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Aldo Di Lello

Giornalista e saggista, studioso dei fenomeni globali. Nel 2004 ha fondato la rivista di geopolitica “Imperi”. Tra i suoi saggi: “Geofollia” (2001), “Prima guerra globale” (2002), “Lo strappo atlantico” (2003). Nel 2021 ha pubblicato “Sovranismo sociale”

Quando l’Italia si scoprì di destra

Il 27 marzo del 1994 non è solo il giorno di storiche elezioni politiche ma la data di una rivelazione: l’Italia è un Paese di destra. Ancor oggi, dopo 30 anni, è un dato che non tutti hanno voglia di riconoscere. Per una parte dell’intellighenzia rimane un fatto traumatico, una verità da esorcizzare, nascondere, mistificare in vario modo.

Parliamo ovviamente di intellighenzia di sinistra, intesa nella più ampia accezione del termine, quindi comprendente intellettuali, giornalisti, personaggi dello spettacolo e, ovviamente, politici. Per tutti costoro, il rifiutarsi di riconoscere questa realtà scomoda rappresenta un esiziale errore politico, perché impedisce a Elly Schlein e compagni di costruire quel solido sistema di alleanze (soprattutto economico-sociali) che possa alimentare la speranza del Pd di tornare, un giorno, al governo. E di entrarvi dalla porta principale. Non da quella secondaria di qualche governo tecnico o di “emergenza”, che dir si voglia.
Se oggi la segretaria piddina non riesce ad allestire un competitivo cartello elettorale tra le opposizioni, neanche per esprimere il candidato presidente in una delle più piccole, demograficamente parlando, Regioni italiane (la Basilicata), è perché, tra le altre cose, è espressione di un mondo che ancora non s’è ripreso dal trauma di 30 anni fa. Questa sorta di fuga dalla realtà del Paese produce quel mix di ideologismo e snobismo che condanna la sinistra più intransigente e radicale a una condizione di minorità politica. E di depressione esistenziale.

Qual è allora la lezione del 27 marzo di 30 anni fa che, non solo la sinistra, ma la stessa destra non dovrebbero mai dimenticare? Questa lezione è che, sotto la scorza delle ideologie più o meno alla moda, la natura vera degli italiani è quella di gente che bada al sodo e che non baratta la propria sicurezza, la propria prosperità, la propria identità con fumosi programmi di rivoluzione morale e culturale, tutta roba che metta in crisi le certezze della vita: in famiglia, sul lavoro, nella società. Non sono, gli italiani, come i loro “cugini” francesi, il popolo più ideologico che ci sia. Mai gli italiani si sognerebbero, ad esempio, di ammettere il “diritto” di aborto nella costituzione.

Si riduce a questo, alla fine, l’essere popolo di “destra”? Diciamo, più precisamente, che la destra rappresenta un passaggio ulteriore, quello che di solito compie quella parte della popolazione che decide di assumere una precisa identità politica. Di certo i caratteri sopra descritti appartengono al tipico popolo “conservatore”, quello che guarda con cautela alle novità e che ammette cambiamenti alla sola condizione che non sconvolgano la propria esistenza.

Questa natura “conservatrice” della gente italiana è sempre stata guardata con grande sospetto dalle élite intellettuali e politiche, che per decenni hanno coltivato il mito di un popolo che non c’era. E cioè un popolo animato da fervente “patriottismo costituzionale”, con tutti i suoi corollari antifascisti e progressisti.
A questo punto, due domande sorgono spontanee: 1) dove s’era “nascosto” nei quasi 50 anni precedenti questo popolo di “destra”?; 2) perché salì in superficie proprio nella travagliata stagione politica di 30 anni fa?
Rispondendo alla prima domanda, potremmo dire che quel popolo era solo in minima parte rappresentato (almeno nella prima fase della vita repubblicana) dal Msi, dal Partito monarchico e dal Partito liberale, confluendo per il resto (e in massa) nella Democrazia cristiana. Il problema è che la cultura politica del “partito dei cattolici”, una cultura innervata da un moderato progressismo, rappresentava assai parzialmente i sentimenti e i valori di questa gente.
Di qui una lunga fase di ambiguità e “insincerità”, come scrive lo storico Paolo Macry nel bel libro “La destra italiana – Da Guglielmo Giannini a Giorgia Meloni”: «…Certo è che un fenomeno salta agli occhi, se si ripercorre la storia repubblicana, e sembra attraversarla tutta intera, sia pure in forme volta a volta diverse: l’inganno politico. Un rapporto ingannevole tra questo Paese -tra un Paese di destra, o non di sinistra- e la dimensione politica della Repubblica. Fu nelle fasi germinali della democrazia italiana, nel dopoguerra, e poi nel corso della Prima repubblica che le destre politiche ebbero a malapena diritto di cittadinanza, non seppero o non furono abilitate a incidere sulle dinamiche parlamentari, conquistarono spazi di governo molto limitati, rimasero sempre elettoralmente marginali».
Il 27 marzo del 1994 questo Paese di destra reclama con prepotenza la sua piena cittadinanza politica e il suo diritto di governare. Perché accadde? Al netto di Tangentopoli e della fine della guerra fredda – e qui veniamo al secondo quesito -, l’equilibrio politico della Prima repubblica non aveva più senso, non rappresentava più gli interessi della parte più dinamica della nostra società. L’Italia si scopriva ostacolata da una serie di “lacci e lacciuoli” (come si diceva tra gli anni Ottanta e Novanta ispirandosi al titolo di un libro di Guido Carli ) e chiedeva libertà di impresa e di azione. Un “nuovo” popolo era nel frattempo cresciuto, nel corso del caotico sviluppo dei due decenni precedenti, il famoso “popolo delle partite Iva”.

