Ferdinando Adornato, lei è stato ed è uno dei più impegnati sostenitori del bipolarismo, se non addirittura dell’approdo bipartitico del sistema italiano. A trent’anni dalla prima storica vittoria del centrodestra, come giudica lo stato di salute della democrazia italiana? E a che punto siamo nel viaggio verso una moderna democrazia dell’alternanza?
Una magnifica illusione e ripetute amarissime delusioni hanno accompagnato gli ultimi decenni della nostra storia. Ed é forse giunto il momento di analizzarli senza veli sugli occhi. Ricordo com’era festosa l’Italia del 14 aprile 1993, quando quasi ventinove milioni di sì (l’82,7% dei votanti) cancellarono la legge elettorale del Senato, scegliendo il sistema maggioritario. Si trattava di un’Italia profondamente cambiata. I baby-boomers avevano messo su famiglia. Le antiche gerarchie sociali erano saltate. Nuove professioni e nuove arti si erano insediate nella comunità produttiva. I media cominciavano a dominare l’agenda pubblica. Gli stili di vita si ispiravano a nuove fantasie, individuali e di massa. La politica, invece…
La politica invece…
Sempre lì, immobile e immutabile. Lungo tutto il corso degli Ottanta avevamo sperato che potesse autoriformarsi. Eppure fece più in fretta l’Unione Sovietica a lasciare la scena del pianeta che l’Italia a voltare pagina. Alla fine era crollato il comunismo. La Nuova Storia aveva fatto ingresso in tutte le case rendendo patetici i vecchi arredamenti. Il tavolo “Camelot” alla Kennedy, l’angolo fumoir alla Castro, persino il poster di Dustin con Mrs. Robinson: tutto da buttare. La nuova colonna sonora partiva dalle corde di Bruce Spreengsteen, “Born to run”: nati per correre. Gli italiani smaniavano di partecipare alla corsa ma si sentivano intrappolati dalla politica. Breznev non c’era più, ma noi avevamo ancora Andreotti. Perciò l’Italia era festosa in quei giorni di primavera del 1993. Sentiva che niente sarebbe più stato come prima. C’ero anch’io nel comitato referendario. Ho contribuito attivamente a quella caotica “primavera italiana” che ha aperto l’era della Seconda Repubblica. Perciò, con crescente amarezza, da tempo mi chiedo: sognavamo di andare a Washington, a Parigi, a Londra, a Berlino. Perché invece abitiamo ancora gli incubi del Castello di Kafka? E’ inutile far finta di niente e comportarsi come l’”asin bigio” di Carducci che rosicchia tranquillo il suo cardo, senza capire che dopo quella primavera è tornato un freddo inverno politico. Basti pensare che per ben due volte in appena un decennio l’Italia ha dovuto far ricorso a governi tecnici, affidarsi prima a Monti e poi a Draghi, a causa della rediviva impotenza del proprio sistema politico.
Era forse sbagliato il sogno bipolare?
Personalmente, ero e resto bipolarista. Anzi, come lei ha ricordato, bipartitista. Sogno ancora di vivere in un Paese nel quale si confrontino due, al massimo tre soggetti politici affidabili. E resto convinto che prima o poi questo sogno si possa realizzare. Però: essere bipolaristi non significa essere ciechi negando l’evidenza che in Italia è stato messo in piedi un sistema lontano anni luce da un vero bipolarismo occidentale.
E’ così drastico il suo giudizio?
