Cultura

Le difficili scelte del Conclave

Sarà un conclave inedito quello che eleggerà il successore di Papa Francesco. I 135 cardinali elettori provengono da 73 Paesi diversi. E molti, tra questi principi della Chiesa, neanche si conoscono tra di loro. Quelli nominati da Bergoglio sono 108 e rappresentano pertanto la stragrande maggioranza del Sacro Collegio. Ma la particolarità non sta qui, bensì nella loro distribuzione geografica. Francesco ha rivoluzionato i criteri di rappresentanza “territoriale” dei porporati, producendo diversi paradossi. Uno dei più clamorosi è il fatto che il nuovo Papa sarà eletto ad esempio dal cardinale Giorgio Marengo, prefetto apostolico di Ulan Bator, capitale della Mongolia (1394 battezzati, magari si conosceranno tutti tra loro), ma non ci sarà Mario Delpini, arcivescovo di Milano, che Papa Francesco non ha mai nominato cardinale. E assente, perché non “creato” cardinale, il patriarca di Venezia Moraglia. In generale, si può dire che i porporati di provenienza europea e occidentale avranno un peso specifico minore nel Conclave.

Dobbiamo quindi attenderci la conferma delle scelte bergogliane, cioè la geopolitica che ha privilegiato le “periferie” del mondo? Non è detto, o per lo meno non è detto che sarà come è stato nei dodici anni di Papa Francesco. Il clima internazionale è sensibilmente cambiato da quel 13 marzo del 2013, quando, dalla loggia centrale della basilica di San Pietro, si affacciò il Papa venuto dalla «fine del mondo». Oggi la Terra non ha più un “centro di gravità”, come, seppur precariamente, aveva allora, con gli Usa “impero riluttante” della fase declinante di Barack Obama. Oggi, con Donald Trump, gli Usa vogliono riaffermare rabbiosamente il loro primato, ma non per tornare nel cuore degli equilibri globali, bensì per rilanciare stessi, circostanza che pone diversi interrogativi sul futuro assetto mondiale: andiamo verso una fase di “disordine” oppure l’assetto “multipolare” che va profilandosi produrrà a suo modo una stabilità?

In questo contesto insidioso e pieno di incognite, appare difficile immaginare che il nuovo Papa potrà essere leader mondiale in un modo simile a come lo è stato Bergoglio, o persino in continuità con lui. Francesco è stato un “antagonista” geopolitico e globale dei “grandi” della Terra, in particolare di quelli collocati nel nostro emisfero.

Nei dodici anni del suo Pontificato, ha fatto da controcanto a un Occidente che ha innalzato le barriere contro l’immigrazione, un’Europa e un Nordamerica in piena ansia “securitaria”. Nessuno, meglio di Bergoglio, è stato il leader del “popolo dei barconi” nel Mediterraneo, o delle masse di disperati che cercavano di varcare le barriere erette dagli Usa, non solo al tempo di Trump 1, ma anche negli anni di Biden. «L’illusione del futile, del provvisorio, che porta all’indifferenza verso gli altri, anzi porta alla globalizzazione dell’indifferenza», gridò Francesco a Lampedusa nel suo primo viaggio da Pontefice. Fu una meta scelta non a caso. E con tale spirito Bergoglio è rimasto fino alla fine.

E non ci sono stati solo i migranti nella visione geopolitica bergogliana. Il Papa è stato anche ecologista, antiglobalista e anticapitalista. «L’umanità è globalizzata e interconnessa, ma permangono povertà, ingiustizia e diseguaglianze», ha detto alla fine del 2022 a sintetizzare il senso del suo messaggio sociale.  A questa impostazione, Francesco ha aggiunto anche una spiccata sensibilità nell’intuire i processi geostrategici planetari, come quando, nel 2015, parlò di “guerra mondiale a pezzi” (si riferiva all’avanzata dell’Isis), definizione che viene ancora citata per interpretare le attuali crisi mondiali. Rispetto a tutte queste crisi, Bergoglio ha assunto una posizione spiccatamente “pacifista”, come quando, a proposito della guerra in Ucraina, affermò che «la bandiera bianca non è resa, ma coraggio di negoziare». Non mancarono le polemiche sul fronte atlantico.

Va naturalmente osservato che neanche Papa Wojtyla le mandava a dire ai governanti dell’Occidente. Chiara e netta fu, ad esempio, la sua contrarietà alla “guerra preventiva” scatenata da George W. Bush in Iraq nel 2003. Ma qui emerge una differenza di non poco conto: se per Giovanni Paolo II il centro di irradiazione del messaggio evangelico rimaneva l’Europa (ancorché i destinatori privilegiati di tale messaggio erano sempre i diseredati del Sud del mondo), ben diversamente, con Papa Bergoglio, questo centro d’irradiazione s’è spostato nelle “periferie” della Terra.