È un dato interessante perché ci dice che, alle ragioni storiche e culturali, si aggiunge negli anni Novanta un ulteriore fattore di vicinanza tra la società italiana e la destra politica: il declino della grande impresa e l’avanzata di una grande area di piccole e medie aziende con tutta la rete pulviscolare del lavoro autonomo e delle microimprese a conduzione familiare, tutto un mondo umano e sociale che avverte insofferenza per il peso della pressione fiscale e per la vischiosità della palude burocratica. È un mondo -vale la pena di aggiungere – che si sente penalizzato dal sistema bancario e finanziario e che guarda con sospetto alle grandi centrali sindacali, così come queste si configuravano ancora all’inizio degli anni Novanta. La destra politica che nasce o si trasforma in quel periodo (da Alleanza nazionale a Forza Italia e alla Lega) trova in questo mondo in ebollizione il suo “blocco sociale” di riferimento.
Vale la pena avvertire che questo popolo di “destra” non cancella certo quello di “sinistra”, che rimane comunque consistente e ben strutturato. Ma certo questa Italia politica emergente diventa trainante. E tale rimarrà anche negli anni a venire.

A questo punto dobbiamo affrontare un’ulteriore e decisiva domanda: perché, se l’Italia è un Paese di “destra”, il centrodestra non ha sempre vinto le elezioni e, nel corso di questi 30 anni, non è mai riuscito a essere riconfermato al governo dopo una legislatura? Parliamo delle elezioni del 1996, poi di quelle del 2006, del sostanziale pareggio di quelle del 2013 e infine della parcellizzazione elettorale del 2018. In tutte queste occasioni, la coalizione di centrodestra s’è fatta soffiare la maggioranza dagli avversari.

La risposta è, come sempre si dice in questi casi, “complessa”. Emerge innanzi tutto la sopravvivenza, nella società italiana e nelle istituzioni, delle aree di dominio create nel tempo dalla sinistra (dalla magistratura ai poteri burocratici e a quelli finanziario-mediatici). Non c’è dubbio però che la destra stessa ci abbia messo parecchio del suo per complicarsi la vita. Parliamo in particolare della conflittualità insita nell’alleanza di centrodestra per effetto dello spiccato leaderismo dei soggetti politici che la componevano. Pensiamo soltanto allo scontro tra la personalità di Berlusconi e quella di Fini, scontro a lungo rimasto in potenza e poi esploso in modo clamoroso (e devastante) nel 2010.

Ma, se dovessimo individuare un limite di fondo nell’azione del centrodestra di questi trent’anni, sicuramente lo individueremmo nella non completa capacità di ascolto da parte dei vertici politici del “loro” popolo. Il riformismo promesso è stato attuato in parte, o non è stato attuato affatto: da quello istituzionale (promosso, nella XIV legislatura, con scarsa convinzione e in ritardo) a quello fiscale.

C’è da dire che i governi di centrodestra non potevano strutturalmente mobilitare tutte le risorse finanziarie che sarebbero state necessarie per promuovere in profondità un’azione realmente riformatrice. E ciò soprattutto a causa dei forti vincoli europei di bilancio, vincoli non sempre in linea con i principi ispiratori dell’Unione europea, perché ispirati dagli ideologismi (e dagli interessi) dei governi del Nord Europa.

