In questo 2024, grazie anche alla eco mediatica imposta dalla rinnovata attenzione del governo sul tema, la crisi dell’auto italiana è tornata alla ribalta, anche la sua genesi viene da lontano, a partire dalla scomparsa di Sergio Marchionne.
Oggi ne vediamo solo gli effetti macroscopici, ma le basi di quella che è una vera e propria “debacle” industriale erano già evidenti da anni, a chi il mondo dell’automotive lo viveva dall’interno. Proviamo ad esaminarne alcuni aspetti peculiari.
1. Integrazione di sistemi
Una casa automobilistica è di fatto un cosiddetto “system integrator”: in pratica, buona parte delle parti del veicolo non vengono prodotte “in house” ma sono fornite da aziende esterne. Nei decenni, si sono quindi affermati soggetti soggetti industriali così specializzati da detenere la maggior parte del contenuto tecnologico di un veicolo.
Facciamo, per semplicità, l’esempio dell’elettronica per la gestione motore ed i sistemi antinquinamento: ad oggi la parte del leone nei sistemi che si occupano del cosiddetto “powertrain” é fatta dai tedeschi di Bosch e Continental e dagli americani di Visteon. Solo una parte residuale era svolta da Marelli, che peraltro ora non è più nemmeno a guida italiana.
Queste aziende, oggi, sono in grado di fornire non solo i sistemi elettronici per il veicolo ed i vari ambienti di sviluppo software, ma, addirittura, sono in grado di fornire soluzioni “chiavi in mano” relative alla calibrazione della maggior parte dei sistemi di bordo, a partire da motore e cambio automatico, ma lo stesso discorso si può ripetere per i sistemi di gestione della stabilità del veicolo, di assistenza alla guida e di infotainment.
E di italiano, cosa avevamo? Il grosso del contributo tecnologico fornito e sviluppato internamente al gruppo FCA era nei propulsori. FCA (non l’attuale Stellantis) aveva un ottimo know-how in termini di propulsori sia diesel che benzina. Gli stessi propulsori che, pur senza ulteriori sviluppi, continuano ad equipaggiare oggi i veicoli a marchio Fiat/Alfa /Lancia. Ma, a parte questo, la cessione di sovranità tecnologica era già iniziata anni fa: la fusione con il gruppo Chrysler/Jeep/Dodge aveva giá portato ad uno spostamento oltreoceano di un settore critico per un costruttore di auto, quello della diagnostica.
La fusione con gli americani aveva già portato all’adozione dell’intera strumentazione diagnostica, oggi fornita dagli americani di MOPAR, per cui tutta la rete assistenziale FCA non ha più possibilità di interagire efficacemente con gli uffici che si occupano di supporto tecnico, essendo quelli italiani solo meri terminali di un prodotto (il cosiddetto “Witech”) nato e pensato per il mercato americano, ma non per quello italiano.
Quindi, all’alba di una vera rivoluzione tecnologica dell’auto, possiamo affermare che, oggi, Fiat, come costruttore italiano, non ha un ruolo primario nè nello sviluppo dell’elettronica di bordo,nè in quello della diagnostica del veicolo. Una vera ritirata, nemmeno troppo strategica. E gli effetti per il cliente finale? Sin troppo evidenti: mentre un costruttore tedesco rilascia aggiornamenti software del veicolo, anche per molti anni dopo la fine del periodo di garanzia, per i veicoli del gruppo Fiat gli sviluppi sono minimali. Basta provare ad utilizzare un cruise-control adattativo di un veicolo tedesco e quello di un veicolo italiano per averne una facile controprova.
2. Protezionismo
Il successo di una casa automobilistica si basa, ovviamente, sulla sua capacità di innovare e proporre soluzioni accattivanti per la clientela, che la sceglie anche a fronte di politiche di prezzo non particolarmente favorevoli: è il caso conclamato dei marchi automobilistici tedeschi. FCA ha invece pensato di aumentare la redditività andando invece a cercare di trarre profitto dal settore del post-vendita, anche quella non effettuata dalla propria rete di concessionarie ed officine autorizzate. A partire dal 2019, FCA ha iniziato ad implementare sui veicoli della piattaforma Renegade/Compass/500X quella che, al pubblico, è stata contrabbandata come una innovazione in termini di sicurezza del veicolo.
Pomposamente il dispositivo è stato ribattezzato “Secure-Gateway” (SGW): su tali veicoli, per gli autoriparatori indipendenti, non è stato più possibile effettuare una diagnostica completa del veicolo, senza prima aver effettuato una operazione di “sblocco” del veicolo stesso: questa operazione è possibile solo previo acquisto di cosiddetti “pacchetti di diagnostica autenticata”: in pratica, per poter operare sul veicolo l’autoriparatore deve pagare una vera e propria “tassa”. Tali “pacchetti” non aggiungono, in realtà, nulla alla sicurezza del veicolo, ma introducono un “vulnus” mai riscontrato prima nelle attività di manutenzione: si introduce un guadagno illegittimo del costruttore sulle operazioni diagnostiche sul veicolo e, al tempo stesso, introduce una limitazione alla piena proprietà del veicolo da parte dell’acquirente.