Ma ora si pone il non banale quesito: dove collocherà, il successore di Papa Francesco, il cuore pulsante del suo Magistero? Sarà ancora nel Sud del Mondo? Oppure questo centro nevralgico verrà in qualche modo riorientato verso l’Europa e l’Occidente, ancorché i destinatari privilegiati dell’azione della Chiesa non potranno che rimanere i diseredati della Terra?  Molto dipenderà dal bagaglio spirituale, culturale e dottrinale che il nuovo Pontefice recherà con sé. In questi giorni che precedono il Conclave girano almeno una dozzina di nomi di “papabili”, variamente distribuiti tra Europa, Nordamerica, Africa e Asia. Non è detto che la nazionalità di chi sarà prescelto dal Sacro Collegio indicherà, di per sé, quella che potrà essere la politica globale della Chiesa cattolica nei prossimi anni. Però, certamente, la provenienza del prossimo Papa fornirà un primo indizio della proiezione futura del cattolicesimo.

Uno dei “papabili” è stato indicato nel filippino Antonio Gokin Tagle. Se questa fosse la scelta, vorrebbe dire che la Chiesa cattolica continua a scommettere sul Sud del mondo. Difficile dire al momento quale potrebbe essere una nuova strategia in tal senso. Però non sarebbe indifferente il fatto che ci ritroveremmo con un Papa proveniente da una delle aree, in prospettiva, più “pericolose” del pianeta, quella dell’Indo-Pacifico, dove potrebbe scoppiare nei prossimi anni una guerra su vasta scala, un conflitto che coinvolgerebbe, oltre a Cina, Usa e Taiwan, anche le potenze di quel quadrante della Terra, Filippine comprese. Quindi ci potremmo ritrovare con una Chiesa di “prima linea” che sarà impegnata a svolgere una funzione pacificatrice in un modo sconvolto da una nuova stagione di guerre.

Ma un eventuale orientamento terzomondista del Conclave potrebbe regalarci, per la prima volta nella storia della Chiesa, un “papa nero”.  La scelta potrebbe cadere su Fridolin Ambongo Besungu, arcivescovo di Kinshasa. Se così fosse, si potrebbe prefigurare un cattolicesimo di “trincea”: l’episcopato africano è impegnato a reggere l’urto dell’aggressione islamista. Non solo, ma i cardinali provenienti dal continente nero sono anche di orientamento generalmente tradizionalista e conservatore.

Ed eccoci allora alla possibilità di una riscoperta del “cuore” europeo, una riscoperta ovviamente adattata ai nuovi tempi che stiamo vivendo. Tra i “papabili” ci sono almeno sei cardinali provenienti dal vecchio continente (dei quali tre italiani) più due porporati nordamericani. Alcuni di essi sono indicati come “progressisti”, altri come “conservatori” (per quello che significano questi termini se applicati alla Chiesa). Ma non è scopo di questo articolo il domandarsi su quale potrebbe essere la posizione del nuovo Pontefice a proposito della dottrina cattolica. Quello che ci interessa è che il cattolicesimo europeo è in crisi profonda (seminari vuoti, diminuzione della pratica liturgica, agnosticismo diffuso). Questa crisi religiosa è anche il riflesso di una più ampia crisi culturale e spirituale del vecchio continente.

Non stiamo parlando di un problema da poco perché, piaccia o non piaccia, le radici del cattolicesimo sono in Europa, nel senso che proprio da questo continente è partita la spinta originaria all’evangelizzazione del mondo. Proprio qui, anche grazie al retaggio della classicità, è stata elaborata la cultura del cristianesimo. Proprio qui è scaturita l’idea di universalità. Proprio qui si sono diffusi i monasteri che hanno costituito la parte essenziale di quella che un tempo si chiamava civiltà cristiana. Proprio da qui sono partiti i missionari che hanno portato il messaggio evangelico a ogni angolo della Terra.

Al dunque, si dà il caso che queste radici siano da lungo tempo malate e che, se in tale stato rimangono, a risentirne sarà, prima o poi, l’intera pianta della Chiesa universale. E ciò al di là del fatto che le “periferie” del mondo siano abitate da popoli giovani, in piena crescita demografica e tali da fornire al cattolicesimo quello slancio vitale che un Occidente invecchiato non sa più garantire. Ma la demografia non può da sola curare i mali dell’anima. Occorre anche un risveglio, una forma di ritrovamento di sé, un moto che parta dall’interiorità.

