Politica

Le crisi in atto e il G7 “italiano”

Sul terreno geo-politico, ma anche del confronto tra democrazie e autocrazie,  il 2024 si è aperto nel segno di una perdurante pluralità di crisi  (le cosiddette “poli-crisi”) che porranno a dura prova le diplomazie occidentali impegnate a disinnescarle con sforzi certo lodevoli ma con risultati non sempre all’altezza delle aspettative.

Sono crisi, per non citarne che alcune, che vanno dal serrato confronto in atto nell’Indo-Pacifico tra Cina e Stati Uniti con al centro la libertà di navigazione e il futuro della democrazia taiwanese ( la cui difesa non può non costituire una priorità per i nostri Paesi), all’irrisolta  questione ucraina  – con uno scontro tra l’aggressore russo e Kiyv che ha assunto ormai i caratteri di una vera e propria guerra di attrito – alla vicenda di Gaza con le forze israeliane impegnate nel tentativo di sradicare dalla Striscia, una volta per tutte, Hamas e movimenti affiliati e con un futuro per la Striscia (ma anche per la Cisgiordania e per lo “status” di Gerusalemme) tutto da definire.

Su tutti questi versanti il nostro Paese e il nostro governo (che sull’insieme dei dossier in parola si sta muovendo in maniera impeccabile) avrà modo e motivo di far sentire la propria voce in ambito europeo e alleato e, per molti versi, di indirizzare il dibattito. Potrà farlo – oltre che grazie alla credibilità acquisita sul piano internazionale dalla Presidente Meloni e dal suo esecutivo – in virtù della presidenza del G7 che l’Italia esercita dal primo gennaio di questo anno.

Ciò offrirà al nostro Paese l’opportunità di apportare per tutto il 2024 un contributo qualificante alla formazione degli indirizzi e delle scelte scelte delle principali economie occidentali (Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia, Regno Unito e Stati Uniti) su una varietà  di tematiche: da quelle legate al cambiamento climatico e all’impatto trasversale dell’Intelligenza Artificiale al rapporto con l’Africa e il cosiddetto Sud Globale, a partire dal ruolo dell’Italia nel  Mediterraneo allargato.

La presidenza del G7 ci consentirà in particolare (a partire dalla riunione dei ministri degli Esteri del G7 in programma a Capri dal 17 al 19 aprile in vista del vertice dei Capi di Stato e Governo a Borgo Egnazia in Puglia dal  13 al 15 giugno) di dare sostanza a quel nuovo, e non predatorio, approccio nei confronti dell’Africa caldeggiato dal nostro governo anche a livello europeo.

E’ un approccio che troverà espressione, a livello nazionale, col Piano Mattei di prossima presentazione ma il cui significato e obiettivi sono già stati a più riprese anticipati da Giorgia Meloni e dal Vice Presidente e Ministro Tajani. Non a caso proprio lo scorso anno l’Unione Africana è diventata un membro permanente del G20 grazie anche all’impulso italiano.

Giorgia Meloni si sta accuratamente preparando a esercitare la presidenza del G7, diventato ormai per così dire la “cabina di regia “ dell’Occidente globale. Lo sta facendo anche attraverso una serie di incontri internazionali ad alto livello che le permetteranno di aver approfonditi bilaterali sui principali temi geo-politici con i suoi omologhi di Paesi cruciali  non necessariamente membri del G7.

È in questo quadro che rientra, ad esempio,  la imminente visita in Turchia (la prima dal suo insediamento) per un colloquio a Istanbul con un interlocutore difficile ma imprescindibile, in primis sui temi medio-orientali, quale il Presidente Erdogan e quella di poco successiva a Tokio – probabilmente il 4 febbraio – per un incontro col suo omologo giapponese Fumio Kishida che segnerà anche il passaggio di consegne ufficiale tra i due paesi alla guida del G7.

 

Dalle due guerre al caso Taiwan

Non minore rilievo rivestiranno all’interno dell’ agenda della nostra  Presidenza laltri due dossier : 1)  la questione ucraina (e il nostro governo ha già fatto sapere di volere continuare a fare del G7, sempre in  raccordo con la NATO e la UE,  un forum di perdurante sostegno a un’ Ucraina   più che mai confrontata all’aggressione russa); 2) l’intricata vicenda  medio-orientale tornata di prepotente attualità dopo la feroce incursione di Hamas lo scorso 7 ottobre nel sud di Israele.

Il G7 ovviamente non ha poteri risolutivi in merito ma i Paesi membri hanno tutto l’interesse a cercare soluzioni per raffreddare la crisi nel più breve tempo possibile , consapevoli che solo un soluzione negoziata – come ripetutamente fatto valere dal nostro Governo – può porre le basi per una speranza di convivenza pacifica.