Ecco, è forse qui la grande “mission” del centrodestra tornato al governo con Giorgia Meloni. Accanto alla riforma costituzionale, a quella della giustizia e a quella fiscale che l’attuale esecutivo s’è giustamente impegnato a realizzare, dovrebbe emergere quella che un numero crescente di osservatori indica, oggi, come la riforma che ci cambierebbe la vita: la revisione dei trattati europei, per ridare respiro alla nostra economia e alla nostra società. È un’impresa certo impegnativa e dalla realizzazione niente affatto scontata. Ma oggi ci sono le opportunità per attuarla, per effetto dell’attuale debolezza franco-tedesca, cioè dei Paesi-guida dell’Ue.
La nostra premier ha tutte le capacità per portare a termine questa cruciale operazione. Se Giorgia Meloni e la destra italiana riuscissero a mettere la loro firma, insieme agli altri governanti Ue, a una riforma dell’Unione capace di risollevare le sorti dei popoli europei, è certo che entrerebbero nella storia. E, ad avvantaggiarsene, sarebbe la stessa sinistra, che riceverebbe la spinta giusta per smetterla di giocare al “declino”. Suo e dell’Italia.

Hamas, il disegno criminale oltre la geopolitica

Di nuovo il Medio Oriente in fiamme, di nuovo la questione israelo-palestinese, di nuovo atrocità che tracimano ovunque, invadendo un immaginario globale già abbondantemente traumatizzato da altre atrocità, a partire da quelle cui siamo tristemente abituati (ma non assuefatti) dopo l’aggressione russa all’Ucraina.

La prima domanda che sorge è questa: c’è un legame, non tanto misterioso né sotterraneo, tra i conflitti, apparentemente distanti, del “nuovo disordine” mondiale? Ci sono certamente ragioni per sostenere che la nuova guerra tra Israele e Hamas sia il fronte più recente dello scontro tra Occidente e “resto del mondo” tutto interno alla storia globale degli ultimi anni. E che ha trovato, nel conflitto scoppiato alle porte orientali d’Europa nel febbraio 2022, la sua manifestazione più eclatante e preoccupante.

Questa considerazione ci spiega innanzi il contesto “storico” in cui è avvenuto il bestiale attacco di Hamas contro i civili israeliani, nel senso che l’impegno dell’America e della Nato in favore dell’Ucraina può aver diffuso l’idea che siamo entrati in una nuova fase di scontro tra un Occidente a trazione americana e un Oriente in forma multipolare. Di qui la probabile sensazione (ricevuta dai terroristi) che sia proprio questo il momento più adatto per azzannare lo Stato d’Israele, un’entità vista come l’avamposto mediorientale di una civiltà in difficoltà politico-culturale, soprattutto dopo l’abbandono americano dell’Afghanistan nell’agosto del 2021.

Il contesto “storico” diventa poi quadro geopolitico se consideriamo i rischi di allargamento del conflitto agli Hezbollah libanesi-siriani e all’Iran che li sostiene. La seconda portaerei inviata dagli Usa al largo delle coste israeliane e libanesi è un chiaro avvertimento a Teheran a tenere buone le milizie sciite ai confini con Israele. Probabilmente funzionerà. Ma in questi casi, quando l’atmosfera è carica di elettricità, basta un nulla a far scoppiare l’incendio. Secondo l’analista di geopolitica americano Charles Kupchan il rischio di uno scontro tra Usa e Iran è «remoto», però -aggiunge- la situazione «potrebbe sempre sfuggire di mano». Del resto, sarebbe già ipotesi catastrofica se l’eventuale scontro si limitasse a israeliani e iraniani.

E poi c’è anche da considerare l’interesse russo e cinese (Pechino e Mosca si sono ancora di più avvicinate a Teheran nel corso della guerra in Ucraina) per l’eventualità che gli Usa si ritrovino in qualche modo impelagati in un conflitto in Medio Oriente. In tale senso può essere probabilmente letta la dichiarazione del ministro degli Esteri cinese, Wang Yi, secondo il quale «le azioni di Israele sono andate già al di là dell’autodifesa e che (gli israeliani n.d.r.) dovrebbero ascoltare gli appelli della comunità internazionale e del segretario generale dell’Onu e fermare la punizione collettiva del popolo di Gaza». In realtà, il primo a cercare di far desistere Benjamin Netanyahu dal proposito di scaricare sulla popolazione di Gaza il suo desiderio di vendetta è stato proprio il capo della diplomazia americana Antony Blinken.

Diciamo che appare quantomeno evidente il tentativo cinese di allargare il suo spazio di influenza anche al Medio Oriente. E ciò spiegherebbe i segnali sottilmente minacciosi che arrivano da Pechino, in primo luogo la volontà di spingere Teheran a tirare la corda in questa prima fase del conflitto. Il timore è che, a furia di tirare, alla fine la corda si spezzi, con tutte le eventuali, disastrose conseguenze del caso.

