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Gian Paolo Dolso

Gian Paolo Dolso, costituzionalista, insegna all'università di Trieste. È autore di diverse decine di pubblicazioni.

Tra Premierato e realtà

Tra i vari temi presenti nel programma di governo rientra anche quello  delle riforme istituzionali. Al momento il Governo ha presentato un progetto di legge costituzionale che interviene sulla nostra attuale forma di governo, con ciò intendendosi quel complesso di regole, scritte o anche consuetudinarie, che disciplinano i rapporti tra i poteri dello Stato. Alla luce delle varie (e anche opposte) reazioni che esso ha provocato, sembra opportuno cercare di mettere a fuoco la questione isolando alcuni punti fermi.

1.La questione delle riforme istituzionali è tema in agenda da quarant’anni, da quando cioè si istituì la prima commissione incaricata si predisporre un progetto per la revisione della parte seconda della Costituzione (si trattava della commissione “Bozzi”, risalente appunto al 1983). A questa esperienza ne seguirono molte altre -come ci spiega Davide Rossi nel suo contributo- sulle quali non ci si soffermerà se non ricordando che nelle ultime occasioni i progetti di riforma furono dapprima approvati dal Parlamento ai sensi dell’art. 138 Cost. e di  poi bocciati in sede di referendum “confermativo”. Una indicazione che pare emergere è quindi la difficoltà di procedere a riforme organiche della seconda parte della Costituzione. Una serie così lunga di precedenti negativi forse spiega la proposta di un intervento di portata più circoscritta.

2.I modelli di forma di governo sono molto vari: forme di governo di tipo parlamentare, come la nostra attuale, presidenziale, semi presidenziale, neo-parlamentare… Si tratta di modelli che, in ogni Paese, assumono forme diverse tra loro dato che molte sono le variabili che contribuiscono a conformarli: ad esempio la disciplina dei sistemi elettorali e l’assetto del sistema dei partiti politici (come tra i primi ebbe a rilevare Leopoldo Elia). Inoltre  ogni sistema non funziona solo sulla base di regole scritte in Costituzione ma è fortemente condizionato dalla prassi, che talora dà luogo a vere e proprie consuetudini. Questo significa che ogni ipotesi di “trapianto” deve tenere conto di questi dati. Se si pensa, ad esempio, ai tentativi di esportazione del modello presidenziale statunitense in diversi Paesi dell’America latina, si può constatare che la resa non è stata certamente la stessa.

3.Anche nella recente campagna elettorale del 2022 è stato a più riprese evocato il “presidenzialismo”. Si tratta di un sistema praticamente sconosciuto in Europa che comporterebbe  cambiamenti radicali dell’impianto costituzionale: basti pensare al fatto che il Presidente della Repubblica non sarebbe più un organo di garanzia ma il vertice dell’esecutivo. Si è anche fatto riferimento alla forma di governo semipresidenziale, il cui archetipo è costituito dal modello francese. Si tratta di un modello  che è parlamentare, nella misura in cui è prevista l’esistenza di un rapporto di fiducia  tra Governo e Parlamento, ma che contiene un elemento tipico del modello presidenziale, l’elezione diretta del  Presidente, al quale sono attribuiti svariati poteri tra cui la nomina del capo del Governo, oltre a diverse prerogative meglio individuate dalla Costituzione (ad esempio il potere scioglimento dell’Assemblea nazionale). Anche in questo caso, il distacco dal nostro sistema risulterebbe sensibile e le modifiche della Costituzione non sarebbero di lieve momento alla luce proprio del ruolo che il Presidente della Repubblica in quel modello riveste.

4.In diverse occasioni, nel passato come di recente, si è ragionato di una qualche forma di “premierato”. Non esiste una forma di governo specifica di “premierato”, nel senso che con questa formula si fa spesso riferimento a modelli anche diversi tra loro, accomunati da un potenziamento dei poteri del capo del governo, che tendenzialmente gode di un legittimazione popolare, anche se non necessariamente realizzata attraverso l’elezione “diretta”, e dal tentativo di realizzare una certa stabilità degli esecutivi.

Ciò accade ad esempio in Gran Bretagna, ove il voto popolare non investe direttamente il capo del governo: capo del Governo sarà nominato il leader del partito che ha vinto le elezioni. Si noti che, secondo una consuetudine costituzionale da tempo affermata, la permanenza in carica del premier dipende dal fatto che lo stesso conservi la leadership del partito: perdendo questa, le dimissioni sono inevitabili. Se si pone l’accento sui poteri del Capo del Governo, anche la forma di governo tedesca è connotata dalla centralità della figura del vertice dell’esecutivo, tanto è vero che tale forma di governo assume la denominazione di cancellierato, rimarcando in tal modo il “peso” del Cancelliere nelle dinamiche dei rapporti tra i vari poteri dello Stato. Il Cancelliere, eletto dal Bundestag, dispone di poteri più ampi del nostro Presidente del Consiglio, potendo nominare e soprattutto revocare i ministri  e potendo, a certe condizioni, chiedere che il Presidente federale proceda allo scioglimento del Bundestag. Ogni tentativo di togliere il sostegno parlamentare al Governo deve poi passare attraverso la “sfiducia costruttiva”, la mozione di sfiducia dovendo essere accompagnata dall’elezione di un altro Cancelliere da parte del Bundstag.

5.Con la formula “premierato” si è anche fatto riferimento ad una forma di governo con elezione popolare diretta del capo del Governo in un contesto in cui il Governo deve comunque avere la fiducia delle Camere. Si tratta di un sistema che dà luogo al cosiddetto modello “neo parlamentare”. Tale formula è oggi molto poco presente nel panorama diritto comparato. Nel 1992 fu adottata in Israele ma una decina d’anni dopo fu poi abbandonata, non avendo tale forma di governo realizzato gli obiettivi ad essa sottesi. Può essere anche previsto che, in caso di cessazione dalle funzioni del Presidente del consiglio, si determini lo scioglimento delle Camere, con un meccanismo simile a quello che nel nostro ordinamento è stato adottato per i Comuni a far data dal 1993. Anche nelle Regioni a statuo ordinario dalla riforma del titolo V è stato previsto un meccanismo in base al quale il Presidente della Regione viene eletto dal popolo insieme con il  Consiglio regionale; in caso, poi, di mozione di sfiducia, dimissioni o morte del Presidente, è previsto lo scioglimento automatico del consiglio (art. 126 Cost.).

