Economia, Esteri

Musk, la politica e noi

«Elon, fai partire quelle navi spaziali perché vogliamo raggiungere Marte prima del mio secondo mandato!»: questa l’“invocazione” fatta a Musk da Donald Trump, una battuta replicata più volte nel corso della travolgente campagna elettorale che lo ha riportato alla Casa Bianca.

Non sappiamo però che cosa, effettivamente, il fondatore di SpaceX farà partire dalla Terra alla volta del Pianeta Rosso nei prossimi quattro anni. Certo è il fatto che la sua notorietà, già notevole negli anni passati, ha raggiunto livelli stratosferici (mai espressione risulta più azzeccata a proposito del patron dei razzi spaziali) subito dopo le elezioni presidenziali americane. Questa popolarità crescente (Elon Musk è a tutt’oggi la superstar di media e social media) è certamente dovuta all’eccentricità del personaggio e alle sue provocazioni su X (il social network di cui è proprietario da più di due anni), ma è dovuta anche a quel surplus di immaginifico che gli deriva dal fatto di essere, appunto, l’uomo delle imprese spaziali, l’uomo che ha riportato gli Usa al primato nel campo dell’esplorazione interplanetaria. «Nessuno sa fare questo, vero Elon? Non lo sanno fare i russi né i cinesi», secondo la sincera (almeno così sembra) ammirazione che il leader della nazione più potente della Terra nutre per l’uomo più ricco del mondo.

Ma proprio qui nascono i problemi. Proprio qui sorge una domanda che inquieta un po’ le coscienze di molti: il “proprietario del cielo” può forse diventare il “padrone della Terra”? Domanda non banale, se consideriamo che i suoi ottomila satelliti orbitanti (e i trentamila in arrivo nei prossimi anni) sono decisivi per il sistema della banda larga e per le stesse comunicazioni dei cellulari.

Va da sé che questa domanda interessa anche all’Italia, visti gli stretti rapporti che la premier  Giorgia  Meloni ha da tempo stabilito con il fondatore di SpaceX e visto anche il carattere speciale e strategico del ruolo che, a detta della maggioranza degli osservatori, la presidente del Consiglio si appresta a svolgere nella relazione tra l’Ue e l’amministrazione Trump,  scongiurando la prospettiva di una  conflittualità tra le due sponde dell’Atlantico che avrebbe esiti assolutamente imprevedibili.

Al dunque (e detto in modo brutale), il “proprietario del cielo” rappresenta un pericolo per la tenuta democratica delle società occidentali e in particolare di quella europea? Innanzi tutto dobbiamo notare che c’è qualcosa di strano nel modo, e soprattutto nel tempo, in cui è stata recentemente posta questa domanda, in particolare nella prospettiva (finora smentita dal governo) che lo Stato italiano si avvalga del sistema Starlink di Musk per le comunicazioni satellitari. All’improvviso è risuonato l’allarme democrazia. E, dall’oggi al domani, si è paventato il rischio che l’Italia possa perdere la sua “sovranità tecnologica” (quando mai, in realtà, ce l’ha avuta?).

L’opposizione si prepara a dare battaglia nello spazio.  Da Romano Prodi a Elly Schlein e a Carlo Calenda arrivano inviti a privilegiare il progetto europeo Iris 2 in alternativa all’accordo con SpaceX. E dire che il sistema Ue non sarà operativo prima dei cinque anni da oggi, non contando poi il fatto che parliamo di poche centinaia di satelliti, a fronte delle migliaia di dispositivi orbitanti già lanciati dall’ipercinetico Elon e dalle decine di migliaia pronti a essere inviati nello spazio nel prossimo futuro. Che cosa sarebbe meglio per l’Italia per superare il suo ritardo nel campo delle comunicazioni satellitari non siamo onestamente in grado di dirlo e giriamo il quesito agli esperti.

Ma, tornando al quesito principale, dobbiamo chiederci: perché l’allarme Musk risuona solo ora? Perché il fondatore di SpaceX è diventato di punto in bianco un pericolo per la democrazia? Forse che il problema della posizione di privilegio di un soggetto privato nelle comunicazioni satellitari non esisteva già negli anni passati?

