Giuseppe Della Gatta

UNA ZES UNICA PER IL MEZZOGIORNO

Le Zone Economiche Speciali (ZES), in Italia, sono state istituite nel 2017, al fine di favorire lo sviluppo delle imprese presenti e l’insediamento di nuove attività nelle regioni del Mezzogiorno, tramite semplificazioni degli adempimenti amministrativi e burocratici, agevolazioni fiscali e doganali. Alle ZES per interventi strutturali sono stati destinati 630 milioni del PNRR e 1.2 miliardi di euro per l’ammodernamento e il potenziamento dei porti presenti all’interno delle zone medesime.

L’obiettivo è quello di rilanciare gli investimenti nelle Regioni del Sud meno sviluppate e in transizione del Paese. Le ZES diventano operative nel 2008, nel 2009 vengono stanziati 300 milioni di euro a valere sul fondo di sviluppo e coesione, nel 2021 viene introdotto il credito d’imposta e l’autorizzazione unica. Infine nel 2022 viene attivato lo sportello digitale. Nell’ambito di applicazione dello strumento ZES ogni regione predispone un piano di sviluppo nel quale sono descritti gli scenari economici di riferimento individuando i codici ATECO che permettono alle aziende interessate di poter accedere a tutte le agevolazioni previste dalla normativa. I principali incentivi destinati agli investimenti realizzati nelle Zone Economiche Speciali sono il credito d’imposta per gli investimenti effettuati e la riduzione del 50% dell’imposta sul reddito d’impresa derivante dallo svolgimento dell’attività nella ZES. Gli investimenti nelle aree ZES, seppur in soli due anni di effettiva operatività, hanno comportato un significativo impatto economico. Un’analisi sull’efficacia delle ZES quali strumenti di attrattività per gli investimenti nel Mezzogiorno ha messo in luce che, se tutte le ZES avessero performato come quelle in Campania e Calabria, si genererebbe un effetto positivo sull’economia nazionale, direttamente e indirettamente, di circa 83 miliardi di euro. E’ stato dimostrato come Un euro prodotto nella Zona ZES campania ne attiva altri 1.4 nel resto dell’economia. In termini occupazionali per 1 euro occupato nella zona ZES se ne generano 1.7 nel resto dell’economia. La ZES campania ha prodotto circa 22.000 nuovi posti di lavoro (8.200 occupati diretti, 11.770 indiretti e 2.150 indotti).

Con la pubblicazione del d.l. 124/2023 (c.d. decreto Sud) è stata approvata una profonda revisione dell’Istituto in oggetto. L’obiettivo della riforma è quello di rendere funzionale lo strumento ZES in relazione alla strategia unitaria di rilancio del sistema produttivo. Il governo vuole favorire una programmazione maggiormente integrata e coordinata e conservare le specificità dei territori coinvolti, replicare i risultati raggiunti grazie al primo decreto ZES nonché ridurre o eliminare i punti di debolezza della medesima. Rispetto alla ZES 2017 quella UNICA è specificato che rientrano nell’agevolazione anche l’acquisto dei terreni ma che il valore dei medesimi non può superare il 50% del valore complessivo degli investimenti da realizzare. È stata istituita una cabina di regia presieduta dal ministro degli Affari Europei ed è composta da 13 ministri. I compiti principali sono di indirizzo, coordinamento, vigilanza e monitoraggio delle attività della ZES. Viene confermato il credito d’imposta al 50% degli investimenti, cumulabile con gli aiuti “de minimis” ma non la riduzione del 50% dell’IRES. La legge di bilancio 2024 destina 1.8 mld di euro per il credito d’imposta per la ZES Unica in un solo anno.

Rispetto alla ZES precedente l’obiettivo è quello di completare le aree di miglioramento quali: la ri-perimetrazione delle aree, la scarsa efficienza della precedente cabina di regia, la leva fiscale che ha funzionato solo parzialmente, la mancanza di economie di scala, la misurazione dei risultati. Il vantaggio esclusivo della nuova ZES UNICA dovrebbe essere quello del piano strategico coordinato con il piano dei PNRR, la semplificazione burocratica grazie alla centralizzazione della Struttura di Missione e all’attività di monitoraggio permanente.

La nuova ZES UNICA per produrre gli effetti auspicati dovrà fornire certezza soprattutto in merito alle misure fiscali e all’orizzonte temporale. Solo in questo modo le imprese potranno cogliere le opportunità aperte a chiunque voglia investire nei territori del mezzogiorno.

Caivano, non solo

L’Italia delle emergenze e delle necessità passa anche attraverso la riqualificazione delle sue periferie. Negli ultimi trent’anni si è creata una forte spaccatura tra il centro delle città e l’interland urbano. I motivi che hanno determinato questo isolamento sono molteplici, principalmente dettati da scelte politiche concentrate nello sviluppo massiccio dei centri storici. Mancanza di politiche sociali inclusive, assenza di servizi pubblici essenziali, criminalità, droga, dispersione scolastica, riqualificazione e ammodernamento di strutture diventate fatiscenti hanno determinato uno stato di disagio e di emarginazione della popolazione sfociate in ghettizzazione e disuguaglianze crescenti.

Ciò che è accaduto a Caivano è la rappresentazione naturale di un territorio abbandonato dove i clan si sono impadroniti degli spazi pubblici, dove la presenza delle forze dell’ordine è inesistente e dove la politica è minacciata quotidianamente nelle scelte da intraprendere. Il complesso fu costruito con i fondi messi a disposizione dopo il terremoto del 1980, con una serie di palazzoni attaccati l’uno all’altro. Con il tempo i clan ne hanno fatto la piazza di spaccio più grande d’Europa. Diversi i casi di violenza accaduti in questo parco il più noto la morte di Fortuna Loffredo nel 2014.

La presenza della Premier Giorgia Meloni, per esprimere solidarietà ai genitori delle vittime degli abusi infami, deve rappresentare un momento di svolta verso il ripristino della legalità e socialità di un territorio degradato e nelle mani della criminalità. La bonifica urbana, la presenza delle forze dell’ordine costante, scuole aperte nel pomeriggio, incremento degli insegnanti e degli assistenti sociali, possono e devono rappresentare strumenti di cambiamento e di speranza per la parte sana della popolazione che cerca solo di vivere una vita dignitosa ed in pace dove crescere i propri figli. La rigenerazione urbana ha certo bisogno del coinvolgimento delle comunità perché non esiste recupero che non associ pratiche cooperative cosi come è accaduto nei progetti del Nord Europa dove i cittadini hanno avuto spazi importanti nel ridefinirli, smontarli e ricostruirli.

Ciò che è accaduto a Caivano deve essere un impegno per il governo Meloni e un obiettivo verso tutte le periferie d’Italia affinchè, anche con le risorse del pnrr, la riqualificazione degli spazi pubblici, interventi di manutenzione degli edifici, ripensare gli spazi urbani e sociali, possano trasformare il degrado e l’abbandono in presenza di arte, cultura, turismo, integrazione.

Le sfide della nuova politica agricola europea

La politica agricola dell’UE è una politica dinamica che, attraverso riforme successive, si è adattata alle nuove sfide che si pongono all’agricoltura europea.

La nuova politica include i seguenti elementi a livello dell’UE: un insieme comune di obiettivi, un ampio strumentario di interventi, un insieme comune di indicatori concordato a livello dell’UE per garantire parità di condizioni nella valutazione dell’efficacia delle misure adottate.

Ogni paese è libero di scegliere gli interventi specifici che ritiene più efficaci per conseguire i propri obiettivi specifici, sulla base di una chiara valutazione delle proprie esigenze.

Gli elementi principali della politica sono: pagamenti diretti e interventi di sviluppo rurale più mirati e soggetti a programmazione strategica; nuova architettura “verde” e approccio basato sull’efficacia in base al quale gli Stati membri devono riferire annualmente in merito ai progressi compiuti.

