalla sinistra che, in questi decenni, è stata la più colpita da una sorta di mutazione genetica. La necessità di tenere unite anime ideologiche e politiche assai diverse ha fatto emergere un inquietante fenomeno che si potrebbe definire qualunquismo del potere. Una sorta di indifferenza ai contenuti della propria strategia. Può sembrare paradossale, ma ciò che, da Guglielmo Giannini in poi, è stato contestato al  popolo (il qualunquismo, appunto) sembra essere oggi diventata la cifra delle èlites di sinistra. Mi spiego: nel campo largo, che va dai cattolici moderati all’estrema sinistra, non esisteva e non esiste, com’è evidente, una vera identità comune. Si può essere, nello stesso tempo, a favore e contro la Nato. Per la libertà dell’Ucraina e simpatizzanti di Putin. Sostenitori ma anche detrattori della flessibilità del mercato. Amici dei gay-pride ma anche devoti alla Chiesa. Ci si può definire riformisti o antagonisti, liberali o comunisti senza mai temere di trovarsi fuori posto. Insomma, come il mitico Proteo, il Pd è stato capace di assumere forme assai diverse, di modo che la sua identità si è, alla fine, rivelata inafferrabile. L’interscambiabilità dei progetti e dei valori ha ormai assunto la fisionomia di una vera e propria tecnica di governo e il “qualunquismo del poterequella di un vero e proprio instrumentum regni. Perciò l’immagine che il Pd restituisce è ormai quella di un puro “partito di potere”. Il suo vero problema sistemico è che un partito del genere può continuare a gestire tale “convivenza degli opposti” soltanto finché, appunto, permane al potere. In caso contrario, una volta all’opposizione, il suo castello di carta rischia di crollare.

E qual è la sua analisi del centrodestra?

Se Atene piange, Sparta non ride. La “grande decadenza” etico-politica che ha colpito, come uno tsunami, l’intero quadro della rappresentanza non poteva non condizionare anche l’accampamento di destra. Eppure il centrodestra è riuscito, in questi decenni, a mantenersi molto più unito, nei progetti e nei valori, dei propri rivali. Soprattutto a causa di due circostanze: la prima è che il quadro identitario della coalizione creata da Berlusconi è rimasto più o meno sempre lo stesso. Popolare nella politica continentale e internazionale (e quindi europeista e atlantico). Liberale nell’ispirazione economica e sociale. Conservatore nelle idee di società e di famiglia. Tutte le digressioni da questo tableau di valori, in genere proposte dalla Lega, non sono mai state tali da inficiarne la solidità.  La seconda ragione è che il centrodestra, al contrario della sinistra, non ha mai ammainato la bandiera della riforma dello Stato in senso presidenzialista. In un tempo storico nel quale la funzione e l’efficacia dei Parlamenti appare sempre più labile, non è una questione di poco conto. Non si deve inoltre dimenticare che Berlusconi, almeno a parole, non ha mai abbandonato la visione bipolare, e persino bipartitica, della democrazia italiana. Pochi rammentano che egli arrivò persino a convocare una Costituente, con tanto di regole democratiche e carta dei valori, tra Forza Italia, An e Udc per dar vita a un solo grande “Partito della Libertà” sul modello americano. Poi preferì abbandonare qual progetto e ripiegare sulla seconda edizione di un partito carismatico salendo su qual famoso predellino a Milano. Un grave errore che pagò politicamente negli anni successivi. A partire dalla rottura con Fini. Si trattò di una grande occasione perduta per tutta la politica italiana. Eppure quella brace unitaria cova ancora sotto la cenere.

 

OCCASIONE-MELONI

 

Può ravvivarla Giorgia Meloni?

Non so se in politica esista un quadro astrale, ma è certo che nel cielo di Giorgia Meloni si stanno allineando tre pianeti che potrebbero consentirle di lasciare un segno decisivo nella storia del Paese. Il primo riguarda la natura stessa della sua leadership. E’ stato osservato come il suo governo sia il primo deciso dalle urne, dopo tanti anni. Ma c’è anche qualcosa di più. Se scorriamo la storia degli ultimi trent’anni, dal 1993 ad oggi, ci accorgiamo che soltanto per sette di questi l’Italia ha avuto premier espressi direttamente dalla politica. Prima D’Alema e Amato, poi Letta, Renzi e Gentiloni. Per i restanti ventitre anni, invece, da Ciampi a Berlusconi, passando per Dini e Prodi e arrivando a Conte, Monti e Draghi, a Palazzo Chigi sono arrivati sempre outsider extrapolitici. Un imprenditore che ha “inventato” un partito, oppure tecnici e manager “prestati” da grandi istituzioni bancarie e universitarie. Al di là dell’efficacia dei loro governi (alcuni hanno dato prova di vera eccellenza) non c’è dubbio che, dalla fine della Prima Repubblica, l’Italia abbia vissuto dentro una grande anomalia. Di fatto la politica non è stata più in grado di produrre premiership riconosciute e autorevoli.

Si può invertire questa rotta e tornare alla “normalità”? E’ sicuramente molto difficile: i partiti sono quasi tutti in crisi, i meccanismi della rappresentanza farraginosi e la formazione culturale ormai quasi inesistente. Ma la Meloni, grazie alla novità che rappresenta, ha un’occasione storica: se la sua esperienza di “premier di partito” avesse successo, romperebbe l’”incantesimo italiano”,  e riabiliterebbe la politica. Diciamo che dopo Berlusconi, Meloni rappresenta la “seconda occasione” del centrodestra.

E da cosa dipende il suo successo?

Diciamo intanto che ha già vinto la battaglia della sua credibilità internazionale che era la principale sfida che le aveva lanciato la sinistra. Esame superato a pieni voti. Ma, per tornare alla metafora inziale ci sono altri due pianeti  allineati sul destino del Paese: la riforma dell’assetto dello Stato e quella della giustizia. Come detto, la Seconda Repubblica non è mai nata davvero. E mai nascerà se non si modificherà profondamente il circuito cittadino-potere-decisione. L’esperienza storica suggerisce due modelli istituzionali adatti ad aprire davvero una Seconda Repubblica. Il primo è quello francese, il semipresidenzialismo. Il secondo è italiano: quello usato per l’elezione dei sindaci. In entrambi i casi, l’esecutivo acquista immediatamente forza e stabilità attraverso il suffragio popolare. Non è mai il “leader forte” a minacciare le democrazie. Semmai, la storia l’ha insegnato, è proprio la somma delle debolezze di politica e istituzioni a farle entrare in crisi. Ma, negli anni Novanta, è emersa anche una seconda anomalia: lo squilibrio tra potere legislativo e potere giudiziario, ormai diventato una sorta di “guerra dei trent’anni” nella quale sono caduti diversi governi, senza che mai si riuscisse a siglare alcuna pace. La posta in gioco è quella di disegnare una riforma complessiva che produca un “nuovo equilibrio” tra i poteri della Repubblica. In conclusione: riabilitazione della politica, nuovo assetto dello Stato e riforma della giustizia: ecco i tre pianeti allineati nel cielo di Giorgia Meloni. Si tratta certo di compiti gravosi, da far tremare le vene dei polsi. E il percorso sarà disseminato di trappole, non tutte e non solo dall’opposizione. Ma sembra che, per fortuna, Giorgia Meloni ne sia consapevole.

