Giuseppe Pennisi

Come rispondere al governo in formazione

Su invito del Presidente della Repubblica si sta formando un Governo «al di fuori di una predefinita formula politica». Ciò comporta un interrogativo di fondo ad un movimento che ha la promozione dell’interesse nazionale come obiettivo di fondo: lo si promuove meglio entrando in un Governo composto in buona misura da «avversari storici» anche e soprattutto sotto il profilo della cultura politica oppure restando una voce vigile e critica all’opposizione?

Ambedue le posizioni sono, ovviamente, legittime. Il Governo nasce, su iniziativa del Capo dello Stato, con linee già indicate anche se non articolate nei dettagli: combattere la pandemia e mettere in atto un «programma di riassetto strutturale» di riforme e di investimenti, finanziato in larga misura con fondi dell’Unione europea, per rimuove ostacoli alla crescita in sei aree già definite (giustizia, pubblica amministrazione, dotazione di infrastrutture, istruzione, sanità, ambiente).

I «programmi di riassetto strutturale», nati con il «Rapporto Brandt» del 1980, affinati in Banca Mondiale ed al Fondo monetario negli ultimi vent’anni del secolo scorsi, sono giunti alla Banca centrale europea ed alla Commissione europea dopo la crisi del 2008-2009 e sono stati adottati da Grecia, Irlanda e Portogallo. Sono, di norma, finalizzati all’aumento della produttività, della produzione, del valore aggiunte, dell’occupazione ed anche ad una migliore distribuzione del reddito. Loro caratteristiche sono a) rigore nelle politiche di bilancio per contenere disavanzo pubblico; b) ri-orientamento delle priorità della spesa pubblica verso comparti tali da offrire, al tempo stesso, rendimenti economici elevati ed il potenziale di migliorare la distribuzione dei redditi (quali l’infrastruttura, l’istruzione e la sanità); c) riforma tributaria (per ridurre le aliquote marginali ed ampliare, in parallelo, la base imponibile); d) riforma della giustizia per rendere procedimenti più veloci e dare a tutti maggiori certezze ; e) modernizzazione dell’istruzione; f) maggiore attenzione alle politiche ambientali ed alle implicazioni ambientali di politiche in tutti i settori.

Il Piano Nazionale di Rilancio e Resilienza (PNRR) di cui il Governo Conte 2 ha predisposto due bozze criticate severamente anche dal servizio studi di Camera e Senato deve essere in gran misura scritto di nuovo e presentato all’Unione europea entro il 30 aprile. Il «programma di riassetto strutturale» dura sei anni; quindi, le scelte prese adesso vincolano in gran misura anche la prossima legislatura.

Quindi, se la decisione è di sostenere il Governo, occorre essere rappresentati tramite o politici o tecnici di area in modo da incidere sulla definizione del PNRR e del relativo «programma di riassetto strutturale».

Se, invece, la decisione è quella di porsi all’opposizione, comunque un baluardo democratico in uno Stato di diritto, occorre chiedersi se si intende esercitare un’«opposizione reattiva» ad un’«opposizione proattiva e propositiva».

In ambedue i casi si tratta, in termini di «teoria dei giochi», di «giochi multipli» su almeno due tavoli. In uno la posta in gioco è «l’incisitività» sulle scelte pubbliche; nell’altro «la popolarità» nei confronti del proprio elettorato attuale e potenziale.

Un’«opposizione reattiva» può dare poco in termini di «incisività» ma molto in termini di «popolarità» da utilizzare nella prossima legislatura, pur se nei vincoli di manovra concessi da impegni pluriennali presi non solo con la Commissione europea ma soprattutto con gli altri 26 Stati dell’Unione europea.

Un’«opposizione proattiva» necessità di una strumentazione e di un supporto tecnico di alto profilo per «incidere» in questa legislatura e prepararsi alla prossima. Si tenga presente che sul sito di web di Forza Italia si può leggere da oltre un mese una bozza di PNRR alternativa a quanto presentato dal Governo Conte 2- le cui idee confluiranno in parte nel «programma di riassetto strutturale del Governo Draghi. Altro esempio, nella legislatura 2013-2014 ho presieduto il Board scientifico del Centro Studi Impresa/Lavoro sponsorizzato da un imprenditore del Nord. Il Board era costituito oltre che da me dal Presidente della Hayek Society, dall’ex Segretario Generale dell’OCSE e da un Professore Emerito della LUISS. Ovviamente non percepivamo compenso (ma ci veniva offerta una cassetta di vino l’anno a Natale ed un incontro conviviale ogni due mesi), ma disponevano di un ufficio a Via dei Prefetti, di due collaboratori fissi e di fondi per consulenti. Oltre ad un web magazine, abbiamo prodotto quattro libri (di cui uno è stato a lungo nella bacheca del Ministero dell’Economia e delle Finanze per mesi come «libro dell’anno») ed alcuni opuscoli distribuiti con il quotidiano «Il Giornale Nuovo»- In breve, per fare «opposizione proattiva» occorrono risorse. Quante ne può mettere in campo Fratelli d’Italia?

*Giuseppe Pennisi, economista 

UNA POLITICA INDUSTRIALE PER L’ITALIA

Questo saggio di Giuseppe Pennisi, economista, è stato pubblicato nel Rapporto Nazionale “Italia 20.20” della Fondazione Farefuturo

Ci può e deve essere una politica industriale nazionale e quali sono i suoi confini? Occorre fare una premessa. In economia ci sono, da sempre, due scuole di pensiero: la prima, alla Hayek, sostiene che la mano pubblica debba astenersi dall’intervenire in settori direttamente produttivi (come quelli dell’industria), il cui sviluppo dovrebbe venire orientato dal mercato; la seconda, alla Colbert (che non era un economista e non scriveva trattati, ma da ministro delle Finanze di Luigi XIV emetteva decreti con cui già alla metà del Seicento orientava le attività produttive in Francia), ritiene, invece, che la mano pubblica debba non solo guidare ma anche intervenire direttamente.

In Italia, un bel saggio recente di Pierluigi Ciocca (Tornare alla Crescita, Donzelli 2018) ricorda che i periodi di maggior sviluppo economico e industriale ci sono stati nell’età giolittiana e nei trent’anni del «miracolo economico», fasi in cui si garantivano le regole ed un efficace diritto pubblico dell’economia, le infrastrutture fisiche e istituzionali, e misure mirate solo per le aree depresse. Il sistema cresceva quasi spontaneamente e la politica industriale era in effetti orientata dal mercato. Nell’Unione europea (Ue), di cui siamo soci fondatori, e in un mondo caratterizzato da un forte grado d’integrazione economica internazionale – ci si deve chiedere – che spazio c’è per politiche industriali «nazionali»? In effetti, la «dottrina prevalente» nell’Ue è che lo sviluppo industriale deve essere garantito dalla libera concorrenza, dalla mancanza e di aiuti di Stato e di posizioni dominanti tra i player.

Da decenni, la Francia – Patria di Colbert – propone una «politica industriale europea» che, nel rispetto delle regole sulla concorrenza, incoraggi campioni europei tali da superare i confini nazionali e da gareggiare efficacemente con gigantesche multinazionali di impronta americana e asiatica. Due importanti documenti in tal senso, il Rapport Beffa del 2005 ed il Rapport Gallois del 2012, tracciano prospettive e includono proposte concrete in materia. Hanno avuto relativamente poca attenzione in Italia e non sono stati formalmente recepiti in sede Ue, ma sono la cornice intellettuale e di politica economica in cui è nata, ad esempio, la fusione Fca-Psa, un chiaro elemento per far sì che il comparto europeo dell’auto possa rispondere efficacemente alla sfida della trasformazione tecnologica e del mercato mondiale. La Francia – vale la pena ricordare – ha anche creato «campioni europei», ma con un forte accento «nazionale», acquisendo aziende un tempo italiane, soprattutto nel comparto del lusso. Ciò dovrebbe essere un monito per l’Italia, dove non ci sono state acquisizioni significative di aziende straniere da incorporare in aziende italiane e fare così nascere «campioni europei» con il profumo ed il gusto italiano. Pochi anni fa, Franco Debenedetti, che è stato alla guida di grandi aziende, oltre che politico e saggista, ha analizzato gli insuccessi della politica industriale italiana in un volume dal titolo eloquente: Scegliere i vincitori, salvare i perdenti. L’insana idea di una politica industriale, Marsilio, 2016. Quasi quarantacinque anni fa, Giuliano Amato, che non può certo essere tacciato di iper-liberismo alla Hayek, nel volume Il governo dell’industria in Italia (Il Mulino, 1972), caratterizzava l’intervento pubblico nell’industria nel nostro Paese quale impiccione e pasticcione. Si potrebbe continuare con citazioni e riferimenti. La domanda di fondo è come mai Oltralpe si riesce a teorizzare i campioni europei, e anche a facilitarne la realizzazione, mentre da noi si finisce ad attuare interventi impiccioni e pasticcioni all’origine dei circa 160 tavoli di crisi in quel di via Molise, dove ha sede il Ministero per lo Sviluppo Economico (Mise)? La risposta è in gran misura in Colbert e in Napoleone Bonaparte che ne seguì le tracce e diede un inquadramento più completo alla strategia. In una Francia dove l’industrializzazione tardava a venire, Napoleone creò les grandes écoles perché lo Stato disponesse di un corpo altamente qualificato per valutare e guidare l’attuazione di interventi piccoli e grandi.