6.Quelle descritte sono solo alcune linee essenziali di alcuni modelli conosciuti. Vi sono poi ulteriori aspetti che contribuiscono a conformare ogni forma di governo e che sono legati alle caratteristiche di ciascun Paese e alle vicende storiche che ne hanno caratterizzato l’evoluzione. Le forme di governo vivono in determinati contesti storici e politici che in vario modo influenzano i modelli “astratti”. Il meccanico trapianto di paradigmi costituzionali non potrà dare luogo a sistemi che abbiano la stessa “resa” che ciascun modello esibisce in altri contesti: nel bene e nel male. Il sistema presidenziale, come si è inverato negli Stati Uniti, difficilmente potrà realizzarsi altrove, così come il sistema parlamentare britannico o il sistema neoparlamentare israeliano. Il fatto che tali sistemi abbiano funzionato in un certo modo in un certo contesto nulla dice di come funzionerebbero in altri Paesi. Conta la storia, contano le istituzioni, contala prassi.  Ciò trova conferma nel fatto che molti ordinamenti si sono modificati in modo anche significativo nel tempo, in ragione del mutamento del contesto politico e istituzionale, pur in assenza di formali cambiamenti del quadro costituzionale.

7.Sul progetto di legge presentato dal Governo molte cose sono state dette. Tenuto conto anche del fatto che lo stesso Ministro per le riforme costituzionali ha fatto riferimento ad un testo “aperto” alle modifiche, si possono fare alcune rapide considerazioni, anche alla luce delle obiezioni sollevate.

Si è ragionato di una eccessiva concentrazione di poteri in capo al Presidente del consiglio. Di certo tale organo appare rafforzato dall’elezione popolare e dal fatto che tendenzialmente la sua cessazione conduce (pur non immancabilmente) ad elezioni, ma il Presidente del consiglio non dispone di poteri previsti in altri sistemi e contemplati in altre ipotesi di revisione costituzionale avanzate nel passato. Solo per fare un esempio, nell’ambito dei lavori della Commissione d’Alema, in una proposta di modifica della parte seconda della Costituzione presentata da Salvi e altri era previsto che il Presidente del consiglio, non eletto direttamente ma indicato in sede di elezione delle Camere, disponesse di un potere di nomina e revoca dei ministri e potesse chiedere al Presidente della Repubblica di procedere allo scioglimento delle Camere.

E’ vero che in uno dei pochi sistemi dove è stata prevista l’elezione diretta del capo del Governo, in Israele come detto, tale forma di governo non ha dato i frutti sperati. Ciò è dipeso anche dalla frammentarietà del sistema politico. Dato che il progetto di legge costituzionale fornisce indicazioni sulla legge elettorale, il rendimento del sistema dipenderà anche da come essa verrà disegnata. Al di là di una indicazione di fondo contenuta nel progetto, molte e diverse tra loro sono le caratteristiche che potrà avere la legge elettorale e ciò potrà influire sul “rendimento” del sistema, il quale dipenderà anche -ovviamente- dalla reazione delle forze politiche in campo e dei partiti in particolare.

L’elezione diretta del Presidente del consiglio inevitabilmente riduce in qualche misura i poteri del Capo dello Stato nel procedimento di formazione del governo. Tuttavia, anche nell’attuale assetto, il conferimento dell’incarico in certi casi risulta un atto vincolato a seguito dell’esito delle elezioni ed anche lo scioglimento delle Camere di fatto è stato considerato in dottrina, più che un atto presidenziale in senso stretto, un atto “complesso eguale” o “duumvirale” (in quanto nato dal concorso della volontà del Presidente della Repubblica e del Presidente del Consiglio). Nel sistema prefigurato l’atto di conferimento dell’incarico è di fatto sempre vincolato e, in caso di cessazione dalla carica del Presidente del consiglio, la discrezionalità del Capo dello Stato è limitata dal fatto che un eventuale nuovo incarico può essere conferito “al Presidente del Consiglio dimissionario o a un altro parlamentare eletto in collegamento al Presidente eletto”. La maggioranza che sostiene il nuovo Governo potrebbe essere in astratto anche diversa da quella che sosteneva il primo governo, fermo il vincolo ad “attuare le dichiarazioni relative all’indirizzo politico e agli impegni programmatici su cui il Governo del Presidente eletto ha chiesto la fiducia delle Camere”. Forse il punto potrebbe essere chiarito in sede di discussione dato che la finalità di evitare i cosiddetti “ribaltoni” potrebbe non realizzarsi del tutto. Gli altri poteri del Presidente della Repubblica rimangono praticamente inalterati, cosa che non avrebbe potuto essere al cospetto di forme  di governo di tipo semipresidenziale o, va da sé, presidenziale.

Con riguardo alla previsione relativa al sistema, elettorale si sono avanzati dubbi di vario tipo. Tutto dipende da come la diposizione verrà attuata, essendo l’inserimento del premio di maggioranza in Costituzione un fatto del tutto inedito nel nostro sistema. La Corte costituzionale, quando è intervenuta sul sistema elettorale, ha avuto modo di osservare, in relazione al premio di maggioranza, due cose: la prima è che le finalità di assicurare “stabilità del governo del Paese” ed “efficienza dei processi decisionali nell’ambito parlamentare” sono costituzionalmente legittime; la seconda è che il mezzo utilizzato per raggiungere tale scopo deve essere caratterizzato da proporzionalità. In altre parole deve essere prevista una soglia minima ragionevole (per fare scattare il premio di maggioranza) in modo che non si determini -sono ancora le parole della Corte- “una illimitata compressione della rappresentatività dell’assemblea parlamentare, incompatibile con i principi costituzionali in base ai quali le assemblee parlamentari sono sedi esclusive della rappresentanza politica nazionale” (sent. n. 1 del 2014).

8.La proposta di modifica appare quindi piuttosto circoscritta, per lo meno se paragonata ai progetti di riforma precedentemente avanzati che, forse anche per la loro complessità, non sono stati avallati in sede di referendum popolare. Questo approccio è stato ora dismesso e il progetto di riforma si presenta molto meno ampio come portata. Forse sarebbe bene discutere e precisare sin d’ora per lo meno le caratteristiche della legge elettorale da cui la “resa” del sistema potrebbe dipendere, ovviamente seguendo le indicazioni tratte dalla giurisprudenza della Corte costituzionale e sopra richiamate. Altri interventi migliorativi potrebbero poi essere immaginati per assicurare una migliore funzionalità al sistema.  Anche alla luce del fatto l’agenda politica dei prossimi mesi appare piuttosto fitta, caratterizzata dall’approvazione della legge sull’autonomia differenziata ex art. 116 Cost. e dalla discussione sulle riforme -anche di livello costituzionale- che investono il mondo della giustizia, un approccio in qualche modo perimetrato rispetto al plesso di norme che disciplinano la forma di governo potrebbe essere una scelta che ha maggiori chances di successo.