 

REFERENDUM PROBABILE (E DECISIVO)

 

Entri allora nel merito della polemica sul premierato…

Dal 1948 ad oggi, cioè in 75 anni, l’Italia ha cambiato 68 governi. In media uno ogni 400 giorni! Se poi si pensa che qualcuno è rimasto in carica anche per tre anni il calcolo diventa ancora più impietoso. Difficile, dunque, sostenere che non sia necessaria una riforma che inverta una rotta pericolosa per la tenuta del sistema. Prova ne sia, come detto, il reiterato ricorso a governi tecnici e, soprattutto, l’ultima paradossale legislatura nella quale si è passati, disinvoltamente, dal governo gialloverde (Lega e 5stelle) a quello giallorosso (5 stelle e Pd). A fronte di questo black out sistemico ogni riforma (Berlusconi, D’Alema, Renzi) orientata a dare maggiore stabilità al Paese è stata ogni volta bocciata. Quasi sempre a causa dei medesimi veti ideologici che si ripropongono oggi contro il premierato. Tornano a risuonare i soliti allarmi resistenziali contro la dittatura dell’”uomo solo al comando” conditi in questo caso anche dalla polemica sulla riduzione dei poteri del Quirinale. Poco importa che, in realtà, la lesione sia minima. E’ previsto infatti che il Capo dello Stato mantenga inalterato il potere di nomina e revoca dei ministri. E in ogni caso: che il premier venga o no eletto direttamente, potrebbe mai il Quirinale non rispettare un’indicazione popolare? Per capirci: avrebbe mai potuto Mattarella negare l’incarico alla Meloni dopo le ultime elezioni?  In buona sostanza, dunque, il Quirinale resterebbe l’arbitro del sistema, come la Costituzione vuole. Solo, non vigilerebbe più sul disordinato gioco parlamentare: ma sul rispetto del voto popolare. In un Paese civile, prendendo atto che il governo ha rinunciato alla “sua” riforma (quella sul modello francese) ed è disposto al dialogo, l’opposizione discuterebbe nel dettaglio, con animo sereno, il testo proposto per arrivare a un risultato migliore e condiviso. Macché. Prevale ancora una volta la “guerra dei bottoni” delle contrapposizioni ideologiche. E alla fine, ancora una volta, sarà il referendum a decidere. Speriamo che stavolta vada meglio delle altre.

Qualcuno suggerisce alla Meloni di allargare i confini del suo partito, di non far conto sempre e solo sulle stesse persone…

Non sono tra coloro che le consigliano di “spostarsi al centro”, cercando di diventare la nuova Dc.  Non vedo bene neanche cosa potrebbe significare concretamente. Nuovi consensi si conquistano governando bene, non osservando astratte leggi di posizionamento politico. Penso, piuttosto, una cosa diversa: stabilito che il suo obiettivo è quello di costruire un partito conservatore e riformista, credo che Giorgia Meloni debba al più presto dar vita a un intenso lavoro culturale per elaborare con maggiore precisione il volto identitario e progettuale di tale partito. Ecco, per compiere questo lavoro, che dovrebbe essere ultimato per le prossime politiche, può e deve certo coinvolgere anche energie esterne allo “zoccolo duro” di Fratelli d’Italia. Poi quello che deve accadere, accadrà. Passa anche per un lavoro di questo genere che, in era social, molti considerano ormai desueto, la “riabilitazione” della politica. Lei parlava di speranza. Bene, io spero davvero che Giorgia Meloni, dopo la fine dell’era Berlusconi, non disperda questa “seconda occasione”.

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Ferdinando Adornato, giornalista e saggista, editorialista del Messaggero, è stato  parlamentare e, dal 2001 al 2006, presidente della Commissione Cultura della Camera. E’ presidente della Fondazione liberal. Ha fondato liberal del quale è stato direttore dal 1995 al 2013. Ha da poco pubblicato per Rubbettino assieme a Monsignor Rino Fisichella “ La libertà che cambia, dialoghi sul destino dell’Occidente”.

Documento: “l’Italia è il Paese che amo”

Per il suo valore storico-politico, pubblichiamo il testo dell’intervento di Silvio Berlusconi che nel gennaio 1994 arrivò nelle redazioni dei telegiornali con un video-messaggio pre-registrato. Con questo messaggio Berlusconi annunciò la sua “discesa in campo” quale leader di Forza Italia e cominciò quell’avventura che due mesi più tardi fu coronata dalla vittoria della coalizione di centrodestra nelle elezioni del 27 marzo.

L”Italia è il Paese che amo. Qui ho le mie radici, le mie speranze, i miei orizzonti. Qui ho imparato, da mio padre e dalla vita, il mio mestiere di imprenditore. Qui ho appreso la passione per la libertà. Ho scelto di scendere in campo e di occuparmi della cosa pubblica perché non voglio vivere in un Paese illiberale, governato da forze immature e da uomini legati a doppio filo a un passato politicamente ed economicamente fallimentare. Per poter compiere questa nuova scelta di vita, ho rassegnato oggi stesso le mie dimissioni da ogni carica sociale nel gruppo che ho fondato. Rinuncio dunque al mio ruolo di editore e di imprenditore per mettere la mia esperienza e tutto il mio impegno a disposizione di una battaglia in cui credo con assoluta convinzione e con la più grande fermezza. So quel che non voglio e, insieme con i molti italiani che mi hanno dato la loro fiducia in tutti questi anni, so anche quel che voglio. E ho anche la ragionevole speranza di riuscire a realizzarlo, in sincera e leale alleanza con tutte le forze liberali e democratiche che sentono il dovere cioè di offrire al Paese una alternativa credibile al governo delle sinistre e dei comunisti.

La vecchia classe politica italiana è stata travolta dai fatti e superata dai tempi. L’auto-affondamento dei vecchi governanti, schiacciati dal peso del debito pubblico e dal sistema di finanziamento illegale dei partiti, lascia il Paese impreparato e incerto nel momento difficile del rinnovamento e del passaggio a una nuova Repubblica. Mai come in questo momento l’Italia, che giustamente diffida di profeti e salvatori, ha bisogno di persone con la testa sulle spalle e di esperienza consolidata, creative ed innovative, capaci di darle una mano, di far funzionare lo Stato. Il movimento referendario ha condotto alla scelta popolare di un nuovo sistema di elezione del Parlamento. Ma affinché il nuovo sistema funzioni, è indispensabile che al cartello delle sinistre si opponga, un Polo delle libertà che sia capace di attrarre a sé il meglio di un Paese pulito, ragionevole, moderno.

Di questo polo delle libertà dovranno far parte tutte le forze che si richiamano ai principi fondamentali delle democrazie occidentali, a partire da quel mondo cattolico che ha generosamente contribuito all’ultimo cinquantennio della nostra storia unitaria. L’importante è saper proporre anche ai cittadini italiani gli stessi obiettivi e gli stessi valori che hanno fin qui consentito lo sviluppo delle libertà in tutte le grandi democrazie occidentali. Quegli obiettivi e quei valori che invece non hanno mai trovato piena cittadinanza in nessuno dei Paesi governati dai vecchi apparati comunisti, per quanto riverniciati e riciclati. Né si vede come a questa regola elementare potrebbe fare eccezione proprio l’Italia. Gli orfani i e i nostalgici del comunismo, infatti, non sono soltanto impreparati al governo del Paese. Portano con sé anche un retaggio ideologico che stride e fa a pugni con le esigenze di una amministrazione pubblica che voglia essere liberale in politica e liberista in economia. Le nostre sinistre pretendono di essere cambiate. Dicono di essere diventate liberaldemocratiche. Ma non è vero. I loro uomini sono sempre gli stessi, la loro mentalità, la loro cultura, i loro più profondi convincimenti, i loro comportamenti sono rimasti gli stessi. Non credono nel mercato, non credono nell’iniziativa privata, non credono nel profitto, non credono nell’individuo. Non credono che il mondo possa migliorare attraverso l’apporto libero di tante persone tutte diverse l’una dall’altra. Non sono cambiati. Ascoltateli parlare, guardate i loro telegiornali pagati dallo Stato, leggete la loro stampa. Non credono più in niente.