La tecnocrazia prodotta da les grandes écoles era fedele alla Nation e non cambiava funzione e ruoli a seconda del vento politico del momento. Ancora oggi, La Documentation Française, pubblicata dall’equivalente del Poligrafico dello Stato, diffonde le analisi perché tutti possano giudicarne la qualità. In effetti, quando la crisi del 1929 comportò una forte dose di intervento pubblico per salvare la finanza e l’industria italiana, Benito Mussolini non si rivolse a un camerata di stretta osservanza e fedeltà, ma a un socialista riformista, che non aveva mai preso la tessera del Partito, come Alberto Beneduce, per porre ordine al sistema. Da solo, tuttavia, questo elemento non basta. In primo luogo, al capitale intellettuale di cui dotare il settore pubblico, occorre affiancare un capitale fisico di infrastrutture (dalla logistica alle forme più avanzate di telematica) per fare sì che le imprese «nazionali» possano competere efficacemente con quelle straniere ed irrobustirsi sul piano interno e poi diventare «campioni europei»: gli storici dell’economia sottolineano che sia l’età giolittiana sia quella del miracolo economico furono caratterizzate da un grande sviluppo delle infrastrutture (finanziate in gran misura dallo Stato). In secondo luogo, è imperativo un diritto pubblico dell’economia semplice, trasparente e stabile, altra caratteristica e dell’età giolittiana e dei lustri del miracolo economico, mentre purtroppo in questi anni l’Italia è stata travagliata da un diritto pubblico dell’economia confuso e spesso cangiante (si vedano, ad esempio, i casi dell’impianto siderurgico di Taranto e delle concessioni autostradali).

A questo punto occorre chiedersi se una politica industriale «nazionale» con la prospettiva di dare vita a «campioni europei» può prevedere interventi finanziari diretti a sostegno di alcune imprese. Un’analisi interessante si ha in un saggio di Ernest Liu, un giovane professore dell’Università di Princeton (Industrial Policies in Production Networks in The Quarterly Journal of Economics, novembre 2019). Liu ha studiato con cura le politiche industriali del Giappone, della Corea del Sud, di Taiwan ed anche della Repubblica Popolare Cinese. Giunge ad una conclusione interessante: l’intervento pubblico diretto per la politica industriale può essere efficace quando mira a settori o industrie «a monte» che producono input per settori o industrie «a valle». Sulla base di queste analisi, si possono sviluppare alcuni criteri di politica industriale. Alitalia non è certo un’industria «a monte». L’ex Ilva ha, invece, tutte le caratteristiche di un’industria «a monte». Da qui a determinare come modulare un eventuale intervento pubblico la strada è ancora lunga. Ed è particolarmente complessa in una fase come l’attuale in cui le prospettive di una lunga e profonda recessione, aggravata dall’emergenza del coronavirus, e la possibile esplosione di una bolla finanziaria creata dall’indebitamento privato e dall’emissione di obbligazioni di dubbia consistenza. A metà marzo 2020 uno studio di Cerdar Selik e Mats Isaksson dell’Ocse ha stimato in 13,5 milioni di miliardi di dollari il totale del debito delle imprese non finanziarie, accumulato, in gran misura tramite emissioni di obbligazioni, in anni di crescita in molti Paesi industriali ad economia di mercato. Una crisi finanziaria sommata alla recessione potrebbe spazzare via non solo singole imprese ma anche interi comparti e rendere più facile individuare potenziali resistenti «campioni nazionali». L’Italia da sola non ce la potrà fare ad uscire da una recessione che ha sempre più i tratti di una depressione che potrà spazzare via molte imprese del manifatturiero ed abbassare di molto la valorizzazione di mercato di altre, rendendole facili preda di gruppi stranieri, di altri Stati europei e non solo. La strategia da seguire è lineare. Da un lato, massimizzare il supporto del resto dell’Unione europea, utilizzando bene le risorse specialmente quelle dello sportello della Banca europea degli investimenti dedicato alle piccole e medie imprese e promuovendo l’attivazione di uno sportello per le imprese nel costituendo Recovery Fund. Da un lato, difendere in via normativa il nostro capitale imprenditoriale da acquisizioni straniere.

*Giuseppe Pennisi, economista

RECOVERY AND RESILIENCE FUND

I tempi per il Resilience & Recovery Fund (RRF) sembrano allungarsi a ragione delle differenze politiche con Polonia ed Ungheria. È quindi appropriato non correre, ma attrezzarsi o con agenzia ad hoc (come suggerito da Giorgio La Malfa e, con diversità di accenti, da Alberto Quadrio Curzio) oppure (come nella recente proposta della Assonime, e nel paper di Marco Buti e Marcello Messori) oppure ponendo via Venti Settembre al centro dell’operazione, sotto il profilo tecnico.

L’idea delineate al vertice di maggioranza del 28 novembre di creare nella Presidenza del Consiglio una task force con sei manager e circa trecento addetti solleva serie perplessità. Qualsiasi specialista d’amministrazione nutrirebbe seri dubbi sulla capacità di selezionare, sei manager e trecento esperti, amalgamarli, dare loro orgoglio e sentimento di équipe – tutte caratteristiche per potere ben lavorare insieme. Per non parlare della logistica: trovare locali, attrezzature, e via discorrendo. E soprattutto della messa in atto di processi lavorativi, analitici e decisionali, Come evitare, infine, frizioni con le amministrazioni dello Stato (alcune con un forte spirito di corpo) che si sentirebbero inevitabilmente spodestate, e con le Regioni, per le materie loro affidate? I tentativi di creare strutture parallele finiscono sempre male. Inoltre, solleva seri dubbi sotto il profilo costituzionale – il Presidenze del Consiglio, e quindi i suoi uffici- hanno solo compiti coordinamento ai sensi dell’art.95 della Costituzione.

Inoltre, Palazzo Chigi (metaforicamente perché l’organico è ormai sparso in decine di edifici romani) è già affollato e sotto stress per avere avocato a sé numerosi compiti operativi, non di coordinamento. Oltre a quelli più noti – come i servizi segreti (di solito affidati al Ministro dell’Interno od ad un Sottosegretario ad hoc) -, vale la pena citare la struttura di missione Investitalia per le infrastrutture, quella per l’analisi dell’impatto della regolazione ed un Gabinetto su cui grava anche la nomina dei commissari per le opere pubbliche e per la sanità.

E’ soprattutto una proposta singolare, in quanto tranne la Francia (che ha in pratica dato nuova vita al Commissariato al Piano, le cui strutture erano comunque rimaste intatte in seno al Ministero dell’Economia e delle Finanze)) tutti gli altri Stati affidano l’operatività del Resilience and Recovery Fund ai rispettivi Ministeri dell’Economia e delle Finanze per il lavoro tecnico da condurre in cooperazioni con le altre amministrazioni centrali e regionali, ed al Ministro degli Affari Europei (quasi sempre senza portafoglio) il collegamento con le istituzioni europee. A livello politico interno, esistono comitati interministeriali per gli affari europei ed per la politica economica analoghi ai nostri Ciae e Cipe. In certi casi si dovrà rafforzare l’esistente con l’immissione di qualche esperto specialistico. Sarebbe opportuno, poi, utilizzare questa occasione per rivedere numerosi processi. Il disegno di legge di bilancio all’art.184 comma 14 già prevede un ruolo importante per il Ministero dell’Economia e delle Finanze- Dipartimento della Ragioneria Generale dello Stato; è sufficiente estenderne la portata in analogia con quanto avviene in quasi tutti gli Stati dell’Ue.