Lo dicono i fatti. Un autentico sistema bipolare assegna all’alternanza tra diversi partiti la competizione sui programmi di governo, coltivando però, ciascuno di essi – e con orgoglio – la condivisione dei valori comuni che danno corpo alla Nazione. Abbiamo vissuto qualcosa di simile? Neanche per sogno. Fin da subito è stato chiaro che il passato restava la nostra attualità. Impedire ai comunisti, evitare che i fascisti… Un imprevedibile roll-back storico ha deriso la nostra voglia di modernità. La competizione Destra-Sinistra, invece di frequentare la nuova governance di una società complessa, è diventata solo il pretesto per consumare vendette in nome del Novecento. Tutti i luoghi irrisolti della nostra storia, l’incompiutezza del Risorgimento, l’odio sociale tra Nord e Sud, la rimozione del consenso al fascismo, quella guerra civile che era stata la Resistenza, il presunto sovversivismo dello Stato: tutto ciò che non era stato mai veramente digerito dalla politica e dalla cultura è esploso nel discorso pubblico, con afflussi di bile ideologica, restituendo l’immagine di un popolo bambino, non già di una democrazia matura. Tutto ciò si è trascinato fino ad oggi. Perciò si può dire che il bipolarismo italiano si è configurato come la forma politica di una mai conclusa guerra civile ideologica tra gli italiani. Altro che alternanza nell’ambito di valori condivisi!
Ma come si è prodotta questa infelice eterogenesi dei fini?
Torniamo con la mente ai festosi giorni della “primavera italiana”: la koinè del movimento referendario, cui ho dato il mio contributo, aveva indicato nella riforma della legge elettorale il grimaldello per schiudere la porta di una matura democrazia occidentale. Ebbene, si deve ormai riconoscere autocriticamente che nella migliore delle ipotesi si trattava di un miraggio, nella peggiore di una sciocchezza. Non c’è legge elettorale che possa, di per sé, garantire la rigenerazione della politica. L’atto di nascita della Seconda Repubblica è stato dunque segnato da un “peccato originale”. E da allora, infatti, quando le cose non andavano, mettere le mani ripetutamente sulla legge elettorale è sempre sembrata la risposta più giusta.
Quale analisi, invece, avrebbe dovuto avere il sopravvento?
Un pensiero politico all’altezza della storia avrebbe dovuto capire che la “catastrofe sistemica” della Prima Repubblica era l’esito di processi più lontani, riconducibili – come Aldo Moro aveva intuito – alla trasformazione del rapporto Stato-cittadini e partiti-società indotta dai mutamenti degli anni Sessanta. La lunga consunzione degli insediamenti politici, e la loro traumatica scomparsa, avrebbe perciò dovuto consigliare un serio lavoro di ricostruzione. In primo luogo dei fondamenti identitari della politica, spiazzati dai mutamenti dell’assetto mondiale. Di conseguenza, il ripensamento della forma partito, per renderla adeguata alle mutate caratteristiche della comunicazione e della partecipazione. In terzo luogo dei meccanismi di selezione della classe dirigente, vista l’estinzione di tutte le tradizionali sedi di formazione. C’era bisogno di un’evoluzione del pensiero politico per progettare i nuovi partiti del XXI secolo: più leggeri ma non meno radicati, più veloci ma non meno democratici. Al contrario, nulla di questo è stato neanche tentato. Il campo è stato invece conquistato dalla chirurgia estetica. Lifting e marketing hanno imposto la strada più sbrigativa: quella del “meno-partito-possibile”, fino all’estremo del “partito liquido”. Quale che sia il giudizio sui vecchi soggetti politici nessuno (salvo Casaleggio) ha mai avuto il coraggio di teorizzare l’approdo di una democrazia senza partiti. Eppure è proprio questo il cammino che l’Italia della Seconda Repubblica ha cominciato a battere. Non a caso a dominare il discorso pubblico è stata l’antipolitica.