I regolamenti proposti dovevano inizialmente applicarsi a decorrere dal 1º gennaio 2021. A causa di alcuni ritardi nei negoziati nell’ottobre 2019 la Commissione ha deciso l’adozione di un regolamento transitorio, che è stato successivamente adottato dal Consiglio e dal Parlamento europeo, per il periodo 2021-2022. Di conseguenza, la PAC riformata si applicherà integralmente dal 2023 al 2027.

L’obiettivo generale del regolamento transitorio sulla PAC è garantire agli agricoltori e agli altri beneficiari la continuità del sostegno giuridico e finanziario della PAC prima dell’entrata in vigore delle nuove norme riformate nel 2023. Tale sostegno consente la continuità dei pagamenti, senza interruzione, in un periodo in cui, a causa della pandemia di COVID-19, gli agricoltori e gli altri beneficiari devono far fronte a difficoltà.

Inoltre, il regolamento prevede che gli Stati membri dispongano del tempo necessario per elaborare i loro piani strategici nazionali conformemente a quanto previsto dalla nuova legislazione sulla PAC e per pianificarne l’attuazione dopo l’approvazione da parte della Commissione.

Mentre la Commissione Europea ha approvato i primi sette Piani Strategici Nazionali della PAC la revisione della prima bozza del Piano Italiano ancora non è giunta alla Commissione.

Dallo scorso mese di luglio (Draghi presidente, Patuanelli ministro) non si sono più avute notizie circa la nuova versione del documento di programmazione della PAC che dovrebbe recepire anche le 40 pagine di osservazioni critiche inviate dalla Commissione UE. Non sono arrivati aggiornamenti né tantomeno una bozza della nuova versione del PSP. Scarso e inadeguato è stato il coinvolgimento degli attori sociali ed economici. Le regioni rimangono ancora autorità di gestione dei Programmi di sviluppo rurale. Il lavoro è stato disomogeneo, di fatto venendo meno quella uniformità nazionale che la Commissione europea auspica con la richiesta di un unico documento per Stato Membro, come si è verificato in altri paesi come la Spagna e la Francia che, pur avendo anch’essi un sistema regionalizzato, vedono già approvato il proprio PSP.

Le Regioni potrebbero entrare nel sistema solo come organismi intermedi, con una riduzione del loro potere negoziale nei confronti della Commissione europea. Dall’altra parte, questa riforma troverebbe le strutture amministrative centrali impreparate a costruire un coordinamento tra tutte le politiche della Pac, il che richiederebbe una loro rapida ed efficace riorganizzazione interna. Un altro forte condizionamento, in un sistema sempre più legato al monitoraggio dei flussi e soprattutto dei risultati, è dato dall’esistenza di sistemi informativi frammentati, che non dialogano tra loro (Agea, OP regionali, ecc.). Infine, un tema che rimane irrisolto è il coordinamento con gli altri Fondi UE, per l’assenza di un luogo comune di dialogo, come lo è stato l’Accordo di Partenariato 2014-2020. In questo senss, emerge l’isolamento della Pac nel suo complesso e del Fondo Europeo per l’Agricoltura e lo Sviluppo Rurale (Feasr) in particolare, il quale non ha più alcun obbligo di integrarsi con gli altri strutturali. Questo condizionerà molto l’efficacia della Pac che, in un mondo sempre più interrelato, diviene una politica a sé stante con una forte impronta di pura redistribuzione, piuttosto che di contributo allo sviluppo locale.

Nessun aggiornamento anche sulla procedura di Valutazione Ambientale Strategica a cui deve essere sottoposto il PSP, il cui iter dovrebbe concludersi prima dell’approvazione da parte della Commissione Europea del Piano, al fine di assicurare che i fondi PAC non aggravino ulteriormente gli impatti che l’agricoltura genera sull’ambiente, come purtroppo si sta ora verificando.

La futura programmazione della PAC come appare ora dall’attuale versione del piano appare ben lontana dal perseguire gli obiettivi delle strategie Europee Biodiversità 2030 e Farm to Fork. Inoltre, ad essi dovrà essere affiancato un reale cambio di modello dell’intero sistema agro-alimentare che abbracci i principi dell’agroecologia, in particolare per una riduzione degli impatti su clima, salute.

C’è la necessità di garantire la sovranità alimentare a livello europeo. La crisi sugli approvvigionamenti non sarebbe stata così grave se si fossero fatte scelte lungimiranti.

I drammatici effetti del cambiamento climatico, della degradazione dei suoli e della perdita della biodiversità sono sotto gli occhi di tutti: siccità, alluvioni e invasione delle cavallette, sono le nuove piaghe del XXI° Secolo nel Mediterraneo. Nell’attuale contesto di crisi geopolitica ed economica un PSP realmente attento alla tutela di tutte le componenti ambientali e del paesaggio è uno degli strumenti di cui abbiamo bisogno anche per garantire l’accesso al cibo sano ed equo per le generazioni presenti e future.

Sarà interessante vedere quali nuove impostazioni verranno fuori dai diversi stakeholders, al di là della semplice difesa delle risorse finanziarie e dello statu quo; quali saranno le forze del cambiamento che sosterranno una strategia innovativa in alcuni punti qualificanti.

*Giuseppe Della Gatta, esperto di Diritto dell’Economia

La Ue, il MES e il Patto di Stabilità

Negli ultimi due anni, con l’obiettivo macroeconomico di sostenere i Paesi Europei colpiti dalla pandemia da Covid-19, è stato sospeso l’applicazione del patto di stabilità che prevede di mantenere un deficit sotto il 3% del Pil e che il debito pubblico non deve superare il 60% del Prodotto interno lordo.

La commissione Ue ha avviato un dibattito pubblico per la revisione della governance economica europea. Entro il primo quadrimestre del 2022 la commissione fornirà un’indicazione tenendo conto della situazione economica globale, della specifica situazione di ciascun Stato membro e di quanto emerso nel dibattito pubblico. Quindi l’esecutivo Ue fornirà un suo orientamento sulle modifiche al Patto di Stabilità, con l’obiettivo di ottenere un largo consenso entro il 2023. Nell’ambito della governance economica europea rientra anche la modifica del Meccanismo europeo di stabilità.

Nelle comunicazioni sul dibattito per la revisione del patto di stabilità l’UE si è focalizzata su tre sfide principali: Una riduzione graduale, sostenibile, e che non ostacoli la crescita, del debito pubblico, la necessità di un forte sostegno agli investimenti pubblici per assicurare una crescita sostenibile e inclusiva e l’importanza di un forte coordinamento politico, anche tra Ue e Paesi membri.

Per gli Stati membri sarà essenziale ridurre i debiti pubblici elevati per affrontare le future crisi, ma va fatto in modo intelligente, graduale e sostenibile e senza ostacolare la transizione green e la crescita.

La crisi ha anche reso più visibili alcune sfide: deficit e debito più elevati, divergenze e disuguaglianze più ampie tra i Paesi membri e la necessità di maggiori investimenti e le regole di governance che vanno formulate ascoltando le opinioni, le idee, e costruire consenso, titolarità per un’efficace sorveglianza economica. In questo modo, possiamo rendere le nostre società ed economie più sostenibili, eque e competitive.

Una delle idee più discusse è quelle dalla golden rule che permetterebbe una riduzione graduale del debito che si coniughi con un maggior sostegno agli investimenti.

La riduzione del debito pubblico già è stata un problema prima del Covid, oggi il forte sostegno pubblico anti-ciclico fa stimare che circa il 19% del Pil, tra il 2020 e il 2022, sarà stato necessario per sostenere i lavoratori del settore sanitario e l’occupazione. Dobbiamo chiederci come le nostre regole possano garantire una riduzione graduale del rapporto debito/Pil, in maniera compatibile ad una crescita sostenibile.

