Redazione

RIDARE FIDUCIA ALLE FAMIGLIE

Ma siamo veramente stretti in questo modo? Otto miliardi di persone al 15 novembre, è il conto della Nazioni Unite. Un’esplosione demografica nei paesi più poveri. Più basso è il reddito pro capite, più alto è il tasso di natalità. Sotto osservazione delle Nazioni Unite anche l’Italia per ragioni opposte, poca gente, quattrocentomila cicogne ogni anno a fronte di settecentomila che ci danno l’addio.  Una situazione grave e preoccupante che avrà un impatto negativo nel prossimo futuro sia in campo economico che sociale.

Ne parliamo con Francesco Alberoni, sociologo e scrittore, studioso dei movimenti collettivi, 93 anni al 31 dicembre prossimo, che accetta di conversare con noi nonostante una fastidiosa bronchite che in questi giorni lo assilla.

“Le cause della crisi delle nascite sono molteplici – spiega Alberoni – che vanno dall’incertezza politica ed economica, alla precarietà del lavoro, al senso di insicurezza generale conseguenza anche di pandemia e di guerra. Pochi figli non solo perché  si preferisce una vita più spensierata ma soprattutto perché si è condizionati o dal lavoro spesso precario e soprattutto dalla mancanza di assistenza alle famiglie.”

Difficile trovare la ricetta per arginare la sciagura delle culle vuote…

“Aiuti economici e supporti alle mamme, ma non basta. Bisogna dare alle giovani coppie la sicurezza di asili nido, scuole materne ed elementari in grado di prendersi cura dei bambini in tutto l’arco della giornata lavorativa. Intervenire anche sulle scuole medie e superiori che sono aperte solo fino all’una o alle due del pomeriggio, e solo poche assicurano il doposcuola. Le vecchie strutture scolastiche furono progettate limitatamente per l’insegnamento in aula o al massimo con una palestra.  Oggi invece la scuola dovrebbe avere  strutture per accogliere i ragazzi anche nelle ore del  pomeriggio fino a sera con attività didattiche, culturali, sportive. La famiglia da sola non ce la fa più e la vecchia scuola perde credito ogni giorno. Occorre uno sforzo immenso per sorreggere i genitori, ridare loro fiducia ricostruendo il prestigio dell’educazione  e per dare nuovo slancio allo viluppo culturale che è anche economico. Un tempo le scuole si limitavano a fornire istruzione nelle aule secondo le esigenze dei tempi quando gli uomini andavano a lavorare e la maggior parte delle donne  stavano a casa e potevano occuparsi a tempo pieno dei figli. Oggi le esigenze sono profondamente cambiate. La famiglia è fragile ed esausta, è immenso il bisogno di istruzione ed educazione. Compito della politica è anche ridare fiducia ai cittadini, alle coppie.”

Cosa si può fare nell’immediato ?

“Favorire nelle aziende e negli uffici, sia pubblici che privati, l’istituzione di asili nido e scuole materne. Sarebbe un primo segnale di un’inversione di rotta.”

“L’immigrazione può essere un rimedio alla denatalità?

“Certamente. Ma solo un’immigrazione qualificata che possa assicurare accoglienza integrazione e istruzione. Non certo il tipo di immigrazione incontrollata. In conclusione: genitori senza tempo, i loro figli senza scuole, l’immigrazione come problema mentre regolata potrebbe essere una risorsa. C’è bisogno di una rinascita in tutti i campi, dallo studio al lavoro, alla famiglia.”

EUROPA, DIRITTIFICIO CHE UCCIDE IL FUTURO

Pubblichiamo alcune pagine del libro “Lo Stivale e il Cupolone” (Ed.Il Timone) scritto dal nostro direttore Mauro Mazza e uscito nei primi giorni di dicembre. Il saggio affronta il divorzio tra Italia e Chiesa cattolica, nel quadro di un’Europa che si è illusa di poter fare a meno di Dio, di ogni religione e di ogni morale. In una sorta di dirittificio senza regole, la crisi demografica rischia di rendere irreversibile la crisi in corso. Ringraziamo “Il Timone”.

È un’Europa senz’anima, simile a quella paventata da Gilbert K. Chesterton: “Atea e superstiziosa, ha smesso di credere in Dio e ormai crede a tutto”. La tecnica esercita un imperialismo stringente, i signori di Bruxelles hanno un potere massificante e miope. L’ideologia gender, nuova bandiera ideologica, oltre al superamento della naturale distinzione /unione maschio-femmina, accelera una crisi demografica così profonda da condannare l’Europa all’estinzione entro i prossimi decenni. Le popolazioni del vecchio continente sono ormai numericamente minoritarie, destinate ad essere sempre meno rilevanti in rapporto al dato demografico della Cina e dell’India; nel confronto con vaste aree dell’Africa dove l’aumento è costante, spesso travolgente. La sproporzione si va facendo drammatica perché i popoli in condizioni di povertà assoluta saranno presto i tre quarti del pianeta mentre l’Europa rappresenterà solo una piccola parte del rimanente quarto. Tale processo si va compiendo nell’assoluta, miope incoscienza delle classi dirigenti, che continuano a considerare il decremento demografico europeo – con l’aumento della massa-lavoro fornita dai poveri del pianeta – un vantaggio enorme, che esalterà la soddisfazione ulteriore dei desideri individuali e moltiplicherà il potere di élites sempre più dominanti, padrone assolute. L’Europa sconta le colpe della sua classe dirigente, ridotta, esclusa o subalterna rispetto alle centrali che si contendono la palma del comando. Sempre più spesso, anche nei manuali scolastici, si propongono mappe geografiche incentrate sull’emisfero asiatico e australe, con Stati Uniti e Oceania ad est, Russia e Giappone ad ovest. In quelle carte si fatica a ritrovare l’Europa, relegata quasi in un angolo, ridotta ad appendice della sterminata Russia e insidiata dal gigantesco continente africano.

Negli ultimi decenni, mentre il piano s’inclinava maggiormente e la velocità aumentava, la Chiesa si è ritrovata senza difese, non ha mostrato capacità di reazione. All’inizio, aveva ribadito il suo incoraggiamento per l’Europa, non causalmente fondata da tre statisti cattolici come De Gasperi, Adenauer e Schuman e potenzialmente in grado di recuperare – dopo le immani tragedie del Novecento – una centralità equlibratrice e una missione positiva sulla scacchiera mondiale. Pio XII vedeva con favore un “movimento irresistibile che spinge ad unirsi”. A questa Europa “dall’Atlantico agli Urali” ha guardato Giovanni Paolo II, in attesa che potesse tornare a respirare coi i suoi “due polmoni” nell’abbraccio tra Roma e Mosca. Benedetto XVI non ha mai smesso di richiamare i princìpi inalienabili dell’uomo: diritto di nascere e di vivere dignitosamente, difesa della famiglia composta da un uomo e una donna, tutela della libertà educativa. E lo stesso Bergoglio, pur considerando l’Europa non più centrale, ma a suo modo periferia con cui condividere tratti di strada e impegni comuni, ha supplicato: “Vecchia e sterile Europa, ritrova la tua anima!”.