UNA CRISI CHE PARTE DA LONTANO
Antipolitica, vecchi partiti addio ma al loro posto…
Si è aperta l’epoca dei cartelli elettorali. La stessa parola “partito”, come si ricorderà, è diventata oggetto di demonizzazione, in favore di nomi pubblicitari o botanici più o meno efficaci. L’arrembante tesi post-moderna, della “contaminazione culturale”, nata per contestare gli insediamenti ideologici della Prima Repubblica, ha disinvoltamente cancellato l’esigenza identitaria di esibire forti e radicati valori diventando, in specie a sinistra, il lasciapassare per coalizioni distoniche sia nei linguaggi che nelle visioni del mondo. In secondo luogo, il rapporto diretto tra leader e media ha finito per marginalizzare la necessità dell’organizzazione democratica dei partiti. Lentamente, ma con la forza di uno sciame sismico, l’idea del cartello elettorale, con l’inevitabile corollario del partito liquido, ha contagiato il sistema dando vita a fragili contenitori costruiti intorno ad un’ipotesi di leader. Bipolarismo e bipartitismo, in realtà, non sono mai esistiti: in Italia ha funzionato solo il bileaderismo. Il risultato? La decadenza della qualità della rappresentanza parlamentare; la selezione delle classi dirigenti affidata a meccanismi casuali e oligarchici; l’assenza di sedi reali del dibattito politico e culturale, l’aggravarsi della crisi tra rappresentanza e territorio.
Ma anche i partiti hanno bisogno di leader…
Certo. L’esistenza di leader capaci di significative suggestioni simboliche è una necessità ineludibile per qualsiasi partito. Da noi, però, si è affermato un fenomeno assai anomalo: il leaderismo senza partiti. Di leader più o meno amati, da Pericle a Obama, sono piene le pagine della storia, dei sistemi democratici come di quelli totalitari. La domanda-chiave dell’ attuale tempo storico riguarda piuttosto il gioco di squadra, la produzione di governance attraverso la piena utilizzazione di una pluralità di competenze. Nell’era globale il target delle organizzazioni moderne, degli Stati come dei partiti, delle aziende come delle banche, non è l’esaltazione del solista, ma la messa in campo di una vincente rete di specialismi. Una classe dirigente nella quale la competenza di ciascuno valorizzi il progetto di tutti. C’è bisogno di partiti-squadra, non di partiti-leader.
TROPPA ATTENZIONE AI “CONTENITORI”
Ma non è che lei rimpiange l’era dei partiti ideologici…
Per nulla. Mi limito a constatare la circostanza che nessuno ha messo in campo alcuna ipotesi concreta su come si dovessero immaginare nuovi partiti non-ideologici. “Ci vuole un nuovo contenitore”: quante volte l’abbiamo sentito ripetere come un mantra? Contenitore: scatola, recipiente, involucro. Come dire: Dio ci guardi dai contenuti. Non è difficile comprendere il motivo di tale distorsione. Tramontate le ideologie, i grandi insediamenti politici non potevano più far conto sulle antiche certezze valoriali. L’era delle Grandi Identità era archiviata. Le antiche barricate della storia andavano oltrepassate. Cominciava l’era del Meticciato. La filosofia postmoderna era già in campo, pret-à-porter, a suggellare “il nuovo”. Quasi nessuno aveva letto Lyotard, ma i rotocalchi erano tutti molto chiari: l’indifferenza valoriale era la nuova Musa del tempo. Intendiamoci: nel supermarket di questo neoconformismo si nascondeva anche qualche verità: quella di cercare di non restare mai più succubi di ingannevoli “pensieri forti”. Ma la soluzione non poteva trovarsi nel rifugio del nichilismo soft del “pensiero debole”. Se una comunità politica dichiara di non credere più in niente, perché mai qualcuno dovrebbe credere in quella comunità politica? In tutti è prevalsa la paura che il confronto sui contenuti potesse incrinare la forza del contenitore. Così, tramontate le ideologie, sono evaporate anche le idee e i valori.