Vorrebbero trasformare il Paese in una piazza urlante, che grida, che inveisce, che condanna. Per questo siamo costretti a contrapporci a loro. Perché noi crediamo nell’individuo, nella famiglia, nell’impresa, nella competizione, nello sviluppo, nell’efficienza, nel mercato libero e nella solidarietà, figlia della giustizia e della libertà. Se ho deciso di scendere in campo con un nuovo movimento, e se ora chiedo di scendere in campo anche a voi, a tutti voi – ora, subito, prima che sia troppo tardi – è perché sogno, a occhi bene aperti, una società libera, di donne e di uomini, dove non ci sia la paura, dove al posto dell’invidia sociale e dell’odio di classe stiano la generosità, la dedizione, la solidarietà, l’amore per il lavoro, la tolleranza e il rispetto per la vita.

I1 movimento politico che vi propongo si chiama, non a caso, Forza Italia. Ciò che vogliamo farne è una libera organizzazione di elettrici e di elettori di tipo totalmente nuovo: non l’ennesimo partito o l’ennesima fazione che nascono per dividere, ma una forza che nasce invece con l’obiettivo opposto; quello di unire, per dare finalmente all’Italia una maggioranza e un governo all’altezza delle esigenze più profondamente sentite dalla gente comune. Ciò che vogliamo offrire agli italiani è una forza politica fatta di uomini totalmente nuovi. Ciò che vogliamo offrire alla nazione è un programma di governo fatto solo di impegni concreti e comprensibili. Noi vogliamo rinnovare la società italiana, noi vogliamo dare sostegno e fiducia a chi crea occupazione e benessere, noi vogliamo accettare e vincere le grandi sfide produttive e tecnologiche dell’Europa e del mondo moderno. Noi vogliamo offrire spazio a chiunque ha voglia di fare e di costruire il proprio futuro, al Nord come al Sud vogliamo un governo e una maggioranza parlamentare che sappiano dare adeguata dignità al nucleo originario di ogni società, alla famiglia, che sappiano rispettare ogni fede e suscitino ragionevoli speranze per chi è più debole, per chi cerca lavoro, per chi ha bisogno di cure, per chi, dopo una vita operosa, ha diritto di vivere in serenità. Un governo e una maggioranza che portino più attenzione e rispetto all’ambiente, che sappiano opporsi con la massima determinazione alla criminalità, alla corruzione, alla droga. Che sappiano garantire ai cittadini più sicurezza, più ordine e più efficienza.

La storia d’Italia è ad una svolta. Da imprenditore, da cittadino e ora da cittadino che scende in campo, senza nessuna timidezza ma con la determinazione e la serenità che la vita mi ha insegnato, vi dico che è possibile farla finita con una politica di chiacchiere incomprensibili, di stupide baruffe e di politica senza mestiere. Vi dico che è possibile realizzare insieme un grande sogno: quello di un’Italia più giusta, più generosa verso chi ha bisogno più prospera e serena più moderna ed efficiente protagonista in Europa e nel mondo.

Vi dico che possiamo, vi dico che dobbiamo costruire insieme per noi e per i nostri figli, un nuovo miracolo italiano.

RIDARE FIDUCIA ALLE FAMIGLIE

Ma siamo veramente stretti in questo modo? Otto miliardi di persone al 15 novembre, è il conto della Nazioni Unite. Un’esplosione demografica nei paesi più poveri. Più basso è il reddito pro capite, più alto è il tasso di natalità. Sotto osservazione delle Nazioni Unite anche l’Italia per ragioni opposte, poca gente, quattrocentomila cicogne ogni anno a fronte di settecentomila che ci danno l’addio.  Una situazione grave e preoccupante che avrà un impatto negativo nel prossimo futuro sia in campo economico che sociale.

Ne parliamo con Francesco Alberoni, sociologo e scrittore, studioso dei movimenti collettivi, 93 anni al 31 dicembre prossimo, che accetta di conversare con noi nonostante una fastidiosa bronchite che in questi giorni lo assilla.

“Le cause della crisi delle nascite sono molteplici – spiega Alberoni – che vanno dall’incertezza politica ed economica, alla precarietà del lavoro, al senso di insicurezza generale conseguenza anche di pandemia e di guerra. Pochi figli non solo perché  si preferisce una vita più spensierata ma soprattutto perché si è condizionati o dal lavoro spesso precario e soprattutto dalla mancanza di assistenza alle famiglie.”

Difficile trovare la ricetta per arginare la sciagura delle culle vuote…

“Aiuti economici e supporti alle mamme, ma non basta. Bisogna dare alle giovani coppie la sicurezza di asili nido, scuole materne ed elementari in grado di prendersi cura dei bambini in tutto l’arco della giornata lavorativa. Intervenire anche sulle scuole medie e superiori che sono aperte solo fino all’una o alle due del pomeriggio, e solo poche assicurano il doposcuola. Le vecchie strutture scolastiche furono progettate limitatamente per l’insegnamento in aula o al massimo con una palestra.  Oggi invece la scuola dovrebbe avere  strutture per accogliere i ragazzi anche nelle ore del  pomeriggio fino a sera con attività didattiche, culturali, sportive. La famiglia da sola non ce la fa più e la vecchia scuola perde credito ogni giorno. Occorre uno sforzo immenso per sorreggere i genitori, ridare loro fiducia ricostruendo il prestigio dell’educazione  e per dare nuovo slancio allo viluppo culturale che è anche economico. Un tempo le scuole si limitavano a fornire istruzione nelle aule secondo le esigenze dei tempi quando gli uomini andavano a lavorare e la maggior parte delle donne  stavano a casa e potevano occuparsi a tempo pieno dei figli. Oggi le esigenze sono profondamente cambiate. La famiglia è fragile ed esausta, è immenso il bisogno di istruzione ed educazione. Compito della politica è anche ridare fiducia ai cittadini, alle coppie.”

Cosa si può fare nell’immediato ?

“Favorire nelle aziende e negli uffici, sia pubblici che privati, l’istituzione di asili nido e scuole materne. Sarebbe un primo segnale di un’inversione di rotta.”

“L’immigrazione può essere un rimedio alla denatalità?

“Certamente. Ma solo un’immigrazione qualificata che possa assicurare accoglienza integrazione e istruzione. Non certo il tipo di immigrazione incontrollata. In conclusione: genitori senza tempo, i loro figli senza scuole, l’immigrazione come problema mentre regolata potrebbe essere una risorsa. C’è bisogno di una rinascita in tutti i campi, dallo studio al lavoro, alla famiglia.”

EUROPA, DIRITTIFICIO CHE UCCIDE IL FUTURO

Pubblichiamo alcune pagine del libro “Lo Stivale e il Cupolone” (Ed.Il Timone) scritto dal nostro direttore Mauro Mazza e uscito nei primi giorni di dicembre. Il saggio affronta il divorzio tra Italia e Chiesa cattolica, nel quadro di un’Europa che si è illusa di poter fare a meno di Dio, di ogni religione e di ogni morale. In una sorta di dirittificio senza regole, la crisi demografica rischia di rendere irreversibile la crisi in corso. Ringraziamo “Il Timone”.

È un’Europa senz’anima, simile a quella paventata da Gilbert K. Chesterton: “Atea e superstiziosa, ha smesso di credere in Dio e ormai crede a tutto”. La tecnica esercita un imperialismo stringente, i signori di Bruxelles hanno un potere massificante e miope. L’ideologia gender, nuova bandiera ideologica, oltre al superamento della naturale distinzione /unione maschio-femmina, accelera una crisi demografica così profonda da condannare l’Europa all’estinzione entro i prossimi decenni. Le popolazioni del vecchio continente sono ormai numericamente minoritarie, destinate ad essere sempre meno rilevanti in rapporto al dato demografico della Cina e dell’India; nel confronto con vaste aree dell’Africa dove l’aumento è costante, spesso travolgente. La sproporzione si va facendo drammatica perché i popoli in condizioni di povertà assoluta saranno presto i tre quarti del pianeta mentre l’Europa rappresenterà solo una piccola parte del rimanente quarto. Tale processo si va compiendo nell’assoluta, miope incoscienza delle classi dirigenti, che continuano a considerare il decremento demografico europeo – con l’aumento della massa-lavoro fornita dai poveri del pianeta – un vantaggio enorme, che esalterà la soddisfazione ulteriore dei desideri individuali e moltiplicherà il potere di élites sempre più dominanti, padrone assolute. L’Europa sconta le colpe della sua classe dirigente, ridotta, esclusa o subalterna rispetto alle centrali che si contendono la palma del comando. Sempre più spesso, anche nei manuali scolastici, si propongono mappe geografiche incentrate sull’emisfero asiatico e australe, con Stati Uniti e Oceania ad est, Russia e Giappone ad ovest. In quelle carte si fatica a ritrovare l’Europa, relegata quasi in un angolo, ridotta ad appendice della sterminata Russia e insidiata dal gigantesco continente africano.

