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Davide Rossi

Davide Rossi docente all'università di Trieste ed editorialista del quotidiano L'Arena. Da tempo si occupa delle tematiche legate al confine orientale dell'Italia.

Tutto si tiene: Governo più forte e autonomia differenziata

Se la prima età repubblicana è stata caratterizzata da una lenta e macchinosa fase di attuazione dei precetti costituzionali, è dagli anni ottanta del Novecento che il tema delle riforme costituzionali ha cominciato a farsi sempre più impellente, non a caso in coincidenza con la caduta del Muro di Berlino e grazie ad un nuovo clima internazionale.

A ben guardare ci hanno provato un po’ tutti, spesso con risultati poco entusiastici, nonostante le iniziali roboanti promesse.

La prima Bicamerale, infatti, fu costituita nel 1983 ed era presieduta dal deputato Aldo Bozzi, da cui prese il nome. I lavori coinvolsero 40 parlamentari – divisi equamente fra i due rami del Parlamento – e durarono 50 sedute. Uno sforzo che giunse ad un nulla di fatto, così come capitò alle esperienze successive, con la Bicamerale De Mita – Iotti del 1992 e quella presieduta da D’Alema nel 1997.

Risonanti speranze, per l’appunto, cui non si è mai riusciti a dare seguito, per l’incapacità di trovare un equilibrio istituzionale che sapesse dare concretezza alle differenti richieste che emergevano dal tessuto sociale, economico e politico.

Sarà solamente il frastuono di tangentopoli e la distruzione della partitocrazia a provocare uno scossone, prima di tutto rimodulando l’immunità parlamentare – il tema all’epoca più scottante –, attraverso la legge costituzionale n. 3 del 1993 che riscriveva l’articolo 68 della Costituzione, passando da un regime di autorizzazione a procedere ad un regime di autorizzazione ad acta e riducendo sensibilmente le prerogative del potere politico innanzi a quello giudiziario.

L’altra tematica all’epoca scottante fu certamente quella collegata alla “questione del nord”, strettamente connessa alla formazione di nuove realtà politiche a stampo regionalistico e dalla forte impronta identitaria ed autonomista, che vedevano in una differente rimodulazione del rapporto tra centro e periferia la strada verso un ammodernamento della macchina istituzionale.

Gianfranco Miglio fu il pensatore – e il politico – che, con tutta probabilità, incarnò meglio di tutti questa sensibilità. Il celebre teorico, invero, aveva cominciato ad occuparsi di riforme dall’inizio degli anni ottanta, quando, con un gruppo di studiosi poi conosciuti come “Gruppo di Milano” puntava a risolvere il deficit di capacità decisionale dell’Esecutivo attraverso una serie di correttivi molto pervasivi, tra cui l’elezione diretta del primo ministro, il meccanismo della «sfiducia costruttiva» e il rafforzamento dei poteri della Corte costituzionale. Accanto a questa prospettiva, altrettanto marcata era la polemica contro lo Stato unitario e accentratore, da sostituire con un modello federale che, sull’esempio dei cantoni svizzeri, dividesse la Penisola in alcune grandi aree macroregionali, partendo dal presupposto dell’artificiosità della segmentazione prodotta dal Costituente.

Per evitare una deriva schiettamente federale, le forze del centro-sinistra nel 2001 diedero vita ad una riforma, nata zoppa e che non ha prodotto gli effetti sperati: essa si strutturava attorno al principio di sussidiarietà, per cui l’azione di governo si dovrebbe svolgere attraverso il potere possibilmente più vicino ai cittadini, mentre alle Regioni fu attribuita autonomia legislativa più ampia rispetto all’originario disegno costituzionale, essendo stato previsto che lo Stato disponesse solamente di alcune competenze esclusive, mentre poi – tolte alcune materie dove permaneva la competenza concorrente tra Stato e Regioni – tutto il resto sarebbe diventato di competenza regionale. Di fatto questi decenni hanno dimostrato come la competenza residuale si sia ridotta a ben poca cosa, anche grazie ad una lettura estensiva che la Corte ha dato delle materie di competenza esclusiva dello Stato. Veniva anche riconosciuta una maggiore autonomia finanziaria in capo agli Enti, tuttavia tutta da attuare per via legislativa.