Non si può negare però che nella Seconda Repubblica l’alternanza sia stata in qualche modo garantita, Berlusconi e Prodi ne sono stati i principali alfieri…
Sulla carta è così. Ma in realtà il genio italiano è riuscito a trasformare persino il bipolarismo in un ennesimo “sistema chiuso”. Le reti del potere hanno cambiato l’ordine dei fattori, si sono coagulate intorno a due eserciti con due generali, ma il prodotto non è cambiato. Partiamo dall’esempio più evidente: in un normale sistema dell’alternanza il leader che perde le elezioni, di norma, non viene ricandidato alla premiership. Perciò, secondo autentica prassi bipolare, il Cavaliere non si sarebbe dovuto ripresentare alle politiche del 1996. Ma ammettiamo pure di volergli accreditare un bonus viste le comprensibili difficoltà del suo rodaggio politico. In ogni caso, non avrebbe dovuto candidarsi a quelle del 2006, dopo gli esiti non esaltanti dei suoi cinque anni a Palazzo Chigi. Macché. In realtà è sempre stato lui il candidato in tutte le elezioni. Speculare, pur se meno “robinsoniano” l’esempio di Prodi. Già nel 2006 non avrebbe dovuto essere più chiamato in causa. Dieci anni prima (sottolineo dieci!) la sua leadership si era mostrata effimera, tutt’altro che fonte di stabilità politica. In nessun altro Paese occidentale si è mai assistito a una simile, ostinata immutabilità delle leadership soprattutto dopo chiare sconfitte elettorali. Kohl e Thatcher sono stati assai longevi solo perché rivincevano le elezioni! Insomma, la parola “alternanza” non si addice a un sistema nel quale, per venti anni, governano le stesse persone pur in presenza di sconfitte elettorali. Persino il presidente degli Stati Uniti non resta in carica per più di otto anni. L’alternanza è la ratio di una democrazia che incentiva il ricambio dei governi e delle leadership, per rendere entrambi idonei a gestire i mutamenti del tempo storico. Si ricorderà come la caduta della Prima Repubblica sia stata accompagnata dalla diffusione di un imperativo categorico: facce nuove! E le facce nuove sono arrivate. Ma, per oltre vent’anni, sono rimaste sempre le stesse! Si potrebbe dunque dire che, dal regime democristiano alla Seconda Repubblica, l’Italia è passata dagli immutabili senza alternanza all’alternanza degli immutabili!
In sostanza, il sistema è rimasto rigido…
La Prima Repubblica esibiva un sistema rigido nelle regole perché non era possibile l’alternanza. Eppure flessibile nello schema di gioco perché la dialettica tra correnti dc e alleati – e persino il consociativismo – funzionavano come correzione, in tempo reale, del potere. Quel sistema finì per produrre un’instabilità cronica (un governo all’anno) fino a che non si rivelò inadeguato a gestire la modernità. La Seconda Repubblica, invece, ha messo in scena un sistema flessibile nelle regole perché era prevista l’alternanza. Eppure portatore di una rigidità, quasi militare, nello schema di gioco. Una volta che uno schieramento aveva conquistato il potere, non era più possibile alcuna “correzione”. Anche la Seconda Repubblica ha così finito per produrre dieci governi in quattordici anni. Non c’è dunque da stupirsi se il Paese si sia poi trovato impreparato di fronte ai recenti terremoti che hanno sconvolto l’Occidente. Il tempo della globalizzazione è segnato dalla velocità del mutamento, il nostro sistema, invece, soffre da decenni l’estrema rigidità del potere. Tant’è che, alla fine, come dicevo, è collassato, ricorrendo a ben due governi tecnici. Per di più sia Monti che Draghi non hanno goduto di una libera e convinta scelta delle parti. Sono nati “senza partiti”, perché sia il Pdl che il Pd erano riottosi a “governare insieme”. Altro che flessibilità! Tutto ciò ha determinato una sorta di “gaudioso mistero” del nostro bipolarismo. Ciascuno dei due schieramenti, ogni volta che il potere andava all’Altro, lo accusava di voler dar vita a un “regime” occupando Stato, Televisione, Editoria. La contestazione è partita a turno, sia da sinistra verso Berlusconi che da destra verso Prodi. E anche oggi verso Meloni. Ci si pensi: che sistema bipolare è quello che vive sulla reciproca accusa di voler dar vita a un “regime”? E’ una sorta di consociativismo bellico dal quale, per essere onesti, trae beneficio soprattutto la sinistra che pensa sempre di avere buon gioco nel richiamarsi ai valori “resistenziali”.