Negli ultimi decenni, mentre il piano s’inclinava maggiormente e la velocità aumentava, la Chiesa si è ritrovata senza difese, non ha mostrato capacità di reazione. All’inizio, aveva ribadito il suo incoraggiamento per l’Europa, non causalmente fondata da tre statisti cattolici come De Gasperi, Adenauer e Schuman e potenzialmente in grado di recuperare – dopo le immani tragedie del Novecento – una centralità equlibratrice e una missione positiva sulla scacchiera mondiale. Pio XII vedeva con favore un “movimento irresistibile che spinge ad unirsi”. A questa Europa “dall’Atlantico agli Urali” ha guardato Giovanni Paolo II, in attesa che potesse tornare a respirare coi i suoi “due polmoni” nell’abbraccio tra Roma e Mosca. Benedetto XVI non ha mai smesso di richiamare i princìpi inalienabili dell’uomo: diritto di nascere e di vivere dignitosamente, difesa della famiglia composta da un uomo e una donna, tutela della libertà educativa. E lo stesso Bergoglio, pur considerando l’Europa non più centrale, ma a suo modo periferia con cui condividere tratti di strada e impegni comuni, ha supplicato: “Vecchia e sterile Europa, ritrova la tua anima!”.

Ma se a fare la storia, e a scriverla, è l’autocoscienza di un popolo, cioè il modo in cui si concepisce, l’Europa pare aver dimenticato se stessa. Dapprima ha distrutto le identità nazionali, poi ha tentato di compiere l’atto più grande e tragico: la sua stessa morte. Quando i desideri si traducono in diritti e impongono nuove leggi, si realizza una società profondamente illiberale e dispotica. Il legislatore considera suo dovere prendere atto dell’asserita evoluzione di costumi e mentalità. Le antenne politiche e parlamentari captano le domande sociali poste da gruppi di pressione e centri di potere – sia pure minoritari – che pretendono di rappresentare la parte evoluta della società e di incarnarne, precedendola, la necessaria evoluzione. Grazie al controllo dei media e al supporto di autori tv, sceneggiatori di serie, cantanti e ballerine, opinionisti e saltimbanchi, si crea un potente cortocircuito che rapidamente conquista cittadinanza, tutela di legge e, quando occorre, anche finanziamenti. Ogni cosa sembra seguire un copione immodificabile, destinato a procedere fino all’ultimo atto. Eppure, ci sono elementi che inducono a non disperare. Potrebbe venire il tempo in cui saprà conquistare attenzione e ascolto chi mostrerà di possedere forza e carisma, coraggio e determinazione, per riaffermare verità dimenticate. Una su tutte: il diritto individuale è per sua natura un atto pubblico, che incontra limiti invalicabili nella ragione, nella giustizia, nella convivenza con gli altri. La resistenza è doverosa, la reazione è necessaria, sacrosanto il rifiuto di piegarsi ai nuovi dogmi. San Paolo ammoniva i Galati: “Non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù”. Il giogo del nostro tempo va imponendo il ribaltamento di ogni principio su cui si è costruita la civiltà occidentale: natura/mondo, uomo/ Dio, spazio/infinito, tempo/eterno, libertà/verità.

QUELLA NOTTE MAGICA

“Dammi la mano e torna vicino
Può nascere un fiore nel nostro giardino
Che neanche l’inverno potrà mai gelare
Può nascere un fiore da questo mio amore…”
Parole d’amore nella notte dei sogni che credevi irrealizzabili. Versi, sorrisi e lacrime che si mescolarono dentro fino a scuotere il profondo dell’anima. Passa un mese, un altro ancora e ti rimane nel ricordo un’emozione che non si spegne, la notte più bella, quella tra il 25 e il 26 settembre, una vita fa che riaccese la vita che va.
Dalle 23 nella sala del Parco dei Principi prima gli exit poi le proiezioni andavano delineando il risultato. Sempre più concreto, sempre più schiacciante. Lieve era il sottofondo musicale, parole e note de “Il cielo è sempre più blu” mentre la notte si tingeva tricolore. Alle due e mezzo arriva lei. Sale sul palco. “Siamo pronti.” E la sala esplode negli applausi. I giovani, sopratutto le ragazze, sono alle stelle mentre intonano come un inno di battaglia “A mano a mano” di Rino Gaetano.

Ci si saluta, ci si incontra ci si abbraccia. Sabrina Fantauzzi si avvicina: “Papà sarebbe stato contento, papà stasera e qui”. E sento anch’io che Gino stanotte è qui, e sono qui tutti quelli che nella vita ho incontrato, da Carlo Falvella martire a diciott’anni a Mimì Napolitano mio grande amico di Crotone, a Bruno Murzilli che per anni aveva aiutato ad affrontare i problemi di quartiere. E tanti, tanti ancora senti palpitare all’unisono col tuo cuore. La gioia non ha pudore e sgorga nelle lacrime che gli occhiali non riescono a celare. Mentre al centro della sala non si ferma il coro delle ragazze: “A mano a mano ti accorgi che il vento / Ti soffia sul viso e ti ruba un sorriso”. È l’estetica della politica a destra nel 2022. Passione, gioia e sentimento.

Appartiene solo al ricordo indelebile, stanotte, quell’Inno a Roma che cantavamo da ragazzi alle manifestazioni. O sprofonda nella rimozione della nostalgia senza domani il disco preferito di quel candidato mai eletto :“Tiempe belle ‘e ‘na vota, tiempe belle addo state…”
Oggi non Murolo, c’è Rino Gaetano nella colonna sonora di questa destra che è già domani. Ma la colonna sonora negli anni dei sogni quando sembravano impossibili resta nel cuore di ognuno. Da Leo Valeriano a Lucio Battisti, agli Amici del Vento, alla Compagnia dell’Anello . Da “Avanti ragazzi di Buda, avanti ragazzi di Pest”, al mito nordico della Terra di Thule: “In una pianura dal sole baciata la gente del Nord è tutta schierata/ Biondi guerrieri con elmi d’argento, il Cerchio e la Croce garriscono al vento”.
Quando la politica è vissuta anche come poetica, avverti lontani eppure vicini quegli anni Sessanta e Settanta quando avevamo una canzone da gettare al vento, una bandiera da innalzare al sole. Assieme al sogno della rivoluzione, rosso o nera che importa? A vent’anni la rivoluzione ha i colori dell’arcobaleno. Furono il Vietnam o i berretti verdi le parole simbolo di una stagione vissuta come avventura. Una stagione talvolta sepolta dai ricordi rimossi o dai sogni infranti dai compromessi. Noi che volevamo tutto e subito, sulla pelle imparammo quanto sia duro ottenere poco; e a che prezzo. Vedemmo in Evola o in Marcuse l’immaginario Eden. Cantammo la rivolta contro il mondo moderno e la società dei consumi. Fu la grande avventura dei nostri vent’anni, null’altro o poco altro. Poi il confronto con la realtà, i bisogni, il lavoro, le abitudini. La scoperta obbligata dei valori del vivere giorno per giorno in una società che non è un sogno. Il conflitto tra l’essere e il voler essere risolto spesso nelle contraddizioni o nell’adattamento. Vivemmo un giorno da leoni ma dovemmo poi piegarci ai cent’anni da pecora. Immaginammo invano di avere la sera qualcosa da raccontare come faceva il nonno quando narrava della sua guerra. Valle Giulia come El Alamein.