Ma la vera soluzione del conflitto passa per le possibili evoluzioni nel quadro geopolitico più specificamente regionale, in particolare per il ruolo che l’Arabia Saudita può giocare nella sistemazione della questione di Gaza, tenendo conto che Israele non ha alcun interesse a tenere sotto una permanente occupazione militare quella piccola striscia di territorio ad alta densità abitativa (e a insostenibile rischio di imboscate). Una delle soluzioni proposte (e che avrebbe anche il favore della diplomazia americana) è quella di affidare l’amministrazione della Striscia all’Onu e alla Lega Araba, una soluzione che non sarebbe possibile senza l’appoggio di Riad, grande player geopolitico dell’area mediorientale. Il principe ereditario Mohammed Bin Salman avrebbe infatti tutto l’interesse a bloccare l’espansione politica dell’Iran nell’area, conseguenza inevitabile di una eventuale escalation del conflitto Israele-Hamas. Del resto, una delle prime interpretazioni dell’atroce offensiva lanciata dai terroristi palestinesi contro Israele è stata proprio il comune interesse, di Hamas e di Teheran, a fermare il negoziato tra israeliani e sauditi volto ad allargare a Riad gli accordi di Abramo. Questi accordi prevedono la normalizzazione dei rapporti tra lo Stato ebraico e Paesi della penisola arabica e del Golfo Persico come Emirati Arabi Uniti e Bahrein. Sarebbe un risultato storico, in vista della possibile pacificazione del Medio Oriente, se anche l’Arabia Saudita riconoscesse ufficialmente Israele.

Nel tentativo di sistemare definitivamente la questione israelo-palestinese (o almeno di disattivare la minaccia di Hamas), le armi della diplomazia devono però arrestarsi davanti ai mostri dell’irrazionalità: queste entità malefiche sono il frutto di lunghi  decenni intossicati dall’odio etnico, sociale e, soprattutto, religioso.

E rincresce osservare che questo tipo di odio si presenta in forma subdola anche in vari settori dell’opinione pubblica europea, dove non è infrequente incontrare l’antisemitismo travestito da “antisionismo”. Secondo certi “amici dei palestinesi”, la violenza di Hamas sarebbe la violenza degli “oppressi” contro gli “oppressori”. Nei giorni passati è più volte stata citata un’agghiacciante affermazione di Giulio Andreotti del 2006: «Ognuno di noi se fosse nato in un campo di concentramento e da 50 anni fosse lì e non avesse alcuna prospettiva di poter dare ai propri figli un avvenire sarebbe un terrorista».

Questa tremenda frase contiene due grossolani errori. Il primo è quello di identificare il popolo palestinese con i terroristi. Cosa che non è, perché in alternativa ad Hamas opera da almeno trent’anni l’ANP (l’Autorità Nazionale Palestinese), che ha giurisdizione sulla Cisgiordania e che scaturisce dagli accordi di Oslo del 1993. Non è ancora lo Stato palestinese, ma è la premessa necessaria affinché un simile obiettivo si realizzi. Tant’è che una delle condizioni poste dall’Arabia Saudita per gli eventuali accordi con Israele (ora è tutto fermo per il precipitare degli eventi) è proprio la concessione di un’ulteriore autonomia all’ANP e lo stop agli insediamenti di coloni israeliani in Cisgiordania. Vale la pena rilevare che non un solo colpo contro Israele è stato finora sparato dai palestinesi che vivono nei territori controllati dall’Autorità guidata da Abu Mazen.

Il secondo grossolano errore è ritenere che le nuove generazioni di palestinesi siano cresciute nei lager e che i campi profughi del passato fossero assimilabili a campi di concentramento. Si tratta di una vera mistificazione.  Certo, la situazione abitativa nella Striscia di Gaza non è delle migliori, ma c’è anche da dire che da lì sono partite tutte e sette le offensive finora scatenate da Hamas contro Israele. In ogni caso, dipingere la condizione di vita dei palestinesi come una sorta di prigionia è completamente al di fuori della realtà.

Il punto vero è che Hamas, più che il frutto della questione palestinese, è piuttosto una delle varie espressioni dell’integralismo islamico degli ultimi decenni, e una espressione ad alto valore simbolico (per l’immaginario islamista) perché a diretto contatto con Israele, uno Stato che gli integralisti più feroci (a partire dai mullah iraniani) vorrebbero vedere distrutto.

Hamas, che in arabo vuol dire “zelo” (al di là dell’acronico di Movimento di resistenza islamica), è nata nel 1988 in contrapposizione alla leadership di Yasser Arafat e all’egemonia della sua “laica” Olp, accusata dai palestinesi oltranzisti di cercare la pace con gli israeliani e di volerne riconoscere lo Stato. Il risveglio politico dell’islam e la rabbia dei ragazzi cresciuti nei territori occupati (gli “shebab”, lanciatori di pietre, protagonisti della prima Intifada del 1987) trovarono il loro punto di incontro proprio in questa organizzazione, che per certi versi sembrava inverare la previsione della “nuova generazione coranica” a suo tempo lanciata dall’egiziano Sayyed Qutb, uno dei teorici dell’integralismo islamico fatto giustiziare nel 1967 dal “laico” Gamal Nasser.