RITORNO ALLA POLITICA?
Non vede e non coltiva nessuna speranza di “ricostruzione” del sistema?
La vera domanda è se sia possibile un “ritorno della politica”, quella vera, con la P maiuscola, quella fatta di progetti e di valori. C’è da dire che molto dipende dalla sinistra che, in questi decenni, è stata la più colpita da una sorta di mutazione genetica. La necessità di tenere unite anime ideologiche e politiche assai diverse ha fatto emergere un inquietante fenomeno che si potrebbe definire qualunquismo del potere. Una sorta di indifferenza ai contenuti della propria strategia. Può sembrare paradossale, ma ciò che, da Guglielmo Giannini in poi, è stato contestato al popolo (il qualunquismo, appunto) sembra essere oggi diventata la cifra delle èlites di sinistra. Mi spiego: nel campo largo, che va dai cattolici moderati all’estrema sinistra, non esisteva e non esiste, com’è evidente, una vera identità comune. Si può essere, nello stesso tempo, a favore e contro la Nato. Per la libertà dell’Ucraina e simpatizzanti di Putin. Sostenitori ma anche detrattori della flessibilità del mercato. Amici dei gay-pride ma anche devoti alla Chiesa. Ci si può definire riformisti o antagonisti, liberali o comunisti senza mai temere di trovarsi fuori posto. Insomma, come il mitico Proteo, il Pd è stato capace di assumere forme assai diverse, di modo che la sua identità si è, alla fine, rivelata inafferrabile. L’interscambiabilità dei progetti e dei valori ha ormai assunto la fisionomia di una vera e propria tecnica di governo e il “qualunquismo del potere” quella di un vero e proprio instrumentum regni. Perciò l’immagine che il Pd restituisce è ormai quella di un puro “partito di potere”. Il suo vero problema sistemico è che un partito del genere può continuare a gestire tale “convivenza degli opposti” soltanto finché, appunto, permane al potere. In caso contrario, una volta all’opposizione, il suo castello di carta rischia di crollare.
E qual è la sua analisi del centrodestra?
Se Atene piange, Sparta non ride. La “grande decadenza” etico-politica che ha colpito, come uno tsunami, l’intero quadro della rappresentanza non poteva non condizionare anche l’accampamento di destra. Eppure il centrodestra è riuscito, in questi decenni, a mantenersi molto più unito, nei progetti e nei valori, dei propri rivali. Soprattutto a causa di due circostanze: la prima è che il quadro identitario della coalizione creata da Berlusconi è rimasto più o meno sempre lo stesso. Popolare nella politica continentale e internazionale (e quindi europeista e atlantico). Liberale nell’ispirazione economica e sociale. Conservatore nelle idee di società e di famiglia. Tutte le digressioni da questo tableau di valori, in genere proposte dalla Lega, non sono mai state tali da inficiarne la solidità. La seconda ragione è che il centrodestra, al contrario della sinistra, non ha mai ammainato la bandiera della riforma dello Stato in senso presidenzialista. In un tempo storico nel quale la funzione e l’efficacia dei Parlamenti appare sempre più labile, non è una questione di poco conto. Non si deve inoltre dimenticare che Berlusconi, almeno a parole, non ha mai abbandonato la visione bipolare, e persino bipartitica, della democrazia italiana. Pochi rammentano che egli arrivò persino a convocare una Costituente, con tanto di regole democratiche e carta dei valori, tra Forza Italia, An e Udc per dar vita a un solo grande “Partito della Libertà” sul modello americano. Poi preferì abbandonare qual progetto e ripiegare sulla seconda edizione di un partito carismatico salendo su qual famoso predellino a Milano. Un grave errore che pagò politicamente negli anni successivi. A partire dalla rottura con Fini. Si trattò di una grande occasione perduta per tutta la politica italiana. Eppure quella brace unitaria cova ancora sotto la cenere.