Ma se a fare la storia, e a scriverla, è l’autocoscienza di un popolo, cioè il modo in cui si concepisce, l’Europa pare aver dimenticato se stessa. Dapprima ha distrutto le identità nazionali, poi ha tentato di compiere l’atto più grande e tragico: la sua stessa morte. Quando i desideri si traducono in diritti e impongono nuove leggi, si realizza una società profondamente illiberale e dispotica. Il legislatore considera suo dovere prendere atto dell’asserita evoluzione di costumi e mentalità. Le antenne politiche e parlamentari captano le domande sociali poste da gruppi di pressione e centri di potere – sia pure minoritari – che pretendono di rappresentare la parte evoluta della società e di incarnarne, precedendola, la necessaria evoluzione. Grazie al controllo dei media e al supporto di autori tv, sceneggiatori di serie, cantanti e ballerine, opinionisti e saltimbanchi, si crea un potente cortocircuito che rapidamente conquista cittadinanza, tutela di legge e, quando occorre, anche finanziamenti. Ogni cosa sembra seguire un copione immodificabile, destinato a procedere fino all’ultimo atto. Eppure, ci sono elementi che inducono a non disperare. Potrebbe venire il tempo in cui saprà conquistare attenzione e ascolto chi mostrerà di possedere forza e carisma, coraggio e determinazione, per riaffermare verità dimenticate. Una su tutte: il diritto individuale è per sua natura un atto pubblico, che incontra limiti invalicabili nella ragione, nella giustizia, nella convivenza con gli altri. La resistenza è doverosa, la reazione è necessaria, sacrosanto il rifiuto di piegarsi ai nuovi dogmi. San Paolo ammoniva i Galati: “Non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù”. Il giogo del nostro tempo va imponendo il ribaltamento di ogni principio su cui si è costruita la civiltà occidentale: natura/mondo, uomo/ Dio, spazio/infinito, tempo/eterno, libertà/verità.

QUELLA NOTTE MAGICA

“Dammi la mano e torna vicino
Può nascere un fiore nel nostro giardino
Che neanche l’inverno potrà mai gelare
Può nascere un fiore da questo mio amore…”
Parole d’amore nella notte dei sogni che credevi irrealizzabili. Versi, sorrisi e lacrime che si mescolarono dentro fino a scuotere il profondo dell’anima. Passa un mese, un altro ancora e ti rimane nel ricordo un’emozione che non si spegne, la notte più bella, quella tra il 25 e il 26 settembre, una vita fa che riaccese la vita che va.
Dalle 23 nella sala del Parco dei Principi prima gli exit poi le proiezioni andavano delineando il risultato. Sempre più concreto, sempre più schiacciante. Lieve era il sottofondo musicale, parole e note de “Il cielo è sempre più blu” mentre la notte si tingeva tricolore. Alle due e mezzo arriva lei. Sale sul palco. “Siamo pronti.” E la sala esplode negli applausi. I giovani, sopratutto le ragazze, sono alle stelle mentre intonano come un inno di battaglia “A mano a mano” di Rino Gaetano.

Ci si saluta, ci si incontra ci si abbraccia. Sabrina Fantauzzi si avvicina: “Papà sarebbe stato contento, papà stasera e qui”. E sento anch’io che Gino stanotte è qui, e sono qui tutti quelli che nella vita ho incontrato, da Carlo Falvella martire a diciott’anni a Mimì Napolitano mio grande amico di Crotone, a Bruno Murzilli che per anni aveva aiutato ad affrontare i problemi di quartiere. E tanti, tanti ancora senti palpitare all’unisono col tuo cuore. La gioia non ha pudore e sgorga nelle lacrime che gli occhiali non riescono a celare. Mentre al centro della sala non si ferma il coro delle ragazze: “A mano a mano ti accorgi che il vento / Ti soffia sul viso e ti ruba un sorriso”. È l’estetica della politica a destra nel 2022. Passione, gioia e sentimento.

Appartiene solo al ricordo indelebile, stanotte, quell’Inno a Roma che cantavamo da ragazzi alle manifestazioni. O sprofonda nella rimozione della nostalgia senza domani il disco preferito di quel candidato mai eletto :“Tiempe belle ‘e ‘na vota, tiempe belle addo state…”
Oggi non Murolo, c’è Rino Gaetano nella colonna sonora di questa destra che è già domani. Ma la colonna sonora negli anni dei sogni quando sembravano impossibili resta nel cuore di ognuno. Da Leo Valeriano a Lucio Battisti, agli Amici del Vento, alla Compagnia dell’Anello . Da “Avanti ragazzi di Buda, avanti ragazzi di Pest”, al mito nordico della Terra di Thule: “In una pianura dal sole baciata la gente del Nord è tutta schierata/ Biondi guerrieri con elmi d’argento, il Cerchio e la Croce garriscono al vento”.
Quando la politica è vissuta anche come poetica, avverti lontani eppure vicini quegli anni Sessanta e Settanta quando avevamo una canzone da gettare al vento, una bandiera da innalzare al sole. Assieme al sogno della rivoluzione, rosso o nera che importa? A vent’anni la rivoluzione ha i colori dell’arcobaleno. Furono il Vietnam o i berretti verdi le parole simbolo di una stagione vissuta come avventura. Una stagione talvolta sepolta dai ricordi rimossi o dai sogni infranti dai compromessi. Noi che volevamo tutto e subito, sulla pelle imparammo quanto sia duro ottenere poco; e a che prezzo. Vedemmo in Evola o in Marcuse l’immaginario Eden. Cantammo la rivolta contro il mondo moderno e la società dei consumi. Fu la grande avventura dei nostri vent’anni, null’altro o poco altro. Poi il confronto con la realtà, i bisogni, il lavoro, le abitudini. La scoperta obbligata dei valori del vivere giorno per giorno in una società che non è un sogno. Il conflitto tra l’essere e il voler essere risolto spesso nelle contraddizioni o nell’adattamento. Vivemmo un giorno da leoni ma dovemmo poi piegarci ai cent’anni da pecora. Immaginammo invano di avere la sera qualcosa da raccontare come faceva il nonno quando narrava della sua guerra. Valle Giulia come El Alamein.

Ma al Parco dei Principi quegli anni appaiono lontani. Forse ci sentiamo vecchi ma con un’avventura da raccontare che solo stanotte sta diventando davvero storia. C’eravamo un tempo trovati con gli occhi rivolti al passato, sia stato esso Salò o la Resistenza. E fu anche per questo retaggio che imparammo ad odiarci a vent’anni. Ma questa notte della vittoria no, nasce sotto un cielo di pace. Ed è diversa anche dalla notte della destra del 28 aprile 2009 quando Alemanno salì al Campidoglio. Fu festa, fatta anche di braccia tese e di canti del passato.