In questo dibattito uno dei temi più interessanti riguarda la posizione ordoliberalista della Germania nei confronti degli squilibri dell’Eurozona, che dovrebbero trovare compensazione nella attualizzazione delle politiche di bilancio degli Stati membri. Invero, l’irresponsabilità fiscale degli altri Stati membri dell’Eurozona è, secondo la Germania, la causa principale della crisi generale dell’euro emersa nel 2011 e tuttora in corso. Per salvaguardare la stabilità finanziaria della moneta, i governi Tedeschi in questi anni hanno dovuto accettare dei compromessi, soprattutto rispetto ad uno dei due principi cardine dell’ordoliberalismo, ovvero il principio di responsabilità, comportante l’opposizione a qualsiasi forma di trasferimenti fiscali all’interno dell’UE . In un’ottica diversa da quella tedesca, già dal 2012, la BCE aveva cominciato a perseguire attivamente una politica volta alla stabilità finanziaria dell’euro con l’impiego della misura non convenzionale delle OMT, Outright Monetary Transactions (operazioni di acquisto illimitato di titoli di Stato dei Paesi indebitati) osteggiate, tuttavia, dal Presidente della Bundesbank. Orbene, in una politica di contemperamento tra le diverse posizioni di politica economico-finanziaria, la Germania, ha accettato la citata misura non convenzionale prevista dalle OMT, ma di contro ha imposto le sue rigide politiche ordoliberali di austerity, basate su regole e penalità, i cui effetti si sono concretizzati nel Fiscal Compact del 2012 e nell’introduzione in Costituzione della legge del pareggio di bilancio, che obbliga gli Stati a ridurre annualmente di un ventesimo il debito che eccede la soglia del 60% del PIL. Pertanto, le rigide politiche ordoliberali, comportanti l’attualizzazione a livello costituzionale del principio di responsabilità, ovvero della regola del pareggio di bilancio, hanno controbilanciato l’utilizzo di strumenti non convenzionali di mantenimento degli equilibri di bilancio.

In quest’ottica il MES che, a partire dal maggio 2010, si è sviluppato in connessione con le tensioni sui mercati finanziari e la crisi dei debiti sovrani, esemplifica la naturale continuazione dei programmi di intervento temporaneo (EFSF e EFSM ) e di aiuto prestati finora ai paesi necessitanti dell’eurozona, e la sua costituzione permette, pertanto, di disporre di uno strumento di intervento permanente (firewall) da utilizzare, in caso di necessità, per preservare la stabilità finanziaria dell’area euro.

Va rilevato che la sottoscrizione dei Trattati del Fiscal Compact prima e del MES poi, rappresentino un autovincolo al conseguimento di determinati obiettivi in termini di controllo delle finanze pubbliche, che possono, tuttavia, trovare dei limiti costituzionali.

Desta particolare preoccupazione la circostanza per cui il nostro elevatissimo debito pubblico possa costringere, in caso di necessità, l’Italia alla richiesta al MES di un sostegno alla stabilità, la cui concessione può essere condizionata all’imposizione della «ristrutturazione» del debito sovrano tale da intimorire gli investitori internazionali e dissuaderli dall’acquisto dei Btp statali.

Preoccupa, nello specifico, la possibilità di prevedere la «ristrutturazione» del debito pubblico non solo e non tanto come una delle «rigorose condizioni» che possono essere previste dal protocollo di intesa, quanto, piuttosto, che la ristrutturazione diventi una precondizione automatica per richiedere la concessione del sostegno alla stabilità, che, se non accompagnata dall’attuazione della politica del pacchetto (Unione Bancaria), certamente potrebbe indebolire ancor di più lo Stato che già si trovi in una situazione finanziaria compromessa, laddove, i soggetti che detengono i titoli degli stati in difficoltà, potrebbero ostacolare una ristrutturazione ordinata del debito sovrano. Del resto il Parlamento, a seguito dell’esame, svoltosi l’11 dicembre 2019, degli atti preordinati alla adozione del MES, trasmessi alle Camere dal Presidente del Consiglio dei Ministri, ha adottato una risoluzione, votata a maggioranza, preordinata, tra l’altro, proprio ad escludere espressamente «qualsiasi meccanismo che implichi una ristrutturazione automatica del debito pubblico».

Pertanto, può opportunamente concludersi che il Trattato contenga la previsione dell’esercizio di una tale «latitudine» di poteri ad opera degli organi del MES che, richiederebbe, al contempo, la necessaria e progressiva realizzazione dell’Unione economia e monetaria al fine di accrescere, tramite la realizzazione della «politica del pacchetto», la responsabilità politica e giuridica del meccanismo europeo di stabilità nell’esecuzione dei suoi importanti compiti di gestione delle crisi nella zona euro.

Nell’attesa che l’Eurogruppo presenti nuove proposte al Consiglio, la linea di demarcazione rimane quella originaria che vede contrapposti i Paesi mediterranei, aperti a regole flessibili e mutualizzazione dei rischi ed il Fronte del Nord, che, a tutto quanto detto, nettamente oppone il suo diniego. L’auspicio è allora quello per cui l’emergenza covid diventi l’occasione di riscoprire un’identità europea che, in tema di fiscal rules, sia emancipata dal concetto di austerità e più vicina alle logiche della collaborazione e della solidarietà tra paesi membri.

 

*Giuseppe Della Gatta, bancario, dottore commercialista

 

 

 

 

 

 

Nuove regole sul credito per evitare il default

In questo articolo vorrei riprendere un lavoro già affrontato qualche mese fa su Charta Minuta relativo alle nuove norme EBA, Autorità Bancaria Europea, sulla definizione di soggetto inadempiente e di default della clientela privata, PMI e imprese. I nuovi criteri di valutazione sono disciplinati nell’art. 178 del Regolamento (UE) n. 575/2013 (CRR) sulla disciplina prudenziale applicabile agli intermediari finanziari. Tale definizione è stata integrata da ulteriori regole emanate in sede europea: le Linee Guida EBA sull’applicazione della definizione di Default (EBA/GL/2016/07) e il Regolamento Delegato (UE) n. 171/2018 della Commissione europea del 19 ottobre 2017, che individua la soglia di rilevanza delle obbligazioni creditizie in arretrato.

Il nuovo strumento di definizione del concetto di inadempienza ha come obiettivo quello di ridurre i crediti deteriorati ma rischia di avere un impatto disastroso sull’economia del nostro paese già segnata fortemente dalla crisi pandemica. Proprio in questi giorni il Presidente di FDI, On. Giorgia Meloni, chiederà al presidente del consiglio Mario Draghi di sollecitare le Istituzioni Europee, che ben conosce, di posticipare l’introduzione di tali regole prudenziali al fine di evitare una contrazione ancora più sostanziale dell’attività delle imprese italiane.

In sintesi, il Regolamento prevede la segnalazione nelle Centrali Rischi di tutte le esposizioni debitorie dopo 90 giorni di sconfinamento: per i privati ogni qualvolta ci sia uno sconfinamento sul conto di regolamento superiore ad euro 100 e all’1% del totale delle esposizioni; per le imprese quando lo sconfinamento sia superiore ad euro 500 e all’1% del totale delle esposizioni. Le segnalazioni riguarderanno tutti i finanziamenti in essere. La normativa composto le seguenti conseguenze sulle partite di pagamento collegate al rapporto di conto:

  • gli addebiti automatici non saranno più consentiti, se i clienti non avranno sufficienti disponibilità liquide sul c/c.
  • famiglie titolari di un conto rimasto senza provvista rischiano un’improvvisa interruzione ai pagamenti di utenze, stipendi, versamenti tributari, eventuali contributi previdenziali, rate di mutui e finanziamenti.
  • le nuove regole impongono di bloccare le rimesse interbancarie dirette (Rid). Il cliente diventa moroso nei confronti del titolare della Rid, un’informazione con rilevanti conseguenze sul profilo reputazionale del cliente.

Cambiano anche le regole di comunicazione degli indicatori di costo per i clienti sia in fase pre contrattuale che post contrattuale. La nuova normativa sulla trasparenza sostituisce l’ISC con il nuovo indicatore ICC (indicatore di costi complessivi). Il calcolo del nuovo indicatore include nuove spese in passato non considerate, come ad esempio quelle relative all’emissione delle carte di debito e credito.