 

Si chiama Grande Riforma l’ambizione più grande

In questi ultimi giorni o settimane il tema delle riforme costituzionali sembra di nuovo tornato al centro dell’agenda politica del Governo e della maggioranza che lo sostiene, motivo per cui è forse opportuno cercare di fare il punto almeno su alcuni dei modelli chiamati in causa.

Quando si utilizza il concetto di forme di governo in sostanza si fa riferimento alle regole che presiedono i rapporti tra i poteri dello Stato, diversamente dalle forme di Stato che ineriscono alla relazione che intercorre tra cittadini e Stato (forma di stato democratica, liberale, autoritaria…). Vi sono una serie di modelli astratti: si ragiona, tra le altre, di forma di governo parlamentare, presidenziale, direttoriale. Tali modelli, tuttavia, rimandano quasi sempre a ben precisi paradigmi che si sono inverati nella prassi. Questo perché sulla forma di governo incidono molteplici fattori che mutano ovviamente da Paese a Paese e che quindi condizionano anche l’assetto istituzionale: il sistema dei partiti, la legislazione elettorale, il livello di decentramento, solo per citarne alcuni.

Presidenzialismo e dintorni

Ciò nondimeno, si possono indicare alcuni punti di riferimento in relazione alle varie ipotesi sul tappeto. Innanzitutto la forma di governo presidenziale. L’archetipo di tale modello, a cui anche i manuali di diritto rimandano quando si tratta di illustrarne le caratteristiche, è quello disegnato dalla Costituzione degli Stati Uniti d’America. Se l’elezione diretta del Capo dello Stato è caratteristica immancabile di questo modello, tipica è anche la concentrazione di poteri in capo al Presidente che è di norma il vertice indiscusso del Potere esecutivo (sempre riferendosi agli Stati Uniti, non si ragiona nemmeno di ministri ma di segretari di Stato, che sono ovviamente nominati dal Presidente e da questo revocabili in ogni momento). In Europa è una forma di governo poco diffusa e le esperienze maturate, ad esempio, in alcune realtà dell’America latina non hanno dato sempre buona prova di sé. Negli Stati Uniti – Paese che appunto funge da paradigma – si tratta di un assetto che ha resistito all’usura del tempo, senza per vero mai creare situazioni che ne consigliassero un superamento, nemmeno nei periodi più critici della storia americana. Questo perché il sistema è ispirato al principio dei pesi e contrappesi (checks and balances), di modo che la concentrazione di poteri in capo al Presidente risulta di fatto mitigata. Essa infatti è controbilanciata da una serie di elementi, tra cui le prerogative di controllo riconosciute in capo agli organi parlamentari, la cui maggioranza non sempre coincide con quella che ha espresso il Presidente; la presenza di un potere  giudiziario forte, connotato da una Corte Suprema che non di rado ha operato come “contropotere” rispetto anche a scelte presidenziali; infine il potere – da parte degli organi parlamentari – di mettere sotto accusa il Presidente in caso di commissione di reati (impeachment).  Si tratta di elementi per lo più caratteristici del sistema statunitense e non facilmente trapiantabili in altri contesti. Quello che è chiaro è che, laddove il sistema dei checks and balances non sia così sviluppato, il sistema difficilmente avrebbe lo stesso “rendimento” che si registra negli Stati Uniti.

Si è nel tempo sviluppata una variante di questa forma di governo che riunisce elementi tipici della forma di governo presidenziale e tratti caratterizzanti di quella parlamentare: da una parte l’elezione del Presidente della Repubblica, dall’altra il necessario rapporto di fiducia – sconosciuto nelle forme di governo presidenziali – che lega Governo e Parlamento e  da cui dipende la stessa esistenza del Governo: se la fiducia viene meno, il Governo è tenuto a rassegnare le dimissioni.  Come l’archetipo del presidenzialismo è costituito dagli Stati Uniti, il paradigma utilizzato per ricostruire il modello semipresidenziale è dato dalla Francia. Si tratta di uno schema in cui il Presidente della Repubblica è eletto dal popolo ma condivide, pur avendone l’indubbia primazia, il potere esecutivo con un Capo del governo che per vero lui stesso nomina e che deve essere sostenuto dalla fiducia parlamentare. Il Presidente della Repubblica ha svariati poteri, che tuttavia possono anche essere meno ampi di quanto previsto nel modello francese.  Talvolta accade – e questa è una disfunzione del sistema – che il Presidente e il Parlamento siano espressione di maggioranze politiche diverse: si tratta dei casi che in Francia sono stati etichettati come “cohabitation”. Non sono molti in Europa i Paesi che hanno adottato il semipresidenzialismo.

I poteri del premier

Altra forma di governo che viene evocata, e di recente pare quella più gettonata, è quella del “premierato”, anche se in questo caso si può ragionare di forma di governo solo in senso atecnico. La proposta di un “Governo del Primo Ministro” era stata peraltro avanzata già alla fine degli anni Novanta da Romano Prodi. Con tale formula si vuole alludere in effetti non tanto ad una forma di governo specifica, ma a modelli anche diversi tra loro, accomunati però da una accentuazione di poteri del Capo del governo funzionale ad assicurare maggiore coesione all’interno della compagine governativa (anche alla luce del potere di nomina e soprattutto di revoca dei ministri riconosciuta al premier) e a garantire una maggiore stabilità degli Esecutivi. Tra gli altri poteri spesso riconosciuti in questi modelli al capo del governo vi è anche quello di sciogliere le Camere (potere che la Costituzione vigente include tra le prerogative del Presidente della Repubblica). Il premier gode di norma di una legittimazione popolare, che può essere anche indiretta. Proprio quest’ultimo è il caso della Gran Bretagna, ove il voto popolare non investe direttamente il Capo del governo ma, secondo una consuetudine costituzionale, viene nominato premier il capo del partito che ha vinto le elezioni. Si tratta di una designazione che è legata alla permanenza del premier alla guida del partito: perdendo la leadership del partito, le dimissioni del Primo Ministro saranno inevitabili (come di recente confermato dal caso di Teresa May).