Come indicato al termine di questo appunto, ove si volesse adottare l’idea concordata al vertice di maggioranza del 28 novembre, i tempi – come indicato nella nota al temine di questo appunto- non sarebbero compatibili con il programma europeo per il Recovery and Resilience Fund.

A mio avviso, il Ministero dell’Economia e delle Finanza è l’unica struttura della pubblica amministrazione che ha la capability di gestire la valutazione e selezione degli interventi, nonché, in collaborazione con le amministrazioni competenti dello Stato e delle Regioni, monitorare la tempistica della loro attuazione.

Al Ministero dell’Economia e delle Finanze, ai fini della valutazione e selezione degli interventi, si può prevedere un metodo in tre fasi: a) presentazione di un programma di riforme le cui spese vengano valutate con strumenti all’altezza di standard internazionali; b) scrematura dei progetti/singoli componenti di spesa (sia in conto capitale sia di parte corrente) per individuare quelli validi; c) scelta dei progetti/singoli componenti di spesa che ottimizzino gli obiettivi di politica economica. In tal modo, la politica si concentrerebbe sul livello “alto” della definizione degli obiettivi e dei parametri di valutazione e il lavoro di analisi verrebbe effettuato a livello tecnico, evitando un “suk” tra portatori di interessi. Se l’elenco dei progetti/singoli componenti di spesa non piacesse al Comitato interministeriale per gli affari europei, il livello politico dovrebbe modificare gli obiettivi (e parametri) e quello tecnico, utilizzando la strumentazione disponibile, fornirebbe una nuova proposta in linea con i nuovi obiettivi.

La prima fase potrebbe essere realizzata utilizzando Macgem-It, un modello econometrico multisettoriale sviluppato proprio all’interno del ministero dell’Economia e delle Finanze e pubblicato nel marzo 2020. Macgem-It consente di valutare gli effetti di programmi di spesa su variabili-obiettivo come Pil, occupazione, bilancia dei pagamenti e via discorrendo. E inserendo una funzione che specifichi l’importanza relativa che si dà ai vari obiettivi, delineare il mix o il pacchetto di spese che meglio consente di ottimizzare il loro raggiungimento.

È uno strumento che molti Paesi utilizzano per forgiare la loro politica economica e che in Italia è stato impiegato, in una versione molto semplificata, negli anni Ottanta e, poi, per l’analisi di alcuni grandi investimenti quali la transizione della televisione analogica al digitale terrestre e l’alta velocità tra Lione e Torino, nonché alcuni aspetti della politica tributaria. È entrato in graduale disuso soprattutto perché il suo asse portante – la “matrice di contabilità sociale” (Sam, per gli addetti ai lavori) – non veniva aggiornata dalla fine degli anni Novanta, quando l’Istat ha dato la priorità alle statistiche richieste dall’Ue. Si tenga presente che proprio per il Recovery fund in Francia è stato rimesso in funzione il Commissariato al Piano: è stato nominato un Alto Commissario che riferisce direttamente al Governo e il cui staff utilizzerà strumenti come Mcgem-It (i cui antenati sono comunque francesi, il Tableau économique di Quesnay).

Macgem-It è l’acronimo di “Multisector applied computable general equilibrium model for Italy” (modello multisettoriale computabile di equilibrio generale per l’Italia). È stato realizzato dal Dipartimento del Tesoro in collaborazione con il Dipartimento di economia e diritto dell’Università degli studi di Macerata. È stato ben tarato sulle caratteristiche del sistema economico italiano allo scopo di quantificare l’impatto disaggregato, diretto e indiretto, delle politiche di bilancio e degli scenari di riforma ipotizzati. Una prima versione è stata discussa due anni fa a un seminario tecnico a via XX Settembre, ora è un gradevole fascicoletto (pubblicato lo scorso marzo). È utile sapere che la Commissione europea ha invitato i modellisti italiani a tenere seminari di formazione per i colleghi di altri Stati dell’Ue. E’ quindi rispettato ed apprezzato alla Commissione europea.

La seconda fase è l’individuazione della platea di progetti singolarmente validi. A via Venti Settembre non mancano professionalità. Circa quaranta anni fa si sono fatte le prime esperienze di analisi costi-benefici applicate al Fondo investimenti e occupazione (Fio). Sono poi continuate all’allora Dipartimento per le Politiche di Sviluppo e di Coesione. Infine, una quindicina di anni fa si sono fatte sperimentazioni di valutazione in condizioni di incertezza utilizzando tecniche molto avanzate. Infine, un centinaio di funzionari e dirigenti del dicastero hanno seguiti corsi alla Scuola nazionale d’amministrazione. Le “risorse umane” – per usare il lessico corrente – ci sono, occorre organizzarle bene e fornire loro i parametri di valutazione. Due compiti che spettano al livello politico.

I parametri di valutazione esprimono: a) le preferenze di distribuzione dei costi e dei benefici per fasce di reddito/consumi o su base territoriale o sotto il profilo intergenerazionale; b) il valore sociale da attribuire a obiettivi di politica economica e sociale, quali l’occupazione, la coesione sociale e la sostenibilità ambientale; c) il valore da attribuire a beni e servizi non di mercato o solo parzialmente di mercato (istruzione, ambiente, salute); d) il computo economico di effetti esterni, interdipendenze, costi accantonati, trasferimenti finanziari all’interno della collettività, andamento generale o specifico dei prezzi di beni e servizi; e) il valore economico e sociale di beni e servizi in mercati regolamentati (spesso con tariffe e altre forme di prezzi amministrati).

In materia, la situazione è un po’ confusa e sarebbe necessario mettere rapidamente ordine. Parametri sono stati elaborati negli anni Ottanta del secolo scorso dall’allora Ministero del Bilancio sulla base di una metodologia econometrica aggregata, volta a stimare il rendimento marginale dell’investimento in opere pubbliche. Essi hanno fornito la base di una delibera del Cipe del 1984, emendata, per gli investimenti nel Mezzogiorno, da una direttiva della presidenza del Consiglio del 1986. Tanto la delibera Cipe, quanto la direttiva sono ormai obsolete. Nel 2007, un documento di lavoro dell’Uval (Unità di valutazione allora presso il Ministero dello Sviluppo economico) ha proposto un aggiornamento (peraltro mai ufficializzato), basato sostanzialmente sui lavori della Commissione europea e sulle direttive per le istruttorie di piani e progetti a valere sui fondi strutturali europei. Nel 2012, il Cnel ha presentato un documento di osservazione e proposte, alla luce dell’evoluzione metodologica e dell’esperienza delle principali istituzioni internazionali e dei maggiori Paesi europei, ma soprattutto in linea con obiettivi che danno la priorità alla sostenibilità ambientale e a una migliore distribuzione dei benefici della crescita tra varie categorie. Il documento fu inviato a Governo e Parlamento, ma non è mai stato recepito. In punta di diritto è ancora valida la delibera del Cipe del 1984. Un chiarimento è essenziale. Sarebbe logico e semplice adottare il documento Cnel, aggiornato e ritoccato come si ritiene.

Il terzo stadio è la scelta in funzione degli obiettivi. Si può tornare al nostro amico Macgem-It o applicare una procedura multicriteri. L’aspetto tecnico è semplice, sempre che gli obiettivi politici siano chiari e trasparenti a tutte le dramatis personae italiane e Ue coinvolte in questa operazione.

Nota sulla tempistica

Ho fatto una stima dei tempi per varare la task force. Gli uffici della Presidenza del Consiglio sono già sotto affanno perché mancano circa trecento decreti attuativi (una settantina all’ormai «storico» Decreto Rilancio) per dare corpo alle misure anti- Covid.

Ammesso che tramite un maxiemendamento, la task force venga istituita con la legge di bilancio, la norma richiederebbe almeno una dozzina di decreti attuativi per esplicitare linee di comando, organigramma, direttive per la comunicazione esterna ed interna, i principali processi operativi; perché siano redatti, firmati, vidimati e bollinati (ad esempio dalla Ragioneria Generale dello Stato e dalla Corte dei Conti), andando alla velocità di Speedy Gonzales ci vorranno quattro mesi: si celebrerà la «missione compiuta» il primo Maggio, Festa del Lavoro.