Cambiano anche le commissioni applicate agli affidamenti e agli sconfinamenti. Già da tempo viene utilizzata, in sostituzione della commissione di massimo scoperto, la messa a disposizione fondi (MDF), applicabile alle aperture di credito regolate in conto corrente, e la commissione di istruttoria veloce (CIV), applicabile agli sconfinamenti. La MDF è commisurata alla somma messa a disposizione del cliente e alla durata dell’affidamento. L’ammontare della commissione è liberamente determinato nel contratto ma non può eccedere lo 0,5%, per trimestre, della somma affidata. La caratteristica dell’onnicomprensività comporta che non possano essere previsti ulteriori oneri in relazione alla messa a disposizione dei fondi e all’utilizzo dei medesimi.

L’entrata in vigore delle nuove regole EBA porterà ad una revisione sia nel rapporto con la cliente in una fase nella quale si prospetta per gli istituti di credito un nuovo periodo di forti aggregazioni e fusioni con forti incidenze sul sistema organizzativo e commerciale.

Dal punto di vista della clientela, al fine di poter introdurre soluzioni che possano impattare di meno sulla gestione dei rischi al fine di evitare segnalazioni di morosità, molti soggetti privati dispongono da tempo di “scoperti di conto” collegati ai rapporti di corrispondenza ordinari soprattutto su quei contratti che prevendono l’accredito di stipendi, pensioni e altre forme di compensi periodici. In tali condizioni è possibile utilizzare la differenza fra saldo contabile e saldo disponibile per coprire spese al momento non supportate dal primo.

Lo sconfinamento viene allora calcolato oltre il livello del saldo disponibile, il cui superamento riguarda un prestito e non più un deposito. Le banche possono certamente prevedere di ampliare il perimetro dei destinatari di questa soluzione, con ammontare anche limitato, per risolvere situazioni contingenti legate ad utenze e rate, evitando l’insorgere di problemi, tra l’altro, con notevoli costi amministrativi, sostituiti invece da interessi attivi.

In termini di gestione del rapporti sarebbe opportuno comunicare periodicamente alla clientela il saldo del conto corrente. Oggi la gestione delle informazioni è ovviamente migliore ed immediata attraverso l’utilizzo di App e altri canali evoluti.

Un’altra soluzione da sviluppare concerne la distinzione fra conti correnti e conti di deposito quale strumento per gestire in anticipo il possibile manifestarsi di saldi negativi. Si potrebbe valutare, nel caso dei rapporti bancari, quanto già in essere nella applicazione della normativa prevista per MIFID e IDD in termini di responsabilità dell’intermediario nei confronti del cliente, in qualità di contraente forte del rapporto per indurre il cliente a gestire con tempi e quantità idonei il passaggio tra i due conti, in anticipo rispetto alla soglia.

Un’altra soluzione più sofisticata può coinvolgere i fondi comuni monetari, sviluppandone la funzione di riserva, in tempi ormai prolungati nei quali il rendimento è sostanzialmente nullo.

Queste soluzioni comportano una modifica della struttura organizzativa degli Istituti di Credito e, di non poco conto, la differenza delle soluzioni da adottare sulla clientela evoluta rispetto a quella meno esperta e aperta a soluzioni digitali.

E’ evidente, comunque, che queste misure solutive si vanno a scontrare con la natura giuridica del conto corrente di corrispondenza che assegna una specifica responsabilità al suo utilizzatore, in quanto esso è il “contratto con il quale la banca si obbliga ad eseguire gli ordini ricevuti dal cliente” con la possibilità di utilizzare a vista le somme disponibili, senza limitazioni di tempo. Ciò impedisce di prevedere l’utilizzo di quantità non disponibili ad eccezione di eventuali fidi in essere.

Altro elemento da considerare sul quale potrebbe impattare la nuova disciplina di default è la politica gestionale delle banche verso l’utilizzo di nuove forme di pagamento attraverso canali evoluti.

Le carte di credito e di debito verrebbero coinvolte nel nuovo processo di gestione dei rischi di insolvenza. La normativa potrebbe privilegiare lo sviluppo delle prime rispetto alle seconde perché, avendo pagamenti programmati negli addebiti il cliente potrebbe gestire meglio il saldo disponibile rispetto alle carte di debito che generano un impatto immediato sul saldo del conto di regolamento.

Per concludere, appare indispensabile in questo momento storico di post pandemia un rinvio nell’attuazione concreta del nuovo strumento di gestione delle inadempienze e, in futuro, una comunicazione efficace e consapevole delle banche verso la clientela privata, PMI e impresa. Utilizzare delle logiche di flessibilità nella valutazione di classificazione a default cercando di verificare la storicità dei clienti, la sperimentazione dei rapporti e la gestione efficace nel tempo degli affidamenti concessi.

*Giuseppe Della Gatta, esperto di Diritto dell’economia

 

Identità e made in Italy. Un Paese come un brand

Nell’epoca della globalizzazione si parla sempre più di made in Italy. Tutto quello che viene prodotto in Italia rappresenta un brand riconosciuto a livello mondiale. Un marchio, quello del made in Italy, sinonimo di alta qualità, tradizione di famiglia, artigianalità, ma anche lusso ed esclusività. Parliamo di abbigliamento, scarpe, e più semplicemente di cibo e vino delle nostre bellissime regioni. Ma non solo. Il prodotto italiano fa riferimento anche ai servizi e riguarda l’industria turistica e il marketing territoriale. I nostri tour eno-gastronomici, il nostro patrimonio artistico-culturale e le tradizioni locali si vendono in tutto il mondo.

Un brand che rappresenta il suo modo di vivere, la sua storia, le sue radici culturali. La vocazione manifatturiera italiana è talmente apprezzata al mondo, da far considerare il Made in Italy uno dei brand più importanti a livello globale.

Ma c’è un modo per misurare la percezione del Made in Italy nel mondo?

Il Best Countries Report, redatto dallo US News & World Report, il BAV Group e la Wharton School of the University of Pennsylvania attraverso dei parametri quali quantitativi cerca di dare un valore a questo intangible asset.

Tale report misura il Made in Italy calcolando il valore di mercato dei 30 brand italiani più importanti, cercando di estrapolarne i punti di forza.

Nel Best Countries Report 2020, relativo all’anno 2019, l’Italia è considerata al 17° posto su una classifica di 80 Paesi. Rispetto al 2017, quando ricopriva il 15° posto, è stata superata da Singapore e Cina. Ciò che non avrebbe aiutato la posizione internazionale dell’Italia sarebbe stato, in primis, la forte instabilità politica. Quest’ultima caratteristica, strutturale nella nostra Repubblica, negli ultimi anni avrebbe determinato una crescita economica più lenta rispetto ad altri Paesi sviluppati. Tale fattore, insieme alla disoccupazione e al calo demografico, costituiscono gravi fonti di preoccupazione da un’ottica internazionale. A livello globale, i principali brand italiani vengono percepiti come garanzia di qualità, autenticità e stile. Questi brand fanno però riferimento ad un gruppo ristretto di imprese grandi, agili e interconnesse con una fitta rete di altre imprese di piccole/medie dimensioni. In particolare, si fa riferimento ad imprese guidate da un forte spirito imprenditoriale e caratterizzate da innovazione, internazionalizzazione e focus sulla costumer experience.

Nel 2020 il valore del brand Italia è stimato circa di 1.776 miliardi di dollari (-15,8% rispetto al 2019). Le prime 100 nazioni avrebbero perso 13.100 miliardi dollari di valore per via della pandemia.
Dall’analisi di Brand Finance traspare che vi sono alcune imprese italiane molto abili nello sfruttare la propria immagine. Ad eccezione di settori specifici come lusso, moda, design e food, il Made in Italy sembra avere un’immagine meno forte del Made in Germany, in Usa e in France.