Nella notte al Parco dei Principi invece c’è solo l’Italia del domani. Mentre spunta l’alba e la musica non svanisce. Canta le difficoltà e le storture della vita, le banalità quotidiane: “Chi sogna i milioni, chi gioca d’azzardo, chi fa il contadino, chi spazza i cortili/ Chi suda, chi lotta, chi mangia una volta/ Chi gli manca casa, chi vive da solo, chi prende assai poco, chi gioca col fuoco..” La vita non è tutta rosa, però “Il cielo è sempre più blu./ Il cielo è sempre più blu”.
A quasi tre mesi da quella notte magica, ci sono per l’Italia problemi di una situazione non solo economica grave. Ma il cielo è ancora più blu. E mi torna alla memoria Tenco “ Vedrai, vedrai, vedrai che cambierà/ non so dirti come e quando, ma vedrai che cambierà”. Ecco, il cambiamento è cominciato.

Perché occorre un’Authority per gli ivestimenti esteri

Per le società estere investire in Italia è storicamente una corsa ad ostacoli tra restrizioni, burocrazia, tasse, caos normativo ed una incompetenza generalizzata delle pubbliche amministrazioni. Qualcuno dirà che, dopotutto, almeno non si svende il paese preservando così l’italianità dell’economia. Nulla di più sbagliato! Attirare investimenti e know-how arricchisce il sistema produttivo del paese e certo non lo indebolisce.

Il Belpaese ha sempre avuto la presunzione di poter fare da sé. Forse colpa di quel narcisismo e vanità intrinsechi in una Nazione che ha dalla sua parte delle eccellenze riconosciute in tutto il mondo. Arte, storia, cultura ed, ovviamente il Made in Italy.

Questa consapevolezza in qualche modo ha penalizzato l’Italia, soprattutto per quanto riguarda la scarsa apertura verso chi viene dall’estero. Sarebbe opportuno prendere spunto dalle storiche rivali come Francia, Inghilterra e Germania, oltre ad altri player internazionali di caratura minore, che hanno puntato molto sull’attrazione di investimenti esteri incassando notevoli benefici e rafforzando le proprie economie, stando al contempo vigili ed attenti a non lasciare mai che il potere decisionale passasse in mani straniere.

Negli anni In Italia si è fatto pressoché il contrario. Abbiamo assistito ad abili operazioni di mercato quasi sempre svantaggiose per le imprese italiane, dove società estere (con “spalle coperte” dagli stessi paesi di provenienza) sono riuscite a prendere il controllo su molti asset strategici. Si è trattato di veri campioni nazionali passati ormai in mani straniere, ribaltando il concetto di attrattiva in permissivismo verso la depredazione del Made in Italy. L’Italia quindi si è rivelata debole ed inefficiente in quella competizione internazionale volta all’attrazione degli investimenti esteri cosiddetti buoni, diretti a portare benefici e ricchezza, dove si è vista superare persino da competitor molto più deboli ma (occorre ammetterlo) molto più organizzati ed agguerriti. In tutti i settori. Basti pensare all’Olanda, all’Inghilterra pre-Brexit, a Malta, a Cipro e ora persino agli Emirati Arabi che si sono tutti abilmente approfittati dall’insostenibilità della pressione fiscale italiana facendo si che molte aziende, soprattutto finanziarie ed erogatrici di servizi, trasferissero sedi e filiali operative in tali paesi allettati da condizioni fiscali favorevoli e zero burocrazia.
Riguardo la delocalizzazione industriale, invece, l’elenco comprenderebbe la quasi totalità dei paesi dell’Est Europa, dove le imprese italiane usufruiscono di manodopera più vantaggiosa a parità di qualità produttiva, di una ingerenza pressoché minima dei sindacati ed, ormai inutile dirlo, di un regime fiscale agevolato e attento alle esigente di chi investe. In molte di queste nazioni l’investitore estero viene affiancato persino da un tutor statale che lo aiuta a sbrigare gli adempimenti burocratici ed amministrativi.
Infine, pur brevemente, occorre menzionale le università, una vera arma di attrazione, questa volta non di investimenti bensì di menti eccelse provenienti da altri paesi, che poi si trasformano in ricchezza nazionale. L’Italia oggi si può difendere a malapena con la Bocconi e con il Politecnico di Milano. Sono tutte chance mancate. Difficilmente recuperabili ma non perse, qualora il Governo sia deciso a cambiare il modello attuale.  Se pensiamo a quante agenzie si occupano di attrazione degli investimenti esteri e della promozione del Made in Italy, da Invitalia a SIMEST, ICE, il Comitato Attrazione Investimenti
Esteri (CAIE) presso il MISE, colpisce la scarsezza dei risultati raggiunti.
Certo, anche tali soggetti non possono fare miracoli se prima non si procede alla sburocratizzazione, alla digitalizzazione del paese, all’alleggerimento della pressione fiscale e all’adeguamento del sistema anche guardando (e perché no? Prendendo a modello) ciò che fanno gli altri.
L’attuale governo dovrebbe seriamente prendere in considerazione una politica di concertazione della gestione degli investimenti esteri e della promozione del Made in Italy. Ciò può avvenire attraverso la creazione di una vera e propria Authority che si occupi non solo di coordinare l’azione delle predette agenzie, ma di fare anche da tramite tra le imprese estere e tutti gli interlocutori italiani, pubblici o privati che siano, onde eliminare quell’impasse burocratico che schiaccia ogni entusiasmo ad investire in Italia.
Questo lavoro di coordinamento è fondamentale considerato che ogni impresa estera che vuole operare in Italia si imbatte in problematiche grottesche.
Un breve esempio. Una società estera (UE) che vuole operare in Italia come prima cosa costituisce una newco davanti al Notaio che provvede a registrarla presso la Camera di Commercio e segnalare l’inizio attività all’Agenzia delle Entrate. Da questo momento inizia il calvario. La società, desiderosa di cominciare a lavorare, a creare posti di lavoro, a produrre o fornire servizi, va ad aprire un conto corrente dove versare il capitale sociale. Però non si può. Se la neocostituita (di diritto italiano, regolarmente iscritta) ha più del 20% di capitale estero (ed è ovvio che sia così, si tratta di investitore estero) nessun istituto bancario italiano è disposto ad aprirle un conto. Senza spiegazioni, senza motivazioni, salvo evidenziare che trattasi della policy bancaria italiana. Nel frattempo arriva la burocrazia. La neocostituita società (il cui investitore estero ancora non ha ancora versato il capitale sociale visto che non gli aprono un conto) si scontra immediatamente con una serie di altre problematiche, tra cui l’obbligo del pagamento della bollatura dei libri sociali che nel 2022 si fa ancora per mezzo di bollettino postale cartaceo compilable a mano (Digitalizzazione? Manco a parlarne). Senza contare che i siti web istituzionali (Agenzie governative, P.A.) che contengono le linee guida, i regolamenti, le normative, elementi preziosissimi per il corretto operato amministrativo di una società, sono esclusivamente in italiano relegando le poche sezioni in inglese a informazioni parziali ed incomplete. A questo punto il malcapitato investitore estero alza comprensibilmente i tacchi e se ne va in Olanda. O a Dubai. Ovunque ma non qui.