Per capire quanto sia forte, implacabile e irriducibile la carica di odio che anima i terroristi di Hamas basta soltanto citare questo passo della loro Carta: «Non vi sarà soluzione alla causa palestinese se non attraverso il Jihad. Quanto alle iniziative, alle proposte e alle altre conferenze internazionali, non si tratta che di perdite di tempo e di attività inutili». Ed è appena il caso di notare che l’odio antisraeliano è in grado di raggiungere l’Europa, colpendo sia le comunità ebraiche sia qualsiasi altro cittadino. L’attentato di lunedì 16 ottobre a Bruxelles ci insegna due cose assai poco rassicuranti. Primo: il terrorismo di Hamas può produrre atroci atti di emulazione ovunque. Secondo: siamo tutti potenziali bersagli dei jihadisti. Basterà dire che le vittime dell’attentatore di Bruxelles (un tunisino quarantacinquenne affiliato all’Isis) erano due tranquilli cittadini svedesi arrivati nella capitale belga per assistere alla partita della loro nazionale di calcio con la squadra di casa.

Per tornare a Gaza, non basta certo la soluzione militare per risolvere i problemi tra israeliani e palestinesi. Ma è sicuro che ogni possibile soluzione politico-diplomatica deve passare per l’eliminazione di Hamas e del suo implacabile odio antisraeliano. Spetta a Israele (e anche agli Usa) dimostrare alle masse palestinesi che, quella proposta dallo “Zelo” islamico, è una strada senza uscita. E suicida.

Ucraina, strategia del logoramento

Prima battaglia della Marna, settembre 1914: quando Helmuth Johann von Moltke, comandante in capo dell’esercito del Kaiser Guglielmo,  vide i suoi soldati immersi nel fango delle trincee, capì che la guerra per la Germania si sarebbe, prima o poi, messa male.  La guerra lampo, da lui vagheggiata, era diventata una chimera. Ora c’era la realtà della guerra di logoramento, il tipo di guerra in cui vince chi ha più risorse, non solo economiche ma politiche.

E alla fine forse non vince nessuno, almeno sul campo. Tant’è che la Germania capitolò, non per ragioni militari, ma politiche, per l’esattezza a causa di una rivoluzione che scoppiò tra l’ottobre e il novembre del 1918: il popolo tedesco, stremato da oltre 4 anni di guerra, non ne poteva più e si ribellò al Kaiser e ai suoi generali.

Qualcosa di simile sta accadendo oggi in Ucraina. Non che ci siano rivoluzioni in vista, né a Mosca né tantomeno a Kiev, ma nessuno riesce a vincere sul campo. Tutte le previsioni, le strategie, le proiezioni a medio termine si stanno rivelando fallaci. Ovunque è stallo.

È stallo innanzi tutto sul piano delle operazioni militari. L’annunciata controffensiva di Kiev tarda ad arrivare. Le forze ucraine avanzano, lentamente, verso Sud, con l’obiettivo di aggirare le forze russe e tagliare i loro collegamenti con la Crimea. Ma è un traguardo ancora lontanissimo. Intanto faticano a tenere una testa di ponte sulla riva sinistra del fiume Dnipro. Di contro, i russi non ce la fanno ad avanzare sul fronte orientale: la guerra ristagna intorno a Bakhmut, anche se gli scontri sono sanguinosi e le distruzioni spaventose. Entrambi gli eserciti si contendono a caro prezzo pochi chilometri di territorio.

È stallo anche sul piano diplomatico. Il cardinale Matteo Zuppi, inviato da Papa Francesco in Ucraina e in Russia, è tornato dalla sua “missione umanitaria” con generici impegni da parte russa sullo scambio dei prigionieri e sul rimpatrio dei bambini. Per il resto è buio pesto. Tant’è che i vari “mediatori”, da Erdogan a Macron, si sono ritirati dalla scena.

L’unico che potrebbe indurre Putin a sedersi al tavolo della pace è Xi Jinping, ma il Grande Mandarino si guarda bene dal farlo. O meglio, attende il momento propizio, quello che potrebbe fornirgli centralità internazionale. Il fatto è che al leader cinese conviene al momento assecondare il sogno geopolitico putiniano di creare un blocco eurasiatico contrapposto all’Occidente: la partita geostrategica che gli interessa si svolge nel Mar Cinese meridione e intorno a Taiwan.

