Cultura, Mondo

Quella notte di Nino Benvenuti

Che notte quella notte… Non era mai capitato di scendere in strada alle quattro, quando tutti dovrebbero dormire, e gridare l’orgoglio di una nazione dietro una bandiera tricolore. Non era capitata in precedenza quell’esplosione di amor patrio in una Italia che la cultura ufficiale chiamava Paese. Era la notte del 17 aprile del 1967. Dalla radio Paolo Valenti, in collegamento dal Madison Square Garden di New York, l’aveva gridato una, due, tre volte: “Campione del mondo, Nino Benvenuti campione del mondo”. E come fai a dimenticarla quella notte: per la prima volta i clacson delle macchine, le strade, la piazza, la gente, la festa.  Scene che negli anni successivi si sarebbero ripetute per la Nazionale di calcio.

Ma quella notte la festa ha l’immagine di un ragazzo biondo  che  sconfigge Emile Griffith, pelle scura, potenza di un tir e fama di imbattibile. Mezza Italia attaccata alla radio aveva seguito la cronaca, sofferto e gioito con quel ragazzo di Trieste, esule dell’Istria, la sua famiglia costretta a lasciare la propria terra dall’odio degli slavi di Tito. E quella notte saliva sul podio mondiale della noble art. Fu questa l’impresa compiuta da Nino Benvenuti. E non fu solo la sua vittoria sportiva, ma la rivalsa di un popolo, la rivincita dei vinti.

In quell’aprile del 1967 sui giornali facevano notizia le polemiche sull’assenteismo negli uffici pubblici. Quanto basta perché il governo negasse la diretta televisiva, preoccupato di salvaguardare l’indomani le presenze a scuola e sui luoghi di lavoro. Del resto, le trasmissioni tv ancora chiudevano a mezzanotte, fatta eccezione due anni dopo per lo sbarco degli americani sulla luna. C’era solo la radio nella notte del trionfo di Nino. La tv poteva attendere: le immagini dell’incontro le avremmo viste alle 15 del giorno successivo. Un disappunto, una protesta per la diretta televisiva vietata? Macché, i giorni delle contestazioni erano di là da venire, il  ’68 era alle porte ma non se ne intravedevano nemmeno le avvisaglie.

C’era Aldo Moro in quel ’67 alla guida del governo formato da Dc, Psi, socialdemocratici e repubblicani; vicepresidente era Pietro Nenni, Amintore Fanfani agli Esteri, Emilio Colombo al Tesoro, Giulio Andreotti all’Industria, Oscar Luigi Scalfaro ai Trasporti. Quel 16 aprile Paolo VI riceveva a Roma il ministro degli esteri sovietico Andrej Gromiko.  L’ala moderata della politica era preoccupata per l’avvicinamento della Santa Sede ai comunisti mentre sull’Unità il giorno successivo veniva riportata con enfasi la notizia dell’incontro in Vaticano.  Sulla stessa pagina del quotidiano comunista, in apertura, c’era una corrispondenza dell’inviato ad Hanoi, Erminio Savioli, sotto un titolo a cinque colonne “Non c’è minaccia americana capace di piegare il Vietnam”. Il Tempo quotidiano di Roma, un po’ di destra un po’ di centro, si occupava del dibattito interno alla Dc a pochi giorni dalla conferma di Mariano Rumor alla segreteria dello scudo crociato. Si era impegnato solennemente, Rumor, a superare una volta per tutte la logica delle correnti interne del partito, missione impossibile… Sui rotocalchi e nei jukebox imperversavano i Beatles, ma gli esperti di musica assicuravano che il fenomeno non era destinato a durare.  E dall’Inghilterra s’affacciava un’altra moda, la minigonna: le indossavano ragazze a Milano, qualcuna a Roma però non attecchiva ancora nelle province.

Ma la notizia che in quei giorni dominava sulla stampa era ovviamente l’impresa incredibile di Nino Benvenuto, era la nascita di un mito. Cronache del match attimo per attimo, vita e miracoli del campione: peccato che ci si soffermasse poco sull’odissea dell’esule. Del resto la realpolitik consigliava di non insistere sul dramma dei profughi, sui crimini dei partigiani titini e tanto più sulla tragedia delle foibe. Il comunista Tito, dittatore della Jugoslavia, dal 1948 aveva rotto con l’Unione Sovietica e guidava i cosiddetti paesi non allineati, né con la Nato né col Patto di Varsavia. Facrva comodo Tito all’occidente, soprattutto agli americani, non conveniva farlo indispettire, meglio tacere, coprire, offuscare. Nino Benvenuti era nato in Istria ed era stato costretto a fuggire coi genitori? Pazienza, cose che capitano…

Anche per questo, ora che non c’è più, Nino Benvenuti ci appare ancora più grande.

Tempi passati, tempi diversi. Oggi c’è un altro campione sugli allori. Ha i capelli rossi e si chiama Janick Sinner, veste i colori dell’Italia anche se è residente a Montecarlo e se in famiglia parlano tedesco. È nato a San Candido, Alto Adige o Sud Tirolo che dir si voglia, terra di frontiera, zona di confine come quella che diede i natali a Nino. Ma, per carità, è tutta un’altra storia.

Autore

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.