 

Su tale sfondo – e con riserva di tornare in altra occasione sulla guerra russo-ucraina e sulla questione Taiwan ( anche alla luce delle ricadute che sugli sviluppi della stessa non mancherà di produrre l’affermazione  dell’ ”indipendentista”  William Lai in occasione delle elezioni presidenziali nell’isola) – può essere utile in questa sede tentare di fare il punto sulla crisi di Gaza. Con riferimento, da un lato, alla prosecuzione delle operazioni sul terreno; dall’altro , alle  dinamiche che quanto sta avvenendo ha innescato a livello regionale.

Circa il primo aspetto appare evidente che gli appelli soprattutto americani (ma non solo) alla dirigenza israeliana a limitare nella massima misura possibile il numero delle vittime civili nell’azione di legittima difesa dalla minaccia terrorista  hanno, a oggi, solo in parte sortito gli effetti sperati nonostante la recente ulteriore tornata di incontri avuti da Blinken in Israele tra cui quello con lo stesso Netanyahu.

Non è detto però che questo non possa prossimamente avvenire, soprattutto nel nord della Striscia (dove le capacità operative di Hamas sono state considerevolmente depotenziate) con la sostituzione di azioni mirate di eliminazione dei leader del movimento terrorista – alcune peraltro già avvenute con successo – ai bombardamenti a tappeto tipici della prima fase della controffensiva israeliana.

E’ chiaro che da sviluppi in tal senso trarrebbe beneficio non solo la duramente provata popolazione civile palestinese nella Striscia ma anche l’immagine, a livello  internazionale, dello Stato ebraico: dato quest’ultimo che potrebbe rivelarsi decisivo allorché si tratterà, ad esempio, di coinvolgere nella definizione del futuro di quel territorio , ma forse anche nella gestione securitaria e amministrative di una Striscia finalmente sottratta al controllo di Hamas, gli Stati arabi moderati e forse ( oltre agli USA) altri soggetti quali l’Unione Europea.

Tali considerazioni (oltre alle pressioni americane in tal senso) non sono verosimilmente estranee all’anticipazione rilasciata la scorsa settimana  al “Wall Street Journal” dal Ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant secondo le quali nella Striscia l’offensiva sta per cambiare passo, anche se solo nelle zone dove Hamas è già stata colpita duramente . Secondo quanto indicato da Gallant la “fase delle manovre intense “ si trasformerà infatti in “differenti tipi di operazioni speciali”

In pratica gli attacchi massicci con bombardamenti, carri armati e artiglieria dovrebbero essere a breve  sostituiti da azioni mirate contro le postazioni jihadiste , cercando  nella massima misura possibile di limitare i danni ai civili palestinesi.

Da un approccio più mirato delle IDF nel perseguimento dei propri obiettivi strategici potrebbe inoltre scaturire (nei tempi che si riveleranno necessari; e dunque con ogni probabilità non a breve) un relativo riassorbimento della tensione in Cisgiordania. Area nella quale – stando recenti sondaggi di autorevoli centri di ricerca – il sostegno ad Hamas da parte della locale popolazione palestinese sarebbe, dall’inizio delle operazioni israeliane nella Striscia a oggi, in  crescita .

È chiaro che un recupero di credibilità dell’ Autorità. Nazionale Palestinese/ANP nella West Bank (mentre il suo prestigio sembra  paradossalmente in  ascesa nella Striscia) ne accrescerebbe non poco il peso negoziale allorché si tratterà di ragionare con Israele e con gli altri soggetti regionali coinvolti a quali assetti futuri assetti promuovere – una volta auspicabilmente neutralizzata la variabile Hamas/Jihad Islamica – tanto nella Striscia quanto in Cisgiordania.

Il negoziato resterebbe naturalmente complesso con ostacoli a livello sia regionale che locale difficili da superare: a cominciare da quello del destino da riservare ai circa 500.000 coloni, e relativi insediamenti, in Cisgiordania  cui vanno aggiunti i più di 200.000 coloni a Gerusalemme est.

Ma un’ANP che si presentasse al tavolo con una ritrovata credibilità non potrebbe che essere di aiuto nel mettere a fuoco e dar  voce a istanze palestinesi sottratte al condizionamento delle frange più radicali . Frange che – vi è motivo di credere – continueranno a operare per il perseguimento dei propri traguardi anche nel caso di una messa fuori gioco, almeno a livello militare, di Hamas e alleati.