In ogni caso, i veri scacchieri che stanno a cuore alla Cina riguardano il controllo delle materie prime africane, la circolazione dei semiconduttori, gli accordi sulla cosiddetta Via della Seta, l’accaparramento delle risorse energetiche in tutto il mondo. Finché Pechino non troverà un accordo con Washinton sui principali dossier geoeconomici (solo di riflesso geopolitici), difficilmente la vedremo impegnata sul fronte dell’iniziativa di pace per l’Ucraina. Deve far riflettere il fatto che l’ultima iniziativa diplomatica americana verso Xi Jinping sia stata condotta, non dal segretario di Stato Tony Blinken, ma dalla responsabile della politica economica dell’amministrazione Biden, la segretaria al Tesoro Janet Yellen, già presidente della Federal Reserve. The business is the business. Staremo a vedere. La missione della Yellen a Pechino si è conclusa da poco.

Al momento non ci resta che osservare, più in generale, che ogni iniziativa di pace incontra un limite invalicabile: nessuno dei belligeranti è disposto a rinunciare a nulla, neanche alla più piccola porzione di territorio, a fronte dei grandi costi subiti in termini di vite umane e distruzioni materiali.

L’unica diplomazia possibile è quella (più meno implicita, più o meno occulta) del freno automatico al conflitto, una linea riservata di comunicazione tra Washington e Mosca volta a impedire che la guerra degeneri fino al coinvolgimento diretto della Nato  o all’ipotesi sconvolgente del ricorso alle armi nucleari. A garantire sul campo il funzionamento di questa valvola di sicurezza sarebbe, secondo quanto riferisce “Newsweek”, la Central Intelligence Agency, meglio nota con il suo acronimo di Cia. Il patto non scritto prevederebbe, da una parte, l’impegno Usa a far sì che le forze di Kiev non minaccino il territorio russo (possibilità che aprirebbe gli scenari più inquietanti) e, dall’altro, l’impegno russo a evitare escalation e ricorso all’atomica, ancorché “tattica”, ma capace di stermini di massa in pochi minuti. Per mantenere questo equilibrio gli uomini dell’Agenzia hanno il loro da fare, non solo con i russi, ma anche con gli ucraini. Pare che Washington non abbia gradito né il volo dei droni sul Cremlino né, in precedenza, l’attentato all’ideologo di Putin, Aleksandr Dugin, che è constato la vita alla figlia del filosofo, Dar’ja.

Nessuno, al dunque, deve riportare una definitiva vittoria militare. È la strategia del logoramento, non solo praticata, ma anche teorizzata. La guerra in Ucraina potrà andare avanti ancora per anni. L’annuncio della fornitura di bombe a grappolo alle forze ucraine da parte degli Usa, annuncio che sta provocando in questi giorni varie polemiche in Europa, ha tutta l’aria di una mossa propagandistica. Non sappiamo se e quando tali bombe verranno effettivamente consegnate né sappiamo se e quando verranno mai impiegate. Zelensky si è affrettato a dire che tali ordigni (peraltro messi al bando dalle convenzioni internazionali) non verranno mai impiegati in terra russa. Che vuol dire, forse che potrebbero venire impiegati sul teatro ucraino? Sarebbe davvero strano: le bombe a grappolo sono centinaia di piccoli ordigni che piovono da una bomba-madre di 4 tonnellate sganciata da un aereo. Una parte di queste bombe esplode subito, un’altra parte può rimanere latente per anni, con il risultato di rendere a lungo insicuro un territorio. Che farebbe al dunque Zelensky, rovinerebbe la vita della gente in terre ucraine eventualmente strappate all’invasore russo? Non pare davvero credibile.

Il problema della strategia del logoramento è che le speranze di un cedimento del fronte interno russo appaiono al momento piuttosto tenui. E, a dimostrarlo, è stata proprio la recente, quanto farsesca, “marcia su Mosca” di Yevgeny Prigozhin e della sua Wagner, una parata militare di qualche decina di chilometri che non ha alla fine indebolito la posizione politica di Putin ma l’ha in qualche modo rafforzata, almeno agli occhi occidentali, non fosse altro per il brivido che ha percorso per qualche ora governi e opinione pubblica: la possibilità che la seconda potenza militare del mondo (con tanto di pauroso arsenale nucleare) finisse nelle mani di un avventuriero spalleggiato da mercenari ed ex criminali comuni. In ogni caso, le motivazioni di Prigozhin, al di là della propaganda, non erano politiche quanto affaristiche.

