In questo periodo di grave crisi economica che sta attraversando l’Italia e di crescente disoccupazione potrebbe essere utile recuperare dallo scaffale del nostro prezioso ordinamento giuridico l’art. 46 della Costituzione repubblicana che è rimasto negli anni sostanzialmente inattuato.
La norma costituzionale – programmatica – prevede che “ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende”.
Tutte le forme di partecipazione dei lavoratori si fondano sull’idea di un interesse comune tra i lavoratori stessi e l’imprenditore alla prosperità dell’impresa comune alle due parti (secondo la sintetica ed illuminante definizione fornita dal Prof. Pietro Ichino).
Il costituente è sembrato attribuire – ma sul punto vi sono difformità di vedute – al concetto di collaborazione il significato di partecipazione attiva dei lavoratori alla gestione dell’azienda, e quindi allo sviluppo dell’azienda stessa nell’interesse dei lavoratori e del Paese.
Le resistenze alla diffusione delle forme partecipative – sia da parte del sindacato che da parte delle rappresentanze datoriali – sono state però così forti da oscurare la norma costituzionale dell’art. 46 che pure riconosce il diritto dei lavoratori a partecipare nell’impresa come un elemento caratterizzante del modello economico e sociale. L’art. 46 è rimasta, pertanto, una norma incompiuta ed inapplicata.
Nel presente grave contesto economico il coinvolgimento dei lavoratori si può rivelare utile e può essere ricercato – in primis dalle imprese – come strumento per superare le fasi di crisi, legittimando sacrifici per salvare le aziende e l’occupazione.
Inoltre, come autorevolmente segnalato dal giuslavorista ed ex ministro del lavoro prof. Tiziano Treu, “l’apertura di spazi partecipativi risponde a bisogni profondi di valorizzazione del lavoro e di autorealizzazione dei lavoratori, e introduce elementi di responsabilizzazione sociale dell’impresa e di trasparenza dei suoi comportamenti: elementi tanto più importanti nell’attuale contesto globale di forti turbolenze economiche e finanziarie”.
In estrema sintesi si può affermare che le forme e modalità di partecipazione dei lavoratori sono sostanzialmente quattro: la partecipazione agli utili (Gain or Profit Sharing), l’azionariato (Employee Ownership Schemes) e la partecipazione alla gestione attraverso l’immissione dei lavoratori nei consigli d’amministrazione (c.d. partecipazione forte) o nel coinvolgimento dei lavoratori nel processo decisionale mediante i diritti di informazione e consultazione (c.d. partecipazione debole).
La partecipazione dei lavoratori nella gestione mediante una rappresentanza nei consigli di sorveglianza delle grandi imprese, la cosiddetta cogestione (mediante un evidente processo di democratizzazione della economia), fu stabilita per la prima volta in Germania ai tempi della repubblica di Weimar (1919-1933). La cogestione venne solo a seguito della seconda guerra mondiale istituzionalizzata nel sistema tedesco, mediante una serie di fondamentali leggi federali.
In Italia le prime istanze di partecipazione operaia alla gestione dell’impresa risalgono agli anni immediatamente successivi alla prima guerra mondiale (come avvenne in FIAT nell’agosto del 1919).
Successivamente, il governo Giolitti tentò di fornire una regolamentazione di tali nuove forme ed istanze mediante il disegno di legge 8.2.1921 n. 1548, che non fu discusso in aula, in base al quale le c.d. “commissioni di controllo”, composte da lavoratori, sarebbero risultate assegnatarie di specifiche competenze di informazione e consultazione.
Il primo espresso riconoscimento dei consigli di gestione si ebbe nel Decreto sulla Socializzazione della sedicente Repubblica Sociale Italiana del 2.2.1944 n. 375 ove, nell’ambito del progetto di socializzazione delle imprese, venivano affidati ai lavoratori diversi compiti a seconda che il capitale dell’impresa fosse individuale o sociale, tra cui quelli di coadiuvare l’imprenditore nella gestione aziendale, partecipare alle assemblee dei soci con un numero di voti pari ai detentori del capitale sedendo, altresì, nel consiglio di amministrazione in numero pari ai rappresentanti del capitale; salvo il prevalere, in caso di parità, del voto del capo dell’impresa (per una analitica e puntuale ricostruzione storica dell’istituto si veda Marco Biasi, Il nodo della partecipazione dei lavoratori in Italia, 2013, EGEA. P. 10-13).