Infine, si è sempre saputo che il grado di attrattività degli investimenti esteri si basa sulla stabilità politica di un paese. Quindi, è ovvio che fino ad oggi non abbiamo avuto molte chance. Basti come esempio ciò che è avvenuto anni fa con il Fondo del Qatar. All’invito dell’allora primo ministro italiano ad investire nel Belpaese, il Qatar ha declinato l’invito rispondendo che l’Italia non forniva garanzie di stabilità politica considerato il noto avvicendarsi di governi di breve durata. Neanche a farlo apposta dopo pochi mesi il noto epilogo del governo Letta e delle rassicurazioni di Renzi a stare sereno. L’attuale Esecutivo ha invece tutte le carte per portare a termine la legislatura e questo dovrebbe rassicurare gli investitori stranieri. Quindi è il momento di agire.  C’è un sistema paese da riformare, perché solo un paese moderno, digitalizzato, con un apparato burocratico snello e reattivo può creare le condizioni giuste per attrarre investimenti ed eccellenze verso l’Italia. Serve quindi un’Authority che coordini e affianchi tutte le agenzie attuali preposte a tale scopo, che vigili sull’operato di banche e P.A. riguardo le politiche adottate verso le società estere e crei delle regole snelle e chiare per accogliere le imprese straniere. Oltre all’esigenza di un portale unico dedicato, in inglese, con una forte connotazione anche pubblicitaria (utile anche per la promozione inversa del Made in Italy) che costituirebbe senz’altro uno strumento imprescindibile per l’attrazione degli investimenti e per la conseguente prosperità del paese.

*Kiril K. Maritchkov, Comitato scientifico Fondazione Farefuturo

Guerra in Ucraina Cosa (e se) cambia

A leggere i commenti di molti giornali itaiani, sembrerebbe che le elezioni di Mid Term abbiano premiato Joe Biden, penalizzato Donald Trump e incoronato il giovane Ron DeSantis come astro nascente del partito repubblicano, se non addirittura come “uomo nuovo” della politica americana. In realtà, è presto per valutare l’evoluzione futura del confronto tra repubblicani e democratici.

Più immediati sembrano invece gli effetti sulla politica estera, in particolare per quello che riguarda la guerra in Ucraina. Non è certo privo di significato il fatto che i vertici militari russi abbiano atteso l’esito delle elezioni americane per annunciare il ritiro delle forze schierate nel capoluogo della provincia di Kherson, centro nevralgico del conflitto e porta d’accesso al Mar Nero e alla Crimea. Molti hanno interpretato questa mossa come un segnale di disponibilità da parte russa ad avviare trattative per giungere a un cessate il fuoco. E sarebbe davvero una svolta nel conflitto che si protrae del 24 febbraio scorso ai confini con l’Europa.

Ma andiamo per ordine e soffermiamoci prima sulla politica interna americana. Non c’è dubbio che queste elezioni abbiano rafforzato la posizione di Biden, nel senso che l’avanzata dei repubblicani è stata più contenuta del previsto. La temuta “onda rossa” (è il colore del Grand Old Party) non c’è stata e, al momento in cui scriviamo, non sappiamo ancora di quanto potrà essere la maggioranza repubblicana alla Camera dei Rappresentanti, mentre al Senato, se analoga maggioranza ci sarà, potrà contare su uno o al massimo due parlamentari in più.

Il motivo di questo mancato sfondamento è dovuto probabilmente al bisogno di stabilità di una parte crescente dell’elettorato americano, che da quasi due anni è sottoposto alle ondate di stress provocate da Donald Trump. La sconfitta dei candidati più direttamente sponsorizzati dall’ex presidente significa che in questo momento di crisi internazionali e di tensioni interne l’opinione pubblica statunitense tende alla neutralizzazione dei conflitti sociali e politici.

Ciò non significa però che sia in atto la rinascita del partito democratico, dove stentano a imporsi figure forti e carismatiche. E ciò a differenza di quanto accade ai repubblicani, all’interno dei quali si sta invece facendo strada il giovane DeSantis, che è stato trionfalmente rieletto governatore della Florida e si appresta alla rincorsa per le primarie del 2024.

Il fatto è che il partito repubblicano riesce ad approfittare della forte polarizzazione della società americana, dove si assiste allo scontro sempre più forte tra la tendenza al multiculturalismo e all’antirazzismo, da una parte, e le spinte conservatrici e identitarie dall’altra. Gli esponenti del Grand Old Party riescono a intercettare l’avversione di larghi strati dell’opinione pubblica per gli eccessi della sinistra, a partire  dall’avanzata della cultura “woke” e del radicalismo in favore delle minoranze etniche. Lo stesso DeSantis presenta un profilo ultraconservatore e si appresta a valorizzarlo  nella competizione interna  al partito repubblicano che partirà tra poco meno di un anno e mezzo.

Ma in questo momento, come si diceva prima, c’è voglia di stabilità. E il primo a beneficiarne è il presidente in carica.

Il primo effetto di questa stabilizzazione è rintracciabile sul fronte della politica estera. E veniamo alla svolta possibile nella guerra in Ucraina. L’amministrazione Usa può ora spingere il presidente Volodymyr Zelensky ad accettare un onorevole compromesso, senza che una tale pressione appaia, agli occhi dell’opinione pubblica Usa, un gesto di cedimento dettato dalla sconfitta elettorale, circostanza che sarebbe stata ovviamente insostenibile per l’amministrazione Biden.

La verità è che sono tutti stanchi del conflitto in  svolgimento dal 24 febbraio scorso alle porte dell’Europa.

Sono stanchi gli americani, che in un anno di crisi economica globale e di inflazione galoppante, hanno dovuto spendere decine di miliardi di dollari in armamenti diretti all’Ucraina. Sono stanchi i russi, che hanno subito migliaia di morti al fronte, con tutte le inevitabili, pesanti ripercussioni sociali e politiche. Sono stanchi i cinesi, che si sono fatti due conti e hanno capito quanto possa essere pregiudizievole per i loro commerci una perdurante situazione di conflitto globale. Sono stanchi gli europei, che subiscono le conseguenze sociali ed economiche della penuria energetica. L’unico che non appare stanco è Zelensky, il quale non vuole rinunciare al ruolo di “eroe mondiale”.

Ora però si sta forse avvicinando la fine dei giochi. La diplomazia segreta (ma che segreta non è più da qualche tempo) tra Usa e Russia ha individuato in una vittoria  ucraina a Kherson l’evento propiziatorio di un cessate il fuoco capace di salvare la faccia a tutti. Salvarla agli ucraini, che potrebbero negoziare partendo da posizioni di forza. Salvarla, a loro volta, ai russi che potrebbero mantenere la Crimea e qualche porzione di Donbass.

I più miti consigli chiesti a Zelensky corrispondono ai più miti consigli imposti a Biden dalla situazione politica mondiale. L’amministrazione Usa sembra ormai aver capito che la soluzione del conflitto non può essere la destituzione di Vladimir Putin e l’affermazione di un diverso regime a Mosca, come invece vorrebbe Zelensky. Il presidente ucraino, con l’appoggio della Gran Bretegna e dei Paesi dell’Europa dell’Est, punta alla sconfitta totale della Russia sul campo. Ma non sarebbe una soluzione molto raccomandabile. Al di là del rischio di escalation atomica, ci sarebbe il non lieve effetto politico di accentuare la dipendenza di Mosca da Pechino, cosa che dispiacerebbe non poco a Washington.