Il “patron” della Wagner era rimasto a corto di fondi, circostanza esiziale per le sue imprese, soprattutto per i cinquemila “legionari” stanziati in Africa che consentono a Prigozhin di partecipare al business delle materie prime in diversi Paesi. Se gli oppositori di Putin sono come questo improvvisato generale, Zar Vladimir può davvero dormire sonni tranquilli. Non è un caso che l’uomo forte di Mosca sia apparso più ringalluzzito che mai al recente vertice dello Sco ( l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, che riunisce i Paesi eurasiatici insieme a Cina e India). In quell’occasione Putin ha minacciato la sospensione dell’accordo sulla circolazione del grano ucraino via Mar Nero. Non sappiamo se l’autocrate di Mosca darà seguito a questo suo annuncio, rimane però il fatto che il grano è un’arma di ricatto ancora utilizzabile dalla Russia.

Ma il problema più grande della strategia del logoramento è che garantisce il contenimento degli effetti di una guerra, non quello che può succedere dopo. Una guerra che finisce senza una vera pace può generare guerre future. I conflitti trasformano interiormente gli uomini e le donne che vi partecipano, aprendo fratture d’odio non facilmente ricomponibili.

Racconta Ernst von Salomon nel romanzo autobiografico “I proscritti” che, nella marcia di rientro in patria del novembre del 1918, i soldati tedeschi guardavano con disprezzo la gente che abitava nelle città in cui passavano: si sentivano traditi dal proprio governo e dal proprio popolo, che si erano arresi mentre loro continuavano a combattere sul campo. Sappiamo come andò a finire di lì a una quindicina di anni. E all’epoca non c’erano ancora le bombe atomiche.

Guerra, il rischio è l’assuefazione

Qualcosa vorrà pur dire se un campione del realismo politico come il quasi centenario Henry Kissinger ritenga oggi che l’ingresso dell’Ucraina nella Nato sia pressoché inevitabile. Un anno fa, all’inizio dell’invasione russa, non la pensava così. Il grande esperto (a suo tempo protagonista) di politica internazionale riteneva che la soluzione del conflitto appena scoppiato fosse la garanzia della “neutralità” di Kiev. Non bisogna “umiliare” Putin, riteneva. Allo stesso modo, un altro realista come Ian Bremmer, fondatore del think tank Eurasia Group, pensava che per far tacere i cannoni bisognasse concedere qualcosa all’autocrate di Mosca in modo da “salvargli la faccia”.

A un anno dall’inizio della guerra, i realisti tacciono o sono diventati pessimisti. Guerra di lunga durata, guerra di attrito, rischio escalation: sono queste le formule più diffuse oggi tra gli esperti di geopolitica e geostrategia. La possibilità di un cessate il fuoco e del conseguente avvio di negoziati è al momento una pia illusione, una eventualità remota, una mera ipotesi di scuola. A una pace possibile in tempi ragionevolmente brevi non crede più nessuno, neanche la colomba più convinta.

In Ucraina, sui fronti del Donbass, è sempre più l’ora dei falchi. Il conflitto sta conoscendo un incrudelimento tale da lasciare ferite profonde nei cuori sia degli ucraini sia dei russi, ferite che non basterà neanche l’avvento di una nuova generazione a far rimarginare. Putin ha impresso un’accelerazione alla guerra che non gli consente più marce indietro. Le crudeltà perpetrate contro la popolazione civile ucraina sono già materiale più che sufficiente per un deferimento del presidente russo davanti al Tribunale internazionale per crimini di guerra, possibilità puramente teorica ma che fa capire l’isolamento internazionale della Russia e l’impossibilità, al momento, che neanche una eventuale soluzione negoziata potrebbe permettere a Mosca di ristabilire la normalità delle relazioni precedenti al conflitto.

Ha avuto diverse occasioni, zar Vladimir, per fermarsi, ma non le ha sfruttate. La controffensiva ucraina di autunno, culminata con la riconquista di Kherson, sembrava preludere a un’attenuazione del conflitto. Mosca si ritira? Comincia il disimpegno? L’illusione è durata solo qualche giorno. Putin ha ripreso subito il massacro della popolazione civile lanciando una massiccia offensiva missilistica contro le città.

Quello da Kherson s’è rivelato al dunque un semplice ripiegamento tattico. Le forze russe hanno ripreso l’iniziativa nel Donbass. In queste settimane il centro nevralgico della guerra s’è spostato nella città di Bakhmut, che Zelensky definisce la “fortezza”. Dovrebbe svolgere la stessa funzione strategica che a suo tempo ha svolto Mariupol: trattenere le forze nemiche e permettere a quelle ucraine di riorganizzarsi per fare fronte all’annunciata offensiva russa.