Un’altra variante del modello prevede l’investitura popolare diretta del Capo del governo, anche se l’Esecutivo deve comunque avere la fiducia delle Camere. Questo modello è stato denominato “neo parlamentare” e risulta oggi praticamente sconosciuto nel panorama del diritto comparato (se si accentua un periodo di vigenza di esso in Israele). Nell’ambito di questa forma di governo può essere previsto che in ogni caso di cessazione dalle funzioni del Presidente eletto dal popolo si determini automaticamente  lo scioglimento delle Camere, con un meccanismo simile a quello che nel nostro ordinamento è stato adottato nelle Regioni ove vige, con riguardo al Presidente della Regione eletto dal popolo e al Consiglio regionale, il meccanismo del simul stabunt, simul cadent  che comporta lo scioglimento del Consiglio in caso di mozione di sfiducia, dimissioni o morte del Presidente (art. 126 Cost.).

Se si pone l’accento sui poteri del Capo del governo, anche la forma di governo vigente in Germania può essere fatta rientrare tra i modelli connotati dalla centralità di questa figura, fattore che ha contribuito ad assicurare una tendenziale stabilità degli Esecutivi nella recente storia costituzionale tedesca. Non a caso si ragiona di Cancellierato, rimarcando in tal modo il “peso” del Cancelliere nelle dinamiche dei rapporti tra i vari poteri dello Stato. Tale centralità conosce due declinazioni. Da una parte il Cancelliere, pur eletto dalla Camera “politica” (il Bundesrat) e non direttamente dal popolo, dispone di poteri più ampi del nostro Presidente del Consiglio: tra le sue prerogative spicca quella di poter nominare e revocare i ministri che compongono il Governo. Dall’altra parte la sua posizione è rafforzata dal fatto che ogni tentativo di togliere il sostegno parlamentare al Governo passa attraverso la cosiddetta “sfiducia costruttiva”, con ciò intendendosi quel meccanismo in base al quale la mozione di sfiducia può avere corso solo nel caso in cui l’Assemblea elegga a maggioranza un successore, chiedendo quindi al Presidente federale la revoca del Cancelliere in caria.

Al netto di tutto questo, tra i vari elementi che condizionano la forma di governo e il suo funzionamento, è da considerare pure il tasso di decentramento esibito dai vari sistemi. È significativo a questo proposito comparare due modelli che pure condividono la finalità di conferire al vertice dell’Esecutivo poteri più penetranti. Da una parte il modello francese, fortemente centralista, e dall’altra il modello tedesco, che dà vita ad uno Stato federale, caratterizzato dalla presenza di una Camera del Länder (Bundesrat). Si tratta di un elemento da prendere in considerazione in quanto tocca i rapporti tra cittadini e istituzioni: il disegno, diverse volte abbozzato, di dare vita ad un Senato delle Regioni, limitando alla sola Camera le funzioni squisitamente politiche (in primis la fiducia), forse non andrebbe dismesso, avendo esso il pregio non solo di poter convivere con modelli costituzionali anche diversificati tra loro, ma anche di completare il processo di decentramento della nostra Repubblica (art. 5 Cost.), anche al fine di porre rimedio alle disfunzioni prodotte dalla riforma costituzionale del 2001,che ha finito per scaricato sulla Corte costituzionale un contenzioso tra Stato e Regioni che sarebbe preferibile trovasse altre e diverse sedi di composizione.

Quelle tratteggiate sono solo le linee essenziali di alcuni dei modelli a cui ci si può ispirare, essendoci poi numerosi altri profili che connotano le forme di governo sommariamente descritte e a cui si sta in questo periodo guardando.

 

Condizioni da rispettare

Quello che è in ogni caso essenziale osservare è che le forme di governo vivono in determinati contesti storico-politici le cui caratteristiche finiscono per determinarne il successo. Il mero trapianto di paradigmi costituzionali difficilmente può dare gli stessi risultati prodotti nei sistemi dove quei sistemi si sono sviluppati.  Oltre all’esperienza britannica, ove le consuetudini, di livello costituzionale, costituiscono la fonte principale del sistema di governo, anche nei sistemi di civil law la prassi gioca un ruolo decisivo nel funzionamento delle istituzioni.  L’ingegneria costituzionale non appartiene certo al novero delle scienze esatte, dipendendo la forma di governo da molte variabili, alcune delle quali non modificabili poiché legate al codice genetico di ciascun ordinamento.

Ciò nondimeno un intervento mirato sui meccanismi di funzionamento delle istituzioni potrebbe determinare gli effetti desiderati, a patto che alcune condizioni siano rispettate. In primo luogo, data per scontata la chiarezza degli obiettivi perseguiti, vi deve essere un nesso di consequenziarietà tra gli interventi messi in campo e i risultati che si vogliono raggiungere, ad esempio la sempre evocata stabilità degli esecutivi. In secondo luogo va considerato che un diverso quadro di regole costituzionali potrà innescare positive dinamiche a livello di sistema solamente se le forze politiche saranno disposte ad assecondare il cambiamento determinato dal nuovo assetto normativo con comportamenti che, adattandosi al mutato contesto, migliorino la “resa” della macchina. Si tratta di comportamenti che, se reiterati nel tempo, potranno dare luogo a convenzioni o a consuetudini costituzionali che, colmando le inevitabili lacune del tessuto normativo, contribuiranno a metterne a fuoco il significato alla luce delle finalità sottese al procedimento di revisione costituzionale.

In definitiva il nuovo quadro di norme, seppure imprescindibile, non esaurisce certo l’intero processo di revisione costituzionale, che conosce un prima – costituito dalla fase progettuale che deve tenere conto delle particolarità del nostro sistema istituzionale – e un dopo – dato dal recepimento del nuovo quadro normativo da parte del sistema politico –, momenti questi non eludibili nella prospettiva di una realizzazione compiuta del disegno riformatore.

PARLAMENTO DI NUOVO CENTRALE

All’inizio di ogni legislatura si ripropone il tema del ruolo del Parlamento, di cui viene rimarcata la centralità in ogni sistema democratico, quale che sia la sua forma di governo. Anche nel presente contesto la questione si è riaffacciata forse con maggiore vigore rispetto ad altre occasioni. Ciò è dovuto probabilmente a due fattori concorrenti: il primo ha a che fare con i segnali di crisi che negli ultimi anni si sono registrati con riguardo al “posto” del Parlamento nel nostro sistema costituzionale; il secondo riguarda la natura marcatamente politica che connota il governo appena insediato che potrebbe avere ricadute anche con riguardo all’attività parlamentare.