Ma è solo l’inizio. Per la selezione dei manager e degli esperti, si dovrà ricorrere a procedure di evidenza pubblica, per evitare che magistratura contabile e magistratura amministrativa od anche l’Autorità Nazionale Anticorruzione (Ana), invalidino il tutto. Sarebbe, poi, una discriminazione incostituzionale non consentire ai dirigenti ed ai funzionari della pubblica amministrazione di partecipare alla selezione. Per accorciare i tempi si possono prevedere due binari (dopo avere descritto chiaramente ciascun incarico – attività che ha richiesto quattro mesi per la piccola struttura di missione «Investitalia») istituita presso la Presidenza del Consiglio sulla base della legge di bilancio 2019). Un binario per la pubblica amministrazione: un mese per redigere l’«interpello» e pubblicarlo, un mese per ricevere la domande, almeno tre mesi perché le commissioni di valutazione (da nominare) esaminino e la candidature e due mesi per decreti di nomina e relative registrazione. In breve, i primi «incaricati» prenderebbero servizio nel febbraio 2022

Non più rapido il percorso per rivolgersi al mercato privato. Ci vorrebbe una gara per selezionare società di ricerche di manager e di esperti, come venne fatto ai tempi del Governo Letta per le nomine nelle aziende a partecipazione pubblica (per incarichi nei consigli di amministrazione e simili). Allora la gara richiese quattro mesi: ora potrebbero essere portati a tre. Difficile accorciare i tempi del resto della procedura. I prima «incaricati» arriverebbero nel marzo 2022.

*Giuseppe Pennisi, economista

 

Non è tempo di piagnistei!

Non è tempo di piagnistei! Piero Bargellini, allora sindaco di Firenze, pronunciò questa frase nella Galleria degli Uffizi, con il fango sino alle ginocchia nel novembre 1966, quando l’Arno aveva tracimato facendo danni incalcolabili. Una frase semplice che provocò una svolta e si passò in poche ore dal dolore per il disastro nella Città del Giglio al lavoro entusiasta per la ricostruzione.
E’ una frase che vorrei ripetere, a gran voce, agli amici del centro destra. Basta con le geremiadi perché le proposte non vengono ascoltate da chi ha la responsabilità di governare. Le lamentale non fanno mai bene a nessuno e soprattutto non infondono coraggio ai potenziali elettori. Non bisogna neanche farsi soverchie illusioni su “gli stati generali dell’economia”, una passarella fuorviante inventata, pare, dalla fervida mente del portavoce della Presidenza del Consiglio, l’ing. Rocco Casalino.
Il centro destra dovrebbe cogliere con entusiasmo, invece, l’opportunità offerta su un vassoio d’argento dall’Unione europea (Ue). E’ in arrivo un vero fiume di denaro per facilitare il rilancio dell’economia italiana, con particolare riguardo alle piccole e medie imprese ed ai ceti più deboli. Gli aiuti, però, sono soggetti a “condizionalità”: la predisposizione di un programma non solo di come verranno spesi ma anche e soprattutto di come verrà rimessa in sesto l’economia.
Gli obiettivi di tale programma e, quindi, della “condizionalità” europea si possono, per il momento, dedurre dalle raccomandazioni al nostro Paese pubblicate dalla Commissione un paio di settimane fa. In breve, l’Italia dovrebbe assicurare: a) politiche di bilancio tali da permettere una ripresa economica a medio termine e la sostenibilità del debito della pubblica amministrazione; b) aumentare gli investimenti pubblici e privati; c) migliorare il coordinamento tra Stato centrale e Regioni; d) rafforzare la sanità; e) sostenere la fasce deboli più colpite dalla crisi; f) mitigare la disoccupazione con politiche attive del lavoro; g) rafforzare istruzione e formazione a distanza tramite strumenti digitali; h) fare giungere liquidità all’economia reale soprattutto alla piccole e medie imprese ed alle imprese innovative; i) porre l’accento su investimenti “verdi” e digitali; e soprattutto l) migliorare l’efficienza del sistema giudiziario e  l’efficacia della pubblica amministrazione.
Sono obiettivi ineccepibili. Chiaramente il Governo ha difficoltà ad articolarli in un programma con contenuti e scadenze monitorabili (gli aiuti, infatti, verranno erogati a rate, a misura che il programma verrà attuato). Si pensi ad esempio alle profonde differenze tra Partito Democratico (PD) e Movimento 5 Stelle (M5S) emerse in queste ultime settimane su aspetti fondanti della giustizia e della scuola. Oppure alle divergenze sulle grandi opere.
Gli stessi “Stati generali dell’economia” sembrano un diversivo per ritardare una inevitabile resa dei conti su punti chiave del programma richiesto.
L’opposizione potrebbe redigere, e pubblicare, un programma in linea con gli obiettivi indicati. Non si dovrebbe produrre un voluminoso “libro dei sogni” ma un programma triennale di sviluppo dell’economia di 30-40 pagine, con alcune tabelle chiave e se possibile schemi di provvedimenti (decreti legge, disegni di legge, proposte di legge) condivisi tra i partiti del centro destra. Se il Governo non ne tiene conto, l’opposizione dovrebbe utilizzare la propria sponda al Parlamento Europeo per portarlo alle autorità dell’Ue. Che dovrebbero giudicare della solidità delle proposte del Governo (ove vengano presentate ed escano dalla nebuloso di questi mesi) e di quelle di chi oggi siede sui banchi dell’opposizione e si prepara a governare un domani non troppo lontano.

Quo vadis Europa?

L’entusiasmo di questi ultimi per il Next Generatio Ue, presentato dalla Presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, al Parlamento europeo, pone ancora di più di chiedersi quale è la visione e la direzione di marcia dell’Unione europea(Ue)

Quo vadis, Europa? Dove va l’Europa? E’ doveroso chiederselo perché numerosi sondaggi – il più recente è quello dell’Istituto Affari Internazionali (IAI) e del Laboratorio di Anali Politiche e Sociali (LAPS) della Università di Siena- mostrano una disaffezione degli italiani nei confronti Ue e delle sue istituzioni. Nel sondaggio citato, circa il 70% degli intervistati (ed oltre il 60% di quelli che dicono di votare per il Partito Democratico, PD, la forza politica che più si dichiara “europeista” nel panorama politico italiano) sostengono che l’Ue non sta facendo abbastanza per agevolare l’uscita dell’Italia dalla crisi causata dal Covid- 19. Nonostante che l’Ue abbia presentato proposte nell’arco di quattro settimane (ci vollero quattro anni dopo la crisi finanziaria del 2008-2009) e che la Banca centrale europea (Bce) abbia in atto un programma speciale, di cui si avvantaggia principalmente il nostro Paese, per fornire liquidità e, quindi, calmierare il costo del debito della pubblica amministrazione. Non so se Next Generatio Ue farà mutare questi orientamenti. E’ comunque presto per dirlo perché il percorso di Next Generatio Ue è ancora lungo e tutto in salita.

Le perplessità derivano da quattro determinanti. La prima è quella che ha fatto maggior effetto sull’opinione pubblica, pure quella che meno segue le questioni europee. La crisi ha dimostrato che nonostante oltre sessanta anni di lavoro dell’Eurostat (la direzione statistica della Commissione europea) con i suoi circa mille addetti, e degli istituti statistici nazionali non c’è alcuna uniformità né nelle definizioni né nelle rilevazioni nelle statistiche sanitarie di base, essenziali per un minimo di coordinamento all’interno dell’Ue. All’interno dei singoli Stati dell’Ue, in quelli dove la gestione delle politiche sanitarie è affidata ad enti intermedi (come Regioni e Länder) sono emerse differenze nei tempi di rilevazione ma non nelle modalità e nelle definizioni. E’ sorto il sospetto che ciò non sia solo un problema della sanità ma di molti settori.

La seconda riguarda come una delle prime misure per rispondere alla pandemia sia stata l’effettiva sospensione del mercato unico – l’insieme di regole (in primo luogo quelle degli aiuti di Stato) che mettono sullo stesso piano tutte le imprese dell’Ue e consentono così una concorrenza leale e plurale. Di tale sospensione beneficia principalmente la Germania ed il tessuto produttivo tedesco. La Germania ha potuto varare un programma di rilancio di mille miliardi di euro (grazie al basso peso del debito della sua pubblica amministrazione rispetto al Pil) ed il Governo federale e quelli dei Länder potranno anche entrare nel capitale di imprese in difficoltà per periodi più o meno lunghi (come già avvenne negli anni dell’unificazione), nonché effettuare fusioni ed acquisizioni ostili nel resto dell’Ue.

La terza riguarda l’unione monetaria. La teoria economica, e studi recenti pure di economisti del Nord Europa, insegnano che, a fronte di una crisi asimmetrica (quella del Covid-19 lo è essenzialmente nei suoi effetti) senza trasferimenti di fattori di produzione (soprattutto di capitale) dai Paesi meno a quelli più colpiti, un sistema di tassi di cambio fissi od una moneta unica non reggono a lungo. In questi mesi, una crisi dell’euro è evitata dall’azione straordinaria della Bce, della cui durata e consistenza, non c’è certezza.

