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Riportare la Chiesa al cuore dell’Europa

Qual è il capitolo della storia della Chiesa cattolica scritto da papa Francesco lo potrà certificare solo il futuro. La cosa che oggi si può dire – nel rispettoso silenzio dovuto alla memoria di un grande leader religioso nei giorni successivi alla sua morte – è che sarebbe scorretto e fuorviante giudicare il suo pontificato secondo le nostre abituali categorie: destra/sinistra, progresso/conservazione, innovazione/tradizione. Perché queste catalogazioni non aiutano a comprendere, ma soprattutto perché Bergoglio non si può ingabbiare né incapsulare né, men che meno, iscrivere a una qualunque corrente politico-culturale.

Bastano pochi esempi per spiegare questa convinzione. Certamente la misericordia è stata il motivo ispiratore della sua azione, con la vocazione a privilegiare le periferie del mondo, a predicare l’accoglienza per gli immigrati come risposta alla loro disperata fuga dalle guerre e dalla fame. Ma questo non basta a considerare il papa argentino pienamente omogeneo al fronte progressista. Perché, allo stesso modo, Francesco ha difeso con forza – talvolta con violenza verbale inusitata – quei valori che il suo predecessore Benedetto definiva “princìpi non negoziabili”. Uno su tutti: la difesa della vita di ogni essere umano, dal primo all’ultimo battito del cuore. Bergoglio non ha mai esitato a condannare l’aborto come un omicidio e a definire “sicari assassini” i medici che lo mettono in pratica. Anche la critica alla pratica dell’eutanasia (e/o del suicidio assistito) è intransigente, perché considerata conseguenza gravissima di una “cultura dello scarto” che considera indegne di permanere in vita quelle esistenze ormai fragili, improduttive e difficili da sostenere: per volontà del diretto interessato, per egoismo dei parenti, per i costi eccessivi delle cure.

Com’è facile comprendere, di fronte a questa posizione del papa, destra e sinistra non contano più nulla, non aiutano a capire né a collocare la sua figura in un contesto complicato, dentro un’epoca di crisi che coinvolge anche la Chiesa fin nel cuore della cristianità. Eppure, nei giorni successivi alla scomparsa, prima che l’attenzione mediatica fosse assorbita dal Conclave e si aprisse la gara tra papabili veri o immaginari, in molti si sono esercitati ad affibbiare un’etichetta al papa scomparso, come se questo facesse guadagnare punti, a questa o a quella corrente culturale, a questo o a quel partito politico.

In una riflessione onesta sui dodici anni di pontificato, non si devono dimenticare le circostanze che nel 2013 portarono Bergoglio al vertice della Chiesa. Le dimissioni di Ratzinger furono il segno di una crisi profonda che il “pastore tedesco” considerò troppo grave e pesante per le sue forze. E i dieci anni di coabitazione tra i due papi, novità assoluta nella storia bimillenaria, hanno certamente condizionato il pontefice regnante. La presenza in Vaticano del papa “emerito” – rispettoso ma non silenzioso, collaborativo ma coerente col suo magistero – ha fornito un indubbio vantaggio, quello che i due papi si potessero rivolgere a tutti i cattolici, qualunque fosse il loro orientamento. Una sorta di “marciare divisi per colpire uniti”. Di più: nei momenti di maggiore attrito, quando alcuni cardinali resero pubblici i loro “dubia” su taluni indirizzi papali, proprio la presenza di Ratzinger consentì, se non di superare, certamente di attenuare quelle contrapposizioni.

È una Chiesa lacerata, quella che oggi lascia Bergoglio: una Chiesa cambiata, ma tuttora di fronte a fattori di crisi che, piuttosto si sono fatti più acuti e più gravi. Si pensi al calo del numero dei fedeli e alla crisi elle vocazioni sacerdotali, soprattutto nella nostra vecchia Europa, divenuta dominio del relativismo, regno di quel “dirittificio” che confonde bisogni e desideri, esigenze e capricci, volontà e voluttà.

Ecco, la risposta alla sfida lanciata al cristianesimo dal trionfante relativismo è stata debole e insufficiente, forse sbagliata. Oggi sembra tutto sepolto nella memoria, coperto dalle macerie delle città ucraine bombardate dalla Russia di Putin con la benedizione del patriarcato ortodosso di Mosca. Eppure, nel febbraio 2016, Bergoglio incontrò il patriarca Kirill nell’aeroporto della capitale cubana. Era la prima volta dopo mille anni dallo scisma. E, nel documento sottoscritto dai due dopo quello storico colloquio, il papa e il patriarca condivisero la necessità di una nuova presenza missionaria ed evangelizzatrice proprio in un’Europa pericolosamente secolarizzata; quell’Europa che ha rinnegato – rifiutando di menzionarle nel preambolo alla costituzione dell’Ue – le proprie radici cristiane (o giudaico-cristiane). Poi la guerra ha rovinato quella grande opera di riavvicinamento e di dialogo fraterno in cui papa Francesco aveva fortemente creduto.

Chiunque sarà il suo successore, la priorità missionaria sarà una doverosa e potente presenza in Europa, perché solo rinforzando le proprie fondamenta si potrà poi puntare la prua verso le periferie del mondo. Lo Spirito Santo, che ora saprà illuminare i cardinali in Conclave, non mancherà di assistere il nuovo papa. Ma anche il successore di Franceso, vescovi, sacerdoti i laici, dovranno impegnare energie e talenti perché la crisi in atto si riveli reversibile. Come disse una volta ai romani papa Wojtyla: “Damose da fa”!

 

Autore

  • Mauro Mazza

    Mauro Mazza è direttore editoriale di FareFuturo. Ha diretto Tg2 e RaiUno. Ha scritto numerosi libri. Il romanzo più recente è “Diario dell'ultima notte. Ciano Mussolini lo scontro finale” (La Lepre) e l'ultimo saggio “Lo Stivale e il Cupolone. Italia-Vaticano, una coppia in crisi” (Il Timone) Nel giugno '23 è stato nominato Commissario straordinario per l'Italia, che sarà ospite d'onore alla Buchmesse di Francoforte 2024

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