Il 27 marzo del 1994 non è solo il giorno di storiche elezioni politiche ma la data di una rivelazione: l’Italia è un Paese di destra. Ancor oggi, dopo 30 anni, è un dato che non tutti hanno voglia di riconoscere. Per una parte dell’intellighenzia rimane un fatto traumatico, una verità da esorcizzare, nascondere, mistificare in vario modo.
Parliamo ovviamente di intellighenzia di sinistra, intesa nella più ampia accezione del termine, quindi comprendente intellettuali, giornalisti, personaggi dello spettacolo e, ovviamente, politici. Per tutti costoro, il rifiutarsi di riconoscere questa realtà scomoda rappresenta un esiziale errore politico, perché impedisce a Elly Schlein e compagni di costruire quel solido sistema di alleanze (soprattutto economico-sociali) che possa alimentare la speranza del Pd di tornare, un giorno, al governo. E di entrarvi dalla porta principale. Non da quella secondaria di qualche governo tecnico o di “emergenza”, che dir si voglia.
Se oggi la segretaria piddina non riesce ad allestire un competitivo cartello elettorale tra le opposizioni, neanche per esprimere il candidato presidente in una delle più piccole, demograficamente parlando, Regioni italiane (la Basilicata), è perché, tra le altre cose, è espressione di un mondo che ancora non s’è ripreso dal trauma di 30 anni fa. Questa sorta di fuga dalla realtà del Paese produce quel mix di ideologismo e snobismo che condanna la sinistra più intransigente e radicale a una condizione di minorità politica. E di depressione esistenziale.
Qual è allora la lezione del 27 marzo di 30 anni fa che, non solo la sinistra, ma la stessa destra non dovrebbero mai dimenticare? Questa lezione è che, sotto la scorza delle ideologie più o meno alla moda, la natura vera degli italiani è quella di gente che bada al sodo e che non baratta la propria sicurezza, la propria prosperità, la propria identità con fumosi programmi di rivoluzione morale e culturale, tutta roba che metta in crisi le certezze della vita: in famiglia, sul lavoro, nella società. Non sono, gli italiani, come i loro “cugini” francesi, il popolo più ideologico che ci sia. Mai gli italiani si sognerebbero, ad esempio, di ammettere il “diritto” di aborto nella costituzione.
Si riduce a questo, alla fine, l’essere popolo di “destra”? Diciamo, più precisamente, che la destra rappresenta un passaggio ulteriore, quello che di solito compie quella parte della popolazione che decide di assumere una precisa identità politica. Di certo i caratteri sopra descritti appartengono al tipico popolo “conservatore”, quello che guarda con cautela alle novità e che ammette cambiamenti alla sola condizione che non sconvolgano la propria esistenza.
Questa natura “conservatrice” della gente italiana è sempre stata guardata con grande sospetto dalle élite intellettuali e politiche, che per decenni hanno coltivato il mito di un popolo che non c’era. E cioè un popolo animato da fervente “patriottismo costituzionale”, con tutti i suoi corollari antifascisti e progressisti.
A questo punto, due domande sorgono spontanee: 1) dove s’era “nascosto” nei quasi 50 anni precedenti questo popolo di “destra”?; 2) perché salì in superficie proprio nella travagliata stagione politica di 30 anni fa?
Rispondendo alla prima domanda, potremmo dire che quel popolo era solo in minima parte rappresentato (almeno nella prima fase della vita repubblicana) dal Msi, dal Partito monarchico e dal Partito liberale, confluendo per il resto (e in massa) nella Democrazia cristiana. Il problema è che la cultura politica del “partito dei cattolici”, una cultura innervata da un moderato progressismo, rappresentava assai parzialmente i sentimenti e i valori di questa gente.
Di qui una lunga fase di ambiguità e “insincerità”, come scrive lo storico Paolo Macry nel bel libro “La destra italiana – Da Guglielmo Giannini a Giorgia Meloni”: «…Certo è che un fenomeno salta agli occhi, se si ripercorre la storia repubblicana, e sembra attraversarla tutta intera, sia pure in forme volta a volta diverse: l’inganno politico. Un rapporto ingannevole tra questo Paese -tra un Paese di destra, o non di sinistra- e la dimensione politica della Repubblica. Fu nelle fasi germinali della democrazia italiana, nel dopoguerra, e poi nel corso della Prima repubblica che le destre politiche ebbero a malapena diritto di cittadinanza, non seppero o non furono abilitate a incidere sulle dinamiche parlamentari, conquistarono spazi di governo molto limitati, rimasero sempre elettoralmente marginali».