Ecco dunque che arriva, tempestivo, l’annuncio del comandante in capo delle forze russe in Ucraina, Sergej Surovikin del ritiro dal capoluogo della provincia di Kherson e del ripiegamento di 40mila soldati sulla riva Est del Dnipro. «Capiamo – ha detto – che non è una decisione semplice, ma preserverà la vita dei nostri uomini».

È una mossa che probabilmente Mosca aveva in serbo da un po’ di tempo. Ma proprio ora, che hanno visto Biden uscire indenne dalle elezioni di Mid Term, lo hanno fatto sapere al mondo.

Intendiamoci, non è automatico che si vada effettivamente verso un  cessate il fuoco. Questa ritirata potrebbe anche significare che i russi vogliono riprendere fiato al fine di scatenare una nuova offensiva. La cautela d’obbligo. Ma rimane il fatto che, in questi ultimi tempi, sia avverta un po’ ovunque l’azione di un nuovo, temibile stratega militare: il generale Stanchezza.

Se gli americani non vogliono più stress in casa, allo stesso modo non sopportano più lo stress d’importazione che arriva dai confini orientali dell’Europa. Se ne riparlerà probabilmente all’imminente G20 in programma in Indonesia.

BUON LAVORO, MINISTRO

Con soddisfazione e con orgoglio salutiamo la nomina del nostro Presidente Adolfo Urso a ministro per le Imprese e il Made in Italy. Il superamento delle gravi emergenze in atto e, soprattutto, il rilancio del nostro Sistema Paese passano per le iniziative e le scelte che saranno compiute dal Governo del Presidente Giorgia Meloni e dal Dicastero affidato al senatore Urso. Buon lavoro Signor Ministro! In bocca al lupo, Adolfo!

…E lo sguardo dritto nel futuro

Mi pare che la frase sia di Alessandro Baricco: “Puoi sempre farcela, se hai in tasca una storia e qualcuno cui raccontarla”. Vale anche per la politica, come per la letteratura; e per la vita. È fatta di storie, la politica; storie che si incontrano e si confrontano, si sottopongono infine al giudizio popolare. Hanno incarnato e narrato grandi storie, incantando gli americani John F.Kennedy col suo sogno americano; e Bill Clinton che a quel sogno, rieditato trent’anni dopo, aggiungeva il racconto della sua vita di underdog, orfano di padre fin dalla più tenera età. Hanno raccontato le loro storie Barak Obama e lo stesso Donald Trump; storie agli antipodi eppure affascinanti, coinvolgenti, attrattive.

Ecco, una spiegazione del successo di Giorgia Meloni risiede anche nella rivendicazione di una storia: la sua, personale e comunitaria; di una generazione e di una parte politica. Ha il sapore della rivalsa, certo, per le condizioni di partenza tutt’altro che agevoli: una componente politica e culturale a lungo tenuta ai margini, contrastata e delegittimata, chiusa nel recinto, polo escluso eppure sempre e comunque in campo e in gioco. Ora come allora – nei primi anni Novanta – il sostengo e la spinta sono venuti dal voto degli elettori, ché è così che funzionano le democrazie. E come mai prima d’ora proiettata in cima alla scala dei consensi; e, davvero a furor di popolo, collocata alla guida del governo della Nazione.

Superando umane resistenze e competizioni partitiche, tutta la politica, ad ogni latitudine, dovrebbe gioire per l’affermazione di una leadership non solo personale (e femminile, in sovrappiù) ma fortemente caratterizzata, quindi riconosciuta e scelta per sincerità e coerenza, per passione e senso di responsabilità.

Significativamente, nel manifesto programmatico illustrato in Parlamento, il presidente del Consiglio ha rivendicato quella storia, come per prendere rincorsa e slancio e affrontare con forza le sfide del presente, pesanti e insidiose, consapevole che solo una volta assicurate la sopravvivenza delle imprese e la serenità delle famiglie, si potrà scrivere un futuro fatto di ripresa e di riscatto per l’Italia. Prima vivere, poi filosofare. Ci sarà una certa continuità con l’Agenda-Draghi, nella prima fase in cui si dovrà stare ai remi e affrontare i marosi con tutta la forza delle braccia e del cuore. Ma l’Agenda-Meloni – si spera prestissimo – sarà bell’e pronta, a dettare tempi e sostanza della fase due, quella in cui ci sarà necessario mettere in campo idee e classe dirigente in grado di realizzarle.

Proprio la gravità delle emergenze da vincere non consete margini, nemmeno esigui, per giochi politici da parte di chicchessia, la dialettica di coalizione fornire contributi preziosi e proposte concrete. Con l’Europa non ci sarà confronto né scontro, come si fa tra controparti, perché l’Italia è e restarà dentro le istituzioni comunitarie, socio fondatore con pari dignitià e ritrovata autorevolezza. E la ripresa, quando avverrà, farà leva sulle eccellenze italiane, che tutti amano (e invidiano) altrettanti volani per riportare la barca Italia – la più bella di tutte – fuori dalla tempesta, finalmente in acque tranquille.

È un governo del fare, certo. Libero proprio in quanto ancorato a valori forti, immutati e immutabili. Difensore della libertà declinata in ogni modo possibile, tra diritti e doveri, a condizione che non si pretenda di legittimare soprusi o di legiferare capricci.
Nel ritorno alla (e della) politica è ripristinato il rispetto per tutte le opinioni e posizioni. Se le nuove generazioni tornassero a sentire e a scegliere la politica, ad ogni latitudine – come interesse, militanza, passione – sarebbe un grande successo per tutti. Perché, lo sguardo dritto e aperto nel futuro, con le parole di un cantautore impegnato come Pierangelo Bertoli, è l’unico capace di restituirci una speranza.

Per un nuovo New Deal

Il New Deal italiano, la diplomazia del Made in Italy e la gestione dell’ecosistema SIMEST-ICE. Sono queste le sfide più delicate che spettano il ministro Adolfo Urso.

Le priorità e le urgenze del Governo Meloni sono state chiare sin dall’inizio. E direi scontate. Le misure contro il caro energia, il conflitto in Ucraina, il contenimento dell’inflazione. Tutte questioni a breve termine, mentre Fratelli d’Italia e gli alleati della coalizione auspicano, forti del mandato popolare ricevuto, di poter governare per i cinque anni della legislatura.

È un obiettivo ambizioso, stante i canoni di scarsa longevità dei governi italiani. Di conseguenza, le vere sfide saranno altre, ben più difficili da realizzare ma non impossibili, considerando la formidabile capacità di Giorgia Meloni a negoziare, a fare squadra e ad agire con incisività e concretezza. Tutte cose di cui ha dato prova durante la formazione dell’Esecutivo.

La sfida più importante, ovviamente, sarà quella di far ripartire l’Italia; una frase sentita e risentita dai governi precedenti, usata davanti alle telecamere in ogni occasione mentre in concreto si faceva ben altro. Si sono sprecate ingenti e preziose risorse pubbliche nel miope assistenzialismo chiamato reddito di cittadinanza, nella gestione (disastrosa) dei flussi dell’immigrazione clandestina e in quella della pandemia. Per quanto di poco conto, basti ricordare la spesa dei banchi a rotelle.