In seguito, nonostante l’abrogazione dei Decreti sulla Socializzazione della Repubblica Sociale, il Comitato di Liberazione Nazionale dell’Alta Italia scelse di non cancellare le norme aventi ad oggetto i compiti e le funzioni dei consigli di gestione, stabilendo con l’art. 2 del Decreto del CLNAI sui Consigli di Gestione del 17.4.1945 che “fino a nuovo e generale regolamento della materia con atti legislativi del Governo nazionale l’amministrazione delle aziende contemplate nei decreti sopra citati resta affidata a consigli di gestione nazionale, coi poteri previsti dai decreti medesimi per i consigli di gestione delle aziende socializzate”.
Le esperienze di Consigli di Gestione, oggetto di diverse valutazioni dalle forze politiche nel secondo immediato dopoguerra furono, già prima del dibattito in seno all’Assemblea Costituente, al centro di animate discussioni e proposte, tra le quali merita di essere menzionata la c.d. proposta Morandi presentata dal Ministro dell’Industria, il socialista Rodolfo Morandi al Consiglio dei Ministri nel dicembre del 1946.
La proposta era accompagnata da una relazione, redatta dall’accademico Massimo Severo Giannini al quale si deve anche la stesura del testo,che tratteggiava sommariamente la storia dei consimili istituti in Italia e all’estero negli ultimi decenni, richiamava le vicende dei consigli in questo dopoguerra e s’addentrava quindi nell’esposizione ragionata del disegno legislativo.
L’art. 1 stabiliva: “I consigli di gestione sono istituiti ai fini di: a) far partecipare i lavoratori all’indirizzo generale dell’impresa; b) contribuire al miglioramento tecnico ed organizzativo dell’impresa, anche per la trasformazione dei generi e dei tipi di lavorazione, e al miglioramento della vita morale e della sicurezza dei lavoratori; c) creare nelle imprese strumenti idonei per permettere ad esse di partecipare alla ricostruzione industriale e alla predisposizione delle programmazioni e dei piani di industria che venissero adottati dai competenti organi dello Stato, e per renderne effettuale e operante l’esecuzione”.
La partecipazione organica del lavoratore (nella declinazione di cogestione/codeterminazione) è diffusa anzitutto in Germania, anche se in forme e con intensità diverse, per lo più realizzate con la presenza di rappresentanti dei lavoratori che hanno uguale voce rispetto al management nel processo decisionale aziendale.
E’ evidente la difficoltà, ma non impossibilità, come dimostra l’esempio della Germania, di conciliare il modello pluralistico-conflittuale, che presuppone una permanente contrapposizione di interessi (lavoro/capitale) con il modello collaborativo della gestione partecipata, che presuppone un interesse comune.
Di fatto in Italia è prevalso il primo modello, tant’è che non sono state emanate le leggi che avrebbero dovuto stabilire i modi ed i limiti della indicata partecipazione ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro, mentre una spinta in tal senso, limitatamente però alle imprese di dimensione europea, è venuta dall’ordinamento comunitario.
Nella società europea (direttiva n. 86 dell’8 ottobre 2001) e nella società cooperativa europea (direttiva 2003/72) è previsto il coinvolgimento dei lavoratori da intendersi quale “meccanismo, ivi comprese l’informazione, la consultazione e la partecipazione, mediante il quale i rappresentanti dei lavoratori possono esercitare un’influenza sulle decisioni che devono essere adottate nell’ambito della società”.
La direttiva sul coinvolgimento dei lavoratori nella società europea è stata dal governo di centrodestra attuata con il d.lgs 188 del 2005.