Ma al Parco dei Principi quegli anni appaiono lontani. Forse ci sentiamo vecchi ma con un’avventura da raccontare che solo stanotte sta diventando davvero storia. C’eravamo un tempo trovati con gli occhi rivolti al passato, sia stato esso Salò o la Resistenza. E fu anche per questo retaggio che imparammo ad odiarci a vent’anni. Ma questa notte della vittoria no, nasce sotto un cielo di pace. Ed è diversa anche dalla notte della destra del 28 aprile 2009 quando Alemanno salì al Campidoglio. Fu festa, fatta anche di braccia tese e di canti del passato.

Nella notte al Parco dei Principi invece c’è solo l’Italia del domani. Mentre spunta l’alba e la musica non svanisce. Canta le difficoltà e le storture della vita, le banalità quotidiane: “Chi sogna i milioni, chi gioca d’azzardo, chi fa il contadino, chi spazza i cortili/ Chi suda, chi lotta, chi mangia una volta/ Chi gli manca casa, chi vive da solo, chi prende assai poco, chi gioca col fuoco..” La vita non è tutta rosa, però “Il cielo è sempre più blu./ Il cielo è sempre più blu”.
A quasi tre mesi da quella notte magica, ci sono per l’Italia problemi di una situazione non solo economica grave. Ma il cielo è ancora più blu. E mi torna alla memoria Tenco “ Vedrai, vedrai, vedrai che cambierà/ non so dirti come e quando, ma vedrai che cambierà”. Ecco, il cambiamento è cominciato.

Perché occorre un’Authority per gli ivestimenti esteri

Per le società estere investire in Italia è storicamente una corsa ad ostacoli tra restrizioni, burocrazia, tasse, caos normativo ed una incompetenza generalizzata delle pubbliche amministrazioni. Qualcuno dirà che, dopotutto, almeno non si svende il paese preservando così l’italianità dell’economia. Nulla di più sbagliato! Attirare investimenti e know-how arricchisce il sistema produttivo del paese e certo non lo indebolisce.

Il Belpaese ha sempre avuto la presunzione di poter fare da sé. Forse colpa di quel narcisismo e vanità intrinsechi in una Nazione che ha dalla sua parte delle eccellenze riconosciute in tutto il mondo. Arte, storia, cultura ed, ovviamente il Made in Italy.

Questa consapevolezza in qualche modo ha penalizzato l’Italia, soprattutto per quanto riguarda la scarsa apertura verso chi viene dall’estero. Sarebbe opportuno prendere spunto dalle storiche rivali come Francia, Inghilterra e Germania, oltre ad altri player internazionali di caratura minore, che hanno puntato molto sull’attrazione di investimenti esteri incassando notevoli benefici e rafforzando le proprie economie, stando al contempo vigili ed attenti a non lasciare mai che il potere decisionale passasse in mani straniere.

Negli anni In Italia si è fatto pressoché il contrario. Abbiamo assistito ad abili operazioni di mercato quasi sempre svantaggiose per le imprese italiane, dove società estere (con “spalle coperte” dagli stessi paesi di provenienza) sono riuscite a prendere il controllo su molti asset strategici. Si è trattato di veri campioni nazionali passati ormai in mani straniere, ribaltando il concetto di attrattiva in permissivismo verso la depredazione del Made in Italy. L’Italia quindi si è rivelata debole ed inefficiente in quella competizione internazionale volta all’attrazione degli investimenti esteri cosiddetti buoni, diretti a portare benefici e ricchezza, dove si è vista superare persino da competitor molto più deboli ma (occorre ammetterlo) molto più organizzati ed agguerriti. In tutti i settori. Basti pensare all’Olanda, all’Inghilterra pre-Brexit, a Malta, a Cipro e ora persino agli Emirati Arabi che si sono tutti abilmente approfittati dall’insostenibilità della pressione fiscale italiana facendo si che molte aziende, soprattutto finanziarie ed erogatrici di servizi, trasferissero sedi e filiali operative in tali paesi allettati da condizioni fiscali favorevoli e zero burocrazia.
Riguardo la delocalizzazione industriale, invece, l’elenco comprenderebbe la quasi totalità dei paesi dell’Est Europa, dove le imprese italiane usufruiscono di manodopera più vantaggiosa a parità di qualità produttiva, di una ingerenza pressoché minima dei sindacati ed, ormai inutile dirlo, di un regime fiscale agevolato e attento alle esigente di chi investe. In molte di queste nazioni l’investitore estero viene affiancato persino da un tutor statale che lo aiuta a sbrigare gli adempimenti burocratici ed amministrativi.
Infine, pur brevemente, occorre menzionale le università, una vera arma di attrazione, questa volta non di investimenti bensì di menti eccelse provenienti da altri paesi, che poi si trasformano in ricchezza nazionale. L’Italia oggi si può difendere a malapena con la Bocconi e con il Politecnico di Milano. Sono tutte chance mancate. Difficilmente recuperabili ma non perse, qualora il Governo sia deciso a cambiare il modello attuale.  Se pensiamo a quante agenzie si occupano di attrazione degli investimenti esteri e della promozione del Made in Italy, da Invitalia a SIMEST, ICE, il Comitato Attrazione Investimenti
Esteri (CAIE) presso il MISE, colpisce la scarsezza dei risultati raggiunti.
Certo, anche tali soggetti non possono fare miracoli se prima non si procede alla sburocratizzazione, alla digitalizzazione del paese, all’alleggerimento della pressione fiscale e all’adeguamento del sistema anche guardando (e perché no? Prendendo a modello) ciò che fanno gli altri.
L’attuale governo dovrebbe seriamente prendere in considerazione una politica di concertazione della gestione degli investimenti esteri e della promozione del Made in Italy. Ciò può avvenire attraverso la creazione di una vera e propria Authority che si occupi non solo di coordinare l’azione delle predette agenzie, ma di fare anche da tramite tra le imprese estere e tutti gli interlocutori italiani, pubblici o privati che siano, onde eliminare quell’impasse burocratico che schiaccia ogni entusiasmo ad investire in Italia.
Questo lavoro di coordinamento è fondamentale considerato che ogni impresa estera che vuole operare in Italia si imbatte in problematiche grottesche.
Un breve esempio. Una società estera (UE) che vuole operare in Italia come prima cosa costituisce una newco davanti al Notaio che provvede a registrarla presso la Camera di Commercio e segnalare l’inizio attività all’Agenzia delle Entrate. Da questo momento inizia il calvario. La società, desiderosa di cominciare a lavorare, a creare posti di lavoro, a produrre o fornire servizi, va ad aprire un conto corrente dove versare il capitale sociale. Però non si può. Se la neocostituita (di diritto italiano, regolarmente iscritta) ha più del 20% di capitale estero (ed è ovvio che sia così, si tratta di investitore estero) nessun istituto bancario italiano è disposto ad aprirle un conto. Senza spiegazioni, senza motivazioni, salvo evidenziare che trattasi della policy bancaria italiana. Nel frattempo arriva la burocrazia. La neocostituita società (il cui investitore estero ancora non ha ancora versato il capitale sociale visto che non gli aprono un conto) si scontra immediatamente con una serie di altre problematiche, tra cui l’obbligo del pagamento della bollatura dei libri sociali che nel 2022 si fa ancora per mezzo di bollettino postale cartaceo compilable a mano (Digitalizzazione? Manco a parlarne). Senza contare che i siti web istituzionali (Agenzie governative, P.A.) che contengono le linee guida, i regolamenti, le normative, elementi preziosissimi per il corretto operato amministrativo di una società, sono esclusivamente in italiano relegando le poche sezioni in inglese a informazioni parziali ed incomplete. A questo punto il malcapitato investitore estero alza comprensibilmente i tacchi e se ne va in Olanda. O a Dubai. Ovunque ma non qui.