Questa riforma si inserisce in un claudicante percorso che con il nuovo Millennio ha conosciuto tre tentativi di metter mano al testo costituzionale in maniera organica, attraverso il meccanismo previsto dall’articolo 138, per il quale le modifiche «sono adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi, e sono approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda». Inoltre, ove non vi sia stata una approvazione a maggioranza di due terzi dei componenti, è possibile sottoporre il testo a referendum confermativo.

Se nel 2001 si giunse ad interpellare il popolo, con un esito positivo, nelle esperienze successive – targate Berlusconi nel 2006 e Renzi nel 2016 – il risultato fu negativo, bloccando cambiamenti più strutturati e incidenti il complesso dei poteri istituzionali.

Questi precedenti aprono al delicato problema del metodo da adottare per completare positivamente un iter di riforma costituzionale: ad oggi, infatti, risultano aperti tavoli di lavoro che sembrano muoversi parallelamente.

Da una parte la riforma delle autonomie sotto la spinta del ministro Calderoli, cui è affidato l’arduo compito di determinare i livelli essenziali delle prestazioni riguardanti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale. Si tratta di un processo che muove dall’anomalo referendum consultivo indetto dalla Regione Veneto – poi seguita dalla Lombardia – nell’ottobre 2017, in cui quasi cinque milioni e mezzo di elettori regionali sono stati sollecitati a conferire mandato ai rispettivi vertici esecutivi per dare concretezza al terzo comma dell’articolo 116 della Costituzione, in cui si prevede che «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia possono essere attribuite alle Regioni [ordinarie], con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei principi di cui all’articolo 119». Si tratta di trovare un nuovo equilibrio in relazioni a quelle funzioni che possono essere richieste dalla Regione e – trovato l’accordo con il Governo – poi trasferite, puntando ad una più elevata qualità dei servizi erogati a beneficio dei cittadini e del territorio e utilizzando le risorse secondo criteri di economicità e produttività.

Dall’altra parte la questione della forma di governo, che ha di recente visto aprirsi un tavolo di confronto tra la maggioranza e le opposizioni.

Quindi, il tavolo dedicato alla giustizia, le cui connessioni in caso di riforma costituzionale non possono essere sottovalutate, se solo pensiamo alle implicazioni relative alla guida del Consiglio Superiore della Magistratura e della nomina dei giudici costituzionali da parte del Presidente della Repubblica. Si tratta di competenze certamente da ripensare in caso di adozione di una forma di governo di tipo presidenziale.

Appare evidente come tutti questi aspetti debbano essere tenuti assieme e coordinati, per aggirare nuovi sfasamenti e per evitare di incespicare in un nuovo decennio di tentativi di riforma inconcludenti o velleitari, tra spinte riformiste e tendenze a conservare lo status quo.

L’intento dell’attuale maggioranza è quello di trovare una sua sintesi interna, alimentando sia le spinte autonomiste quanto quelle di potenziamento dell’Esecutivo: due pilastri attorno ai quali trovare la necessaria sintesi politica, dando così ascolto alle istanze di modernizzazione di cui il Paese ha obbiettivamente necessità.

Se l’idea di diventare i demiurghi della Costituzione attrae quanto Ulisse dalle Sirene, la recente storia, però, racconta come sia un tema su cui quasi tutti quelli che si sono cimentati nel tentativo di riforma hanno finito per farsi male.

La solidità di Giorgia Meloni appare al momento incontestabile, ma non dovrà sottovalutare gli inciampi di un percorso affascinante quanto periglioso: sono carte da giocare solamente quando in mano si è certi di avere una scala reale.