Malgrado i diritti di partecipazione previsti sulla carta, l’istituto della società europea non ha ottenuto una consistente diffusione nel tessuto produttivo europeo e ciò ha comportato una limitata operatività del modello di partecipazione dei lavoratori in esso previsto.
Solo con la legge n. 350 del 2003 (art. 4, c. da 112 a 115) – voluta dal centrodestra – era stato istituito un Fondo per incentivare la partecipazione dei lavoratori ai risultati o alle scelte gestionali delle imprese.
La legge è stata dichiarata incostituzionale nel 2005 nella parte in cui non prevedeva alcuno strumento volto a garantire la leale collaborazione fra Stato e Regioni. La Corte costituzionale ha, quindi, demandando “alla discrezionalità del legislatore la predisposizione di regole che comportino il coinvolgimento regionale”.
Merita menzione un importante provvedimento della Regione Veneto che ha emanato una legge regionale, la n. 5/2010, la quale all’art. 1 stabilisce che “La Regione del Veneto promuove e sostiene la partecipazione dei lavoratori dipendenti alla proprietà, alla determinazione degli obiettivi e alla gestione delle imprese venete”.
A livello nazionale, con la c.d. “Riforma Fornero”, la legge 28 giugno 2012, n. 92 ha delegato il governo ad adottare uno o più decreti finalizzati a favorire le forme di coinvolgimento dei lavoratori nell’impresa, attivate attraverso la stipulazione di un contratto collettivo aziendale, nel rispetto di principi e criteri direttivi previsti dalla legge (art. 4 c. 62 L. 92/2012).
La delega è però rimasta inadempiuta per l’opposizione delle associazioni datoriali – convinte che ciò costituirebbe una violazione dei sani princìpi economici – e della CGIL.
Va però segnalato che il 14 gennaio del 2016 i sindacati CGIL-CISL-UIL hanno sottoscritto un importante documento al cui interno la partecipazione dei lavoratori viene addirittura collocata tra i tre pilastri dell’auspicato “moderno sistema di relazioni industriali”; va altresì posta in risalto la recentissima vicenda della fusione tra FCA e PSA con l’annuncio dell’ingresso in Cda di componenti in rappresentanza delle organizzazioni dei lavoratori.
Ora, a mio modesto avviso, la soluzione alla dilagante e crescente disoccupazione esasperata dall’emergenza sanitaria non può certo risiedere nell’assistenzialismo del reddito di cittadinanza o nel ritorno alla proprietà pubblica dei mezzi di produzione cari ai cinque stelle e alla sinistra.
Uno strumento utile, anche se certamente non risolutivo, potrebbe essere quello di dare finalmente attuazione all’art. 46 della Costituzione promuovendo forme di partecipazione dei lavoratori ai consigli di amministrazione affinché possa realmente perseguirsi e realizzarsi l’interesse comune tra i lavoratori stessi e l’imprenditore alla prosperità dell’impresa e per raggiungere una maggiore partecipazione e responsabilità dei lavoratori nella vita economica del Paese.
A tal proposito, con riguardo all’ipotesi di un intervento normativo, si possono immaginare, alternativamente, come ipotizzato da autorevole dottrina giuslavoristica, una legge che renda la partecipazione obbligatoria ovvero una normativa di sostegno o di appoggio, che preveda incentivi (fiscali ecc.) per le imprese che liberamente scelgano di adottare meccanismi o strumenti partecipativi2 ; ciò anche al fine, per usare le parole del costituente Amintore Fanfani, di riconoscere ai lavoratori “la loro intelligenza e capacità di compartecipare e decidere delle sorti dell’impresa dove prestano la loro opera”.
Vorrei concludere riportando le parole del Costituente Giorgio La Pira il quale – nel suo intervento in assemblea costituente l’11 marzo del 1947 – citando Renard osservò che “l’impresa va concepita in maniera istituzionale, non secondo la categoria del contratto di diritto privato, ma secondo, invece, quella visione finalistica per cui tutti coloro, che collaborano ad una comunità di lavoro, sono membri, sia pure con diverse funzioni, di quest’unica comunità che trascende l’interesse dei singoli”.