Comunque, è indubbio che la vera ripartenza di un paese comincia dall’imprenditoria. Da quel tessuto produttivo che genera ricchezza, crea posti di lavoro, mantiene – attraverso l’imposizione fiscale – l’apparato statale, assicurando il benessere della collettività. Un concetto che sembrava poco chiaro sia alla sinistra, ancorata tutt’oggi all’ideologia arcaica della contrapposizione fra imprenditori e lavoratori, che ai pentastellati per i quali la priorità è l’assistenzialismo (che ovviamente sentono proprio, considerata la provenienza del loro elettorato), incuranti che è possibile finanziarlo senza mandare in default il paese garantendo le risorse necessarie al sistema produttivo.

La storia è l’insegnante d’eccellenza, ma bisogna conoscerla, saperla interpretare per adeguarla alle esigenze del momento. Negli anni Trenta il New Deal di Roosevelt, con i massicci investimenti pubblici nell’economia abbinati ad un incentivazione senza precedenti dell’industria, ha fatto uscire in pochi anni gli Stati Uniti dalla peggiore crisi della loro storia. Nel dopoguerra, gli stati europei hanno puntato tutto sulla industrializzazione (e non sull’assistenzialismo) per creare quel benessere che ha caratterizzato il periodo dagli anni ‘60 agli anni ‘90. Persino la Cina, pur conservando il modello ideologico e politico comunista, ha rinunciato all’annesso disastroso modello basato sull’economia pianificata convertendosi ad un approccio apertamente capitalista.

All’Italia di oggi serve un New Deal 2.0. Un incisivo intervento a favore delle imprese, tarato ad hoc sulle esigenze del Made in Italy, che non solo farà uscire il paese dalla recessione, ma gli permetterà di riguadagnare la posizione in vetta ai paesi industrializzati persa negli ultimi decenni. Inoltre, il paese può contare su uno strumento eccezionale rappresentato dal PNRR, quelle ingenti risorse messe a disposizione dall’UE che sicuramente faciliteranno il compito della ripresa.

Aver rinominato il Ministero dello Sviluppo economico “Delle Imprese e del Made in Italy” è gia un riconoscimento, pur linguistico, dell’imparagonabile valore di quello che si può definire come il più grande Brand naturale esistente al mondo. I tedeschi hanno l’automotive, gli svizzeri gli orologi, ma nessuna nazione può vantare l’apprezzamento, la considerazione e l’amore che viene manifestato, in ogni parte del pianeta, verso il Made in Italy. Un “marchio di fabbrica” frutto di quell’incredibile mix di storia millenaria, cultura, arte, gusto ed ingegno che a partire dal dopoguerra ha reso il Belpaese un’eccellenza industriale. Una sigla distintiva che spicca praticamente in ogni singolo settore produttivo, dalla moda alle tecnologie, dalla ceramica al farmaceutico, dall’agroalimentare alla chimica e all’aerospaziale. È altresì un riconoscimento per quegli imprenditori, appassionati ed illuminati, come Dino Ferrari, Barilla, Ferrero e Armani, giusto per citarne alcuni, che hanno dato vita, attraverso il proprio lavoro, alla più eccezionale operazione di marketing della storia, appunto il Made in Italy: è un brand che da solo basterebbe a porre l’Italia in vetta alla classifica dei paesi industrializzati in termini anche di Pil e benessere, se non fosse per uno Stato burocratico ed ingolfato che si auspica che il Governo Meloni riuscirà a riformare, rendere efficiente ed umanizzare per imprese e cittadini. Il neo-ministro per le Imprese ed il Made in Italy ha definito gli imprenditori italiani degli eroi: eroi nel resistere alla voracità dello Stato nel tassare le imprese, soffocando di fatto ogni iniziativa privata ed aumentando nel contempo l’evasione. Basti ricordare che si tratta di un sistema fiscale talmente perverso che persino obbliga chi avvia un impresa a pagare alla fine del primo anno quasi il 90% di tasse considerando anche l’anticipo per l’anno successivo, sulla base di quel che si chiama presunzione di fatturato, azzerando di fatto i guadagni. Così, migliaia di imprenditori hanno trasferito sedi o attività in altre nazioni pur di sopravvivere.

Eroi nel resistere alla burocrazia intesa come quel fiume di leggi, norme, regolamenti attuativi, precisazioni ed interpretazioni, spesso senza alcun filo logico o senso di continuità, che toccano ogni settore produttivo. Con costi mostruosi in termini di perdita di tempo, denaro, opportunità.

Eroi nel resistere agli attacchi economici e finanziari dall’estero, persino dall’UE, per via di una rappresentanza debole ed indecisa dell’interesse dell’Italia produttiva, presso le istituzioni europee.
Eroi nel resistere, infine, persino ad un’ideologia che ha contrapposto da sempre – per credo o per convenienza politica – il mondo dell’imprenditoria ai lavoratori, facendo finta di non capire che senza i primi non esisterebbero i secondi e non ci sarebbe nemmeno l’assistenzialismo tanto caro agli oppositori del centrodestra. Perché nel mondo di oggi, ben diverso dai tempi in cui è rimasta la sinistra, le imprese non creano solo posti di lavoro ma anche benessere e futuro per tutti.

Secondo la visione ottimistica che ogni tanto qualcuno tira fuori nei scherzosi dibattiti tra amici, è proprio per via di quello Stato burocratico, inefficiente ed insensibile, che in Italia c’è così tanta creatività.
Il compito che spetta al neo-Ministro delle Imprese e del Made in Italy sarà impegnativo. Per quanto possa essere chiaro che la ripresa non può che partire da un forte stimolo alle imprese, il New Deal italiano, è altrettanto chiaro che la spinta al sistema produttivo dipende dalla risoluzione di una serie di problematiche chiave attraverso una sinergia pressoché perfetta tra una molteplicità di ministeri sotto il coordinamento programmatico di Urso, che dovrebbe avere altresì la direzione programmatica e di indirizzo di SIMEST e delle altre “controllate”. Si dovrà procedere in modo veloce alla sburocratizzazione (di competenza del dicastero della Pubblica Amministrazione), alla riduzione del pressing fiscale (Economia e Finanze), alla realizzazione degli investimenti previsti nel PNRR (Affari europei). Su tali punti sicuramente il neo-ministro, nell’elaborare un modello interconnesso tra i vari ministeri per la riforma del Sistema-paese riguardo al mondo produttivo, potrà contare sulla Premier Meloni che già ha dimostrato non solo di essere capace a creare squadra ma, con alcune mosse minori (tra cui ingaggiare Cingolani come consulente) ha delineato la precisa volontà di lavorare per risollevare l’Italia scardinando la logica delle appartenenze nel nome delle competenze. Riguardo il Made in Italy, invece, servirà riportare sotto il diretto controllo del Ministero per le Imprese (ed, appunto, il Made in Italy) la SIMEST e l’ICE (quest’ultimo passato sotto il controllo della Farnesina), storici pilastri nella promozione del sistema produttivo italiano nel Mondo, realizzando anche una sinergia effettiva e funzionale tra queste da intenderle come unica entità con il medesimo obbiettivo: il New Deal italiano. Affinché i settori tradizionali dell’imprenditoria italiana siano semplicemente alleggeriti, come abbiamo già detto, da burocrazia e pressione fiscale, ci sono tre settori che rappresenteranno una sfida del tutto nuova e che aiuteranno il Paese ad accelerare significativamente i tempi di ripresa e crescita.