La cosa più grave, che è scaturita da questo atteggiamento del gruppo FCA, è che anche gli altri costruttori europei hanno (seppur timidamente) introdotto meccanismi analoghi. Il meccanismo più “aggressivo” è quello da poco introdotto dal gruppo Volkswagen/Audi, che impone la procedura di sblocco per ogni operazione da effettuare sul veicolo. Ne discende che, per una banale operazione di manutenzione, sia necessario, ad esempio, pagare il costruttore per attivare un sistema di freno elettrico introdotto dal costruttore stesso.
Una situazione “selvaggia” che si è sviluppata in questi ultimi cinque anni ed a cui la neonata normativa europea “SERMI” cercherà di porre rimedio, attraverso una standardizzazione degli accessi ai “Secure Gateway” di tutti i costruttori. Ovviamente, “ça va sans dire”, gli stessi costruttori stanno ancora tergiversando sulla implementazione di questa nuova procedura di autenticazione a basso costo.
3. Modelli di business obsoleti
Per le case automobilistiche tradizionali, la vendita dell’auto è solo il primo passo di un processo di “sfruttamento” del cliente, che avviene attraverso l’obbligo velato (in spregio alle norme europee in materia di concorrenza) di effettuare tagliandi presso la rete autorizzata per tutto il periodo di garanzia, ed oltre, attraverso l’imposizione di tariffe e costi dei ricambi assolutamente fuori mercato, nonché attraverso l’introduzione delle sopracitate barriere alla diagnosi del veicolo, poste nei confronti degli autoriparatori indipendenti.
Tale strategia non è cambiata in alcun modo, quando tali produttori hanno iniziato ad affrontare timidamente il mercato della mobilità ibrida ed elettrica: nessuna innovazione, ma una spinta protezionistica, se vogliamo, ancora più accentuata rispetto ai veicoli a propulsione termica tradizionale. Ma tutto questo oggi rischia di essere spazzato via dai produttori di veicoli ad emissioni zero, che propongono veicoli innovativi e, cosa ancora più importante, modelli di business innovativi. Oggi è possibile comperare auto “full-electric”, di alcuni famosi produttori, direttamente online: per la scelta del veicolo e la definizione delle modalità di finanziamento dell’acquisto, bastano pochi minuti davanti ad un computer. Le procedure di riparazione sono semplificate al massimo: le operazioni più semplici possono essere condotte direttamente dal cliente, grazie a tutorial gratuiti ed auto-esplicativi. Lo stesso modello di rete autorizzata cambia e diventa più snello: la riparazione, in alcuni casi, diventa addirittura “on-site”, grazie ad una forte standardizzazione dei componenti del veicolo. Se per il costruttore tradizionale il primo cliente è proprio la concessionaria (a cui vendere d’ufficio migliaia di ricambi tra loro diversi, dove si è volutamente evitata ogni standardizzazione), per i nuovi player della mobilità, il rapporto deve essere diretto con il cliente finale, e la riduzione dei magazzini ricambi è una esigenza di razionalizzazione ed aumento della redditività.
Ma, a questo punto, è necessario distaccarsi dal singolo aspetto tecnico per allargare lo sguardo al significato complessivo degli elementi del puzzle sopra descritti. L’industria italiana dell’auto, di fronte al cambio di paradigma introdotto dalla mobilità elettrica, ed ai modelli “business-to-customer” introdotti dalla grande distribuzione online, ha reagito in una maniera che potrebbe rivelarsi addirittura suicida. Ad una operazione di fusione effettuata anni fa, che aveva portato ad una serie di modelli innovativi, di migliorata qualità e che non svalutavano il patrimonio di know-how italiano, si contrappone la seconda fusione con il gruppo Stellantis, caratterizzata dalla adozione pedissequa di piattaforme imposte dal gruppo PSA e dall’utilizzo del marchi italiani come puro “rebranding” di veicoli progettati e costruiti altrove, spesso con soluzioni tecniche molto meno sofisticate di quelle adottate fino ad ora dai veicoli del gruppo FCA.
Un futuro a tinte fosche, quindi, quello disegnato da questa “fusione” con il gruppo PSA, che rischia di essere molto più penalizzante di altre strade che si sarebbero potute percorrere, a partire dalle partnership strategiche con player asiatici, che avrebbero avuto tutto l’interesse a lasciare agli italiani lo sviluppo sia di propulsori di nuova generazione, che di tutta la sezione “chassis” in cui gli europei hanno sempre primeggiato.
Quello che si prospetta, quindi, se non si procederà in tempi brevi ad una azione forte ed organica (che non sia rivolta solo alla “salvaguardia dei posti di lavoro”, di sindacalistica memoria), è che l’Italia rischi di perdere per sempre l’industria dell’auto nazionale, uno dei suoi assets strategici, in termini di capacità produttiva e know-how tecnologico.