Si tratta naturalmente di domande retoriche. Perché è noto a tutti che Musk ha messo in subbuglio l’opinione pubblica (in particolare quella di sinistra) da quando è salito sul palco della vittoria di Donald Trump e da quando ha preso l’abitudine a intervenire nella vita politica europea affermando idee politicamente scorrettissime: dall’attacco ai pubblici ministeri siciliani accusatori di Matteo Salvini alla simpatia manifestata per l’estrema destra tedesca di AfD, fino al modo in cui ha strapazzato il premier laburista britannico Keir Starmer.

Insomma, il problema non appare tanto il Musk “monopolista” satellitare quanto il Musk supermiliardario di estrema destra. Scegliamo, tra le tante, l’opinione espressa sul “Corriere della Sera” dal liberal-progressista sabaudo Aldo Cazzullo, il quale scrive con sgomento che il magnate di X è il promotore della «più grande rivoluzione politica del secolo, la più importante dal crollo dei totalitarismi del Novecento». Musk, per l’editorialista del “Corriere”, è il «prisma di una nuova destra globale».  Avverte inoltre, l’allarmato Cazzullo, che, se l’impero di Trump durerà quattro anni, quello di Elon è appena cominciato. Di qui la fosca previsione finale: «… E se i liberali, o quel che ne resta, non sapranno unirsi, allora l’Internazionale reazionaria, come la chiama Macron, potrà fare quel che vorrà. Anche flirtare con la Russia di Putin e la Cina di Xi, facendo della democrazia un curioso ricordo, come la macchina da scrivere e il calesse».

 

Quale pericolo

A questo punto viene spontaneo domandarsi: se Musk, invece di presentarsi con un profilo di destra si fosse invece affermato come un supermiliardario di sinistra che cosa sarebbe accaduto? Se un Elon progressista, invece di appoggiare Trump, fosse per caso corso in aiuto di Kamala Harris, qualcuno si sarebbe forse stracciato le vesti come oggi? Avrebbe forse lanciato l’allarme sul potere economico che minaccia la democrazia?

Non c’è bisogno di lambiccarsi il cervello per rispondere. Basta solo guardare a quello che è successo in questi ultimi anni, con i colossi della Rete, da Google a Facebook e a Twitter (prima che diventasse X e l’acquistasse Musk), che hanno sistematicamente impedito, bloccato e censurato ogni contenuto contrario al canone ideologico-linguistico dominante, tutto improntato all’”inclusività”, all’”antirazzismo”, alla promozione del “gender fluid” e dell’identità Lgbt,  alla demolizione delle identità storiche e culturali. Quanti editorialisti mainstream hanno denunciato la censura strisciante e pervasiva di questi anni?

Oggi rappresenta un attacco alla democrazia il fatto stesso che Elon Musk dica la sua a proposito delle elezioni in Germania. Ma è stata forse più democratica e liberale la vera e propria “polizia del pensiero” (come spiega Luca Ricolfi nel suo splendido libro “Il follemente corretto”) esercitata fino ad oggi dagli algoritmi dei network globali ai danni delle opinioni politicamente scorrette? E viene anche da chiedersi perché mai, questi stessi algoritmi, non hanno bloccato le espressioni di “squadrismo digitale” passate in questi anni sui social contro docenti, intellettuali, giornalisti invisi agli attivisti dell’ideologia woke e di quella Lgbt. Vale la pena ricordare, tra i tanti, il caso della “madre” di Harry Potter, la scrittrice  J.K. Rowling, minacciata di morte su Twitter per aver detto che il sesso biologico non può essere messo sullo stesso piano del transgender.

Al dunque, la democrazia e la libertà di pensiero hanno vissuto una vita grama in tutti questi anni che sono coincisi con l’espansione planetaria delle piattaforme digitali. Ed è il caso anche di ricordare che proprio questo gigantesco processo tecnologico-mediatico è indicato come una delle cause principali della “post-democrazia” nella quale staremmo attualmente sprofondando a detta di diversi politologi, sociologi e storici.