Il 27 marzo del 1994 questo Paese di destra reclama con prepotenza la sua piena cittadinanza politica e il suo diritto di governare. Perché accadde? Al netto di Tangentopoli e della fine della guerra fredda – e qui veniamo al secondo quesito -, l’equilibrio politico della Prima repubblica non aveva più senso, non rappresentava più gli interessi della parte più dinamica della nostra società. L’Italia si scopriva ostacolata da una serie di “lacci e lacciuoli” (come si diceva tra gli anni Ottanta e Novanta ispirandosi al titolo di un libro di Guido Carli ) e chiedeva libertà di impresa e di azione. Un “nuovo” popolo era nel frattempo cresciuto, nel corso del caotico sviluppo dei due decenni precedenti, il famoso “popolo delle partite Iva”.
È un dato interessante perché ci dice che, alle ragioni storiche e culturali, si aggiunge negli anni Novanta un ulteriore fattore di vicinanza tra la società italiana e la destra politica: il declino della grande impresa e l’avanzata di una grande area di piccole e medie aziende con tutta la rete pulviscolare del lavoro autonomo e delle microimprese a conduzione familiare, tutto un mondo umano e sociale che avverte insofferenza per il peso della pressione fiscale e per la vischiosità della palude burocratica. È un mondo -vale la pena di aggiungere – che si sente penalizzato dal sistema bancario e finanziario e che guarda con sospetto alle grandi centrali sindacali, così come queste si configuravano ancora all’inizio degli anni Novanta. La destra politica che nasce o si trasforma in quel periodo (da Alleanza nazionale a Forza Italia e alla Lega) trova in questo mondo in ebollizione il suo “blocco sociale” di riferimento.
Vale la pena avvertire che questo popolo di “destra” non cancella certo quello di “sinistra”, che rimane comunque consistente e ben strutturato. Ma certo questa Italia politica emergente diventa trainante. E tale rimarrà anche negli anni a venire.
A questo punto dobbiamo affrontare un’ulteriore e decisiva domanda: perché, se l’Italia è un Paese di “destra”, il centrodestra non ha sempre vinto le elezioni e, nel corso di questi 30 anni, non è mai riuscito a essere riconfermato al governo dopo una legislatura? Parliamo delle elezioni del 1996, poi di quelle del 2006, del sostanziale pareggio di quelle del 2013 e infine della parcellizzazione elettorale del 2018. In tutte queste occasioni, la coalizione di centrodestra s’è fatta soffiare la maggioranza dagli avversari.
La risposta è, come sempre si dice in questi casi, “complessa”. Emerge innanzi tutto la sopravvivenza, nella società italiana e nelle istituzioni, delle aree di dominio create nel tempo dalla sinistra (dalla magistratura ai poteri burocratici e a quelli finanziario-mediatici). Non c’è dubbio però che la destra stessa ci abbia messo parecchio del suo per complicarsi la vita. Parliamo in particolare della conflittualità insita nell’alleanza di centrodestra per effetto dello spiccato leaderismo dei soggetti politici che la componevano. Pensiamo soltanto allo scontro tra la personalità di Berlusconi e quella di Fini, scontro a lungo rimasto in potenza e poi esploso in modo clamoroso (e devastante) nel 2010.
Ma, se dovessimo individuare un limite di fondo nell’azione del centrodestra di questi trent’anni, sicuramente lo individueremmo nella non completa capacità di ascolto da parte dei vertici politici del “loro” popolo. Il riformismo promesso è stato attuato in parte, o non è stato attuato affatto: da quello istituzionale (promosso, nella XIV legislatura, con scarsa convinzione e in ritardo) a quello fiscale.
C’è da dire che i governi di centrodestra non potevano strutturalmente mobilitare tutte le risorse finanziarie che sarebbero state necessarie per promuovere in profondità un’azione realmente riformatrice. E ciò soprattutto a causa dei forti vincoli europei di bilancio, vincoli non sempre in linea con i principi ispiratori dell’Unione europea, perché ispirati dagli ideologismi (e dagli interessi) dei governi del Nord Europa.
Ecco, è forse qui la grande “mission” del centrodestra tornato al governo con Giorgia Meloni. Accanto alla riforma costituzionale, a quella della giustizia e a quella fiscale che l’attuale esecutivo s’è giustamente impegnato a realizzare, dovrebbe emergere quella che un numero crescente di osservatori indica, oggi, come la riforma che ci cambierebbe la vita: la revisione dei trattati europei, per ridare respiro alla nostra economia e alla nostra società. È un’impresa certo impegnativa e dalla realizzazione niente affatto scontata. Ma oggi ci sono le opportunità per attuarla, per effetto dell’attuale debolezza franco-tedesca, cioè dei Paesi-guida dell’Ue.
La nostra premier ha tutte le capacità per portare a termine questa cruciale operazione. Se Giorgia Meloni e la destra italiana riuscissero a mettere la loro firma, insieme agli altri governanti Ue, a una riforma dell’Unione capace di risollevare le sorti dei popoli europei, è certo che entrerebbero nella storia. E, ad avvantaggiarsene, sarebbe la stessa sinistra, che riceverebbe la spinta giusta per smetterla di giocare al “declino”. Suo e dell’Italia.