Infine, si è sempre saputo che il grado di attrattività degli investimenti esteri si basa sulla stabilità politica di un paese. Quindi, è ovvio che fino ad oggi non abbiamo avuto molte chance. Basti come esempio ciò che è avvenuto anni fa con il Fondo del Qatar. All’invito dell’allora primo ministro italiano ad investire nel Belpaese, il Qatar ha declinato l’invito rispondendo che l’Italia non forniva garanzie di stabilità politica considerato il noto avvicendarsi di governi di breve durata. Neanche a farlo apposta dopo pochi mesi il noto epilogo del governo Letta e delle rassicurazioni di Renzi a stare sereno. L’attuale Esecutivo ha invece tutte le carte per portare a termine la legislatura e questo dovrebbe rassicurare gli investitori stranieri. Quindi è il momento di agire.  C’è un sistema paese da riformare, perché solo un paese moderno, digitalizzato, con un apparato burocratico snello e reattivo può creare le condizioni giuste per attrarre investimenti ed eccellenze verso l’Italia. Serve quindi un’Authority che coordini e affianchi tutte le agenzie attuali preposte a tale scopo, che vigili sull’operato di banche e P.A. riguardo le politiche adottate verso le società estere e crei delle regole snelle e chiare per accogliere le imprese straniere. Oltre all’esigenza di un portale unico dedicato, in inglese, con una forte connotazione anche pubblicitaria (utile anche per la promozione inversa del Made in Italy) che costituirebbe senz’altro uno strumento imprescindibile per l’attrazione degli investimenti e per la conseguente prosperità del paese.

*Kiril K. Maritchkov, Comitato scientifico Fondazione Farefuturo

Guerra in Ucraina Cosa (e se) cambia

A leggere i commenti di molti giornali itaiani, sembrerebbe che le elezioni di Mid Term abbiano premiato Joe Biden, penalizzato Donald Trump e incoronato il giovane Ron DeSantis come astro nascente del partito repubblicano, se non addirittura come “uomo nuovo” della politica americana. In realtà, è presto per valutare l’evoluzione futura del confronto tra repubblicani e democratici.

Più immediati sembrano invece gli effetti sulla politica estera, in particolare per quello che riguarda la guerra in Ucraina. Non è certo privo di significato il fatto che i vertici militari russi abbiano atteso l’esito delle elezioni americane per annunciare il ritiro delle forze schierate nel capoluogo della provincia di Kherson, centro nevralgico del conflitto e porta d’accesso al Mar Nero e alla Crimea. Molti hanno interpretato questa mossa come un segnale di disponibilità da parte russa ad avviare trattative per giungere a un cessate il fuoco. E sarebbe davvero una svolta nel conflitto che si protrae del 24 febbraio scorso ai confini con l’Europa.

Ma andiamo per ordine e soffermiamoci prima sulla politica interna americana. Non c’è dubbio che queste elezioni abbiano rafforzato la posizione di Biden, nel senso che l’avanzata dei repubblicani è stata più contenuta del previsto. La temuta “onda rossa” (è il colore del Grand Old Party) non c’è stata e, al momento in cui scriviamo, non sappiamo ancora di quanto potrà essere la maggioranza repubblicana alla Camera dei Rappresentanti, mentre al Senato, se analoga maggioranza ci sarà, potrà contare su uno o al massimo due parlamentari in più.

Il motivo di questo mancato sfondamento è dovuto probabilmente al bisogno di stabilità di una parte crescente dell’elettorato americano, che da quasi due anni è sottoposto alle ondate di stress provocate da Donald Trump. La sconfitta dei candidati più direttamente sponsorizzati dall’ex presidente significa che in questo momento di crisi internazionali e di tensioni interne l’opinione pubblica statunitense tende alla neutralizzazione dei conflitti sociali e politici.

Ciò non significa però che sia in atto la rinascita del partito democratico, dove stentano a imporsi figure forti e carismatiche. E ciò a differenza di quanto accade ai repubblicani, all’interno dei quali si sta invece facendo strada il giovane DeSantis, che è stato trionfalmente rieletto governatore della Florida e si appresta alla rincorsa per le primarie del 2024.

Il fatto è che il partito repubblicano riesce ad approfittare della forte polarizzazione della società americana, dove si assiste allo scontro sempre più forte tra la tendenza al multiculturalismo e all’antirazzismo, da una parte, e le spinte conservatrici e identitarie dall’altra. Gli esponenti del Grand Old Party riescono a intercettare l’avversione di larghi strati dell’opinione pubblica per gli eccessi della sinistra, a partire  dall’avanzata della cultura “woke” e del radicalismo in favore delle minoranze etniche. Lo stesso DeSantis presenta un profilo ultraconservatore e si appresta a valorizzarlo  nella competizione interna  al partito repubblicano che partirà tra poco meno di un anno e mezzo.

Ma in questo momento, come si diceva prima, c’è voglia di stabilità. E il primo a beneficiarne è il presidente in carica.

Il primo effetto di questa stabilizzazione è rintracciabile sul fronte della politica estera. E veniamo alla svolta possibile nella guerra in Ucraina. L’amministrazione Usa può ora spingere il presidente Volodymyr Zelensky ad accettare un onorevole compromesso, senza che una tale pressione appaia, agli occhi dell’opinione pubblica Usa, un gesto di cedimento dettato dalla sconfitta elettorale, circostanza che sarebbe stata ovviamente insostenibile per l’amministrazione Biden.

La verità è che sono tutti stanchi del conflitto in  svolgimento dal 24 febbraio scorso alle porte dell’Europa.

Sono stanchi gli americani, che in un anno di crisi economica globale e di inflazione galoppante, hanno dovuto spendere decine di miliardi di dollari in armamenti diretti all’Ucraina. Sono stanchi i russi, che hanno subito migliaia di morti al fronte, con tutte le inevitabili, pesanti ripercussioni sociali e politiche. Sono stanchi i cinesi, che si sono fatti due conti e hanno capito quanto possa essere pregiudizievole per i loro commerci una perdurante situazione di conflitto globale. Sono stanchi gli europei, che subiscono le conseguenze sociali ed economiche della penuria energetica. L’unico che non appare stanco è Zelensky, il quale non vuole rinunciare al ruolo di “eroe mondiale”.

Ora però si sta forse avvicinando la fine dei giochi. La diplomazia segreta (ma che segreta non è più da qualche tempo) tra Usa e Russia ha individuato in una vittoria  ucraina a Kherson l’evento propiziatorio di un cessate il fuoco capace di salvare la faccia a tutti. Salvarla agli ucraini, che potrebbero negoziare partendo da posizioni di forza. Salvarla, a loro volta, ai russi che potrebbero mantenere la Crimea e qualche porzione di Donbass.

I più miti consigli chiesti a Zelensky corrispondono ai più miti consigli imposti a Biden dalla situazione politica mondiale. L’amministrazione Usa sembra ormai aver capito che la soluzione del conflitto non può essere la destituzione di Vladimir Putin e l’affermazione di un diverso regime a Mosca, come invece vorrebbe Zelensky. Il presidente ucraino, con l’appoggio della Gran Bretegna e dei Paesi dell’Europa dell’Est, punta alla sconfitta totale della Russia sul campo. Ma non sarebbe una soluzione molto raccomandabile. Al di là del rischio di escalation atomica, ci sarebbe il non lieve effetto politico di accentuare la dipendenza di Mosca da Pechino, cosa che dispiacerebbe non poco a Washington.

Ecco dunque che arriva, tempestivo, l’annuncio del comandante in capo delle forze russe in Ucraina, Sergej Surovikin del ritiro dal capoluogo della provincia di Kherson e del ripiegamento di 40mila soldati sulla riva Est del Dnipro. «Capiamo – ha detto – che non è una decisione semplice, ma preserverà la vita dei nostri uomini».