Può certo far ora sorridere il fatto che la vittoria di Trump e l’affermazione della “destra globale” di Musk hanno ottenuto il “miracoloso” effetto di liberare i social network dalla censura del politically correct. E ciò, come è noto, a seguito della clamorosa marcia indietro annunciata recentemente da Mark Zuckerberg per quello che riguarda il “fact checking” e la promozione di inclusione e “diversity” su Meta .

Ma questo vale in definitiva solo come nota di colore. La vera domanda che ci dobbiamo porre non riguarda in realtà il tipo di scelte politiche operate dai magnati dalle tecnologie d’avanguardia (siano esse informatiche o spaziali) ma attiene al rapporto, sostanzialmente squilibrato, che tutti gli strabordanti apparati “tecnici” (e per “tecnici” intendiamo anche quelli finanziari) tendono non da oggi a stabilire con la sfera della politica, con le istituzioni rappresentative, con quella residua comunità di cittadini che ancora si interessa della cosa pubblica, in definitiva con la democrazia nel senso più ampio del termine.

Nella percezione popolare questo discorso si può sintetizzare nel senso di frustrazione avvertito dai cittadini comuni per il soverchiante condizionamento esercitato dagli apparati che controllano i beni e i servizi di cui tutti usufruiamo quotidianamente. Parliamo ovviamente dei beni e dei servizi che appartengono alla sfera delle telecomunicazioni e dell’interconnessione, a quella dei servizi finanziari e a tutto ciò che ha migliorato l’esistenza delle persone a seguito della rivoluzione digitale degli ultimi trenta-quaranta anni. Di quali difese e di quali tutele possono oggi disporre i cittadini-utenti di fronte alle eventuali soperchierie di questi apparati straordinariamente potenti? E come fanno, governi e parlamenti, a contrapporre gli interessi collettivi a questa concentrazione di potenza che non ha precedenti nella storia umana?

 

Poteri fortissimi

Ecco allora che il problema Musk va reimpostato e sottratto alla polemica politica quotidiana. Occorre cioè capire qual è la posizione effettiva del fondatore di SpaceX nell’ambito degli smisurati poteri cresciuti negli ultimi 15-20 anni. Il problema Musk va cioè inquadrato in un ambito più generale, perché, a insidiare la democrazia, non c’è solo il (quasi) monopolio privato nel campo dei satelliti, ma la paurosa concentrazione di potere finanziario cominciata al varco del millennio e poi cresciuta nei primi due decenni del XXI secolo.

Se può in qualche modo rendere inquieti l’idea che esista un “proprietario” del cielo, dobbiamo essere anche consapevoli che operano da anni soggetti che non è esagerato definire i “padroni del mondo” (come dal titolo di un interessante volumetto di Alessandro Volpi uscito nei mesi passati). Di chi parliamo? Dei primi dieci fondi finanziari del pianeta che, dati alla mano, detengono quote rilevanti (dal 30 al 40%) nelle prime 500 società del mondo.

Tra questi fondi, i primi tre, detti i “Big Three” (BlackRock, Vanguard e State Street), fanno veramente paura. «BlackRock -scrive Marco D’Eramo su “Limes”- gestisce 11.500 miliardi di dollari con un utile netto di 1.700 miliardi, quasi quanto il pil italiano; Vanguard 9.900 miliardi, State Street 4.700 miliardi. Quanto i pil di Cina, Germania e Giappone messi insieme». Questi fondi controllano praticamente il grosso delle grandi aziende statunitensi e numerose aziende europee. La loro potenza di fuoco è cresciuta, paradossalmente, proprio negli anni della crisi finanziaria del 2008-2009. Ed è cresciuta, altro paradosso, con la liquidità pompata a dismisura dalla Federal Reserve per salvare l’economia americana a seguito dell’esplosione della bolla speculativa nel 2007. Sgomenta non poco il pensiero che questa abnorme concentrazione finanziaria, se si rivolgesse contro un qualsiasi Stato, lo potrebbe in breve tempo al default.

Il potere delle aziende di Elon e degli altri detentori dell’alta tecnologia d’avanguardia deriva invece dall’arrivo sul mercato dei sempre nuovi e sofisticati dispositivi che cambiano (condizionandola) la nostra vita. Con Musk siamo, in definitiva, ancora dentro la perenne “distruzione creatrice” del capitalismo di schumpeteriana memoria.