In riferimento al primo profilo, è agevole osservare che la crisi del Parlamento ha avuto negli  ultimi anni diverse epifanie correlate a cause diversificate. Il discorso potrebbe essere lungo ma ci possiamo limitare ad alcune  esemplificazioni. In primo luogo non serve nemmeno rimarcare il ruolo subalterno che il Parlamento ha avuto rispetto al governo a far data dall’inizio della pandemia. Tutte le scelte relative alla gestione del fenomeno si sono concentrate sul governo non solo nel momento in cui l’emergenza si era manifestata ma anche in un secondo tempo, quando di fatto la recrudescenza della pandemia non era solo prevedibile ma era stata prevista: anche in tale frangente il Parlamento non ha avuto un ruolo significativo nonostante il  fatto che, come la dottrina giuridica insegna, ogni fenomeno emergenziale deve per sua natura essere temporaneo: solo a questa condizione il ricorso a strumenti eccezionali è consentito. E se nel primo periodo dell’emergenza si registra un utilizzo molto discutibile dei Dpcm, solo in parte “coperti” da fonti di grado legislativo, in un secondo momento vi è stato un uso insistito dei decreti legge, di norma convertiti de plano dal Parlamento proprio in considerazione dell’emergenza in atto. La situazione di tendenziale centralità del governo si è perpetuata anche a seguito dell’insediamento del governo Draghi in relazione alla gestione del PNRR, che ha visto il Parlamento in posizione piuttosto defilata.

Al contrario ad esempio di quanto avviene in Germania ove sempre alta è l’attenzione in relazione alla vigilanza sul rispetto dei limiti di competenza da parte  degli organi dell’UE (controllo ultra vires) e sul ruolo del Bundestag (il Parlamento federale) che non può essere pretermesso quando si tratta di decisioni che hanno ricadute significative sul bilancio dello Stato: sul punto si è pronunciata la Corte costituzionale tedesca (Bundesverfassungsgericht) con la sentenza del 6 dicembre 2022. Si tratta di una decisione particolarmente attesa in quanto relativa alle misure adottate dall’UE per fronteggiare la crisi epidemica attraverso forme di  indebitamento comune. Si evocava da parte dei ricorrenti anche una violazione dell’identità costituzionale tedesca, dal momento che le nuove forme di indebitamento sovranazionale avrebbero espropriato il Parlamento federale di un controllo effettivo sulle decisioni di bilancio. La Corte non accoglie tale doglianza avendo tuttavia occasione di ribadire che il Bundestag deve in ogni caso mantenere un’influenza rilevante sia rispetto al ruolo del governo federale sia delle istituzioni europee in relazione all’implementazione del NGEU.

Anche con riguardo al rapporto con le autonomie locali, si può evidenziare che il processo di attuazione dell’autonomia differenziata ha conosciuto una lunga parentesi di stasi, nonostante le indicazioni referendarie provenienti da alcune regioni coinvolte in questo processo. Ed è proprio la procedura parlamentare che non ha fatto passi in avanti per realizzare gli obiettivi di una ulteriore devoluzione di competenze ad alcune regioni. Sul punto il governo sembra intenzionato  a rimettere in piedi il processo disciplinato dall’art. 116 Cost. in tempi rapidi, collocando al centro della scena il Parlamento, come si desume dall’intervento del ministro per i rapporti con il Parlamento Luca Ciriani in occasione del question time alla Camera del 23 novembre 2022.  Secondo il ministro, il disegno di legge di attuazione avrà un duplice obiettivo: “Disciplinare in modo armonico e omogeneo la procedura per il raggiungimento delle diverse intese in costante dialogo con il sistema delle autonomie territoriali e favorire il confronto parlamentare, in modo da evitare che le intese, una volta concluse, possano precludere un’attenta valutazione sui contenuti da parte delle Camere”.

Con riguardo ai rapporti con la Corte costituzionale si registra un altro significativo caso di inerzia del Parlamento che si auspica non si replichi in futuro. Con una tipologia decisoria per vero non esente da dubbi accade che la Corte costituzionale, dopo avere prefigurato l’illegittimità costituzionale di una certa legge, e dopo aver constatato che diverse potrebbero essere le modalità con cui porvi rimedio, rinvia la trattazione della questione di norma di un anno. In questo modo la Consulta, in  uno spirito di collaborazione con il Parlamento, lascia uno spazio di tempo al potere legislativo per intervenire al fine di sanare la situazione di incostituzionalità. Questo modus procedendi è stato sperimentato per la prima volta nel noto “caso Cappato”, ma è stato riprodotto in relazione alla questione del “carcere per i giornalisti” ed anche con riguardo al cosiddetto ergastolo “ostativo”. Il Parlamento è rimasto inerte con riguardo al caso Cappato e la Corte è intervenuta con la sentenza n. 242 del 2019; lo stesso è accaduto nel caso del “carcere per i giornalisti”, che ha dato luogo alla sentenza n. 150 del 2021. In riferimento all’ergastolo ostativo, dopo un ulteriore rinvio della data dell’udienza da parte della Corte, il governo appena insediato ha infine provveduto col decreto legge n. 162 del 31/10/2022. L’intervento ha suscitato discussioni ma in tal modo si è per lo meno evitato che per la terza volta il termine scorresse invano e fosse la Corte costituzionale a dovere procedere alla dichiarazione di illegittimità.  Se è vero che in casi consimili, ove  non sussiste una soluzione che sia, come insegnava la migliore dottrina, a “rime obbligate”, forse una pronuncia di inammissibilità sarebbe più rispettosa delle prerogative del Parlamento, è anche vero che il silenzio del Parlamento è divenuto assordante, non essendo accettabile che l’inerzia si protragga sino a determinare una sostituzione della Corte al potere legislativo pur avendo l’organo rappresentativo avuto tempo per intervenire.

Anche a livello di fonti del diritto, in riferimento all’impiego della legge come fonte primaria per eccellenza, i dati non appaiono confortanti. Nel Rapporto sulla legislazione 2019-2020 predisposto dall’Osservatorio sulla legislazione della Camera dei Deputati (La legislazione tra stato, regioni e Unione europea. Rapporto 2019-2020) emerge lo stato della legislazione nel periodo considerato. Secondo le griglie utilizzate, la produzione risulta così ripartita: 28% leggi “istituzionali”; 13% leggi qualificate come “settoriali”; il 17% intersettoriali; 28% leggi “provvedimento”; 14% leggi di cosiddetta “manutenzione” normativa (contenenti limitate modifiche di assestamento alla normativa previgente). A queste categorie si aggiungono le leggi di bilancio e quelle di ratifica  dei trattati internazionali.  La percentuale di leggi che recano disposizioni che abbiano un carattere generale, e che quindi rispondono ai requisiti classici della “legge”, appare piuttosto modesta, del 28% (nella XVII legislatura la percentuale si è arrestata addirittura al 13%).

