La stagione estiva, con il suo crocevia turistico ininterrotto, rappresenta ormai da anni una fetta non indifferente della ricchezza prodotta in Italia. I dati economici del terzo trimestre dipendono sempre più dai flussi di visitatori che si riversano senza tregua nelle varie città d’arte e località di mare. Si potrà discutere su quanto sia opportuno affidarsi all’impatto di un turismo, spesso a basso valore aggiunto, per sostenere una crescita dello “zero virgola”, tantopiù se la produzione industriale è stagnante e i consumi rimangono sotto le aspettative.
Ciò che non può sfuggire al dibattito però, è l’effetto che tale impatto antropico produce sui servizi pubblici. Dagli aeroporti alle condotte idriche, passando per le autostrade e le ferrovie, l’estate è ormai diventata sinonimo di disservizi, ritardi e cancellazioni. L’impressione è che soprattutto i servizi a rete, spesso in sovraccarico fuori stagione, non siano in grado di assorbire le richieste di un brusco aumento dei fruitori. Bisogna intendersi, il problema non riguarda solo l’Italia. Anche campioni di efficienza vera o presunta come Germania e Regno Unito sono da diverso tempo alle prese con un crollo nella qualità dei servizi più o meno imprevedibile che si riverbera con facilità nella stampa locale.
Nel caso italiano, tuttavia, i problemi sono decisamente di vecchia data e l’aumento delle presenze turistiche ha contribuito a disvelare una situazione già compromessa e che non appare destinata a migliorare. Nel corso degli anni persino le differenze su base geografica sono venute meno, basti pensare alla congestione delle autostrade in Liguria e nel triveneto. Anche quelle tra pubblico e privato sono progressivamente sfumate. Spesso la qualità dei servizi in concessione risulta peggiore rispetto alla gestione in house. La vicenda di Thames Water oltremanica è l’esempio peggiore. L’utility londinese privatizzata negli anni Ottanta è gravata da una montagna di debiti per un uso perverso della leva finanziaria, aggravata dall’incapacità del regolatore di assicurare un rendimento accettabile del capitale, senza compromettere il livello dei servizi essenziali come quelli idrici.
Bisogna dunque interrogarsi sul ruolo degli investitori istituzionali sempre più presenti nella gestione delle grandi reti pubbliche. Sarebbe miope pensare che gli Stati europei possano fare a meno dei grandi fondi USA o mediorientali nella raccolta del capitale richiesto per gli ingenti investimenti in infrastrutture ammalorate e spesso fatiscenti. Ad essere chiamato in causa è il ruolo del regolatore, l’unica autorità pubblica in grado di ripristinare una situazione di sostanziale equilibrio a condizioni di mercato, facendo coesistere la remunerazione degli azionisti con la qualità dei servizi, evitando un eccessivo aumento delle tariffe. Non esiste una condizione ideale in cui questi elementi coesistano in modo armonioso, tuttavia il giusto livello di apertura al mercato, tramite le liberalizzazioni e il ricorso a gare ad evidenza pubblica, può senz’altro contribuire ad abbassare i costi per gli utenti sfruttando un basilare principio di concorrenza.
Ai sovraccarichi gestionali spesso contribuisce la scarsa consapevolezza della classe dirigente per il potenziamento dei servizi pubblici. Un fenomeno che in Italia ha assunto proporzioni poco invidiabili, aggravate dalla riforma del titolo V e dal decadimento della qualità dei processi decisionali, in particolare nelle regioni. Spesso infatti, le infrastrutture richieste sono mancanti o necessitano di un radicale potenziamento per esaurimento dei limiti fisici. Contrariamente alla vulgata ambientalista, nessuna oculata gestione potrà sostituire il raddoppio di un’autostrada al collasso o la costruzione di un bypass ferroviario, per assorbire un traffico che non è mai stato così elevato nella storia d’Italia.