La quarta riguarda il diritto europeo. La Corte Suprema tedesca ha messo in dubbio – non è la prima volta ma è la più palese- che la Corte di Giustizia Europea abbia la potestà di emettere sentenze in materie che riguardano la Bce ma possono incidere, direttamente o indirettamente, sulla finanza pubblica della Repubblica Federale. In precedenza, la Polonia ha decisamente negato che la Corte di Giustizia Europa abbia preminenza sulla propria Corte suprema.

Mentre la prima di queste determinanti riguarda aspetti di funzionamento tecnico- amministrativo curabili con più stretta collaborazione tra le istituzioni europee e quelle degli Stati membri, le altre tre riguardano i pilastri stessi dell’Ue: il mercato unico, la moneta unica, il diritto europeo. Ci vuole una grande visione unitamente a riforme ed a senso di compromesso. La visione non si percepisce. E le riforme ed il senso di compromesso paiono fermarsi a livello basso.

I troppi “ismi” nel dibattito politico

Ismo – ci ricorda l’Enciclopedia Italiana – è un suffisso di molti vocaboli astratti, taluni derivati dal greco (dove hanno origine verbale) e i più formati posteriormente (tratti in genere da sostantivi o aggettivi), per indicare dottrine e movimenti religiosi, sociali, filosofici, letterari, artistici (per es.: manicheismo, islamismo, socialismo, empirismo, realismo, impressionismo, ecc.), atteggiamenti, tendenze, caratteri collettivi o individuali (eroismo, radicalismo, patriottismo, dispotismo, ottimismo, scetticismo, fanatismo), comportamenti o azioni (disfattismo, ostruzionismo), condizioni o qualità, e anche difetti morali o fisici e abitudini nocive (egoismo, mutismo, strabismo, daltonismo, alcolismo), talora condizioni di cose (parallelismo, magnetismo), attività sportive (ciclismo, podismo, discesismo, connessi questi con i sostantivi in -ista come ciclista, ecc.). “Il largo uso che negli ultimi decennî si è fatto di questo suffisso, soprattutto nella formazione di sostantivi riferentisi a tendenze letterarie e artistiche (futurismo, cubismo, astrattismo, ermetismo), – precisa l’Enciclopedia Italiana- ha suscitato qualche reazione ironica, tendente a criticare non tanto il suffisso in sé quanto la coniazione a volte arbitraria del sostantivo, e degli aggettivi in -istico che ne derivano”. Sovente l’”ismo” e gli “ismi” hanno assunto una connotazione peggiorativa.

E’ un tema, a mio avviso, non solo di stile letterario ma di sostanza. Per questo, merita di essere discusso in seno ad una Fondazione di cultura politica. Oggi il dibattito politico italiano si incentra spesso su tre “ismi”: “europeismo”, “sovranismo”, “nazionalismo” che hanno negli anni perduto parte del loro significato originale. L’”europeismo”, ad esempio, veniva impiegato inizialmente come sinonimo di “federalismo europeo”, un concetto ormai fuori dal tempo dato in un’Unione a 27 è fattibile aspirare, al più, ad un coordinamento basato sul binomio responsabilità e solidarietà tra gli Stati che ne fanno parte. Il “sovranismo” è anche esso fuori tempo; già quaranta anni fa, Marc Blondel, leader del sindacato anticomunista francese Force Ouvrière, diceva che in mancanza di coordinamento tra Stati ed un certo grado di condivisione (e, quindi, di cessione di sovranità), i Governi sarebbero diventati subappaltanti dei mercati. Il “nazionalismo” ha un bel profumo di antico, come “le piccole cose di pessimo gusto” di cui scriveva Guido Gozzano: ricorda il tempo, ormai passato, in cui Stati nazionali di tarda formazione (rispetto agli altri di quello che allora veniva chiamato “il consesso delle Nazioni”) dovevano affermare la propria identità.

Ora il contesto è marcatamente differente. Come ho ricordato nell’ultimo fascicolo di Rivista di Politica sia l’Europa sia il più vasto scenario mondiale sembrano destinati ad operare in giochi multipli alla ricerca di equilibri alla Nash (il matematico reso noto vent’anni fa dal film A Beautiful Mind), quindi sempre inerentemente instabili. In questo quadro, “europeismi federalisti” sono quanto meno utopici, le cessioni di “sovranità” sono inevitabili, pena non potersi neanche sedere ai tavoli dei giochi, il “nazionalismo” non deve più affermare identità ma promuovere e difendere l’interesse nazionale. Una promozione ed una difesa tanto più difficile quanto più ci si muove tra equilibri instabili.

Una politica di promozione e difesa dell’interesse nazionale richiede, innanzitutto, un’idea chiara di cosa è l’interesse nazionale, ossia quale è la “funzione obiettivo” (per utilizzare il gergo degli economisti) in cui si articola l’interesse nazionale. Comporta, poi, una macchina pubblica (la pubblica amministrazione ed il settore pubblico allargato) proteso alla promozione ed alla difesa dell’interesse nazionale.

Sul primo punto, la Fondazione è la sede appropriata per un dibattito ed un chiarimento. Tra breve verrà proposto un documento collettaneo che potrà essere, al tempo stesso, una proposta ed una base di discussione per delineare, con chiarezza ed al di fuori di “ismi”, contenuti, obiettivi e vincoli all’interesse nazionale.

Sul secondo punto, sulla base della mia esperienza di funzionario internazionale sempre in seguito a pubblico concorso e mai designato dall’Italia, credo che si sia molto da costruire. Un compito a cui la Fondazione, se ha mezzi, potrà dare un apporto con corsi, seminari ed altre proposte specifiche.

Il decretone

Dopo settimane di complesse trattative, il “Decreto Marzo” rinominato “Decreto Rilancio, 400 pagine di articolato e quasi altrettante di relazione tecnica, è stato varato dal Consiglio dei Ministri e si può leggere in Gazzetta Ufficiale, non in una delle molteplici bozze che solerti portavoce di Palazzo Chigi consegnano a giornalisti amici e finiscono bene o male sul web.

C’è da nutrire dubbi sulla costituzionalità del provvedimento che contiene numerose norme “particolaristiche” che non quelle caratteristiche di urgenza che dovrebbe caratterizzare i decreti legge – alcuni articoli, tra i tanti esempi, riguardano il comune di Campione d’Italia (meno di 2000 abitanti) , altri i concorsi alla Scuola Nazionale d’Amministrazione, altri il fascicolo sanitario elettronico, altri ancora la nuova nazionalizzazione di Alitalia, altri la sanatoria (più o meno mascherata) di immigrati clandestini e così via. Sono forse di provvedimenti che hanno singolarmente una loro giustificazione ma che sarebbero meglio collocati in disegni di legge oppure, se urgenti, in decreti legge settoriali o ordinamentali. Ciò permetterebbe anche un più ponderato esame da parte del Parlamento, sede in cui si potrebbero anche adottare miglioramenti delle singole misure. In tal modo, sarà impossibile entrare nel merito. Soprattutto, se per la conversione in legge si finirà con un maxi-emendamento approvato a colpi di voti di fiducia si porrà un problema di lesione dei diritti costituzionali non solo dell’opposizione ma soprattutto dei cittadini.

In analisi finanziaria, un euro equivale ad un euro sia che serva per comprare una liquirizia sia per fare elemosina alla porta della Chiesa. Quindi, 55 miliardi sono 55 miliardi sia che servano a dare supporto ad alcuni comparti e ad alcune categorie sia che vengano utilizzati per saldare debiti contratti su un lungo, od anche breve, periodo di tempo. E’ noto che in economia del benessere, alla luce di chiari obiettivi di politica pubblica, e se la macchina tributaria non funziona, un euro può valere più o meno di un euro a seconda della destinazione. Ma tali raffinatezze – a cui mi sono dedicato per decenni – non credo che entrino nelle discussioni del Consiglio dei ministri e dei vertici dei capi delegazione. Inoltre, anche nella manualistica, non si applicano ad un Paese come l’Italia, ad economia aperta e con vasto welfare supportato da una finanza pubblica che non può essere paragonata a quella del Ruanda.