Un governo politico

Il quadro è completato dal proliferare di fonti subordinate, fin anche di soft law (cioè di atti di cui è pure dubbia la riconducibilità alle fonti del diritto) che erodono il territorio tipicamente coperto dalla legge,  e da un utilizzo dei decreti legge che, complice anche il periodo pandemico, non ha mai conosciuto in questi anni una flessione, nonostante i paletti posti dalla Corte costituzionale che consentono alla stessa Corte, pur in casi circoscritti, di sindacare i presupposi di necessità e urgenza che devono per Costituzione assistere i decreti leggi.

In sostanza da questi brevissimi cenni si desumono elementi di criticità in relazione alla centralità del Parlamento, sia con riguardo all’assetto delle fonti del diritto, sia riguardo al rapporto con le   autonomie regionali sia infine per quanto attiene alla tutela dei diritti, la cui garanzia si fonda, in primis, sulle riserve di legge che presidiano tutte le libertà costituzionali. Se questi sono gli elementi di crisi che rendono attuale il tema della centralità del Parlamento, l’insediamento di una nuova compagine governativa dai tratti marcatamente “politici”,  sorretta da una maggioranza sicuramente più omogenea di quanto accaduto nel recente passato per altri governi della  Repubblica, porta ancora a ragionare di centralità del Parlamento, ma in un senso diverso, alla stregua appunto di un obiettivo non solo auspicabile ma anche possibile. Non a caso il Presidente della Camera, nel suo discorso di insediamento, ha osservato che “la legislatura che sta iniziando dovrà avere il compito di riaffermare il ruolo centrale del Parlamento quale luogo delle decisioni politiche: dopo la parentesi imposta dalle emergenze che hanno attraversato la scorsa legislatura […]  è necessario che il Parlamento riacquisti la consapevolezza della sua funzione costituzionale, che è, primariamente, quella della definizione delle “regole” che impegnano tutti i cittadini”. Tutto ciò non solo costituirebbe un segnale di discontinuità apprezzato in modo tendenzialmente bipartisan, ma potrebbe sanare una situazione di subalternità dell’organo che incarna la rappresentanza popolare che corre il rischio altrimenti di divenire endemica. Sul tema  aleggia ancora il monito di uno dei più grandi giuristi del secolo scorso, Hans Kelsen, secondo cui “una sottrazione alla politica della legislazione significherebbe l’autodistruzione di quest’ultima”.

Rave party: il reato e i pregiudizi

Il Governo ha da poco approvato un decreto legge (n. 162 del 2022) contenente una disposizione che introduce una nuova fattispecie di reato, l’art. 434- bis c.p.  (Invasione di terreni o edifici per raduni pericolosi per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica): “L’invasione per raduni pericolosi per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica consiste nell’invasione arbitraria di terreni o edifici altrui, pubblici o privati, commessa da un numero di persone superiore a cinquanta, allo scopo di organizzare un raduno, quando dallo stesso può derivare un pericolo per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica. Chiunque organizza o promuove l’invasione di cui al primo comma è punito con la pena della reclusione da tre a sei anni e con la multa da euro 1.000 a euro 10.000. Per il solo fatto di partecipare all’invasione la pena è diminuita”. Viene poi disposta la confisca delle cose utilizzate per commettere il reato, oltre alla la possibilità di irrogare  misure di prevenzione personali.

In primo luogo vanno tenuti distinti i profili di legittimità dai profili di opportunità. Per quanto riguarda i primi,  viene evocato l’art. 17, che proclama il diritto dei cittadini di “riunirsi pacificamente e senz’armi”. La norma ragiona di “raduni pericolosi per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica” e di invasione “arbitraria” di terreni, il che sembra portare, nonostante una certa indeterminatezza della fattispecie, fuori dal perimetro della garanzia costituzionale.

Sotto il profilo della determinatezza, si può osservare che si tratta di un parametro che raramente ha portato la Corte a dichiarazioni di incostituzionalità, anche se molte fattispecie penali non sono del tutto in asse con tale principio. Il reato introdotto ne è un esempio e la pluralità dei fatti che astrattamente risulterebbero punibili è sintomo di una formulazione non certo impeccabile, di modo che verrebbe scaricato sulla giurisprudenza il compito  precisare i contorni della fattispecie.

Quanto alla pena, la cornice edittale appare troppo elevata, anche se occorre costatare che la Corte sindaca l’entità della pena solo in casi di “manifesta” irragionevolezza, desunta spesso da una comparazione con altre fattispecie di reato (la Corte da tempo richiede il rispetto del “principio razionale di proporzionalità della pena al fatto”).

Si paventa un uso della norma per reprimere il dissenso politico, con violazione dell’art. 21 Cost. Ciò potrebbe accadere in astratto, ma solo se del concetto di ordine pubblico fosse data una interpretazione  sconosciuta nel nostro ordinamento. L’ordine pubblico, espressione mai utilizzata dal Costituente, va inteso in senso materiale e non ideale, declinato come pubblica tranquillità e sicurezza e non come insieme di valori riconosciuti in un dato ordinamento, come ordre dans la rue e non come ordinamento politico ed economico costituito.

Si è ragionato di difetto dei presupposti di necessità e urgenza di cui all’art. 77 Cost. Se non è agevole ravvisare nella fattispecie un caso straordinario di necessità e urgenza, va osservato che la Corte interviene al riguardo  molto sporadicamente, solo quando la mancanza di questo presupposto si riveli del tutto “manifesta”.

Il secondo piano di valutazione è quello dell’opportunità. In primo luogo, vi sono controindicazioni all’uso del decreto legge. Se si è ipotizzata la possibilità di emendamenti in sede di conversione, si deve tener conto della immediata entrata in vigore del D.L. A parte profili di diritto intertemporale, il punto più spinoso potrebbe essere dato da possibili incisioni della libertà personale (eventuali arresti), consentite dal decreto legge ma non dalla legge di conversione.

Se la misura costituisce certamente un segnale politico, forse non è necessario sul piano del contrasto del fenomeno. Utilizzando gli strumenti previsti dall’ordinamento, i rave party potrebbero essere efficacemente contenuti sia sul versante penale che su quello amministrativo (come del resto la vicenda di Modena dimostra).

Anche alla luce del fatto che si tratta di un reato “di pericolo”, la fattispecie avrebbe dovuto essere maggiormente precisata, evitando il riferimento al concetto “ordine pubblico”. La pena appare poi sproporzionata, soprattutto  nella sua misura massima, con tutte le conseguenze che ciò comporta. La possibilità poi di irrogare misure di prevenzione  appare eccentrica. L’impiego di tali misure dovrebbe essere circondato da cautela dato che esse prescindono dall’accertamento di un reato, essendo appunto “preventive”. Si tratta di misure sotto diversi profili censurate sia dalla Corte di Strasburgo che dalla Corte costituzionale (sent. n. 24 del 2019).