La debolezza del brand Italia dipenderebbe per Brand Finance principalmente dalla difficoltà di fare business, dalla gestione della cosa pubblica e dalla qualità della comunicazione di privati e imprese.
A livello globale, USA, Cina, Giappone, Germania e Regno Unito risultano i brand nazionali a più alto valore aggiunto. La Cina continua a colmare il divario con gli USA; il marchio Cinese varrebbe 18.800 miliardi di dollari contro 23.700 miliardi di quello statunitense.

Ma nonostante ciò e le acquisizioni che hanno interessato il brand, il proliferare di nomi italiani nel mondo, il vero made in Italy resta ancora molto forte e riconosciuto a livello globale. La ragione è legata al concetto di rarità del brand. Le nostre materie prime sono spesso di rara qualità e si trovano solo in determinate aree geografiche (pensiamo ai nostri vini o al nostro olio). Lo stesso concetto di rarità lo ritroviamo nelle skills delle risorse umane: i lavoratori delle nostre aziende sono tecnicamente preparati, con competenze uniche e difficilmente imitabili. Sarà anche per questo che molti marchi di moda italiana hanno la loro scuola dove formano sarti e modellisti.

La strategia per mantenere positiva la percezione del Paese diventa ancora più cruciale durante la pandemia da Covid-19. Alcuni esperti suggeriscono l’istituzione di un team specifico che dovrà gestire l’immagine dell’Italia nel periodo post-crisi. Quest’ultimo non dovrà limitarsi ad un’ottima comunicazione, ma dovrebbe condurre analisi di marketing e finanziarie per stabilire lo stato attuale del marchio Italia. Attraverso tali dati, occorrerà difatti identificare i fattori su cui focalizzare la strategia con relativo impatto economico, tenendo conto dei costi e dei ritorni sugli investimenti.

Noi abbiamo tradizionalmente avuto difficoltà a fare sistema, cioè mettere a disposizione delle imprese strumenti di formazione per stare sul mercato; sistema significa mettere a disposizione delle imprese risorse e strumenti per l’innovazione e la ricerca, perché nella competizione globale un paese a costo del lavoro mediamente alto come l’Italia vince soltanto se punta sulla qualità dei prodotti e sull’innovazione.

Il “Made in Italy” è un elemento centrale dell’identità culturale di questo paese.  C’è uno spessore di professionalità, di know-how, di sapere, di lavoro, di innovazione, di ricerca, di qualità, di straordinario valore. L’Italia deve essere molto più consapevole della forza economica, sociale e culturale che esprime come paese dell’estetica, del gusto, del design, dell’immagine, della identità e della storia che l’hanno da sempre accompagnata.

*Giuseppe Della Gatta, analista finanziario

Le nuove regole BCE portano al default

Nuove regole per la gestione degli sconfinamenti entreranno in vigore da Gennaio 2021 per i clienti retail e business delle aziende di credito.

In questi giorni i clienti stanno ricevendo l’informativa che preannuncia l’entrata in vigore della nuova normativa sulla gestione dei rischi. Basta uno sconfinamento superiore ai 100 euro per essere classificato in default bancario e compromettere il futuro accesso al mercato del credito.

Il motivo di questo cambiamento è legato alle nuove regole europee in materia di classificazione dei debitori in default e, in particolare, al Regolamento delegato n. 171 del 19 ottobre 2017, che ha fissato nuovi parametri della soglia di rilevanza per il sistema bancario, rendendoli ancora più stringenti rispetto a quelli adottati fino ad oggi.

Dal 2021 si può essere classificati automaticamente in una situazione di default bancario con un arretrato di oltre 90 giorni e che risulti essere contemporaneamente superiore ai 100 euro per le persone fisiche e 500 euro per le imprese. Il debito / sconfinamento non deve superare l’1% del totale delle esposizioni dell’impresa verso la banca. Le rid saranno cancellati, e il nominativo entrerà nella centrale rischi finanziaria. Impossibili anche piccoli sconfinamenti e quindi quella flessibilità che in questa fase è fondamentale.

Le nuove regole non ammettono più la compensazione tra diverse posizioni del debitore, quindi, superate queste soglie di rilevanza, la banca dovrà girare il credito in default anche se il cliente dispone presso lo stesso istituto di altre linee di credito per poter sanare il tuo debito.

La norma sembra non lasciare spazio ad interpretazioni: sei segnalato a default anche se, per assurdo, hai le rate del finanziamento impagate ma hai disponibilità nel fido di conto corrente, per pagare la rata.

Il rischio della classificazione in default è l’effetto domino alle cointestazioni e alle obbligazioni solidali collegate.

Se l’impresa dovesse essere classificata in default su una singola esposizione in automatico lo sarebbero tutte le tue altre esposizioni nei confronti dello stesso intermediario finanziario.

Diverso è invece il caso delle piccole e medie imprese, per le quali la banca può applicare il default solo sulla linea di credito in cui si verifica il past due.

In entrambi i casi però, la situazione di default rischia di portare conseguenze negative anche ai soggetti connessi alla tua impresa, soprattutto nel caso di cointestatari di mutui o di società partecipate. Sarà la stessa banca a effettuare delle verifiche per identificare i casi in cui il default possa inficiare la capacità di rimborso di un altro nominativo collegato.

In ogni caso bisogna considerare che una segnalazione di default si propaga anche agli altri soggetti collegati.

Un altro cambiamento importante apportato dalle nuove regole riguarderà la fase di rientro dal default bancario, per la quale si allungano le tempistiche.

Mentre ora basta semplicemente sanare i propri arretrati per far decadere lo stato di default, dal 2021 sarà necessario attendere almeno 90 giorni dal momento in cui si è regolarizzato lo sconfinamento per poter finalmente uscire da questa situazione.

Passati i tre mesi, se la banca reputerà la tua situazione di nuovo stabile con un miglioramento permanente della qualità creditizia, potrà riclassificare la tua impresa fuori dallo stato di default.

Nel caso di imprese classificate in default dopo aver ricevuto misure di tolleranza – come modifiche dei termini e delle condizioni contrattuali o rifinanziamento parziale o totale del debito – il periodo di monitoraggio prima di uscire dallo stato di default durerà almeno un anno.

Queste nuove regole dovranno essere applicate entro il termine del 1 gennaio 2021 da banche e da intermediari finanziari non bancari, società di leasing e fatctoring.

Per quanto riguarda invece le banche vigilate direttamente da Banca d’Italia (che non hanno quindi una rilevanza Europea), potrebbero essere applicati parametri diversi.

In particolare, con riferimento alla componente relativa della soglia di rilevanza, pari all’1% dell’importo complessivo di tutte le esposizioni del debitore verso la banca, la Banca d’Italia potrebbe individuare una percentuale diversa, compresa nell’intervallo da 0 a 2,5%, qualora sulla base di robuste evidenze statistiche si possa sostenere che l’1% non corrisponda a un livello ragionevole di rischio in Italia.

Le conseguenze nell’adozione di queste nuove misure costringerà le banche ad aumenti di capitale oppure tagliare i finanziamenti mettendo a rischio la ripresa post-Covid. Il problema ripropone anche la disparità delle regole. Non cambierà molto per i derivati e le altre operazioni ad alto rischio su cui sono particolarmente coinvolte le banche tedesche. Viceversa sui finanziamenti o gli scoperti di conto corrente, molto più frequenti in Italia, si applicheranno le nuove regole della bce. Una nota Banca d’Italia ha cercato di limitare l’ampiezza del problema dicendo che non cambierà molto. Le associazioni imprenditoriali da Confindustria a Confcommercio a Confesercenti, la pensano diversamente ma a nulla sono valsi gli appelli a postergare l’applicazione del nuovo modello. Il rischio è che la misura comporti una «fortissima stretta al credito, conseguenza inevitabile delle segnalazioni alla centrale rischi”

Ancora più travi le conseguenze legate al cosiddetto “calendar privisionig” che impone alla banche di azzerare entro due o tre anni il valore dei crediti non rimborsati. Già adesso le sofferenze ammontano in Europa a circa 1.400 miliardi di cui 140 miliardi in carico alle banche italiane. Con le nuove regole dovranno essere coperti con robusti aumenti di capitale. «Una bomba atomica sotto i bilanci delle banche» l’ha definita Alberto Nagel, amministratore delegato di Mediobanca e dal Vicepresidente del Copasir,  Sen. Adolfo Urso di Fratelli d’Italia, che dal tempo sta monitorando gli effetti dell’introduzione del modello con precisi interventi parlamentari. Era stato proposto un emendamento alla manovra. La modifica allungava i tempi di rimborso a favore del debitore e nel frattempo la banca doveva tenere il dossier congelato bloccando le speculazioni legate alla compravendita di questi crediti andati a male. Il ministero dell’Economia però si è opposto. Ha aperto così la strada al rischio elevato di fallimenti per pmi con conseguenti difficoltà di accesso al credito in un periodo post covid dove le imprese avrebbero necessità di attingere al capitale di terzi per una nuova ripresa economica. Con questo nuovo meccanismo avranno non solo difficoltà di reperire risorse ma vedranno compromessi sacrifici di consolidamento sul mercato o di avviare nuovi processi di sviluppo e diversificazione commerciale.