Viene, quindi, a proposito una domanda di fondo: perché tante angosce (ritardi, riunioni notturne, tensioni, rischi della rottura tra componenti della simpatica brigata al governo del Paese, spread che sale e che scende, incertezza di individui, famiglie ed imprese) e tanti costi per tutti, per mettere a punto un decreto legge con l’obiettivo di iniettare 55 miliardi nel sistema economico? Non sarebbe stato più semplice, più facile e meno costoso saldare i 55 miliardi di debiti della pubblica amministrazione nei confronti delle imprese e, se del caso, fare alcuni provvedimenti mirati per alcuni comparti economici ed alcune categorie di cittadini?

In lavoce.info, Dario Immordino analizza il maledetto imbroglio del paradosso in base al quale il governo stanzia ingenti risorse per fornire liquidità alle imprese attraverso le banche, mentre le pubbliche amministrazioni non pagano i propri debiti dato che somme già stanziate in bilancio non si trasformano in pagamenti effettivi. È un’analisi giuridica (Immordino insegna all’Università di Palermo ed esercita la professione di avvocato) a cui si rimanda. Contiene anche suggerimenti per uscire dall’incaglio. L’ipotetico buon padre di famiglia che governa il Paese dovrebbe, con raziocinio, prima saldare i propri debiti e poi prendere nuovi impegni di spesa (accertandosi che sarà in grado di onorarli con puntualità, efficienza ed efficacia).

Sotto il profilo finanziario, i 55 miliardi del decreto comportano alti costi di transazione che gravano su tutta la collettività: i tempi e le ambasce per la preparazione del provvedimento, la sua approvazione e l’erogazione effettiva degli stanziamenti. Si può argomentare che il decreto riguarda imprese differenti da quelle che non riescono a riscuotere i propri crediti con la Pubblica amministrazione, nonché alcune categorie di cittadini e famiglie. È un argomento debole dato che l’esperienza degli ultimi mesi è che gli stanziamenti di decreti precedenti non arrivano a destinazione con la puntualità, efficienza ed efficacia dovute. Chi assicura che i nuovi impegni con imprese, cittadini e famiglie, vengano onorati più celermente e meglio?

Da quarant’anni, la “teoria economica dell’informazione” ci ha insegnato che l’incertezza (e la confusione) sono i peggiori nemici della crescita economica e, quindi, anche del “rilancio”. Imprese e famiglie pospongono scelte e decisioni in attesa di poterle prendere con chiara cognizione di fatto. Nella marea di tanti mini provvedimenti e di bonus (che – come è noto, a pensare male si fa peccato ma spesso ci si azzecca – sembrano mance elettorali destinate a permanere per sempre), è difficile sia per le imprese sia per le famiglie, cogliere il senso dell’indirizzo di marcia. Anzi nel decreto affiora, ad una lettura veloce, un sapore anti-imprese, frutto di una tradizione culturale che –come ha ben sottolineato Angelo Panebianco sul Corriero della Sera da un lato esprime la decrescita felice (una bandiera del Movimento Cinque Stelle) e dall’altro all’anticapitalismo ed anti-mercato degli ex-post-neo- comunisti e della così detta “sinistra cattolica”. Con una cultura anti-imprese non si fa crescita e tanto meno rilancio.

Come verrà letto dalle istituzioni europee e dagli altri Stati dell’Unione europea? La loro preoccupazione riguarda principalmente la sostenibilità del debito dell’Italia. Essa necessita crescita, che richiede investimenti pubblici e privati. Il decreto non fa nulla o quasi in queste materie.

Ed i mercati? Anche loro chiedono crescita, soprattutto dopo la preoccupante sentenza della Corte Costituzionale tedesca.

Sarebbe stato più efficace su quattro misure, decretabili in due paginette: sgravi fiscali, supporto ai redditi ed ai consumi, sostegno ai comparti in maggiore difficoltà, snellimenti procedurali (per fare arrivare tempestivamente i finanziamenti ai beneficiari e per fare partire gli investimenti pubblici rimasti al palo).

TAIWAN, LA CINA E LA COVID

Ad un seminario internazionale on line, organizzato dalla School of Advanced International Studies- Europe della Johns Hopkins University a Bologna, pochi giorni fa, è stato sottolineato che quasi nulla si sa di come Taiwan ha sconfitto la Covid 19. La piccola Repubblica ha 24 milioni di abitanti (cioè poco meno del Nord Italia) ed ha avuto soltanto pochi centinaia di infezioni , nonostante sia a due passi dalla Cina, Paese dal quale è partita la pandemia. Taiwan ha avuto appena 382 casi, di cui 6 sono morti e gli altri guariti. Inoltre, ha saputo gestire la crisi sanitaria senza ricorrere ad alcun lockdown. Scuole, negozi, aziende. Niente si è fermato a Taiwan, il cui modello di contenimento dovrebbe essere analizzato al pari di quello messo in campo da Corea del Sud, Singapore e Cina. Eppure il successo di Taipei è eclissato dalla storia di questo stesso Paese. Taiwan è la Cina democratica, la stessa la cui indipendenza non è riconosciuta dalla Repubblica Popolare cinese e da quasi tutte le nazioni, a eccezione di una ventina. La “provincia ribelle”, inoltre, non fa parte neppure dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), sempre per i veti di Pechino.

Lo scorso 31 dicembre il Paese ha iniziato a monitorare i viaggiatori provenienti da Wuhan; l’8 febbraio ha invece chiuso i confini ai cittadini della Cina comunista. Taiwan ha poi delegato il tutto a un Centro di comando anti epidemia, che ha avviato i protocolli creati dopo l’emergenza Sars, epidemia scoppiata a cavallo tra il 2002 il 2003.

Senza indugi, le misure sono state comunicate ai cittadini. Le aziende hanno ricevuto l’ordine di incrementare la produzione di mascherine; applicazioni e big data hanno fatto il resto, tracciando i soggetti contagiati e controllando che i pazienti a rischio restassero chiusi in casa

Di fronte al successo sanitario di Taiwan, l’Oms è parsa in imbarazzo. Come riconoscere di fronte al mondo intero gli ottimi risultati conseguiti nella lotta contro il Covid-19 senza scatenare le ire di Pechino? Difficile se non impossibile. E allora silenzio ermetico.

Invece, la Cina e le sue ambasciate (particolarmente attiva quella di Roma) stanno facendo una campagna attiva per sostenere come il regime autoritario (il Partito Comunista Cinese) abbiano dato prova della loro efficacia e superiorità rispetto alle “vetuste” democrazie rappresentative occidentali nella battaglia contro il Covid-19 (dimenticando di dire, naturalmente, dove e come è nato e dove e come è stato occultato). Lo hanno sottolineato a metà aprile sia The Economist sia The New York Times International.

La battaglia utilizza toni sempre più nazionalisti a tutti i livelli; ad esempio, ristoranti cinesi espongono manifesti con la scritta America, goditi il Covid 19Giappone, il Covid ha iniziato un bel viaggio verso il Sol Levante.

Questi accenti iper-nazionalisti sono diventati terribili nei confronti degli stranieri che vivono in quello che fu il Celeste Impero: ad esempio, gli africani che lavorano da lustri nel Sud sono trattati come untori, se non peggio. La strategia verso il predominio mondiale è iniziata da anni ed ha caratterizzato la presa di potere di posti chiave in organizzazioni internazionali. Ormai – è noto – la Fao è considerata come un appannaggio cinese.

Ho lavorato a lungo con la Cina e con i cinesi. So che specialmente le popolazioni delle regioni centrali si considerano un popolo eletto, superiore a tutti gli altri; ciò spiega anche il trattamento da loro riservato ai tibetani e – peggio ancora- agli uiguri. I “bianchi” occidentali sono visti come una specie inferiore che ha “rubato” alla Cina innovazioni come la polvere da sparo e gli spaghetti ed ha usurpato per secoli il potere mondiale a cui solo i cinesi avevano ed hanno titolo.

In un’intervista al Corriere della Sera, il ministro degli Esteri e della Cooperazione Internazionale afferma che la vicinanza alla Cina ostentata dalla Farnesina è frutto di Realpolitik. Mi chiedo quali sono gli interessi che legano l’Italia (non qualche personalità o qualche gruppo politico) alla Cina tanto da fare considerare quello che fu il Celeste Impero un partner privilegiato.

