Negli ultimi anni, molte delle decisioni economiche prese dall’ex presidente Donald Trump sono state liquidate come azioni impulsive, populiste, prive di visione. Ma se ci fosse, invece, una strategia? Se dietro i tweet e le dichiarazioni roboanti si celasse un disegno più ampio, capace di sfruttare le debolezze del sistema globale per rafforzare la posizione degli Stati Uniti al centro dell’ordine economico mondiale? Proviamo, per divertimento, a seguire una narrativa alternativa. Prendiamo i dazi, ad esempio. Non come barriera fine a sé stessa, ma come strumento negoziale. Prima si annunciano con tre mesi di anticipo: un tempo sufficiente per permettere alle aziende americane di fare scorte, prepararsi. In quel trimestre, le controparti straniere iniziano a sudare. Quando i dazi entrano in vigore, le imprese USA hanno già magazzini pieni e il governo ha già costruito il terreno per trattare da una posizione di forza.
Nel frattempo si lavora a qualcosa di più ambizioso: riportare a casa la produzione, soprattutto quella strategica. Parliamo di semiconduttori, intelligenza artificiale, tecnologie avanzate. La politica industriale si veste di pragmatismo: sussidi statali e federali spingono la creazione di nuova capacità produttiva. E tutto accade in tempi rapidi, perché il mercato americano – a differenza di quello europeo – è flessibile, reattivo, abituato a muoversi veloce. La deregolamentazione fa il resto, soprattutto nei settori hi-tech.
E mentre si costruisce il nuovo, si mobilita l’esistente. Migliaia di lavoratori irregolari, invisibili, vengono selettivamente regolarizzati per colmare i vuoti nelle filiere produttive. È l’esercito industriale di riserva: manodopera già presente, pronta, a basso costo. Non serve importare merci, se puoi importare il lavoro.
Sul fronte energetico, l’America riscopre sé stessa. Il fracking, criticato da molti, diventa una leva geopolitica: più indipendenza energetica significa meno ricatti esterni e più potere negoziale nelle relazioni internazionali. I costi energetici bassi rendono competitiva la manifattura. E i dazi? Si usano come leva, si sospendono all’occorrenza, si dosano con intelligenza politica. È precisamente quello che sta facendo Donald Trump. In molti si sono posti retoricamente l domanda: c’è del metodo in questa follia? Probabilmente la domanda più corretta sarebbe questa: c’è della follia in questo metodo?
Ovviamente, tutto ciò può creare instabilità. I mercati diventano nervosi. Ma anche questo, nel grande schema delle cose, non è un difetto: è un’opportunità. Chi vive di volatilità – i grandi fondi, gli operatori finanziari – guadagna proprio nei momenti turbolenti. Wall Street, nonostante le apparenze, non ha mai amato troppo la noia.
E poi c’è la Cina. Il vero obiettivo. Un gigante industriale con una domanda interna ancora fragile, fortemente dipendente dalle esportazioni. Pechino ha investito gran parte delle sue riserve in titoli del Tesoro USA. È, in parte, prigioniera del debito americano. Non può vendere senza danneggiare sé stessa. In questo equilibrio precario, Washington alza i dazi, accelera sul reshoring e sfrutta il vantaggio finanziario strutturale che ha costruito in decenni di egemonia monetaria.
Così si passa dal vecchio modello dei profitti da outsourcing – produrre all’estero per vendere in casa – a un nuovo paradigma: sovraprofitti costruiti sul controllo. Controllo della produzione, del consumo, del mercato, dell’offerta e – se serve – anche della domanda. Una transizione silenziosa, ma potentissima.
Trump è davvero pazzo? Forse. Ma forse è solo un interprete brutale di una strategia che non ha bisogno di essere elegante per essere efficace. E se è così, non è l’imprevedibilità il vero messaggio. È il ritorno della forza come fondamento della politica economica.