L’obiettivo cui da parte occidentale si continua a guardare in via prioritaria – fatti salvi i meccanismi che andranno comunque individuati per una gestione transitoria della Striscia nel post- Hamas – è quello di una soluzione, per quanto difficile e secondo taluni ormai superata dai fatti,  basata sulla formula dei “due popoli e due Stati”. La stessa – nella quale si riconosce anche il nostro Governo che si sta lodevolmente adoperando a tal fine – cui ha fatto riferimento il Pontefice nel suo recente discorso al Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede

Così Papa Francesco nella allocuzione di cui sopra: “Auspico che la Comunità internazionale percorra  con determinazione la soluzione dei due Stati , uno israeliano e uno palestinese, come pure di uno statuto speciale internazionale garantito per la città di Gerusalemme , affinché  israeliani e palestinesi possano finalmente vivere in pace e sicurezza”.

 

Crisi di Gaza e fattore Iran

Gli sviluppi di questi ultimi giorni (dall’uccisione da parte israeliana nella  periferia sud di Beirut, feudo di Hezbollah, del numero due di Hamas Saleh Arouri all’eliminazione, sempre per mano israeliana, di Wissam al Tawil comandante della unità di élite di Hezbollah all’attacco, questa volta da parte di Hezbollah,  con razzi lanciati dal Libano meridionale contro una base militare israeliana nel nord del paese)  confermano, ove mai ve ne fosse bisogno, che resta concreto il rischio di una regionalizzazione del confronto; regionalizzazione che secondo taluni sarebbe di fatto già in atto, anche se per il momento contenuta nelle sue dimensioni.

Nella stessa direzione di possibile regionalizzazione va il fatto, di portata strategica, che più di recente dallo Yemen i ribelli Houthi (filo- iraniani) hanno colpito con missili e droni decine di navi nel Mar Rosso, inducendo sempre più compagnie a sospendere il transito attraverso lo Stretto di Bab el Mandeb, da cui passa il 12% del commercio globale, e a circumnavigare invece l’Africa con correlato forte allungamento della rotta e aumento dei costi delle merci.

Una situazione, dunque, densa di incognite  (col rischio concreto di derive non controllabili) che trova nel duro confronto tra Israele e l’Iran degli Ayatollah il suo punto  focale.

Significative  in proposito  le parole che proprio all’Iran  rivolge sempre Yoav Gallant nel già citato colloquio con il “Wall Street Journal”: “Dovremmo permettere a Hamas, a Hezbollah e all’Iran di decidere come dobbiamo vivere in Israele? Non lo accettiamo. Noi stiamo combattendo contro un’alleanza, non contro un singolo nemico”.

L’Iran, aggiunge Gallant con formula rivelatrice dei timori di Tel Aviv, “sta costruendo una potenza militare intorno a noi, preparandosi a utilizzarla”. E non manca, nello stesso spirito,  un suo duro avvertimento alla principale pedina dell’Iran nella regione, Hezbollah: “Hanno visto cosa sta accadendo a Gaza, sanno che possiamo fare la stessa cosa a Beirut”.

A tale quadro di per sé già inquietante si aggiungono i giustificati timori di Israele e dei suoi alleati derivanti dall’accelerazione del programma di arricchimento dell’uranio in Iran, che sarebbe ormai vicino alla soglia per produrre la bomba.

La conferma è arrivata a fine dicembre dagli ispettori internazionali. Secondo stime di “intelligence” citate dal New York Times in un suo recente articolo sulla materia, l’Iran avrebbe oggi il carburante per almeno tre bombe atomiche; tutto questo nel momento più difficile nei rapporti dell’Iran con l’occidente dalla presa dell’Ambasciata americana nel 1979.

Il quadro è poi ulteriormente complicato dal fatto che mentre ai tempi dell’accordo sul nucleare di epoca Obama (2015) Cina e Russia appoggiavano gli Stati Uniti nel tentativo di contrastare le ambizioni nucleari degli Ayatollah, oggi la Russia importa droni Shaded dall’Iran per la guerra in Ucraina e sarebbe, si dice, in procinto di ricevere anche missili a corto raggio.

E certo non aiuta la notizia , diffusa dalle Forze di Difesa israeliane /IDF, che Hamas avrebbe appreso proprio dagli iraniani le tecniche di sviluppo dei missili da crociera.

In un contesto così denso di condizionamenti della più diversa natura è ovviamente difficile formulare previsioni attendibili sulle possibilità di “regionalizzazione” del conflitto in atto  nella Striscia di Gaza e di quello, correlato, che vede confrontarsi sinora ,senza che si sia superata la soglia di guardia , Israele e Hezbollah.