Il primo è indubbiamente la digitalizzazione della società, che dovrà toccare sia la cosiddetta alfabetizzazione digitale (che è tra le priorità dell’Agenda UE) che l’introduzione massiccia delle nuove tecnologie in ogni settore, pubblico o privato che sia. I costi della Pubblica Amministrazione verranno drasticamente diminuiti ottimizzando nel contempo le relazioni tra Stato ed imprese. Tutto ciò si tradurrebbe in miliardi di euro di risparmio anche solo in termini di produttività ed efficienza. Pensiamo alla certezza nella trasmissione dei dati, all’eliminazione della carta dagli uffici, alla rapidità delle comunicazioni,alla semplificazione dei processi e degli iter burocratici.

Il secondo è la promozione del Made in Italy all’Estero che rappresenta una boccata d’ossigeno per le imprese italiane.
Il terzo, premesso che il ministro Urso optasse per il New Deal italiano e la Meloni convincesse i mercati internazionali che ci sono tutti i presupposti per un esecutivo coeso ma soprattutto longevo, riguarda la messa in atto di politiche concrete per l’attrazione di investimenti esteri, delocalizzazione di tecnologie da paesi terzi verso l’Italia e la costruzione di un clima favorevole riguardo ricerca e sviluppo. Fino ad oggi ciò accadeva a scapito dell’Italia. Ora è il momento di invertire la tendenza.
In conclusione, possiamo dire che sarà il Made in Italy che salverà l’Italia, a condizione che ci sia uno Stato che rispetti, ami, aiuti e premi il proprio tessuto imprenditoriale. Uno Stato che possa finalmente essere percepito come amico da chi lavora e produce. Utopia? Spero davvero di no.

AGENDA CULTURA BELLEZZA E IDENTITA’

Quello della cultura – non ci stancheremo mai di sottolinearlo – è uno degli ambiti più sensibili nell’ampio spettro degli indirizzi/interventi a cui è chiamato il nuovo governo. In gioco non ci sono solo delle risorse da impiegare o delle “poltrone” da spartire. Né può bastare la “buona amministrazione” ad esaurire il ruolo di un ministero preposto alla tutela della cultura e dello spettacolo, alla conservazione del patrimonio artistico, culturale e del paesaggio.
In occasione della campagna elettorale, individuando in “Cultura e bellezza, il nostro Rinascimento”, il centrodestra ha posto una serie di priorità programmatiche: nuovo rapporto pubblico-privato, riforma del Fondo unico per lo spettacolo (Fus), semplificazione della burocrazia relativa ai finanziamenti pubblici, tutela dell’industria audiovisiva italiana, riqualificazione di periferie e borghi anche attraverso la street art, tutela delle dimore storiche.
Un ruolo non secondario potranno averlo le nuove tecnologie. A luglio sono stati ufficialmente messi online il Piano nazionale di digitalizzazione del patrimonio culturale (PND) e le relative Linee guida. Con il Piano il Ministero della Cultura ha inteso promuovere e organizzare il processo di trasformazione digitale nel quinquennio 2022-2026 nei diversi settori dell’ecosistema culturale (musei, archivi, biblioteche, soprintendenze, istituti, luoghi della cultura). Si tratta – senza dubbio – di uno strumento tecnico importante per il rilancio della cultura e del turismo, anche nell’ambito del PNRR.
Al di là degli strumenti dati (il PND – se ben utilizzato – può svolgere un ruolo significativo), soprattutto in ambito culturale appare necessario – anche alla luce degli orientamenti politico/programmatici del Governo Meloni – lavorare sui tempi lunghi, sulle suggestioni in grado di costruire quel “nuovo immaginario collettivo” a cui si è fatto cenno in campagna elettorale.
Dire cultura vuole dire infatti esprimere anche una scelta “di campo”, intorno a cui sviluppare un organico progetto di sviluppo, attraverso una politica d’intervento, che parta da alcune considerazioni “di valore”, per poi scendere in un ambito programmaticamente dettagliato. Su quali piani muoversi ?
Il primo è la Bellezza. La Bellezza non è fuga estetizzante dal reale, al contrario. Essa è presa di coscienza, al di là del materialismo, dell’urbanesimo indifferenziato, dell’omologazione di massa, del trionfo dell’effimero. E’ rottura contro tutte le banalizzazioni.
Il secondo elemento, in grado di porre un autentico discrimine, è il talento. A differenza di quanto non credano gli apostoli dell’egualitarismo, il talento non è un limite alla creatività. Nella crisi del bello, la sterilità creativa ha trovato nella negazione delle competenze il proprio alibi. Portare al centro della produzione artistica i fattori formali e sostanziali che stanno alla base di compiuti percorsi formativi, significa dare nuova dignità e nuova consapevolezza a quanti in essa e per essa di trovano ad operare.
L’identità è il terzo fattore cruciale. Anche qui non si tratta di ricapitolare, magari elencando stancamente scelte valoriali.
Come scriveva Simone Weil (La prima radice) “il bisogno di avere radici è forse il più importante e il meno conosciuto dell’anima umana. Difficile definirlo. L’essere umano ha le sue radici nella concreta partecipazione, attiva e naturale all’esistenza di una comunità che conservi vivi certi tesori del passato e certi presentimenti dell’avvenire”.
Può una comunità vivere senza simboli, senza “certi tesori del passato”, che ne legittimo la stessa ragion d’essere spirituale?
E’ allora spostando la sfida dai valori materiali a quelli immateriali, che è possibile prefigurare una società in grado di superare realmente la crisi contemporanea.
Compito delle istituzioni politiche, a cominciare dall’ambito culturale, è quello di riconoscere e garantire il pluralismo delle voci, senza tuttavia precludersi una lettura critica della realtà, su cui intervenire per orientare, sollecitare, valorizzare.
Rispetto ai diversi comparti della cultura, non è dunque ininfluente definire delle linee generali d’intervento, rispetto alle quali “ordinare” l’intera materia.
Vediamole in sintesi.
1) I beni culturali sono un’espressione di civiltà e, quindi, come tali rappresentano la viva testimonianza spirituale di un processo comunitario che ha vissuto ed è stato attraversato dai popoli. I beni culturali costituiscono la vera trasmissione di una tradizione che ha caratterizzato la civiltà, l’anima e la costruzione di un popolo. Vanno tutelati attraverso una profonda politica della conoscenza che deve avere come elemento portante un progetto educativo, che punti chiaramente a un tracciato fruitivo.
2) La cultura popolare o le tradizioni popolari sono realtà di conoscenza delle civiltà e dei popoli. Vanno recuperate e proposte come processi non solo storici ma umani. Lo stesso folclore rientra in un processo culturale che appartiene alla consapevolezza di una tradizione.
3) La scuola deve avere una funzione prioritaria non solo nel campo formativo, ma soprattutto come modello primario di un’agenzia educativa che ponga come dato valoriale la memoria e l’identità nazionale.
4) I giovani sono la sfida del domani, perciò debbono diventare i soggetti privilegiati dei nuovi investimenti culturali, al fine di sanare distanze spirituali e sociali immotivate (pensiamo al Teatro, alla Musica classica, alla conoscenza del nostro patrimonio culturale). Per questo occorrono però nuove metodologie comunicative, un nuovo dinamismo in grado di favorire suggestive contaminazioni culturali e politiche coinvolgenti.
5) Un cinema che sia in grado di affermare i grandi temi della testimonianza umana e dia senso a quell’identità storica che ha caratterizzato l’esperienza cinematografica e culturale italiana, la quale deve portare dentro di sé elementi creativi e pedagogici alti.
6) La lingua italiana, la sua difesa, è parte integrante di una strategia culturale che permetta la conoscenza e la non dispersione dei linguaggi e delle forme identitarie della comunità, diventando, nel contempo, “ambasciatrice” dell’Italia nel mondo.
7) In anni di cancel culture la difesa, la valorizzazione, la promozione dei simboli, materiali ed immateriali, della nostra identità nazionale deve essere la strada per sconfiggere l’omologazione culturale e l’indifferentismo spirituale.
E’ a partire da questa “Agenda” che si avverte la necessità di organizzare una strategia culturale d’intervento, la quale permetta il passaggio dal livello teorico ed ideale a quello concreto ed operativo, attraverso un percorso istituzionale, che sappia guardare ad obiettivi precisi, avendo come cornice la creazione di un nuovo immaginario italiano.
Al centro un’idea partecipativa e “ricostruttiva” della cultura, che guardi all’identità nazionale, senza però precludersi ambiti nuovi di ricerca, con la consapevolezza che la battaglia culturale si vince avendo visioni lunghe e di lunga durata. La cultura dell’effimero non ci appartiene.