*Giuseppe Della Gatta, analista finanziario

Smart Working – Vita e Lavoro

Il 15 ottobre scade il meccanismo semplificato dell’utilizzo del lavoro agile ed il governo punta a semplificare parte dei lavoratori da remoto.

Fino al 2019 l’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano contava 570 mila lavoratori agili. Quest’anno a causa dell’emergenza sanitaria lo smart working ha interessato potenzialmente tra i 6 e gli 8 milioni di lavoratori. Al termine del regime semplificato si stima che potrebbero rimanere in modalità agile 4/5 milioni di lavoratori che magari alterneranno 2/3 giorni in presenza ed i restanti in remoto. Tra le ipotesi del governo c’è quello di fissare a livello di contratto nazionale delle quote percentuali di ricorso allo smart working in linea con quanto fatto, con apposite direttive, dal ministro della P.A., indicando come obiettivo di avere quest’anno il 50% del personale coinvolto nel lavoro. Sono cosi gettate le basi per una significativa diffusione del lavora flessibile nel nostro Paese, in linea con quanto espresso dal Parlamento europeo nella risoluzione del 13 settembre del 2016.

Riferimenti normativi

La proposta di legge contenente «Norme finalizzate alla promozione di forme flessibili e semplificate di telelavoro» venne depositata nel gennaio 2014. A distanza di tre anni, il lavoro agile è diventato legge all’interno del Decreto sul lavoro autonomo. La Legge 81/2017 definisce lo smart working come una «modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa».

Lo smart working è uno strumento che, se utilizzato propriamente, diventa leva per innovare i processi organizzativi aziendali (sia nei contesti privati sia pubblici) e le relazioni tra i soggetti coinvolti.). L’innovazione passa anche da un nuovo modo di utilizzare gli spazi aziendali, in termini di una possibile ottimizzazione che garantisca però l’adeguatezza rispetto alla tipologia di lavoro richiesta, e alla tecnologia che dovrà essere idonea a sostenere attività svolte a distanza.

L’accordo ex lege 81/2017 con il quale il lavoratore passa alla “modalità smart” deve essere stipulato per iscritto specificando i tempi di lavoro e di riposo e il diritto alla disconnessione dalla strumentazione tecnologica lavorativa. Allo smart worker spettano una retribuzione e un trattamento normativo conformi a quanto stabilito dal contratto collettivo; restano applicabili eventuali incentivi fiscali e contributivi in relazione agli incrementi di produttività ed efficienza del lavoro subordinato. Al fine di garantire il diritto del lavoratore alla tutela contro infortuni e malattie professionali, il datore di lavoro è responsabile della sicurezza (Circolare inail n. 48/2017) e del buon funzionamento degli strumenti tecnologici assegnati al lavoratore per lo svolgimento dell’attività lavorativa.

Conciliazione tempi di vita e di lavoro.

Gli strumenti di conciliazione vita-lavoro, e in particolare il sostegno alla famiglia e lo sviluppo delle attività di cura, rientrano tra le aree di welfare storicamente deboli. Il tema della conciliazione va inserito in un contesto più ampio se vogliamo coglierne il reale obiettivo: il benessere delle persone e un riequilibrio tra le posizioni, che traduce in sostanza il senso del mainstreaming. Quando si parla di conciliazione spesso nascono in riferimento alle donne. Si tratta di una distorsione e su questo argomento siamo molto indietro rispetto ad altri paesi perché a monte c’è poco sviluppo delle attività di cura professionali e poco sostegno alle politiche familiari. Oltretutto la conciliazione è contro l’ethos dominante maschile, secondo cui la vita è una cosa e il lavoro è un’altra. Le politiche vanno viste nel contesto specifico e i vari interventi vanno fatti in sequenza. C’è bisogno di un microclima favorevole che alcune aziende stanno già creando. Si tratta di grandi aziende, prevalentemente del Nord, perché nelle aree del Mezzogiorno il capitale sociale è debole, e ciò si riflette anche nell’ambito delle politiche life balance. La conciliazione non favorisce di per sé l’allargamento dell’occupazione femminile quanto piuttosto è di supporto alle donne che sono già occupate e le aiuta ad avere una migliore qualità di vita. Nella contrattazione collettiva aziendale c’è qualche indicazione che si concentra sugli strumenti di supporto alla maternità, unitamente alla formazione, all’ambiente di lavoro, etc. L’intervento pubblico sostiene con incentivi la contrattazione collettiva aziendale, sulle materie del welfare tra cui la conciliazione. Non va dimenticato che le iniziative di conciliazione non costano e quindi hanno meno bisogno di essere sostenute con incentivi dedicati come invece avviene con altre misure di welfare. Il problema riguarda i costi dal punto di vista organizzativo perché per fare bene la conciliazione è necessario che anche l’organizzazione del lavoro si adatti. In tal senso, più che esenzioni fiscali si potrebbe immaginare qualche altro tipo di premialità per stimolare questi comportamenti virtuosi da parte delle aziende. Esistono esempi in tema di responsabilità sociale di impresa aperti ad investimenti su politiche di tipo reputazionale. In alcuni paesi essere “campioni di pratiche di conciliazione” è utile per la reputazione aziendale e può servire ad aumentare il livello delle vendite nei confronti dei consumatori sensibili al tema. È il caso, ad esempio, delle aziende green oriented, che sfruttano il rilievo reputazionale anche per accrescere il loro mercato di riferimento.

La contrattazione territoriale è lo strumento principe per diffondere la conciliazione e la diffusione di iniziative virtuose anche perché rappresenta l’unico modo di raggiungimento delle PMI su questi temi. Anche se non fanno dumping contrattuale non hanno comunque lo stimolo a partecipare alle attività di contrattazione. Le parti datoriali non hanno mai favorito la contrattazione territoriale che si è diffusa solo in qualche settore e questo potrebbe essere il compito di alcune associazioni imprenditoriali illuminate che in questo modo avrebbero l’opportunità di dare il loro contributo sul territorio. I contratti collettivi nazionali di lavoro sono uno strumento indispensabile e hanno una ampia copertura. Un contratto collettivo nazionale di lavoro che vincoli tutti, soprattutto i datori di lavoro più piccoli potrebbe stimolare una diffusione reale anche degli strumenti di conciliazione. Proprio in questo momento storico si potrebbe attingere ad una risorsa come quella del welfare e della conciliazione, visto che gli aumenti salariali nei contratti collettivi saranno di poca entità.

Nelle aree del Sud è più debole il tessuto economico, le aziende sono più piccole e lo stesso capitale sociale è scarso, quindi si rischia una divaricazione su tutti gli indicatori economici e del benessere. Dai dati dello Svimez emerge come questi indicatori (longevità, tasso di istruzione, ambiente, etc.) riflettano questa eterogeneità, e il divario non accenna a diminuire negli anni. Questa debolezza economica e sociale influisce anche su quelle aziende che finora erano riuscite a resistere e che in questo momento vengono colpite duramente. È un problema di carattere nazionale, e non serve intervenire solo su un punto specifico perché l’intervento va fatto a monte, a partire dalle cause che hanno portato al divario storico fra Nord e Sud.