Parlare di radici europee del cristianesimo può sembrare strano, dal momento che normalmente si parla del reciproco, ciò delle radici cristiane dell’Europa. In realtà parliamo della stessa cosa, perché attorno a queste radici morali, spirituali e filosofiche s’è formato l’humus da cui civiltà europea e religione cristiana sono scaturite insieme, avvinte tra loro fin dall’inizio delle rispettive parabole. E tale intreccio costituisce anche il sostrato originario dell’Europa successiva, cioè l’Europa razionalista, laica, scettica, relativista. E persino l’Europa delle religioni secolarizzate come sono state le ideologie. Mai però si era arrivati all’Europa anemica, piatta, rancorosa, disperata degli ultimi decenni.

La necessità di affrontare questa emergenza spirituale e di riscoprire il legame tra religione e continente è stata non a caso una delle costanti di Joseph Ratzinger, anche da prima che diventasse Pontefice. In un volume scritto nel 2004 insieme con Marcello Pera (in quel momento presidente del Senato), l’allora Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede ammoniva a non concepire la multiculturalità come «abbandono e rinnegamento di ciò che è proprio» ma come rispetto per ciò che è sacro, per se stessi, come europei, e per coloro che provengono da altre civiltà religiose. «Se non facciamo questo – scrive Ratzinger -, non solo rinneghiamo l’identità dell’Europa, bensì veniamo meno anche a un servizio agli altri che essi hanno diritto di avere. Per le culture del mondo, la profanità assoluta che si è andata formando in Occidente è qualcosa di profondamente estraneo. Esse sono convinte che un mondo senza Dio non ha futuro. Pertanto proprio la multiculturalità ci chiama a rientrare nuovamente in noi stessi» (“Senza radici”, Mondadori 2004).

Ecco, “rientrare in noi stessi”: è quello che Ratzinger non s’è mai stancato di ripetere durante tutto il suo Pontificato, quando ha più volte esortato gli europei a non abbandonare le proprie radici cristiane. Per Benedetto XVI non si può essere buoni europei, anche europei laici, se si dimentica il proprio retaggio religioso e, allo stesso modo, non si può essere buoni cristiani se non si è buoni europei. E ciò perché anche il cristiano è chiamato a partecipare alla costruzione della comunità politica in cui opera.

Oggi c’è da riattivare questo circuito, anche nel caso di un Papa proveniente dal Sud del mondo o, ad ogni modo, fautore di una linea “terzomondista” della Chiesa.  E non si tratterà comunque di un’operazione semplice. La strada obbligata non potrà che essere quella di una “rievangelizzazione” dell’Europa, un concetto che è stato peraltro espresso dallo stesso Bergoglio. Molti in Europa – affermò Papa Francesco nel 2016- «non sono coscienti del dono della fede ricevuto, non ne sperimentano la consolazione e non sono pienamente partecipi della vita della comunità cristiana». Di qui lo sforzo, secondo il Pontefice, per una «nuova opera di evangelizzazione» al fine di rinnovare i legami con le «radici cristiane». Del resto, pur il sudamericano José Mario Bergoglio, quando si presentò al mondo come Papa Francesco, espresse un concetto tipicamente europeo. L’immagine dell’America del Sud come «fine del mondo» proviene dai cartografi del vecchio continente dei secoli XVI e XVII , dove il nuovo mondo era segnato ai margini della carta e dove il centro era appunto costituito dall’Europa.

Uno dei motivi che nella tarda antichità e nell’alto Medio Evo ostacolò la diffusione del messaggio cristiano nel mondo fu il fatto che il cristianesimo era considerato dai popoli orientali la “religione dei Romani”, quindi il prodotto di un’altra civiltà. Ci vollero generazioni e generazioni di missionari per dimostrare che in realtà, per il cristianesimo, tutti gli abitanti della Terra sono uguali e che il messaggio cristiano è, come tale, universale. Oggi, al posto dei Romani, ci sono gli “Occidentali”. E ciò che può creare diffidenza non è il fatto che essi vivano in una terra lontana, ma la circostanza che in questa terra i templi, cioè le chiese, si stiano spopolando. Soprattutto in Europa. Perché accogliere un messaggio che arriva da un mondo in cui sono sempre in meno a credere in Dio?

Autore

  • Aldo Di Lello

    Giornalista e saggista, studioso dei fenomeni globali. Nel 2004 ha fondato la rivista di geopolitica “Imperi”. Tra i suoi saggi: “Geofollia” (2001), “Prima guerra globale” (2002), “Lo strappo atlantico” (2003). Nel 2021 ha pubblicato “Sovranismo sociale”

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