Se trent’anni vi sembran pochi, provate ad osservare le enormi difficoltà in cui tutt’ora si dibatte il centrosinistra… Compie trent’anni la coalizione di centrodestra con le elezioni di quel 27 marzo 1994 che, con la fine della prima Repubblica sancirono (in un frettoloso abbozzo di bipolarismo) la prima chiara e netta vittoria di una parte politica su un’altra. Per comprendere la portata storica di quella vittoria bisogna mettere in moto la macchina del tempo e rivivere la pazza corsa intrapresa da Silvio Berlusconi, in compagia di quanti gli prestarono ascolto e decisero di seguirlo.
All’inizio non ci credeva praticamente nessuno. Le elezioni per i sindaci di grandi città, con la nuova legge elettorale, avevano premiato i candidati della sinistra. Con l’eccezione di MIlano, col sindaco leghista Formentini. E (attenzione!) con la sconfitta “vittoriosa” di Gianfranco Fini a Roma, battuto da Francesco Rutelli al ballottaggio, ma in grado di raccogliere un 47 per cento di voti nella Capitale; un risultato “storico” che significava l’ingresso della destra missina (non ancora Alleanza nazionale) nell’agone della politica quale forza centrale, potenzialmente pronta alla prova del governo, dopo decenni di emarginazione.
Il capolavoro fu compiuto dal Cavaliere: interpretò magistralmente la legge elettorale Mattarellum e riuscì a costruire due distinte alleanze: al nord con la Lega di Bosssi, al centro-sud con il MSI di Fini. Si aggregarono alla compagnia alcuni dirigenti post-Dc (Casini, Mastella, Follini) e arrivò il 27 marzo. La “gioiosa macchina da guerra” guidata dal leader del PDS post-comunista Achille Occhetto fu battuta nettamente, il centro con Partito popolare (Martinazzoli alleato con Segni) divenne residuale.
Era cambiato tutto. L’Italia sceglieva il bipolarismo – con evidenti limiti e contraddizioni – e lo avrebbe ribadito in ogni occasione. Nel 1996 e nel 2006 premiando l’eterogenea coalizione guidata da Romano Prodi e lo stesso centrodestra nel 2002 e nel 2008, ma riconoscendosi nella proposta del centrodestra ogni qualvolta lo schieramento riuscì va a mostrarsi unito e credibile.
Molta acqua in questo trentennio è passata sotto i ponti, ma quell’alleanza fra le tre forze politiche che si trovarono assieme le ‘94 ha sempre retto e spesso vinto, con l’unica eccezione delle fasi di passaggio, quando le leadership di Berlusconi e di Fini (più o meno contemporaneamente) entrarono in crisi.
C’è un particolare non irrilevante che a tutt’oggi ribadisce – quasi plasticamente – la differenza tra i due schieramenti in campo. Nel centrodestra si è sempre considerato meritevole di guidare lo schieramento il leader del partito con maggiori consensi: allora Berlusconi, poi Salvini, ora Meloni. Sul versante opposto, anche al netto delle differenze programmatiche (addirittura incolmabili in settori rilevantissimi) non si è più potuto/voluto individuare un federatore che dopo Prodi riuscisse nell’impresa facendo tesoro degli errori e delle contraddizioni cui andò incontro prima l’Ulivo (199672001) poi l’Unione 8200672008).
In politica nulla è mai immobile e proprio la storia degli ultimi decenni insegna che, mutata la forma-partito in senso molto leaderistico, lo stesso consenso si è fatto mutevole, limitando temporalmente e accorciandole, le stagioni dominate da questa o quella leadership. Si pensi a Matteo Renzi, a Matteo Salvini o alla parabola dei Cinque Stelle, in pochi anni passati dalla rivoluzione grillina del “vaffa” alla pochette dell’avvocato Conte che( nonostante le dimostrate capacità camaleontiche) non possiede certo un carisma barricadiero.
L’assetto e i rapporti di forza sanciti dei elettori nel settembre ‘22 (ora attesi alla verifica del voto europeo di giugno) hanno aperto una fase nuova del bipolarismo e del centrodestra.
Insisto sul bipolarismo perché considero questa evoluzione della dinamica politica davvero decisiva per consolidare il sistema democratico e per offrire alla valutazione degli elettori partiti-contenitori di idee e di valori, di proposte e di programmi tra cui scegliere, non solo per chi votare ma sopratutto quello con cui schierarsi, partecipare, militare. La direzione di marcia non può che essere questa, altrimenti non si potrebbero spiegare il rifiuto e il rifugio di quasi metà elettorato nell’astensionismo.
Molti italiani si sono allontanati dalla politica per colpa dei politici e del ripetersi di rappresentazioni deprimenti che hanno svilito il Parlamento e ribadito l’italiaca ricorrente tentazione al trasformismo. Ci sono stati anche ribaltoni nell’ultimo trentennio, con la Lega nord bossiana ribattezzata “costola della sinistra” da un D’Alema alla ricerca di scorciatoie per sconfessare le svelte degli elettori. Abbiano memorizzzato cognoni altrimenti dimenticabili di parlamentari – da Razzi a Turigliatto – che salvarono (o provarono a salvare) col loro sostegno governi agonizzanti. Come non bastasse, proprio nella stagione dell’ascesa grillina si è registrato il numero record di parlamentari transfughi, voltagabbana e saltafossi.
Anche, forse soprattutto per questo, il compito che spetta all’attuale governo e alla ribadita maggioranza di centrodestra è quello di rilanciare il valore della politica, rivitalizzarne l’anima per renderla più attrattiva, culturalmente attrezzata, moralmente presentabile, concretamente competente. Questa maggioranza ha la missione di realizzare quelle riforme che le stagioni berlusconiane hanno potuto solo avviare, talvolta semplicemente auspicare. La situazione oggettiva è difficile, i conti pubblici ereditati sono allarmanti, i vincoli europei stringenti come non mai, ma il vantaggio di non avere a contrasto un’opposizione compatta e agguerrita deve essere utilizzato per procedere speditamente lungo la strada delle riforme. Perché alla fine dell’attuale legislatura si sarà giudicati per il lavoro fatto, per gli impegni mantenuti, per le riforme portate a termine.