Le frequenti crisi di rifiuti in Sicilia, unite ad un’ondata di siccità dalle proporzioni bibliche rappresentano lo scenario deteriore per malagestione amministrativa e abuso delle prerogative delle regioni autonome. Da decenni si assiste inermi al collasso dei servizi pubblici, non per mancanza di risorse ma per l’incapacità di canalizzarne la spesa a partire dalla progettazione. La stessa localizzazione delle opere, come nel caso delle dighe e dei termovalorizzatori, viene continuamente messa in discussione. Quale investitore estero possa scommettere su servizi pur remunerativi in presenza di un quadro regolatorio che cambia ogni anno è un interrogativo senza risposta. Sciogliere il nodo delle grandi opere sarebbe di interesse primario per una regione di cinque milioni di abitanti che, se di turismo non vive, quantomeno prova a campare. Eppure, a distanza di anni, lo scenario che si palesa al turista sbarcato in aeroporto a Palermo o Catania è sempre lo stesso. Diventa difficile, in queste condizioni, intercettare i flussi a più alto valore aggiunto spesso provenienti dall’estero. I clienti altospendenti richiedono strutture e servizi di qualità, che vanno ben al di là dell’enogastronomia e non si accontentano della calorosa accoglienza tributata appena messo piede in una qualunque meta del sud Italia.
La miopia decisoria si riflette anche nel sistema aeroportuale, dove una pianificazione poco attenta unita ai canonici contrasti con gli enti locali ha impedito uno sviluppo razionale del settore. La “forza del provincialismo” ha dato vita ad un elenco di piccoli scali come Comiso, Crotone, Salerno e Parma senza potenziare i grandi hub aeroportuali. Se Malpensa sconta ab origine errori nella localizzazione, il caso di Fiumicino è ancora più emblematico. Sin dal piano regolatore del 1978 è stata individuata l’area a nord dell’attuale sedime come la più idonea all’ampliamento dello scalo. Nonostante cinquant’anni di progetti e la predisposizione delle opere accessorie, la scelta di un raddoppio dei terminal è stata abbandonata in favore di un potenziamento in sede. L’opzione zero, che nelle attese degli ambientalisti dovrebbe ridurre l’impatto ambientale, finirà inevitabilmente per ampliarlo. Bloccare la capacità dello scalo condannandolo ad usare le stesse infrastrutture, seppure riammodernate e in attesa di un’espansione ad est, è il modo migliore per aumentare la congestione di aerei e passeggeri nel momento in cui Roma e l’Italia sono al centro dei flussi turistici mondiali.
Nella Liguria postindustriale le gallerie in eterna manutenzione e il destino della gronda di Genova si intersecano con il destino della concessione ad Autostrade. Il rebus tra investimenti e incrementi tariffari deve far fronte all’aumento delle materie prime e più in generale ad un mutamento del quadro d’insieme che rende impraticabile la tabella di marcia stabilita appena cinque anni fa. Un’analisi affrettata arriverebbe alla conclusione che le grandi opere infrastrutturali non siano più praticabili in Europa, per i tempi dilatati e i costi fuori controllo, uniti ad una complessa pianificazione che deve tenere conto di una pluralità di interessi non più comprimibili. D’altronde il Regno Unito ha rinunciato alla costruzione di una linea ad alta velocità verso Leeds e Manchester per le ragioni sovraesposte. Sarebbe miope però rinunciare ad opere attese da decenni solo perché hanno conosciuto una difficile genesi progettuale, che ha influito sul cronoprogramma. Non c’è sistema di traffico intelligente che possa supplire ad una terza corsia mancante. In assenza di viabilità o collegamenti alternativi, la soluzione proposta è sempre la solita tendenza decrescita che imbriglia una regione come la Liguria affamata di reddito e di occupazione. Meglio dunque accettare una revisione dei rapporti concessori sul piano temporale, che rinunciare ad infrastrutture fondamentali per sostenere il Paese anche al di fuori dai mesi estivi.
Come il canarino in una miniera di carbone, i flussi turistici rappresentano un’anticipazione di ciò che accadrà nei prossimi anni in presenza di una crescita del traffico o dei consumi. Se augurarsi il contrario vorrebbe dire condannare il Paese alle sabbie della recessione, l’unico rimedio praticabile è assicurare la certezza del diritto, definendo un quadro regolatorio immutabile, a monte dei processi decisionali, per attirare i capitali richiesti. Solo così si potranno diluire nel tempo gli aumenti tariffari senza pregiudicare l’interesse dei tanto agognati investitori.