Luigi Di Maio dovrebbe tenere presente che una Realpolitik non può prescindere da questi elementi:

  1. a) Il coronavirus, e la strage che sta facendo in tutto il mondo, proviene da una Cina nelle condizioni riassunte da Balducci, anche e soprattutto perché il governo ha celato il problema per almeno due mesi. Negli ultimi trent’anni, altre due letali epidemie (anche se in Europa non così gravi come il Covid-19) sono nate nel sottosviluppo e la promiscuità tra uomini ed animali che dietro grattacieli ed alte tecnologia (spesso ottenuta contraffacendo brevetti occidentali) domina gran parte della Cina di oggi.
  2. b) L’offensiva del sorriso e della “carità pelosa” di questi giorni non deve trarci in inganno. Pechino sa che dopo il coronavirus, sarà isolata in quello che, ai tempi di Bismarck, veniva chiamato “il consesso delle Nazioni”. Gli Stati Uniti hanno fatto capire senza mezzi termini che quello che sarebbe dovuto essere un primo armistizio commerciale non verrà seguito da un secondo vero accordo commerciale, ma da una nuova guerra dei dazi. I maggiori Stati europei stanno cercando di forgiare una strategia comune ben articolata nei confronti degli autocrati della Città Proibita soprattutto in tema di alta tecnologia (come il 5G). Nessuno di loro è caduto nella trappola di siglare un Memorandum of Understanding come quello firmato dall’Italia. Quindi un “gemellaggio” con la Cina ci isolerebbe nel mondo occidentale e sarebbe contrario agli interessi dell’Italia.
  3. c) Mentre li corteggiamo i cinesi (che si ritengono la razza eletta) ci sbeffeggiano, senza che la nostra diplomazia faccia nulla. Ad esempio, una televisione (di Stato) cinese ha mostrato immagini del flash mob in cui si cantava il nostro Inno Nazionale affermando che erano espressioni di gioia e ringraziamento per il cargo di materiale medico giunto a Ciampino da Pechino.

Occorre anche riflettere sul disastro pure ecologico che la Cina sta causando nel bacino del Mekong. Il fiume nasce nelle alture del Tibet, ora Regione autonoma della Cina, e bagna la Myanmar (il nome odierno dell’antica Burma), la Thailandia, il Laos, la Cambogia ed il Vietnam. Ha acque molto ricche che rendono molto fertili le terre che attraversa e molto prospera la pesca fluviale. Ed è un fiume imponente, le cui piene (un tempo frequenti) provocano tracimazioni ed alluvioni, ma che è stato per millenni una delle principali fonti di produzione e di reddito dell’area. In Cina, il Mekong scorre tra gole in un’area priva sostanzialmente di agricoltura e di pesca e le sue acque possono essere utilizzate per energia idroelettrica.

Un lungo e dettagliato rapporto di Eyes on Earth, un’organizzazione internazionale privata di studio ed analisi dei problemi delle acque:  un documento tecnico, voluminoso e corredato, oltre che da dati, di fotografie aree, documenta che la Cina che non ha aderito all’organizzazione creata dai cinque Paesi a valle per la valorizzazione del bacino del Mekong , a monte sta, poco a poco, utilizzando il fiume solo per sé, riducendo il flusso delle acque verso gli altri. Ha costruito 11 grandi dighe idroelettriche che producono molta più energia di quanto possa essere utilizzata dall’area di sua spettanza e ne sta edificando altre per creare bacini di acqua.

Sembra uno spreco di risorse, ma la Cina sa di venire da lontano e di guardare lontano: il cambiamento climatico sta avendo effetti sui ghiacciai dell’Himalaya, che alimentano il Mekong. In breve, mentre in Tailandia ed anche in Vietnam imperversava la carestia, ed il settore della pesca fluviale (oltre all’agricoltura) dei rispettivi Paesi andava a gambe all’aria, l’acqua veniva tenuta prigioniera in bacini costruiti per catturarla ed utilizzarla in tempi di magra. La Cina dice di considerare “amici” anzi “fratelli” Paesi, alcuni dei quali proclamano di avere preso una strada al comunismo che si ispira a quella di Pechino. Nel frattempo, toglie loro l’acqua. Ciò dovrebbe essere un monito per chi, alla Farnesina, vuole essere “amico”, anzi “fratello”, della Repubblica Popolare.

UN PRESTITO NAZIONALE PER RIPARTIRE

Le informazioni- o meglio gli spifferi- che arrivano da Bruxelles sui lavori per la preparazione del Recovery Fund sono frammentarie ed incerte. Appare chiaro, tuttavia, che il percorso sarà lungo e tutto in salita. Quindi, nel contempo, dovremo fare da soli. Uno scatto d’orgoglio nazionale potrebbe fare da molla anche al contributo europeo, come avvenne nel 1947, quando l’allora denominato Prestito per la Ricostruzione venne varato ben prima del Piano Marshall, anzi sono gli storici dell’economia, diede la stura ad accelerare i tempi dello European Recovery Plan americano.

Si sono levate in queste ultime settimane voci in favore di un tale prestito, che potremmo chiamare Prestito Nazionale per la Ripresa, ad esempio quella dell’ex Ministro dell’Economia e delle Finanze, Giulio Tremonti. Deve essere inteso come un auspicio alla creazione di uno spazio non solo di mercato in cui si riconoscano le nazioni e quindi i popoli europei i cui governi hanno firmato i Trattati che regolano il meccanismo di una politica economica europea che, come i Commissari Europei hanno più volte sottolineato, è sempre indipendente dalle volizioni elettorali. Un Prestito Nazionale per la Ripresa è – come ha commentato di recente Giulio Sapelli – per sua intima essenza fondata sulla unità di un popolo che si riconosce in una comunità di destino, antitetico, dunque, a quello del governo dall‘alto dei popoli.

E’ una proposta fattibile soprattutto a ragione della ricchezza delle famiglie italiane che, se motivate, potranno mobilitarsi per dare corpo all’iniziativa. E’ la ricchezza delle famiglie che, sino ad ora, ha fatto da argine all’altissimo debito pubblico e fatto sì che le agenzie di rating non degradassero eccessivamente i nostri titoli. Stando alle ultime rilevazioni della Banca d’Italia, le famiglie italiane dispongono di una ricchezza netta pari a circa 8,4 volte il reddito disponibile.

Come si vede dal grafico in basso, tratto dall’indagine della Banca d’Italia “La ricchezza delle famiglie italiane “, nessun altro Paese avanzato mostra un rapporto tra ricchezza e reddito più alto di quello dell’Italia.

Un Prestito Nazionale per la Ripresa può essere declinato in vari modi. Dovrebbe essere a lunga scadenza (30-40 anni – qualcuno ha resuscitato i vecchi titoli irredimibili, come quelli dell’Impero Britannico) ma dovrebbe salvaguardare il valore del capitale e, soprattutto, dare un tasso d’interesse appetibile. Ciò è particolarmente difficile in una fase, come l’attuale, di bassi tassi d’interesse destinata probabilmente a proseguire grazie alla politiche espansive della Banca centrale europea (Bce). Una proposta interessante è quella del Premio Nobel Robert Shiller: un tasso d’interesse collegato alla crescita del Pil. Ciò avrebbe anche un forte valore simbolico: i sottoscrittori si sentirebbero personalmente e direttamente coinvolti nella ripresa.

Il Prestito Nazionale per la Ripresa non sostituirebbe l’apporto dell’Unione europea, ma lo stimolerebbe ed accelererebbe. Come ho già scritto, l’Italia ha esigenza di enormi finanziamenti o a fondo perduto o di credito agevolato per finanziare ripresa e debito pubblico incrementale. Siamo un Paese forte e ben rappresentato soprattutto nel Consiglio e nell’Esecutivo della Bce. Non abbiamo truccato i conti per entrare nell’eurozona (come ha fatto la Grecia, per ammissione dei suoi stessi Governi). Non dobbiamo, quindi, aver paura del lupo cattivo (o per mutuare il titolo di un noto dramma degli anni sessanta del secolo scoro di Virginia Woolf ). Dobbiamo, quindi, accedere sia allo sportello sanitario del Meccanismo europeo di stabilità (Mes) sia alle Outright Monetary Transactions (Omt) della Bce.

LA DOPPIA RECESSIONE E COME COMBATTERLA

Mentre in gennaio, prima dell’esplosione della pandemia, il Fondo monetario internazionale aveva previsto una crescita del 3,3% dell’economia globale per l’anno in corso, le ultime stime sono di una contrazione del 3%. Le perdite complessive del Pil mondiale per la pandemia del coronavirus ammontano a quasi 9.000 miliardi di dollari fra il 2020 e il 2021, una cifra che supera quella delle economie del Giappone e della Germania messe insieme. Lo stesso Fmi osserva anche come ci sia “estrema incertezza sulle stime di crescita” e spiega che “le ricadute economiche dipendono da determinanti difficili da prevedere”. Nella seconda metà del 2020 gli sforzi di contenimento “potranno essere allentati gradualmente” dando la spinta per una ripresa nel 2021, quando “l’economia globale dovrebbe crescere del 5,8%”, grazie “alla normalizzazione dell’attività economica, aiutata dagli interventi dei governi”. Questi ordini di grandezza – sottolinea il documento- si riferiscono allo “scenario ottimista” tracciato dal Fondo, che ne ha delineato anche altri due, molto più cupi. Per l’economia mondiale e per le economie dei principali Paesi, Italia compresa.