È una mossa che probabilmente Mosca aveva in serbo da un po’ di tempo. Ma proprio ora, che hanno visto Biden uscire indenne dalle elezioni di Mid Term, lo hanno fatto sapere al mondo.

Intendiamoci, non è automatico che si vada effettivamente verso un  cessate il fuoco. Questa ritirata potrebbe anche significare che i russi vogliono riprendere fiato al fine di scatenare una nuova offensiva. La cautela d’obbligo. Ma rimane il fatto che, in questi ultimi tempi, sia avverta un po’ ovunque l’azione di un nuovo, temibile stratega militare: il generale Stanchezza.

Se gli americani non vogliono più stress in casa, allo stesso modo non sopportano più lo stress d’importazione che arriva dai confini orientali dell’Europa. Se ne riparlerà probabilmente all’imminente G20 in programma in Indonesia.

BUON LAVORO, MINISTRO

Con soddisfazione e con orgoglio salutiamo la nomina del nostro Presidente Adolfo Urso a ministro per le Imprese e il Made in Italy. Il superamento delle gravi emergenze in atto e, soprattutto, il rilancio del nostro Sistema Paese passano per le iniziative e le scelte che saranno compiute dal Governo del Presidente Giorgia Meloni e dal Dicastero affidato al senatore Urso. Buon lavoro Signor Ministro! In bocca al lupo, Adolfo!

…E lo sguardo dritto nel futuro

Mi pare che la frase sia di Alessandro Baricco: “Puoi sempre farcela, se hai in tasca una storia e qualcuno cui raccontarla”. Vale anche per la politica, come per la letteratura; e per la vita. È fatta di storie, la politica; storie che si incontrano e si confrontano, si sottopongono infine al giudizio popolare. Hanno incarnato e narrato grandi storie, incantando gli americani John F.Kennedy col suo sogno americano; e Bill Clinton che a quel sogno, rieditato trent’anni dopo, aggiungeva il racconto della sua vita di underdog, orfano di padre fin dalla più tenera età. Hanno raccontato le loro storie Barak Obama e lo stesso Donald Trump; storie agli antipodi eppure affascinanti, coinvolgenti, attrattive.

Ecco, una spiegazione del successo di Giorgia Meloni risiede anche nella rivendicazione di una storia: la sua, personale e comunitaria; di una generazione e di una parte politica. Ha il sapore della rivalsa, certo, per le condizioni di partenza tutt’altro che agevoli: una componente politica e culturale a lungo tenuta ai margini, contrastata e delegittimata, chiusa nel recinto, polo escluso eppure sempre e comunque in campo e in gioco. Ora come allora – nei primi anni Novanta – il sostengo e la spinta sono venuti dal voto degli elettori, ché è così che funzionano le democrazie. E come mai prima d’ora proiettata in cima alla scala dei consensi; e, davvero a furor di popolo, collocata alla guida del governo della Nazione.

Superando umane resistenze e competizioni partitiche, tutta la politica, ad ogni latitudine, dovrebbe gioire per l’affermazione di una leadership non solo personale (e femminile, in sovrappiù) ma fortemente caratterizzata, quindi riconosciuta e scelta per sincerità e coerenza, per passione e senso di responsabilità.

Significativamente, nel manifesto programmatico illustrato in Parlamento, il presidente del Consiglio ha rivendicato quella storia, come per prendere rincorsa e slancio e affrontare con forza le sfide del presente, pesanti e insidiose, consapevole che solo una volta assicurate la sopravvivenza delle imprese e la serenità delle famiglie, si potrà scrivere un futuro fatto di ripresa e di riscatto per l’Italia. Prima vivere, poi filosofare. Ci sarà una certa continuità con l’Agenda-Draghi, nella prima fase in cui si dovrà stare ai remi e affrontare i marosi con tutta la forza delle braccia e del cuore. Ma l’Agenda-Meloni – si spera prestissimo – sarà bell’e pronta, a dettare tempi e sostanza della fase due, quella in cui ci sarà necessario mettere in campo idee e classe dirigente in grado di realizzarle.

Proprio la gravità delle emergenze da vincere non consete margini, nemmeno esigui, per giochi politici da parte di chicchessia, la dialettica di coalizione fornire contributi preziosi e proposte concrete. Con l’Europa non ci sarà confronto né scontro, come si fa tra controparti, perché l’Italia è e restarà dentro le istituzioni comunitarie, socio fondatore con pari dignitià e ritrovata autorevolezza. E la ripresa, quando avverrà, farà leva sulle eccellenze italiane, che tutti amano (e invidiano) altrettanti volani per riportare la barca Italia – la più bella di tutte – fuori dalla tempesta, finalmente in acque tranquille.

È un governo del fare, certo. Libero proprio in quanto ancorato a valori forti, immutati e immutabili. Difensore della libertà declinata in ogni modo possibile, tra diritti e doveri, a condizione che non si pretenda di legittimare soprusi o di legiferare capricci.
Nel ritorno alla (e della) politica è ripristinato il rispetto per tutte le opinioni e posizioni. Se le nuove generazioni tornassero a sentire e a scegliere la politica, ad ogni latitudine – come interesse, militanza, passione – sarebbe un grande successo per tutti. Perché, lo sguardo dritto e aperto nel futuro, con le parole di un cantautore impegnato come Pierangelo Bertoli, è l’unico capace di restituirci una speranza.

Per un nuovo New Deal

Il New Deal italiano, la diplomazia del Made in Italy e la gestione dell’ecosistema SIMEST-ICE. Sono queste le sfide più delicate che spettano il ministro Adolfo Urso.

Le priorità e le urgenze del Governo Meloni sono state chiare sin dall’inizio. E direi scontate. Le misure contro il caro energia, il conflitto in Ucraina, il contenimento dell’inflazione. Tutte questioni a breve termine, mentre Fratelli d’Italia e gli alleati della coalizione auspicano, forti del mandato popolare ricevuto, di poter governare per i cinque anni della legislatura.

È un obiettivo ambizioso, stante i canoni di scarsa longevità dei governi italiani. Di conseguenza, le vere sfide saranno altre, ben più difficili da realizzare ma non impossibili, considerando la formidabile capacità di Giorgia Meloni a negoziare, a fare squadra e ad agire con incisività e concretezza. Tutte cose di cui ha dato prova durante la formazione dell’Esecutivo.

La sfida più importante, ovviamente, sarà quella di far ripartire l’Italia; una frase sentita e risentita dai governi precedenti, usata davanti alle telecamere in ogni occasione mentre in concreto si faceva ben altro. Si sono sprecate ingenti e preziose risorse pubbliche nel miope assistenzialismo chiamato reddito di cittadinanza, nella gestione (disastrosa) dei flussi dell’immigrazione clandestina e in quella della pandemia. Per quanto di poco conto, basti ricordare la spesa dei banchi a rotelle.

Comunque, è indubbio che la vera ripartenza di un paese comincia dall’imprenditoria. Da quel tessuto produttivo che genera ricchezza, crea posti di lavoro, mantiene – attraverso l’imposizione fiscale – l’apparato statale, assicurando il benessere della collettività. Un concetto che sembrava poco chiaro sia alla sinistra, ancorata tutt’oggi all’ideologia arcaica della contrapposizione fra imprenditori e lavoratori, che ai pentastellati per i quali la priorità è l’assistenzialismo (che ovviamente sentono proprio, considerata la provenienza del loro elettorato), incuranti che è possibile finanziarlo senza mandare in default il paese garantendo le risorse necessarie al sistema produttivo.

La storia è l’insegnante d’eccellenza, ma bisogna conoscerla, saperla interpretare per adeguarla alle esigenze del momento. Negli anni Trenta il New Deal di Roosevelt, con i massicci investimenti pubblici nell’economia abbinati ad un incentivazione senza precedenti dell’industria, ha fatto uscire in pochi anni gli Stati Uniti dalla peggiore crisi della loro storia. Nel dopoguerra, gli stati europei hanno puntato tutto sulla industrializzazione (e non sull’assistenzialismo) per creare quel benessere che ha caratterizzato il periodo dagli anni ‘60 agli anni ‘90. Persino la Cina, pur conservando il modello ideologico e politico comunista, ha rinunciato all’annesso disastroso modello basato sull’economia pianificata convertendosi ad un approccio apertamente capitalista.