OCCASIONE-MELONI
Può ravvivarla Giorgia Meloni?
Non so se in politica esista un quadro astrale, ma è certo che nel cielo di Giorgia Meloni si stanno allineando tre pianeti che potrebbero consentirle di lasciare un segno decisivo nella storia del Paese. Il primo riguarda la natura stessa della sua leadership. E’ stato osservato come il suo governo sia il primo deciso dalle urne, dopo tanti anni. Ma c’è anche qualcosa di più. Se scorriamo la storia degli ultimi trent’anni, dal 1993 ad oggi, ci accorgiamo che soltanto per sette di questi l’Italia ha avuto premier espressi direttamente dalla politica. Prima D’Alema e Amato, poi Letta, Renzi e Gentiloni. Per i restanti ventitre anni, invece, da Ciampi a Berlusconi, passando per Dini e Prodi e arrivando a Conte, Monti e Draghi, a Palazzo Chigi sono arrivati sempre outsider extrapolitici. Un imprenditore che ha “inventato” un partito, oppure tecnici e manager “prestati” da grandi istituzioni bancarie e universitarie. Al di là dell’efficacia dei loro governi (alcuni hanno dato prova di vera eccellenza) non c’è dubbio che, dalla fine della Prima Repubblica, l’Italia abbia vissuto dentro una grande anomalia. Di fatto la politica non è stata più in grado di produrre premiership riconosciute e autorevoli.
Si può invertire questa rotta e tornare alla “normalità”? E’ sicuramente molto difficile: i partiti sono quasi tutti in crisi, i meccanismi della rappresentanza farraginosi e la formazione culturale ormai quasi inesistente. Ma la Meloni, grazie alla novità che rappresenta, ha un’occasione storica: se la sua esperienza di “premier di partito” avesse successo, romperebbe l’”incantesimo italiano”, e riabiliterebbe la politica. Diciamo che dopo Berlusconi, Meloni rappresenta la “seconda occasione” del centrodestra.
E da cosa dipende il suo successo?
Diciamo intanto che ha già vinto la battaglia della sua credibilità internazionale che era la principale sfida che le aveva lanciato la sinistra. Esame superato a pieni voti. Ma, per tornare alla metafora inziale ci sono altri due pianeti allineati sul destino del Paese: la riforma dell’assetto dello Stato e quella della giustizia. Come detto, la Seconda Repubblica non è mai nata davvero. E mai nascerà se non si modificherà profondamente il circuito cittadino-potere-decisione. L’esperienza storica suggerisce due modelli istituzionali adatti ad aprire davvero una Seconda Repubblica. Il primo è quello francese, il semipresidenzialismo. Il secondo è italiano: quello usato per l’elezione dei sindaci. In entrambi i casi, l’esecutivo acquista immediatamente forza e stabilità attraverso il suffragio popolare. Non è mai il “leader forte” a minacciare le democrazie. Semmai, la storia l’ha insegnato, è proprio la somma delle debolezze di politica e istituzioni a farle entrare in crisi. Ma, negli anni Novanta, è emersa anche una seconda anomalia: lo squilibrio tra potere legislativo e potere giudiziario, ormai diventato una sorta di “guerra dei trent’anni” nella quale sono caduti diversi governi, senza che mai si riuscisse a siglare alcuna pace. La posta in gioco è quella di disegnare una riforma complessiva che produca un “nuovo equilibrio” tra i poteri della Repubblica. In conclusione: riabilitazione della politica, nuovo assetto dello Stato e riforma della giustizia: ecco i tre pianeti allineati nel cielo di Giorgia Meloni. Si tratta certo di compiti gravosi, da far tremare le vene dei polsi. E il percorso sarà disseminato di trappole, non tutte e non solo dall’opposizione. Ma sembra che, per fortuna, Giorgia Meloni ne sia consapevole.