Un ruolo centrale spetta agli enti locali perché, come strutture amministrative, sono più vicine ai bisogni dei cittadini e delle famiglie e possono aiutare a connettere il welfare aziendale a quello territoriale. Gli impatti maggiori di questo ruolo si avrebbero nel miglioramento dell’occupazione, sia nell’ambito dei lavori di cura, sia con gli investimenti, in cui gli enti locali hanno mostrato di agire meglio rispetto allo Stato. Nel Sud una delle leve è questa: la qualità degli investimenti e delle amministrazioni. Un ruolo importante hanno anche le associazioni dei datori di lavoro e quelle del Terzo settore, che contano molto nelle attività di cura.

L’attuale emergenza Coronavirus potrebbe incidere sulla trasposizione della direttiva 2019/1158/UE sul worklife balance. C’è stato uno tsunami, non solo nella salute, ma anche nelle relazioni e nel lavoro. Certamente cambiare i tempi di vita e anche i luoghi di lavoro modifica molte cose tra cui gli orari e il modo di valutare il lavoro. Con la sospensione dei servizi scolastici i benefici dello smart working, in questa fase, hanno aiutato più gli uomini che le donne, sui quali non sono ricaduti in via immediata i compiti di cura familiari. Questo vuol dire che lo smart working, se usato bene nell’organizzare anche i rapporti in azienda, può essere uno strumento che facilita una maggiore autonomia delle persone un miglior uso del tempo e che quindi può essere utile sia per gli uomini sia per le donne. La direttiva dell’UE n. 2019/1158 ha dato una spinta in tema di conciliazione ed è uno dei casi in cui la regola europea non si limita a individuare una soglia comune a tutti i paesi membri, ma va oltre tale minimo comune denominatore, seguendo il modello dei paesi del Nord, che hanno normative più evolute. Se lo si organizza bene questo strumento può favorire anche l’applicazione della direttiva e valorizzare in particolare la possibilità di liberare del tempo per le persone che lavorano, in particolare per le donne.

Economia di prossimità e tutela del made in Italy

Con il termine Economia di prossimità o di vicinanza indichiamo, genericamente, ciò che è prossimo, ciò che si trova nelle vicinanze, quindi sia luoghi che persone. Quando parliamo di economia di prossimità, quindi, non possiamo che riferirci a tale intreccio di relazioni funzionali in termini economici. L’emergenza coronavirus avrà una ripercussione sociale ed economica che potrebbe determinare un ripensamento delle relazioni interpersonali con comportamenti razionali che potrebbero reinventare l’organizzazione delle scelte che ci spingono ad effettuare determinati comportamenti negli acquisti. Si parla di una riduzione del PIL del 9% con una incidenza notevole sia nella riduzione delle esportazioni dell’agroalimentare che del turismo. Il modello economico sociale che potrebbe assorbire questa parte della produzione è sicuramente quello dell’economia di prossimità. Il tradizionale ruolo sociale del piccolo commercio di vicinanza è una forma di economia comunitaria per produrre coesione e inclusione, anche rispetto all’immigrazione. C’è una connotazione organica per i legami interpersonali che si consolidano tra chi li frequenta fondata sulla similarità di classe. La prossimità avrebbe la capacità di ravvivare e rafforzare le relazioni di vicinato nell’ottica della partecipazione al bene comune, della lotta agli sprechi e alla creazione di servizi legati alla condivisione e alla reciprocità.

Questo modello economico è di fondamentale importanza nel panorama economico mondiale, specialmente per l’Italia perché tali realtà rappresentano il grosso dello sviluppo del Paese. Le piccole imprese hanno un peso notevole anche solo per una questione prettamente numerica, visto che rappresentano circa il 90% delle aziende attive sul territorio in particolar modo per quanto riguarda l’agricoltura e l’alimentare. Ci si fida di più del vicino che si conosce e diffidiamo da ciò che arriva da lontano, da estranei. Questo forse è anche una sorta di legittima difesa, che in epoca di crisi si diffonde maggiormente come forma di autotutela.
I vantaggi dei prodotti a chilometro zero ad esempio spesso superano di gran lunga gli svantaggi. Il primo vantaggio di una spesa a chilometro zero è per la propria salute: si sa da chi si stanno acquistando i prodotti e si sa come li ha realizzati. In più sono freschi, appena raccolti, niente maturazioni in celle frigorifere e nessun bisogno di conservanti. Attività commerciali e artigianali, dalla tintoria al panettiere al bar, che danno lavoro e fanno circolare risorse sul luogo, in sinergia con scuole, giardini, servizi pubblici, e contribuiscono a generare identità di territorio, sicurezza e coesione sociale.

L’eliminazione di tutti i passaggi intermedi fa poi sì che non se ne debba più sostenere il costo. Significa quindi che, il più delle volte, comprando a chilometro zero si risparmia. Naturalmente, il vantaggio maggiore lo si regala all’ambiente: abbattimento delle emissioni di anidride carbonica, niente spreco di acqua o energia per la lavorazione, il confezionamento e la conservazione del prodotto e in più l’eliminazione degli imballaggi di plastica o cartone. Chilometro zero non significa ovviamente che si debba dimenticare qualsiasi altro prodotto che non venga coltivato dietro casa, ma che si decida di basare le nostre abitudini alimentari soprattutto sui prodotti del nostro territorio e che si consideri maggiormente il resto come un’eccezione.

Il modello microeconomico in generale darebbe quindi modo di valorizzare il territorio e di instaurare un contatto diretto tra il cittadino e la propria comunità di appartenenza. Darebbe l’occasione di valorizzare il ruolo delle piccole imprese agricole che sono il cuore pulsante della nazione, soprattutto dopo il flagello del coronavirus che rischia di uccidere, oltre a migliaia di cittadini, anche un già traballante sistema economico. Valorizzare e acquistare il “made in Italy” rimane uno dei pochi metodi a disposizione per dare una possibilità all’Italia di uscire fuori da una recessione che potrebbe farsi molto lunga.
Tante le iniziative legati alla tutela del made in italy nel nostro Paese. Una è quella di Pam. L’idea è di promuovere prodotti realizzati da piccoli produttori italiani, a sostegno delle piccole produzioni regionali attraverso le quali si vuole crescere.
Il primo prodotto con cui partirà è lo zucchero “orgogliosamente italiano” a marchio Pam nato in collaborazione con Italia Zuccheri e le sue 7000 aziende agricole. E’ un prodotto di filiera 100% italiano (coltivazione di barbabietole, raccolto e produzione). Ne seguiranno altri, ogni settimana, di tutti i settori alimentari, dall’ortofrutta alla carne, dal pesce allo scatolame. Per almeno un anno sarà il motivo dominante della nostra comunicazione e della nostra responsabilità rispetto al nostro Paese.
L’economia di prossimità rivitalizza il tessuto economico locale a patto che sappia rinnovarsi in sinergia con le nuove tecnologie digitali riuscendo a rimanere inclusiva. Un certo ritorno al locale riattiva forme economiche collaborative di reciprocità su basi etiche e comunitarie che, se supportate dalla digitalizzazione, e messe in rete, possono diventare premessa per la diffusione del welfare di prossimità. Forme economiche non più considerate antiquate o superate ma, anzi, che poggiano su aspetti moderni capaci di creare forte capitale sociale collettivo. Le stesse tecnologie sviluppano un concetto di prossimità diffusa e non necessariamente legata ad uno specifico contesto locale. Possono fare da mediazione tra le piattaforme digitali che rappresentano le strutture proprietarie e gli utenti che rappresentano i destinatari finali e territoriali. Per le piccole imprese, il territorio offre gli strumenti per ridurre la complessità del processo produttivo, abbassando le barriere all’ingresso nell’attività economica. Dal punto di vista delle conoscenze, è il luogo dove queste conoscenze si accumulano, si rinnovano, si creano, si condividono e si scambiano.