In sede applicativa i giudici avrebbero in fin dei conti il compito, già sul piano del “fatto”, di verificare se un accadimento concreto corrisponda alla fattispecie normativa astratta. I giudici dispongono, come noto, di potenti strumenti interpretativi, tra cui spicca quello dell’interpretazione conforme a Costituzione, salva sempre la possibilità di rimettere la questione alla Corte costituzionale.

Tra le molteplici reazioni che la norma ha suscitato si registra anche la presa di posizione di “Magistratura democratica” contenuta in un comunicato ove si sostiene che la norma entrerebbe “in diretta collisione con l’art. 17 della Costituzione”. Si prefigurano arresti da parte della polizia di gruppi di persone riunite a festeggiare un “lieto evento, facendo un po’ di schiamazzi”. Si paventa un rigurgito di “criminalizzazione della marginalità sociale”. La norma viene rubricata come “pericolosa” e connotata da “margini di equivocità” ponendosi “in drammatica collisione con i nostri diritti e valori fondamentali”. Ci si chiede infine cosa accadrebbe “nel caso in cui la manifestazione fosse organizzata per protestare contro scelte governative…”.

Se le critiche alla norma sono legittime, qualche dubbio si potrebbe avanzare in relazione a prese di posizione da parte della magistratura, o di alcune espressioni associative di essa. Il problema è che i giudici saranno a breve chiamati ad applicare la norma. Si tratta, nel caso, di una diametrale  contrapposizione rispetto a una scelta governativa espressa attraverso un decreto legge che deve comunque passare alla conversione delle Camere. Che una parte della magistratura muova una critica così radicale rispetto ad una scelta politica del Governo non pare del tutto in asse con la fisiologia del sistema.  Si tratta di un atteggiamento che, oltre a porsi in contrasto con le dinamiche costituzionali, che non contemplano un ruolo politico della magistratura, perpetua un certo modo di essere del rapporto tra politica e magistratura. Si è al riguardo osservato che l’azione della magistratura “ha in certo senso posto la politica intera sul banco degli imputati (e lasciamo qui da parte il bilancio di quei processi, che non sempre hanno confermato le responsabilità oggetto delle indagini), riducendola in una condizione di fisiologica minorità” così Guido Melis, in Questione giustizia, 2022).

Si tratta di uno stato di cose che si auspica sia superato dovendo l’ordinamento tendere verso una evoluzione costruttiva del rapporto tra politica e magistratura: tra chi è chiamato a compiere scelte politiche e chi è chiamato ad applicare ed interpretare le leggi in una posizione di indipendenza e di imparzialità.

