Editoriale, Politica

Una lunghissima transizione

L’Italia che andò al voto il 27 marzo del 1994 si trovò dinnanzi a un sistema dei partiti quasi completamente nuovo e lo fece con un sistema elettorale per le elezioni politiche al suo primo “test”. Il combinato disposto della “fine della storia” – ovvero, la caduta del muro di Berlino nel 1989 – e dell’inchiesta “Mani pulite” (nel 1992), fece sì che la nostra fu la sola democrazia a ritrovarsi praticamente priva di un sistema dei partiti strutturato, in una fase storica turbolenta e complessa (erano anche gli anni con cui ci misurammo per la prima volta coi “parametri di Maastricht”) che inaugurava l’era cosiddetta “post-ideologica”.

Tangentopoli fu anche l’occasione per provare a far cambiare marcia al sistema politico italiano, fino ad allora caratterizzato da una democrazia “bloccata”, dal “bipartitismo imperfetto” (DC-PCI), dalla partitocrazia e da governi di coalizione fragili e inefficaci. Arrivammo al ’94 con una durata media dei governi di 8 mesi e con un debito pubblico letteralmente raddoppiato negli anni del Pentapartito. Sul banco degli imputati finirono, simbolicamente, anche il sistema proporzionale e il voto di preferenza, accusati di aver favorito la frammentazione partitica (il primo) e il sistema corruttivo (il secondo), con pratiche diffuse di voto di scambio.
L’Italia del 1992-94, dunque, dovette politicamente reinventarsi, sulle macerie di un sistema collaudato ma ormai ritenuto obsoleto e fallace e guardando avanti, nella direzione di un rendimento istituzionale più performante e di un rapporto tra elettori ed eletti del tutto nuovo.

Se fino al triennio ’89-’92, infatti, il collante tra cittadini e rappresentanti – e la scorciatoia cognitiva della scelta di voto – era stato di tipo ideologico, da quel momento, improvvisamente, le cose cambiarono profondamente. Il primo a intuire questo mutamento fu Silvio Berlusconi.
Il 26 gennaio del 1994, il Cavaliere scioglie la riserva sulla sua decisione di prendere parte attiva alla vita politica italiana e registra l’ormai celebre discorso della discesa in campo. Un testo, che solo ex post, col tempo, sarà rivelatore delle grandi capacità di analisi di scenario da parte di Berlusconi. Il discorso dura oltre nove minuti, ma il suo significato politico è tutto racchiuso nel primo minuto, un incipit molto chiaro e ormai divenuto celebre per la sua capacità di intercettare lo “spirito del tempo”:

L’Italia è il paese che amo. Qui ho le mie radici, le mie speranze, i miei orizzonti. Qui ho imparato da mio padre e dalla vita il mio mestiere di imprenditore. Qui ho anche appreso la passione per la libertà. Ho scelto di scendere in campo e di occuparmi della cosa pubblica, perché non voglio vivere in un paese illiberale, governato da forze immature e da uomini legati a doppio filo a un passato politicamente ed economicamente fallimentare. Per poter compiere questa nuova scelta di vita ho rassegnato oggi stesso le mie dimissioni da ogni carica sociale nel gruppo che ho fondato. Rinuncio dunque al mio ruolo di editore e di imprenditore, per mettere la mia esperienza e tutto il mio impegno a disposizione di una battaglia in cui credo con assoluta convinzione e con la più grande fermezza.

Con questo minuto di personal storytelling Berlusconi anticipa una tendenza che sarà molto italiana da quel momento in poi. Capisce, cioè, che nell’era post-ideologica e con la televisione diventato ormai il mass medium dominante, la politica sarebbe diventata sempre più personalizzata e leaderizzata. Il leader, cioè, si accingeva a sostituire il l’ideologia del partito come scorciatoia cognitiva degli elettori. Tra il 1993 e il 1995, l’Italia passò anche alle prime elezioni dirette dei sindaci e dei presidenti di province e di regioni. E per le politiche, il sistema elettorale misto a impianto maggioritario, inaugurato nel 1994, dava ai candidati uninominali una nuova “forza personale” rispetto al passato. Era un’Italia che guardava al modello Westminster di democrazia, sognando – invano – di risvegliarsi bipartitica dall’oggi al domani, solo grazie alle alchimie istituzionali, senza cioè fare i conti con la variabile dei partiti che erano implosi e cercavano faticosamente un nuovo equilibrio. Il bipartitismo ovviamente non arrivò. Il sistema partitico frammentato che ci aveva accompagnato nella Prima Repubblica non scomparve solo a causa di dosi di maggioritario e di elezioni dirette dei vertici istituzionali sub-statuali.

Ci si avvicinò solo alle elezioni politiche del 2008, quando il PD “a vocazione maggioritaria” di Veltroni costrinse il centrodestra a imitare la fusione a freddo tra DS e Margherita, unendo le liste di Forza Italia e di Alleanza Nazionale nel Popolo delle libertà. Sappiamo bene come è andata a finire quell’esperienza. E sappiamo bene anche che la frammentazione partitica continua a costituire un segno distintivo del nostro paese (non solo del nostro, sia chiaro).

È anche per questo che la cosiddetta Seconda Repubblica è stata tempestata di tentativi di riforma della forma di governo, tutti finiti male. Alcuni mai nati, pensiamo alla Bicamerale di D’Alema o al tavolo dei saggi guidato da Quagliariello, altri sepolti dal voto popolare, con i referendum del 2006 e del 2016.

E dunque, a 30 anni da quel cambio di passo, ci ritroviamo ancora in un limbo, per certi versi anche peggiorato dalla logica tripolare che ha sostituito quella bipolare, nell’ultimo decennio, dapprima con i 5 Stelle in versione “oltre la destra e la sinistra” e oggi con Azione e Italia Viva. E con oltre 10 anni di governi sorretti da maggioranze non derivanti dal voto popolare, fino al 25 settembre del 2022.

Proprio il voto di un anno e mezzo fa ha, tuttavia, aperto la strada a una nuova possibilità di chiudere quella transizione, per via della prospettiva di un governo di legislatura. Così nasce la riforma del premierato e la volontà politica di portarla avanti fino all’approvazione. Non era l’unica strada percorribile tra le ipotesi di forme di governo, ma si situa in piena continuità con i sogni di 30 anni fa: una riduzione della frammentazione partitica, governi stabili e maggioranze che derivano dal voto degli elettori, cui si aggiunge l’elezione diretta del capo dell’esecutivo. Un sogno che era implicito nel discorso della discesa in campo di Berlusconi e che in qualche modo ha accompagnato 30 anni di idee e di proposte di riforma del centrodestra. Sarà la volta buona?

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