Le sorti del conflitto sembrano infatti dipendere dall’esito del nuovo attacco che Mosca si appresta a sferrare, non si sa bene quando, ma che tutti prevedono massiccio: la Russia dovrebbe impiegare trecentomila uomini in un fronte più ristretto rispetto a un anno fa, quando ne utilizzò poco meno di duecentomila. Quella che si prospetta è un’offensiva a cuneo, nel corso della quale l’armata di Mosca non dovrebbe mostrare l’ingenuità e l’impreparazione emerse nell’attacco di un anno fa.

Va però aggiunto che, davanti a questa guerra, non dobbiamo ragionare solo in termini di masse umane di manovra, missili, carri armati, dispiegamento d’acciaio e di tutto ciò che riporta ai conflitti del secolo scorso, ma anche in termini di efficienza tecnologica, intelligence, satelliti. Non dobbiamo dimenticare che gli ucraini usano le app sul telefono per dirigere il fuoco e che i temibili droni sono guidati dall’intelligenza artificiale, tutte cose in cui le forze di Kiev possono vantare un vantaggio competitivo grazie all’appoggio occidentale.

Staremo a vedere. Ma, comunque andrà a finire, è certo che l’aggressione all’Ucraina, le atrocità commesse sulla popolazione, la ferocia inaudita mostrata da molti reparti dell’Armata, sembrano destinati a risospingere la Russia di Putin verso un mondo “alieno”. Qualcosa di simile (anzi, per certi versi, peggiore) all’immagine, pur inquietante e minacciosa, che si presentava agli occhi occidentali al tempo dell’Unione Sovietica e della guerra fredda.

L’odierna immagine della Russia richiama l’idea di un confronto ancora più profondo di quello rappresentato in passato dalla contrapposizione tra mondo libero, da una parte, e mondo comunista, dall’altra. È qualcosa di antropologico e di atavico. È come se, nell’odierno bellicismo di Mosca, ritornassero gli antichi tratti di un Oriente misterioso e indecifrabile. Europa e Asia –scrive Ernst Junger nel saggio “Il nodo di Gordio” opportunamente riproposto oggi da Adelphi – sono «due residenze, due strati della natura umana che ciascuno reca in sé». La differenza tra Oriente e Occidente «dipende dal valore che si attribuisce alla libertà». Da una parte, l’Occidente, ci sono le regole che limitano il potere, dall’altra, l’Oriente, c’è la tendenza al dispotismo. Quella che a noi occidentali appare come l’«eccezione russa», per Junger, non è per niente affatto un’eccezione: «In Russia si è sempre governato così».

E all’Oriente russo, si avvicina anche l’Oriente cinese. Con la guerra ucraina assistiamo, tra le altre cose, anche al disfacimento del capolavoro del realismo politico di Kissinger e di Nixon: l’avvicinamento della Cina di Mao all’Occidente, un evento dalla portata prima geopolitica che ideologica, perché introdusse negli anni Settanta un cuneo nella massa terrestre eurasiatica.

Oggi la massa russa pare ricongiungersi con quella cinese. Non è un caso che tutto ciò accada mentre assistiamo alla crisi della globalizzazione e alla smentita dell’idea, in voga una ventina d’anni fa, di un mondo «piatto» (come dal titolo di un celebre saggio di Thomas Friedman) per effetto della tecnologia, del libero commercio, dell’interconnessione.

La guerra in Ucraina sembra al dunque destinata a produrre effetti ben al di là dei rapporti tra Europa e Russia, rivelando (e accelerando) processi in atto da tempo su scala planetaria.

Ma, tornando alla situazione sul campo, è difficile a questo punto prevedere quale potrà esserne lo sbocco, anche perché appare decisamente arduo che gli ucraini, dopo tutte le devastazioni subite, siano disposti a sedersi a un tavolo con l’animo di chi sia disposto ad ammettere concessioni territoriali. Se Putin non può fare marcia indietro, lo stesso può dirsi di Zelensky.

A questo punto l’esito più probabile è quello della continuazione chissà per quanto tempo del conflitto, una sorta di cronicizzazione della guerra. Da una parte e dall’altra, hanno dimostrato di saperla reggere a lungo.

Per noi europei, ciò equivarrebbe all’assuefazione a questo conflitto, che pare oggi disattivato, almeno per quello che più direttamente riguarda la nostra società: l’aumento dei costi energetici. Il prezzo del gas è notevolmente diminuito rispetto ai primi mesi di guerra, allo stesso modo dal fabbisogno europeo dal metano russo, che è precipitato al 7%.

Famiglie e imprese possono dormire sonni tranquilli. Attenzione però, perché non è comunque salutare avere un incendio che continui a divampare ancora a lungo alle frontiere della Ue. Una scintilla impazzita potrebbe sempre produrre effetti devastanti. Per scongiurare simili, malaugurati casi, la dottrina geostrategica serve a poco. Più utili allo scopo potranno rivelarsi gli scongiuri.