AGENDA GIUSTIZIA LE RIFORME NECESSARIE

Alla luce della situazione attuale, caratterizzata da svariate criticità che postulano interventi immediati, è plausibile che la giustizia non rientri tra i temi su cui il Governo metterà mano nell’immediato. Ancora meno è ipotizzabile ragionare di riforme che postulino una revisione costituzionale, come la separazione delle carriere, pur essendo un punto condiviso dalle forze politiche che compongono il Governo.
Forse vale la pena soffermarsi sulla legge che, da ultimo, si è occupata dell’ordinamento giudiziario (la n.71 del 2022) giacchè da questa probabilmente si muoverà implementando le deleghe che essa contiene. La legge ha un contenuto molto ampio, contemplando anche disposizioni immediatamente applicative, con una commistione che non è certo espressione di una buona tecnica legislativa.
Quanto alla “Delega al Governo per la riforma ordinamentale della magistratura”, viene affrontato in primo luogo il tema dei criteri di assegnazione degli incarichi direttivi, prendendo le mosse da una esplicita affermazione del principio di trasparenza dei procedimenti, per l’innanzi disciplinato in modo riduttivo dal cosiddetto “testo unico” della dirigenza giudiziaria emanato dal CSM. La legge prevede “espressamente l’applicazione dei principi di cui alla legge 7 agosto 1990, n. 241 ai procedimenti per la copertura dei posti direttivi”: che l’applicazione dei principi di cui alla legge 241 debba essere prevista “espressamente” suona come una stonatura rispetto a principi che il sistema dovrebbe avere introiettato, soprattutto con riguardo a deliberazioni che per definizione dovrebbero essere ispirate a “trasparenza”.
Si prevede poi che la “commissione competente del Consiglio superiore della magistratura proceda sempre all’audizione dei candidati”. Nonostante il parere critico sul punto del CSM, che ha ragionato di “inutile dispendio di energie” e di “evidente dilatazione dei tempi”, non pare che questo aggravio possa essere addotto come la causa dei ritardi. Si tratta invece di un passaggio procedurale ampiamente compensato dalla sua utilità.
La norma appare certamente più opportuna rispetto a quella che prevede, accanto all’acquisizione di un parere del consiglio dell’ordine degli avvocati, anche il parere, da acquisire “in forma semplificata e riservata” (sic!), dei magistrati e dei dirigenti amministrativi dell’ufficio. Il CSM teme che i pareri dei consigli degli ordini possano consistere in giudizi valutativi, ma si tratta di una evidente petizione di principio. Inquietante appare piuttosto la previsione relativa all’acquisizione in forma “riservata” del parere di magistrati e dirigenti amministrativi. Si tratta di un adempimento difficilmente produttivo di qualche effetto, aggravato dall’ambigua previsione della natura “riservata”. Si tratta di una disposizione infelice a cui sarebbe preferibile non dare seguito. Siamo al cospetto di innesti che non sembrano contribuire a migliorare il “rendimento” di un sistema già farraginoso.
La legge interviene poi sui criteri di assegnazione degli incarichi. Va apprezzato il tentativo di riportare a livello legislativo i parametri di giudizio. Viene confermato lo spazio (eccessivo?) rilasciato ai “criteri dettati dal Consiglio superiore della magistratura”. Se i criteri di attribuzione delle funzioni rimangono le attitudini, il merito e l’anzianità, la legge enuclea altri elementi che devono essere tenuti in considerazione: la “conoscenza del complesso dei servizi resi dall’ufficio per la cui direzione è indetto il concorso”, la “capacità di analisi ed elaborazione dei dati statistici”, la “conoscenza delle norme ordinamentali”. Non appare ragionevole la richiesta di conoscenza di quello specifico ufficio direttivo a concorso, che privilegia un criterio “territoriale” nell’attribuzione. Se la capacità di analisi ed elaborazione dei dati statistici e la conoscenza di norme ordinamentali sembrano elementi utili, rimangono dubbi i modi di accertamento di queste conoscenze.
Nella valutazione non si tiene conto delle “esperienze maturate nel lavoro non giudiziario a seguito di collocamento fuori ruolo della magistratura”, mentre viene rubricato come criterio residuale quello dell’anzianità. Entrambe le previsioni appaiono troppo radicali: la prima può suonare come punitiva rispetto a chi ha svolto esperienze fuori dalla magistratura. Se è condivisibile un maggiore rigore nella disciplina del fuori ruolo, non sembra ragionevole non attribuire alcuna valenza a queste esperienze. O si escludono tali incarichi, oppure devono potere essere oggetto di valutazione, con il corredo di una congrua motivazione.
Altre disposizioni sono dedicate al procedimento di conferma negli uffici direttivi: si prevede che si tenga conto “anche dei pareri espressi dai magistrati dell’ufficio, acquisiti con le modalità definite dallo stesso Consiglio, del parere del presidente del tribunale o del procuratore della Repubblica […] e delle osservazione del consiglio degli ordine degli avvocati”. Il CSM paventa che i pareri dei magistrati si traducano in “giudizi valutativi”, “potenzialmente suscettibili di generare un ampio contenzioso” e considera criticamente la rilevanza assegnata alle “osservazioni” degli avvocati.
Il vero è che traspare una malcelata (e probabilmente ingiustificata) “insofferenza” nei confronti della pratica della valutazione, soprattutto se essa proviene dal mondo dell’avvocatura.
Un’altra disposizione riguarda il conferimento di funzioni giudicanti e requirenti in Cassazione. Vengono previsti diversi elementi volti a rendere il giudizio maggiormente legato al “merito”. Si richiede l’esercizio effettivo delle funzioni per dieci anni e si tenta di ancorare la valutazione a parametri oggettivi, imponendo di tenere conto delle “esperienze maturate nel lavoro giudiziario”, in tal modo dando il giusto rilievo al tempo di svolgimento delle funzioni.
Densa di significato la previsione secondo cui, nell’attribuire rilevanza al parametro della “capacità scientifica e di analisi delle norme”, si tenga conto anche “di andamenti statistici gravemente anomali degli esiti degli affari nelle fasi e nei gradi successivi del procedimento”. Si tratta di un dato assai interessante anche se non inedito. Il riscontro di gravi anomalie non può essere ignorato in sede di valutazione. Se le decisioni assunte da un magistrato vengono sistematicamente riformate, a tale dato non può non attribuirsi un significato, anche se la legge non prefigura automatismi, non essendo escluso che l’anomalia sia ascrivibile al giudice di grado superiore.
L’art. 3 riguarda i Consigli giudiziari e le valutazioni di professionalità dei magistrati. La legge si è orientata nel senso della maggiore partecipazione della componente degli avvocati, questione oggetto di uno dei recenti referendum. Si prevede che anche i componenti avvocati e professori partecipino a tutte le attività dei consigli, ma la sola componente degli avvocati può esprimere un voto unitario sulla base del contenuto delle segnalazioni di fatti specifici ad opera dei consigli degli ordini. Il dettato normativo non va esente da critiche, non tanto per i motivi segnalati dal CSM, che rimarca l’inopportunità del voto alla componente degli avvocati, ma per la sua formulazione macchinosa. Meglio sarebbe attribuire il diritto di voto a tutte le componenti dei consigli. Non si vede che senso possa avere partecipare all’istruttoria per poi essere esclusi dal voto: tanto più che la componente dei magistrati rimane comunque maggioritaria in seno ai consigli giudiziari…
La legge di delega prevede che il consiglio giudiziario acquisisca le informazioni necessarie ad accertare la sussistenza di “gravi anomalie in relazione all’esito degli affari nelle fasi o nei gradi successivi del procedimento, nonché in ogni caso che acquisisca a campione i provvedimenti relativi all’esito degli affari trattati dal magistrato in valutazione nelle fasi o nei gradi successivi del procedimento e del giudizio”. Possono poi essere acquisiti provvedimenti relativi al seguito delle decisioni del magistrato, ma solo “a campione”. Rimane un dubbio di fondo: perché i provvedimenti su cui fondare il giudizio possono essere scelti solo “a campione”?
E’ poi prevista una riduzione dei tempi per l’accesso in magistratura. Il problema dell’organico è sempre attuale anche se ad esso non sono estranei diversi profili tra cui quello relativo ad una migliore e più razionale distribuzione delle risorse umane e quello della perdurante presenza di un numero non insignificante di “fuori ruolo”.
Con riguardo al collocamento fuori ruolo, si fissa un numero massimo di duecento unità. Il legislatore ha introdotto una serie di norme volte a disciplinare l’istituto in modo più restrittivo, tra cui il divieto di assumere tali incarichi prima che siano decorsi dieci anni di effettivo esercizio delle funzioni. Nel ricercare un equilibrio in sede di predisposizione del testo della delega, si sono contemplate, a fronte di regole piuttosto rigorose, altrettante (troppe?) eccezioni. Dall’estensione di queste eccezioni dipenderà il raggiungimento dell’obiettivo dichiarato, e ovvio, che è quello di prevedere che i magistrati facciano, tranne giustificate eccezioni, i magistrati…
Il nuovo Parlamento dovrà tornare presto ad occuparsi del “sistema giustizia”. Nell’immediato ci sono due temi in agenda: l’attuazione delle deleghe e il rinnovo del CSM. Sul primo tema ci sono spazi per fare bene anche se alcuni principi non convincono del tutto. Sul secondo tema, si può osservare che la tornata elettorale relativa all’elezione dei giudici togati è stata un banco di prova che ha dimostrato come il sistema congegnato dalla legge non abbia raggiunto l’obiettivo di ridimensionare il peso delle correnti. Ora il Parlamento dovrà fare la sua parte in relazione alla composizione dell’Organo, punto questo su cui a più riprese ha richiamato l’attenzione il Presidente della Repubblica, anche alla luce del fatto che le vicende legate all’ultimo CSM hanno portato la sua credibilità ai minimi storici, motivo per cui le nomine, soprattutto parlamentari, dovrebbero essere particolarmente oculate e attente, evadendo da regole “spartitorie” o da logiche “compensatorie”, perseguendo piuttosto l’obiettivo di dare vita ad un organo che possa pienamente esercitare la propria funzione costituzionale “con disciplina e onore”.
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Gianpaolo Dolso
Professore Ordinario di Diritto costituzionale nell’Università degli Studi di Trieste.