L’Europa delle disuguaglianze

Negli ultimi anni si è acceso fortemente il dibattito dell’opinione pubblica sul ruolo che ha assunto l’unione europea. Rispetto a quelli che erano i presupposti iniziali si è andato sempre più consolidando il pensiero di un sgretolamento dei pilastri fondativi. Uno dei motivi che, sicuramente, ha spinto i cittadini ad uno scetticismo verso l’operato dei delegati di Bruxelles è quello delle disuguaglianze. Cioè della concentrazione della ricchezza reddituale nelle mani di una percentuale sempre più ristretta di persone. Uno studio del World inequality database, un network di un centinaio di ricercatori coordinati dal gruppo che fa capo all’economista Thomas Piketty, mette insieme i dati delle indagini campionarie, della contabilità nazionale e del fisco. Riguarda 38 paesi europei: i 28 dell’Unione europea, più i cinque candidati a entrare – Bosnia Erzegovina, Serbia, Montenegro, Macedonia, Albania – e i cinque che sono fuori dell’Ue, ma hanno con essa stretti rapporti economici come Islanda, Norvegia, Svizzera, Kosovo e Moldavia.

Lo studio copre il periodo che va dal 1980 al 2017, durante il quale il modello europeo è stato messo in discussione per due eventi in particolare, l’integrazione dei paesi ex socialisti dell’est e la grande crisi economica del 2008. Dallo studio emerge una maggiore concentrazione della ricchezza nelle mani di quell’1% che, in questo arco di tempo, si è preso una ricchezza pari a quanto guadagnato da metà della popolazione europea, quella che fa parte della fascia più bassa del reddito. Un aumento dei poveri complessivamente limitato, ma più sensibile nell’est e nei paesi del sud, tra i quali l’Italia. Grazie alle tecniche di misurazione e alla lunghezza del periodo esaminato, dietro queste tendenze il Wid fa emergere tensioni e strappi anche più rilevanti.
Nonostante l’UE “promuova la coesione economica, sociale, territoriale, e la solidarietà tra gli stati membri”, cosi come indicato nei princìpi fondamentali del trattato di Lisbona i dati Wid riferiti al 2017 evidenziano un reddito medio pro capite era sotto i 15mila euro nei Balcani; tra i 15mila e i 30mila nei paesi dell’Europa dell’est e del sud (Grecia, Portogallo, Italia, Spagna, Cipro e Malta); tra i 30mila e i 45mila nei paesi dell’Europa occidentale e del nord, con Lussemburgo e Norvegia che superavano i 60mila euro (redditi calcolati a parità di potere d’acquisto).
Rispetto ai livelli di partenza, quelli del 1980, le differenze sono ancora presenti e sono abbastanza evidenti. Il blocco dei Paesi del Nord resta ampiamente in vetta con un reddito del 50 per cento più alto di quello della media europea (mentre alla metà degli anni novanta la differenza era solo del 25 per cento); quello occidentale segue a distanza, più alto del 25 per cento; quello del sud, sceso sotto la media europea con la grande crisi del 2008, adesso è il 10 per cento in meno; mentre quello dell’est imbocca una direzione opposta, guadagnando gradualmente terreno ma restando del 35 per cento sotto la media. I paesi ex comunisti entrati nell’Ue hanno registrato, tra il 2000 e il 2017, tassi di crescita annuali medi del 2,9 per cento, mentre nel nucleo originario dell’Europa a 15 il reddito medio pro capite cresceva, negli stessi periodi, dello 0,4 e dello 0,8 per cento.

E’ su questo problema che dovrebbero concentrarsi le politiche sociali.
Guidano la classifica proprio i paesi dell’est: un dato che si può capire, considerando che il punto di partenza era quello di economie socialiste. Ma tuttavia colpisce per la sua portata: in Polonia, nel 2017, il 10 per cento più ricco ha guadagnato il 40 per cento del reddito. Dal 1980 al 2017 la quota del reddito del 10 per cento più ricco è cresciuta ogni anno dell’1,4 per cento nel blocco dell’Europa occidentale, dell’1,3 per cento in quello del sud, del 2,2 per cento nell’Europa del nord e del 2,5 per cento in quella orientale. Ma la crescita è ancora più forte ai livelli più alti, cioè nel “top 1 per cento”, il cui reddito è cresciuto a ritmi del 3,5 per cento all’anno nell’Europa del sud, del 7,5 per cento in quella dell’est.
La capacità di tracciare i dati dei milionari e dei miliardari porta a individuare ritmi di incremento stratosferici quando poi si arriva al top 0,1 per cento oppure al top 0,01 per cento. Pochi individui, al vertice di una piramide distributiva sempre più disuguale.
Alla base della piramide, restano i poveri. Le disuguaglianze si sono riaperte, e molto spesso le tendenze dicono che più cresce il reddito dei ricchi e ricchissimi, più aumenta la povertà.
Nell’insieme, quasi tutti i paesi europei non hanno finora raggiunto gli obiettivi dello sviluppo sostenibile fissati dalle Nazioni Unite, secondo i quali il 40 per cento della popolazione ai livelli inferiori del reddito doveva crescere più della media: solo in Norvegia e in Spagna le persone che fanno parte di questa fascia sono riuscite a tenersi aggrappate al reddito medio, mentre in tutti gli altri paesi il loro reddito è cresciuto meno – molto meno, in casi come l’Italia, dove si sta sotto per 20 punti percentuali.

Dunque, una riduzione minima delle disuguaglianze tra gli stati, e un aumento marcato di quelle al loro interno. In Europa, quindi, c’è più disuguaglianza rispetto a quarant’anni fa. Nell’insieme la quota del reddito andata al 10 per cento più ricco è passata dal 29 al 34 per cento. E lo sviluppo del pil – finché e quando c’è stato – ha premiato l’1 per cento più ricco, che si è preso per sé la stessa fetta della crescita che nel frattempo è andata al 50 per cento “inferiore”.
Di conseguenza sono le politiche sociali nazionali che possono ridurre o aggravare le disuguaglianze.
In realtà è la portata dei diversi sistemi redistributivi – cioè dell’azione statale dopo la raccolta delle imposte – che è disuguale. In questo senso va uno studio pubblicato il 27 marzo dal ministero della sanità francese, che ha mostrato come sia possibile ottenere una riduzione tangibile delle disuguaglianze legate allo sforzo finanziario necessario per trovare un alloggio grazie alla distribuzione pubblica di sussidi abitativi.

I motivi che hanno determinato questo accumulo di ricchezza nelle mani di poche persone sono vari e non tutti legati alla capacità reddituale. Significativo è senz’altro la mancata armonizzazione fiscale che ha drenato capitali verso quelle economie con imposte più basse che ha permesso redistribuzione pro capite più alta ed una maggiore capacità di finanziamento delle domanda aggregata.
Ma ci sono altri motivi strutturali che determinano un disuguaglianze economico sociali a svantaggio delle classi meno abbienti: l’accumulo di conoscenze e di know how sempre più verso il canale privato; mancanza di investimenti in ricerca e sviluppo da parte del settore pubblico; trasparenza e responsabilità politica; una mancanza di attenzione ai temi sociali da parte delle università; strategie di sviluppo e di conoscenze nelle aree di minor sviluppo del paese; sostenibilità ambientale; rinnovamento delle risorse umane nella pubblica amministrazione; obiettivi di partecipazione strategica dei lavoratori nella gestione delle imprese e nelle sue decisioni.
L’ingiustizia sociale e la percezione della sua insuperabilità sono all’origine dei sentimenti di rabbia e di risentimento dei ceti deboli verso quelli forti con spinte a forme di dinamiche autoritarie. Questo convincimento spiega come l’Europa, al tempo del coronavirus, dovrebbe produrre una azione collettiva che favorisca la riduzione di queste disuguaglianze nel rispetto dei trattati dell’articolo 3 della carta costituzionale.