Come si risolve allora il problema del rapporto tra cittadini, istituzioni e nuovi poteri tecnologici e finanziari? Semplicemente, non si risolve. Viviamo in un sistema di equilibri precari. Che durano, a seconda i casi, fino alla prossima crisi finanziaria. O fino alla prossima guerra.

C’è da dire che negli Usa il sistema trova generalmente un suo punto di stabilità nell’integrazione e nella reciproca dipendenza tra potere politico-amministrativo, da un lato, e potenza tecnologico-finanziaria, dall’altro. Nel senso che alla fine l’uno si serve dell’altra.

Questo equilibrio può in prospettiva cambiare con la “deglobalizzazione” (introduzione dei dazi e guerra commerciale alla Cina) che l’amministrazione Trump si propone di attuare nei prossimi anni. E qui sarà interessante osservare le possibili ripercussioni di tale politica sui grandi fondi finanziari, i quali, come è noto, hanno tratto linfa vitale dalla circolazione vorticosa dei capitali a livello globale dei primi due decenni del secolo.

Per quello che riguarda Musk, bisognerà vedere come reagirà il “deep State” Usa alla robusta cura dimagrante dell’apparato pubblico che il patron di SpaceX si propone di realizzare alla guida del Doge, cioè del Dipartimento per l’efficienza amministrativa voluto da Trump.

Interessi e futuro

Ma, in questo caso, Musk agisce da “politico”. Più importante sarà capire come la forte impronta nazionalistica in politica economica annunciata dal presidente americano (e appoggiata dalla cosiddetta “tecnodestra” dei nuovi signori di Silicon Valley, a partire dal fondatore di PayPall, Peter Thiel) potrà impattare sulle attività del magnate di SpaceX.  Il nazionalismo non corrisponde infatti alla vocazione “imperiale” di Musk, profeta di un nuovo “messianesimo” interplanetario: per il patron di SpaceX il futuro dell’umanità passa per le spedizioni su Marte. Al di là delle proiezioni escatologiche, ci sono questioni economiche piuttosto rilevanti. Musk, a differenza di Trump (e degli esponenti della “tecnodestra”), è ad esempio contrario al boicottaggio commerciale della Cina, non foss’altro perché le componenti essenziali per le auto elettriche di Tesla vengono proprio dal sistema industriale gestito da Pechino.

Parliamo comunque di un sistema, quello americano, di grandi numeri finanziari e di notevoli potenze tecnologiche. Il problema, purtroppo, si pone per l’Europa, che è in pauroso ritardo nella grande competizione planetaria già in corso e che si accentuerà presumibilmente nei prossimi anni. E qui, Musk o non Musk, il sistema continentale non ha la forza di opporsi a nessun magnate della finanza, del digitale o dello spazio. Come ha evidenziato Mario Draghi nel rapporto sulla competitività presentato nei mesi scorsi alla Bce, ci sarebbe bisogno ogni anno di 800 miliardi di investimenti aggiuntivi nelle tecnologie d’avanguardia. È fuori discussione che un simile sforzo lo possano sostenere i singoli Stati. Occorrerebbe un impegno generale da sostenere con un debito comune, come accaduto nel caso dell’emergenza Covid (ma con dimensioni ben superiori).

Fare però certi discorsi in una Europa ancora dominata dall’idea, d’impronta germanico-protestante, che il debito sia una “colpa” vuol dire andare incontro a un  sicuro fallimento. Ci vorrebbe una vera unione finanziaria, premessa di una vera unione politica. Ma nulla del genere è, a tutt’oggi, alle viste.

Alla fine, non è certo colpa di Musk (e della sua prodigiosa potenza satellitare) se l’Europa non crede in se stessa, conseguenza del fatto che il vecchio (e stanco) continente non crede più nella politica.

 

 

 

 

Autore

  • Aldo Di Lello

    Giornalista e saggista, studioso dei fenomeni globali. Nel 2004 ha fondato la rivista di geopolitica “Imperi”. Tra i suoi saggi: “Geofollia” (2001), “Prima guerra globale” (2002), “Lo strappo atlantico” (2003). Nel 2021 ha pubblicato “Sovranismo sociale”

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