È una grande occasione anche per la Chiesa

La profonda divisione sociale che la sinistra ed i 5 Stelle hanno portato nel Paese dopo anni di politiche sbagliate, dalla gestione dell’immigrazione al reddito di cittadinanza ed alla difesa dei diritti delle cosiddette minoranze Lgbtq+, ha contribuito ad accelerare anche il processo della secolarizzazione, ossia il progressivo allontanamento dai valori cristiani racchiusi nei tre pilastri storici, Fede, Religione e Chiesa.

Autoproclamatasi paladina dei deboli, la sinistra ha puntato per anni su una propaganda (con l’indiscusso appoggio dell’Unione Europea) concepita male e comunicata ancor peggio. Anziché unire, tale indottrinamento esasperato ha prodotto nella società tradizionale (termine descrittivo, non me ne vogliate) quasi un rifiuto dei concetti sacrosanti come inclusione, accoglienza ed equità (almeno davanti a Dio) intrinsechi nella Chiesa, ma sottratti dalla sinistra. E tutto ciò ha ancor più allontanato il popolo dalla religione, non riconoscendo più il clero né come guida né come difensore naturale dei deboli e degli emarginati.

Nel corso degli ultimi anni i governi succedutisi sono riusciti a mettere in atto un’accoglienza senza regole dei flussi immigratori che ha aumentato, anziché ridurre, la tratta degli esseri umani facendo lucrare trafficanti di uomini ed organizzazioni criminali. Il reddito di cittadinanza anziché aiutare i bisognosi ha creato per intere fasce sociali cosiddette deboli un disinteresse verso il mondo del lavoro. Le comunità LGBTQ+ si sono viste ancor più emarginate perché il messaggio che la sinistra faceva passare non era di uguaglianza, come dovrebbe essere, bensì di diversità e conseguente necessità di imposizione forzata di regole. E mentre il pontefice parlava, come è giusto che sia, di fratellanza, di lotta alle disuguaglianze e della povertà, principi profondamente radicati nella religione cristiana, nei cittadini cresceva quel pericoloso sentimento di rifiuto verso tali valori in quanto non corrispondenti alla realtà che li contornava.

Poi è arrivata Giorgia Meloni qui il suo” Dio, Patria, Famiglia”. È stata ferocemente criticata, aggredita, denigrata dagli intellettuali radical-chic nella loro solita confusione teorico-ideologica. A detta loro, quella della leader dei Fratelli d’Italia era un’affermazione che sapeva di dittatura. Secondo altri, Giorgia non poteva nemmeno parlare di famiglia in quanto ha una figlia senza essersi mia sposata, oltre ad una lunga serie di altre affermazioni contrastanti persino con le stesse teorie della sinistra. Ma lo scopo era colpire l’avversario, non essere obbiettivi.

Nonostante tutto, il messaggio di Giorgia è stato fortissimo e profondo. E’ arrivato nel cuore delle persone. Ha resuscitato la voglia di ritrovare quell’identità perduta per colpa del mondo globalizzato, recuperare i valori, i riferimenti, l’appartenenza. E ritrovare Dio, inteso come fede, come speranza nel futuro e, perché no, come religione. Perché parlare di Dio non è dittatura. È libertà, è spiritualità. Io sono nato e cresciuto in una dittatura. Quella comunista. La sì che era vietato parlarne di Dio, entrare nelle chiese, pregare.

Quel dichiararsi cristiana da parte di Giorgia Meloni, rappresenta anche una grande occasione della Chiesa per recuperare terreno, riavvicinarsi alla gente, rallentare la secolarizzazione e ritornare ad essere quel punto di riferimento spirituale smarrito nel caos propagandistico della sinistra degli ultimi anni. Lo sa bene il segretario di Stato Pontificio Parolin che pochi giorni fa ha già teso la mano al nuovo governo.

Per molti sarà difficile digerire un riavvicinamento tra lo Stato e la Santa Sede, in cui scorgeranno l’incubo del rafforzamento di quei valori cristiani storicamente radicati nella destra e odiati dalla sinistra. Solo gli intellettualmente onesti comprenderanno, invece, l’importanza storica di tale sintonia che potrà aiutare a trascrivere i valori cristiani in un contesto contemporaneo, equo e bilanciato, preservandoli per le future generazioni anziché condannarli all’oblio.

Durante quello che mi auspico possa essere un governo che durerà a lungo, la Meloni avrà davanti a sé innumerevoli sfide. Dalla gestione della crisi energetica alla rimessa in moto dell’economia fino alla valorizzazione del ruolo dell’Italia in Europa e nel mondo. A ciò, però, va aggiunto anche un altro delicato compito, poco consono ai leader politici di oggi. Quello di far riavvicinare il proprio popolo a quei valori smarriti in anni di propaganda di sinistra, alla fede ed alle origini cristiane, sempre nello spirito della tolleranza, dell’accoglienza e della fratellanza. Sarà dura ma sono sicuro che Giorgia Meloni ce la farà.

*Kiril K. Maritchkov, Comitato scientifico Fondazione Farefuturo