REFERENDUM PROBABILE (E DECISIVO)
Entri allora nel merito della polemica sul premierato…
Dal 1948 ad oggi, cioè in 75 anni, l’Italia ha cambiato 68 governi. In media uno ogni 400 giorni! Se poi si pensa che qualcuno è rimasto in carica anche per tre anni il calcolo diventa ancora più impietoso. Difficile, dunque, sostenere che non sia necessaria una riforma che inverta una rotta pericolosa per la tenuta del sistema. Prova ne sia, come detto, il reiterato ricorso a governi tecnici e, soprattutto, l’ultima paradossale legislatura nella quale si è passati, disinvoltamente, dal governo gialloverde (Lega e 5stelle) a quello giallorosso (5 stelle e Pd). A fronte di questo black out sistemico ogni riforma (Berlusconi, D’Alema, Renzi) orientata a dare maggiore stabilità al Paese è stata ogni volta bocciata. Quasi sempre a causa dei medesimi veti ideologici che si ripropongono oggi contro il premierato. Tornano a risuonare i soliti allarmi resistenziali contro la dittatura dell’”uomo solo al comando” conditi in questo caso anche dalla polemica sulla riduzione dei poteri del Quirinale. Poco importa che, in realtà, la lesione sia minima. E’ previsto infatti che il Capo dello Stato mantenga inalterato il potere di nomina e revoca dei ministri. E in ogni caso: che il premier venga o no eletto direttamente, potrebbe mai il Quirinale non rispettare un’indicazione popolare? Per capirci: avrebbe mai potuto Mattarella negare l’incarico alla Meloni dopo le ultime elezioni? In buona sostanza, dunque, il Quirinale resterebbe l’arbitro del sistema, come la Costituzione vuole. Solo, non vigilerebbe più sul disordinato gioco parlamentare: ma sul rispetto del voto popolare. In un Paese civile, prendendo atto che il governo ha rinunciato alla “sua” riforma (quella sul modello francese) ed è disposto al dialogo, l’opposizione discuterebbe nel dettaglio, con animo sereno, il testo proposto per arrivare a un risultato migliore e condiviso. Macché. Prevale ancora una volta la “guerra dei bottoni” delle contrapposizioni ideologiche. E alla fine, ancora una volta, sarà il referendum a decidere. Speriamo che stavolta vada meglio delle altre.
Qualcuno suggerisce alla Meloni di allargare i confini del suo partito, di non far conto sempre e solo sulle stesse persone…
Non sono tra coloro che le consigliano di “spostarsi al centro”, cercando di diventare la nuova Dc. Non vedo bene neanche cosa potrebbe significare concretamente. Nuovi consensi si conquistano governando bene, non osservando astratte leggi di posizionamento politico. Penso, piuttosto, una cosa diversa: stabilito che il suo obiettivo è quello di costruire un partito conservatore e riformista, credo che Giorgia Meloni debba al più presto dar vita a un intenso lavoro culturale per elaborare con maggiore precisione il volto identitario e progettuale di tale partito. Ecco, per compiere questo lavoro, che dovrebbe essere ultimato per le prossime politiche, può e deve certo coinvolgere anche energie esterne allo “zoccolo duro” di Fratelli d’Italia. Poi quello che deve accadere, accadrà. Passa anche per un lavoro di questo genere che, in era social, molti considerano ormai desueto, la “riabilitazione” della politica. Lei parlava di speranza. Bene, io spero davvero che Giorgia Meloni, dopo la fine dell’era Berlusconi, non disperda questa “seconda occasione”.
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Ferdinando Adornato, giornalista e saggista, editorialista del Messaggero, è stato parlamentare e, dal 2001 al 2006, presidente della Commissione Cultura della Camera. E’ presidente della Fondazione liberal. Ha fondato liberal del quale è stato direttore dal 1995 al 2013. Ha da poco pubblicato per Rubbettino assieme a Monsignor Rino Fisichella “ La libertà che cambia, dialoghi sul destino dell’Occidente”.