Secondo il Fondo, il Pil italiano avrà una contrazione del 9,1% quest’anno, mentre nel 2021 è prevista una ripresa che però si fermerà al 4,8%. In Germania e Francia, sempre secondo il Fondo, si verificheranno contrazioni del Pil attorno al 7% nel 2020. Per l’Italia, inoltre, si prospetta una recessione “a gobba di cammello”, ossia una doppia recessione, come nel 2008-2009 e nel 2011-2012, se non si utilizzerà la crisi per un riassetto della finanza e del debito pubblico, nonché per un rilancio della produttività dei fattori (lavoro e capitale). Churchill amava dire: “Non sprechiamo mai una buona crisi”. Nella sua drammaticità umana, economica e finanziaria, questa potrebbe essere l’occasione di una svolta.
Lo mostrano pochi numeri. E’ del tutto insufficiente l’ammontare di risorse che potremmo spendere per impedire che l’economia crolli. Lo stimolo espansivo che il Governo italiano sta dando all’economia ed al contrasto delle implicazioni economiche del coronavirus è così limitato (pari a molto meno dell’1% del Pil, mentre quello della Germania, ad esempio, supera il 4% e quelli di Danimarca ed Olanda il 2%). Nonostante la ‘sospensione’ dei trattati e degli accordi intergovernativi europei, il fardello del nostro debito pubblico (136% del Pil) non ci consente manovre come quelle di Germania, Danimarca ed Olanda i cui debiti pubblici sono pari al 59%, 33% e 49% dei rispettivi Pil. In una nota del 18 aprile, del Presidente del Club dell’Economia, Bruno Costi, si sottolinea che la quantità delle risorse che potremo investire e spendere nei prossimi 12 mesi sono la somma tra i 20 miliardi già decisi con il decreto “Cura Italia”, i 45 previsti dal prossimo decreto “Rilancia Italia” , ed una cifra pari a circa 100 miliardi che sperabilmente potrebbero arrivare dall’Europa attraverso i vari strumenti; in totale dunque 165 miliardi, meno dei 180 miliardi che a fine anno avremo perso per il calo del Pil. “La potenza distruttiva di una recessione è molto maggiore della capacità ricostruttiva di un rilancio. E dunque, per pensare semplicemente di ritornare ai valori di Pil del 2019, è verosimile dover stanziare (e soprattutto saper spendere) almeno il doppio di quanto si profila”.

Ancora una volta, il vincolo principale è il debito. Siamo il Paese con il terzo debito pubblico più alto al mondo. Secondo le stime Fmi, arriverà a 153-157% del Pil alla fine di quest’anno ed al 170% il prossimo. Il 36% è collocato all’estero; negli ultimi collocamenti i risparmiatori italiani hanno mostrato una certa “stanchezza” rispetto a questo impiego per i loro risparmi. Non siamo in una situazione come quella del Giappone in cui i titoli di Stato vengono collocati all’interno e, se del caso, la Banca centrale li assorbe in ultima istanza. Tale funzione è in ogni caso vietata alla Banca d’Italia dalle regole di base dell’unione monetaria europea.
“Saremo in grado – si chiede Costi- di rassicurare i mercati che potremo pagare almeno gli interessi? E che l’aumento del Pil futuro sarà superiore a quello degli interessi sul debito? “. Come reagiranno – aggiungo- alla prospettiva che il peso del debito ci porterà a lasciare l’unione monetaria, e causerà – come avvenne nel settembre 1992 – una svalutazione del 30% al solo timore che l’Italia avesse pensato di non fare parte dell’eurozona allora in costruzione? Ciò causerebbe perdite enormi di reddito e di capitale agli italiani ed agli investitori e la sola prospettiva potrebbe essere la molla per la seconda recessione.

Quindi occorre un piano vasto e lungimirante per evitare questo scenario. Utilizzando, al meglio, tutte le risorse disponibili. Quelle che può mettere in campo l’Unione europea (Ue) sono potenzialmente molto ampie, se sappiamo coglierle ed utilizzarle bene. Il 16 aprile, l’Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani dell’Università Cattolica ha pubblicato un interessante raffronto sugli aiuti del Piano Marshall all’Italia nel 1948-1952 e quelli già messi in campo ora per il 2020: senza tener conto dell’eventuale apporto del Meccanismo europeo di stabilità (Mes) e delle Outright Monetary Transactions (Omt), l’Ue ha messo in campo finanziamenti che nel 2020 potrebbero arrivare sino al 14,1% del Pil e che, in un approccio collaborativo, potrebbe continuare negli anni prossimi (se le difficoltà proseguono e per evitare la seconda recessione), mentre gli aiuti del Piano Marshall sono stati mediamente pari al 9,2% del Pil. E’ vero che l’apporto europeo è di credito agevolato, mentre gli aiuti del Piano Marshall erano doni. Il Piano Marshall, però, una pesante condizionalità politica ed economica: adesione alla Nato, approvazione del programma pluriennale di politica economica da parte dell’Oece, approvazione dei singoli progetti sia dall’ufficio del Piano Marshall nel Paese sia di quello a Washington, acquisto di beni e servizi solo americani, stretta supervisione. Tanto che appena possibile l’Italia si rivolse alla Banca mondiale ed al Fmi.
E’ necessario, a mio avviso, utilizzare tutte queste risorse, anche quelle del Mes e delle Omt in attesa che vengano creati nuovi strumenti i quali richiedono tempo per essere formulati, approvati e ratificati. Un tempo che l’Italia non ha.

Sul Mes, premessa per le Omt, occorre fare chiarezza dato che sono in corso tre trattative distinte: a) la prima iniziata nel 2018, e in sostanza accantonata a fine 2019, relativa alla riforma dell’accordo del 2012; b) la seconda iniziata circa un mese fa ed attinente ad un nuovo sportello del Mes, privo di condizionalità di politica economica, che sarebbe in vigore per due anni e sarebbe mirato alle spese sanitarie per l’emergenza; c) la terza pertiene all’accesso o meno dell’Italia a questo nuovo sportello, se verrà. L’accesso è una decisione puramente italiana e richiede un voto parlamentare. Se l’Italia non vota a favore del nuovo sportello, resterà isolata nell’eurozona, perché numerosi altri Stati vogliono accedere a tali finanziamenti. Ad un’analisi costi-ricavi, per l’Italia accedere al Mes (che non fa finanziamenti a fondo perduto, ma credito agevolato) può rappresentare per una somma di 36 miliardi un risparmio di circa 400 milioni rispetto al ricorso al mercato (ossia emettendo titoli di Stato per pari importo). Più significativo è che il Mes è la porta per le Omt, messe a punto dalla Bce nel 2012. Le Omt permettono nella sostanza di ‘europeizzare’ nuovo debito pubblico, obiettivo primario dell’Italia. La decisione di concedere Omt spetta unicamente alla Bce, i cui organi negoziano con lo Stato che vuole usufruirne i termini, le condizioni e le regole di vigilanza. L’Italia è ben rappresentata tanto nell’Esecutivo quanto nel Consiglio della Bce. Le Omt comportano una condizionalità non differente da quella dei prestiti di cui l’Italia ha fruito in passato, ad esempio, dal Fondo monetario e dalla Banca mondiale.
Quale è l’alternativa? Per quest’anno si prevede disoccupazione in aumento dal 10% al 12,7% in Italia. L’eurozona nel suo complesso vedrà i senza lavoro salire al 10,4%; unicamente in Germania il tasso di disoccupazione resta sotto il 4%. Al rallentamento dell’attività economica si accompagnerà una generalizzata gelata sull’inflazione, con indici di aumento dei prezzi allo 0,2% nell’eurozona e allo 0,6% negli Usa, nonché un calo dei redditi. Un editoriale di The Economist del 18 aprile rammenta che sta nascendo una rivolta dei millennial arrabbiati contro chi ha lasciato troppo debito sulle loro spalle unitamente alla prospettiva di poco lavoro e poco reddito.