Le previsioni della maggioranza degli analisti sono nel senso che né l’Iran né gli Stati Uniti (con un  Biden impegnato in una difficile campagna per la rielezione) abbiano allo stato interesse a un confronto diretto. Tutto potrebbe però anche repentinamente cambiare per esempio nel caso di massimi attacchi di Hezbollah contro obiettivi civili e/o militari israeliani o, ancora, un ulteriore avvicinamento dell’Iran al livello di soglia per la produzione dell’atomica.

Scenario quest’ultimo che figure di vertice della dirigenza dello Stato ebraico  (anche in ambienti non riconducibili al partito Likud ) hanno a più riprese dichiarato di ritenere inaccettabile in quanto “minaccia esistenziale” per Israele. Non si può infatti escludere, almeno in via di principio, che con un Iran alla soglia dell’atomica  (un Iran pericoloso e giustamente definito da Federico Rampini in un suo recente editoriale “ la cabina di regia del caos “) Israele possa essere tentato di giocare d’anticipo con un attacco mirato agli impianti nucleari di quel Paese .

Difficilmente, si osserva, gli Stati Uniti potrebbero esimersi dal prestare sostegno all’alleato israeliano a fronte della prevedibile ritorsione iraniana. A quel punto un allargamento all’intera regione del conflitto in atto diverrebbe scenario pressoché inevitabile con una probabile entrata in campo anche della Federazione Russa oggi, come sopra accennato, legata al cinico regime iraniano – maestro delle “guerre per procura” – da una molteplicità di interessi.

Ovviamente tutto andrà fatto per scongiurare il rischio che tali prospettive prendano corpo e anche sotto tale profilo il 2024 potrebbe rivelarsi anno cruciale. Un anno nel quale il nostro governo e la nostra diplomazia saranno chiamati a dare il meglio di sé tanto in ambito bilaterale, europeo ed atlantico quanto nella veste di Presidenza in esercizio del G7.

Come sopra accennato le premesse perché ciò possa avvenire – e questo è unanime auspicio della nostra Fondazione e dei lettori di “Charta Minuta”- ci sono tutte .

 

Essenziale il dialogo con gli USA

 

Ne è prova, da ultimo, la  sintonia registratasi tra Italia e Stati Uniti su tutti i principali dossier internazionali -nel segno di una condivisa volontà di difesa dei valori democratici  e di ritorno a un ordine internazionale basato sulle regole – nel corso della lunga conversazione telefonica che il Ministro Tajani ha avuto con l’omologo Blinken lo scorso 2 gennaio in occasione dell’assunzione, da parte italiana, appunto della  presidenza del G7.

Ulteriore conferma del costruttivo dialogo che, anche quale presidenza in esercizio del G7, stiamo intrattenendo con gli Stati Uniti è offerta dagli assidui contatti in essere tra lo stesso Blinken e Tajani con riferimento alla risposta da fornire ai più recenti attacchi da parte degli Houthi al naviglio commerciale diretto verso il Mediterraneo attraverso il Mar Rosso.

Da parte italiana, come ribadito dal nostro Ministro degli Esteri, si continua a lavorare per una “missione europea” di protezione del nostro traffico mercantile con proprie regole di ingaggio. Ma non si ritiene sussistano, almeno al momento, le condizioni per una nostra partecipazione a un intervento militare contro le basi della milizia sciita nello Yemen, come quello che ha trovato espressione lo scorso nei raid mirati anglo-americani contro le basi  in questione .

In sostanza il nostro governo – in doveroso raccordo su tutti i dossier geo-politici con il Quirinale- è convinto che la diplomazia, nella migliore accezione del termine, resti elemento centrale e decisivo per scongiurare una escalation della situazione, già molto critica, nella regione. E che una concertazione con il nostro principale alleato d’oltre oceano sia fondamentale a tale fine, pur nella legittima diversità di posizioni su taluni specifici aspetti ma con una convergenza sugli obiettivi strategici .

 

Il tutto nel segno di quell’Italia in prima linea, a testa alta anche sul versante del dialogo trans-atlantico che Washington apprezza e che la Presidente Meloni aveva indicato fin dal suo discorso di insediamento, come uno dei tratti qualificanti dell’approccio del governo da lei guidato. Ciò che è poi avvenuto e sta continuando ad accadere.

Autore

  • Gabriele Checchia

    È Presidente del Comitato Strategico del Comitato Atlantico Italiano e Direttore per le relazioni Internazionali della Fondazione Farefuturo. Già Ambasciatore italiano n Libano, presso la Nato e presso l’OCSE/ESA/AIE a Parigi.

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È Presidente del Comitato Strategico del Comitato Atlantico Italiano e Direttore per le relazioni Internazionali della Fondazione Farefuturo. Già Ambasciatore italiano n Libano, presso la Nato e presso l’OCSE/ESA/AIE a Parigi.

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