STAVOLTA E’ VIETATO FALLIRE

La narrazione politica vuole che i primi cento giorni di un esecutivo ne delineino i connotati. Invero, il primo governo a trazione femminile si è dovuto districare attraverso una complessa rete di questioni internazionali ed interne di non facile risoluzione, a partire da una finanziaria in parte ereditata e una guerra in territorio europeo di cui si fatica a vedere una positiva definizione, un contesto geopolitico pieno di timori nei confronti di un partito connotato politicamente a destra, il tutto tralasciando le polemiche quotidiane.

Tra i temi che necessariamente caratterizzeranno questa legislatura da poco insediata troviamo le riforme costituzionali, annosa questione che attanaglia l’agenda italiana almeno dagli anni Ottanta del secolo scorso.

La prima commissione bicamerale, infatti, fu costituita nel 1983 ed era presieduta dal deputato Aldo Bozzi, da cui prese il nome. I lavori coinvolsero 40 parlamentari – divisi equamente fra i due rami del Parlamento – e durarono 50 sedute. Uno sforzo che giunse ad un nulla di fatto, così come capitò alle esperienze successive, con la bicamerale De Mita – Iotti del 1992 e quella presieduta da D’Alema nel 1997.

Con il nuovo millennio per altre tre volte si è cercato di metter mano al testo costituzionale in maniera organica, attraverso il percorso previsto dall’articolo 138, per il quale le modifiche «sono adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi, e sono approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda». Inoltre, ove non vi sia stata una approvazione a maggioranza di due terzi dei componenti, è possibile sottoporre il testo a referendum confermativo. Sia nei tentativi del 2001 sia in quelli del 2006 e del 2016 si è giunti ad interpellare il popolo, e l’unico esito positivo fu il primo, mentre risultato negativo ebbero le due successive proposte – rispettivamente targate Berlusconi e Renzi – più strutturate e incidenti il complesso dei poteri istituzionali.

Soffermandoci su quanto accadde nel 2001, l’evidente intento dell’allora maggioranza di centro-sinistra fu quello di non lasciare alla sola Lega l’appannaggio di un argomento estremamente delicato come quello legato agli equilibri tra il centro e la periferia. A distanza di oltre vent’anni, Lombardia e Veneto – seguite a ruota dall’Emilia-Romagna – con enorme fatica e ritrosia statale stanno intavolando trattative con l’esecutivo con l’intenzione di ottenere i più ampi margini di autonomia legislativa e amministrativa e con il precipuo scopo di sostituirsi allo Stato nella gestione di competenze e funzioni, assumendosi la responsabilità e puntando ad erogare servizi di migliore qualità e a costi più contenuti.

Più autonomia

Si tratta di un percorso peculiare che muove dall’anomalo referendum consultivo indetto dalla Regione Veneto – poi seguita dalla Lombardia – nell’ottobre 2017 in cui quasi cinque milioni e mezzo di elettori regionali sono stati sollecitati a conferire mandato ai rispettivi vertici esecutivi per dare concretezza al terzo comma dell’articolo 116 della nostra Costituzione repubblicana, in cui si prevede che «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia possono essere attribuite alle Regioni [ordinarie], con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei principi di cui all’articolo 119». Si badi che l’intento di Governatori come Zaia e Fontana non è quello di abolire o modificare la Costituzione vigente, bensì di attuarla in quelle parti che sono rimaste per troppo tempo lettera morta, per dar corso al principio dell’autonomia regionale differenziata, previsto ma mai ancora realizzato.

Un’intesa tra Stato e Regioni che fin da subito è apparsa tutt’altro che facile e che si muove su un doppio binario, nel solco normativo dell’articolo 117 della Costituzione in cui sono elencate le materie potenzialmente attribuibili ai poteri periferici, e soprattutto in quello economico, collegato al problema della quantificazione del costo del livello delle prestazioni essenziali.

Quindi non si tratta di effettiva autonomia, ma di “margini” di autonomia, cioè di funzioni che possono essere richieste dalla Regione e – trovato l’accordo con il Governo – poi trasferite, aumentando il livello di concorrenza rispetto allo stato attuale, puntando ad una più elevata qualità dei servizi erogati a beneficio dei cittadini e del territorio e utilizzando le risorse secondo criteri di economicità e alta produttività.