All’Italia di oggi serve un New Deal 2.0. Un incisivo intervento a favore delle imprese, tarato ad hoc sulle esigenze del Made in Italy, che non solo farà uscire il paese dalla recessione, ma gli permetterà di riguadagnare la posizione in vetta ai paesi industrializzati persa negli ultimi decenni. Inoltre, il paese può contare su uno strumento eccezionale rappresentato dal PNRR, quelle ingenti risorse messe a disposizione dall’UE che sicuramente faciliteranno il compito della ripresa.

Aver rinominato il Ministero dello Sviluppo economico “Delle Imprese e del Made in Italy” è gia un riconoscimento, pur linguistico, dell’imparagonabile valore di quello che si può definire come il più grande Brand naturale esistente al mondo. I tedeschi hanno l’automotive, gli svizzeri gli orologi, ma nessuna nazione può vantare l’apprezzamento, la considerazione e l’amore che viene manifestato, in ogni parte del pianeta, verso il Made in Italy. Un “marchio di fabbrica” frutto di quell’incredibile mix di storia millenaria, cultura, arte, gusto ed ingegno che a partire dal dopoguerra ha reso il Belpaese un’eccellenza industriale. Una sigla distintiva che spicca praticamente in ogni singolo settore produttivo, dalla moda alle tecnologie, dalla ceramica al farmaceutico, dall’agroalimentare alla chimica e all’aerospaziale. È altresì un riconoscimento per quegli imprenditori, appassionati ed illuminati, come Dino Ferrari, Barilla, Ferrero e Armani, giusto per citarne alcuni, che hanno dato vita, attraverso il proprio lavoro, alla più eccezionale operazione di marketing della storia, appunto il Made in Italy: è un brand che da solo basterebbe a porre l’Italia in vetta alla classifica dei paesi industrializzati in termini anche di Pil e benessere, se non fosse per uno Stato burocratico ed ingolfato che si auspica che il Governo Meloni riuscirà a riformare, rendere efficiente ed umanizzare per imprese e cittadini. Il neo-ministro per le Imprese ed il Made in Italy ha definito gli imprenditori italiani degli eroi: eroi nel resistere alla voracità dello Stato nel tassare le imprese, soffocando di fatto ogni iniziativa privata ed aumentando nel contempo l’evasione. Basti ricordare che si tratta di un sistema fiscale talmente perverso che persino obbliga chi avvia un impresa a pagare alla fine del primo anno quasi il 90% di tasse considerando anche l’anticipo per l’anno successivo, sulla base di quel che si chiama presunzione di fatturato, azzerando di fatto i guadagni. Così, migliaia di imprenditori hanno trasferito sedi o attività in altre nazioni pur di sopravvivere.

Eroi nel resistere alla burocrazia intesa come quel fiume di leggi, norme, regolamenti attuativi, precisazioni ed interpretazioni, spesso senza alcun filo logico o senso di continuità, che toccano ogni settore produttivo. Con costi mostruosi in termini di perdita di tempo, denaro, opportunità.

Eroi nel resistere agli attacchi economici e finanziari dall’estero, persino dall’UE, per via di una rappresentanza debole ed indecisa dell’interesse dell’Italia produttiva, presso le istituzioni europee.
Eroi nel resistere, infine, persino ad un’ideologia che ha contrapposto da sempre – per credo o per convenienza politica – il mondo dell’imprenditoria ai lavoratori, facendo finta di non capire che senza i primi non esisterebbero i secondi e non ci sarebbe nemmeno l’assistenzialismo tanto caro agli oppositori del centrodestra. Perché nel mondo di oggi, ben diverso dai tempi in cui è rimasta la sinistra, le imprese non creano solo posti di lavoro ma anche benessere e futuro per tutti.

Secondo la visione ottimistica che ogni tanto qualcuno tira fuori nei scherzosi dibattiti tra amici, è proprio per via di quello Stato burocratico, inefficiente ed insensibile, che in Italia c’è così tanta creatività.
Il compito che spetta al neo-Ministro delle Imprese e del Made in Italy sarà impegnativo. Per quanto possa essere chiaro che la ripresa non può che partire da un forte stimolo alle imprese, il New Deal italiano, è altrettanto chiaro che la spinta al sistema produttivo dipende dalla risoluzione di una serie di problematiche chiave attraverso una sinergia pressoché perfetta tra una molteplicità di ministeri sotto il coordinamento programmatico di Urso, che dovrebbe avere altresì la direzione programmatica e di indirizzo di SIMEST e delle altre “controllate”. Si dovrà procedere in modo veloce alla sburocratizzazione (di competenza del dicastero della Pubblica Amministrazione), alla riduzione del pressing fiscale (Economia e Finanze), alla realizzazione degli investimenti previsti nel PNRR (Affari europei). Su tali punti sicuramente il neo-ministro, nell’elaborare un modello interconnesso tra i vari ministeri per la riforma del Sistema-paese riguardo al mondo produttivo, potrà contare sulla Premier Meloni che già ha dimostrato non solo di essere capace a creare squadra ma, con alcune mosse minori (tra cui ingaggiare Cingolani come consulente) ha delineato la precisa volontà di lavorare per risollevare l’Italia scardinando la logica delle appartenenze nel nome delle competenze. Riguardo il Made in Italy, invece, servirà riportare sotto il diretto controllo del Ministero per le Imprese (ed, appunto, il Made in Italy) la SIMEST e l’ICE (quest’ultimo passato sotto il controllo della Farnesina), storici pilastri nella promozione del sistema produttivo italiano nel Mondo, realizzando anche una sinergia effettiva e funzionale tra queste da intenderle come unica entità con il medesimo obbiettivo: il New Deal italiano. Affinché i settori tradizionali dell’imprenditoria italiana siano semplicemente alleggeriti, come abbiamo già detto, da burocrazia e pressione fiscale, ci sono tre settori che rappresenteranno una sfida del tutto nuova e che aiuteranno il Paese ad accelerare significativamente i tempi di ripresa e crescita.

Il primo è indubbiamente la digitalizzazione della società, che dovrà toccare sia la cosiddetta alfabetizzazione digitale (che è tra le priorità dell’Agenda UE) che l’introduzione massiccia delle nuove tecnologie in ogni settore, pubblico o privato che sia. I costi della Pubblica Amministrazione verranno drasticamente diminuiti ottimizzando nel contempo le relazioni tra Stato ed imprese. Tutto ciò si tradurrebbe in miliardi di euro di risparmio anche solo in termini di produttività ed efficienza. Pensiamo alla certezza nella trasmissione dei dati, all’eliminazione della carta dagli uffici, alla rapidità delle comunicazioni,alla semplificazione dei processi e degli iter burocratici.

Il secondo è la promozione del Made in Italy all’Estero che rappresenta una boccata d’ossigeno per le imprese italiane.
Il terzo, premesso che il ministro Urso optasse per il New Deal italiano e la Meloni convincesse i mercati internazionali che ci sono tutti i presupposti per un esecutivo coeso ma soprattutto longevo, riguarda la messa in atto di politiche concrete per l’attrazione di investimenti esteri, delocalizzazione di tecnologie da paesi terzi verso l’Italia e la costruzione di un clima favorevole riguardo ricerca e sviluppo. Fino ad oggi ciò accadeva a scapito dell’Italia. Ora è il momento di invertire la tendenza.
In conclusione, possiamo dire che sarà il Made in Italy che salverà l’Italia, a condizione che ci sia uno Stato che rispetti, ami, aiuti e premi il proprio tessuto imprenditoriale. Uno Stato che possa finalmente essere percepito come amico da chi lavora e produce. Utopia? Spero davvero di no.