Posto questo percorso già in atto, l’attuale maggioranza ha quindi cercato di trovare una sua sintesi interna prospettando una riforma in senso contemporaneamente autonomista ma anche presidenzialista, venendo incontro ai desiderata espressi dalle varie componenti della coalizione. L’architettura appare ancora da delineare contenutisticamente, dove, per l’appunto, l’autonomia viene proposta come uno dei due pilastri di un progetto istituzionale più ampio e che trova nel presidenzialismo l’altro necessario riferimento di sintesi politica.

Non è un caso che sia stato previsto un dicastero dell’Autonomia, affidato ad un nome storico del leghismo, quel Roberto Calderoli che ha appena cominciato la sua nona legislatura nei Palazzi romani. A ciò si deve necessariamente aggiungere il ripristino del ministero per le Riforme e la Semplificazione Amministrativa, anche qui non a caso assegnato ad un’altra forte personalità come l’ex Presidente del Senato Elisabetta Casellati. Ad onta di precisione, dopo l’esperienza del governo Gentiloni in cui non era stato previsto un ministero ad hoc, il Conte I lo aveva trasformato in “democrazia diretta”, mentre il Conte II e Draghi ne avevano conferito le attribuzioni al ministero per i Rapporti con il Parlamento.

È indubbio come la partita delle riforme sarà un campo minato quanto fondamentale: se da una parte non ci si può permettere di scontentare il proprio elettorato sul tema dell’autonomia (la Lega lo ha pagato non poco lo scorso settembre) senza però alimentare il divario tra nord e sud della Penisola, dall’altro bisogna coniugare questo percorso all’interno di un più esteso e razionale piano di modifiche costituzionali di cui il paese ha obbiettivamente necessità.

Se è evidente che un problema così delicato come la predisposizione delle regole del gioco deve trovare maggior sostegno possibile e sarà necessario il coinvolgimento di tutti gli attori politici, è altrettanto necessario che non si devono aprioristicamente demonizzare modelli soltanto perché distanti da quello attualmente in vigore, evocando inconsistenti timori di derive autoritarie. Il sistema presidenzialista – concetto generico in quanto apre le porte a più ipotetiche forme di governo – evoca una sorta di “primo cittadino” d’Italia, riproponendo lo schema oggi previsto per il sindaco dei Comuni o dei governatori delle Regioni. È evidente che si tratta di un vero e proprio salto quantico se comparato con l’esperienza attuale, che necessiterebbe di forti contropoteri ed una legittimazione reciproca dei partiti molto distante dalle pratiche italiche. Il nuovo Presidente non dovrebbe più nominare i giudici della Consulta né potrebbe evidentemente presiedere l’organo di autogoverno dei magistrati. Ciò comporta una totale revisione degli assetti istituzionali e degli equilibri in essere, con un vero e proprio cambio di mentalità.

Non dimentichiamoci, però, che anche l’elaborazione della nostra Carta fu accompagnata da aspre discussioni e pesanti critiche, se solamente ricordiamo lo sprezzante giudizio di un intellettuale come Gaetano Salvemini per cui «era una vera alluvione di scempiaggine. I soli articoli che meriterebbero di essere approvati sono quelli che rendono possibile emendare o prima o poi questo mostro di bestialità», oppure il giudizio di un giurista come Carlo Artuto Jemolo, che la considerava «piena di espressioni che non hanno nulla di giuridico».

Ciò che è certamente lapalissiano è la necessità di aggiornare un testo che ormai sente il peso degli anni, senza preconcetti e nella consapevolezza che non esiste il modello in astratto migliore, ma quello che meglio si addice alle circostanze culturali, storiche ed economiche, frutto del compromesso e dell’accordo dei soggetti in causa.

Il vero nodo risiede nel recupero della solidità delle forze politiche, che dovrebbero essere radicate nelle società, e non paradossalmente aggrappate allo Stato. Dove il Parlamento risultasse fragile ed incapace di un costante dialogo con il cittadino, tutto rischierebbe di essere sarebbe fallito in partenza.